GLI ELEMENTI FONDAMENTALI
DELLA PRATICA ESICASTA
PLACIDE DESEILLE La
spiritualità ortodossa e la Filocalia, ed. BORLA,
1. Il combattimento invisibile
La tentazione di
mancare di temperanza, di irritarsi, o di commettere qualche altra colpa, è
spesso provocata da un'occasione esterna,
dalla presenza di «oggetti», per usare il vocabolario di Evagrio Pontico. Ma,
anche in assenza di sollecitazioni esterne, la tentazione può nascere nell'anima, a partire da ricordi o da
fantasie, sotto forma di «pensieri» cattivi, cioè di tentazioni puramente
interiori.
Evagrio nota che i
laici che vivono nel mondo sono tentati soprattutto dagli oggetti, mentre i monaci, nella loro solitudine, lo sono di
più dai pensieri. Questa distinzione non è d'altra parte rigida, e chiunque
vuole impegnarsi seriamente nella vita spirituale deve fare questo
combattimento invisibile, senza il quale l'ascesi corporale e le opere
esteriori non sarebbero sufficienti. Si
può consumare il corpo col digiuno, le veglie e tutti i tipi di lavoro, o
moltiplicare le buone opere, e tuttavia rimanere agitati dai molti pensieri e
dalle fantasie, che possono portare all'orgoglio, alla fornicazione, alla
perdita della fede in Dio e alla disperazione.
Contro gli uomini che vivono nel mondo, i demoni lottano soprattutto
attraverso gli oggetti, mentre contro i monaci, lo fanno più spesso con i
pensieri; la solitudine infatti li priva delle cose. Ma quanto più è facile
peccare col pensiero che con le azioni, tanto più è duro il combattimento che
avviene nel pensiero rispetto a quello che riguarda le cose. Il nous è infatti una cosa estremamente
mobile, e, quanto alle fantasie illecite, difficile da dominare (Evagrio Pontico).
Questa domanda fu posta
all'abate Agatone: "Che cosa e
meglio: l'ascesi corporale o la custodia del cuore?" L’anziano
rispose: «L'uomo è simile ad un albero: la fatica del corpo è il
fogliame, e la custodia del cuore il frutto. Poiché, secondo la
Scrittura, ogni albero che non produce buon frutto viene tagliato e gettato nel
fuoco (Mt 3 10) è chiaro che tutta la
nostra cura deve essere per il frutto cioè per la custodia del cuore, ma è
necessaria anche la protezione e l'ornamento delle foglie che sono la
fatica del corpo» (Agatone).
Quando un uomo, dopo aver udito la parola di Dio, intraprende la lotta,
rigetta tutte le faccende di questa vita, i legami di questo mondo, tutti i
piaceri carnali, rinnegandoli e liberandosene, e se rimane con perseveranza davanti al Signore,
consacrandogli tutto il proprio tempo, scoprirà che nel cuore vi è un'altra
lotta, un'altra battaglia, segreta, e una nuova guerra, contro i
pensieri suggeriti dagli spiriti di
malizia, e che lo attende un altro combattimento. Così, se non cede
e invoca il Signore con una fede
incrollabile e una grande pazienza, aspettando il suo aiuto, potrà
ottenere da lui la liberazione dai
legami, dai lacci, dalle sbarre e dalle tenebre degli spiriti di
malizia, cioè dalle operazioni delle
passioni nascoste [...].
Per tutto il tempo in cui un uomo è preso dalle cose visibili di questo
mondo, circondato dalle varie catene della terra, trascinato dalle passioni
malvagie, non sa nemmeno che vi è un altro combattimento, un'altra lotta,
un'altra guerra dentro se stesso. Infatti, soltanto quando un uomo si alza per
combattere e liberarsi da ogni legame visibile di questo mondo, dagli affari
materiali e dai piaceri carnali, e comincia a stare con perseveranza davanti al
Signore svuotandosi di questo mondo, può conoscere il combattimento interiore
delle passioni che si agitano in lui, la guerra interiore e i pensieri malvagi.
Come si è detto, per tutto il tempo in cui uno non lotta, non rinuncia al
mondo, non si distacca con tutto il cuore dalle bramosie terrene e non vuole
unirsi totalmente e senza riserve al Signore, costui non conosce né le astuzie
segrete degli spiriti di malizia, né le passioni malvagie nascoste in lui. Ma è
estraneo a se stesso, non sapendo di portare in sé piaghe e passioni segrete;
è ancora prigioniero delle cose visibili e volontariamente schiavo degli affari
di questo mondo (San Macario l'Egiziano).
Ma come identificare questi pensieri cattivi? Evagrio
Pontico ne ha composto un elenco, che è rimasto classico. Sarà ripreso, in
Occidente, da san Cassiano di Marsiglia, poi, con qualche
modifica, da papa san Gregorio Magno (540-604), che porterà a sette i «peccati
capitali».
I pensieri cattivi possono
essere tutti ricondotti a otto principali.
Il primo è la golosità,
il secondo la lussuria,
il terzo l'amore del
denaro,
il quarto la tristezza,
il quinto la collera,
il sesto l'accidia,
il settimo la vanagloria,
l'ottavo l'orgoglio.
Che tutti questi pensieri agitino o meno la nostra
anima, non dipende da noi; ma che si attardino in noi e mettano in movimento la
passione o no, ciò dipende invece da noi.
Il pensiero della golosità suggerisce al monaco di abbandonare
al più presto l'ascesi, prospettandogli dolori allo stomaco, al fegato e
alla milza, l'idropisia, una lunga malattia, la mancanza del necessario,
l'assenza di medicine. Spesso gli suggerisce il ricordo dei fratelli che furono
così provati; e talvolta suggerisce a costoro di andare a trovare quelli che si
dedicano alla temperanza, per descrivere loro dettagliatamente le proprie
malattie, attribuendole all'ascesi.
Il demone della lussuria costringe a desiderare dei corpi, attacca
con la più grande violenza coloro che si dedicano alla temperanza, per spingerli
alla rilassatezza, persuadendoli che si affaticano invano. Assilla talmente l'anima da inclinarla verso tali
azioni, fa si che pronunci parole e ne oda, come se la cosa fosse là sotto i
suoi occhi.
L'amore del denaro suggerisce una lunga
vecchiaia, il non poter più lavorare con le proprie mani, la minaccia della
fame, le malattie che sopraggiungeranno, l'amarezza della povertà, e com'è
disonorevole dover mendicare il necessario.
La tristezza o nasce dalla privazione di una cosa desiderata,
oppure accompagna la collera. Ecco come nasce dalla privazione di una cosa
desiderata: sono i pensieri a dare l'inizio col riportare alla memoria del
monaco la sua casa, i suoi genitori, la sua vita passata; poi, quando essi
vedono che, invece di resistere egli vi presta volentieri attenzione e si
abbandona con la mente a questi piaceri, si impadroniscono di lui e lo fanno
precipitare nella tristezza all'idea che le cose passate non ci sono più e che
il suo genere di vita attuale impedisce il loro ritorno. Perciò, più l'infelice
anima si è abbandonata con piacere ai primi pensieri, più è abbattuta dai
secondi.
Quanto
alla collera, essa è una passione estremamente ardente. E' infatti un
ribollimento e un movimento dell'irascibile contro chi ci ha offeso o è
sembrato offenderci. Essa riempie l'anima di una continua acredine e si
impossessa dello spirito, soprattutto durante la preghiera, agitando
sotto i suoi occhi l'immagine di colui che l'ha contrariata [...].
C'è
poi il demone dell'accidia, detto anche demonio meridiano (cfr. SaI 90, 6), ed è il più pesante di
tutti i demoni. Egli attacca il monaco verso la quarta ora e assedia la
sua anima fino all'ora ottava. Comincia dandogli l'impressione che il sole
sia lentissimo nella sua corsa o perfino immobile, e che il giorno abbia
cinquanta ore. Poi lo spinge a guardare sempre dalla finestra, lo getta fuori
dalla sua cella per scrutare il sole e vedere se l'ora nona è vicina, infine lo
sollecita a guardarsi attorno nell'attesa della visita di un fratello. Gli
genera avversione verso il luogo in cui dimora, il suo genere di vita, il
lavoro delle sue mani; gli insinua il pensiero che non c'è più carità tra i
fratelli e che non può contare su nessuno. Se in quei momenti qualcuno viene a
rattristarlo, il demonio ne approfitta per aumentare ancora più questa
avversione. Gli fa desiderare altri luoghi, dove gli sarà più facile procurarsi
il necessario, dove troverà un mestiere più facile e nel quale riuscirà meglio.
A questo aggiunge il pensiero che, per piacere a Dio, poco importa il luogo in
cui ci si trova, perché è possibile ovunque adorare la divinità. Gli ricorda
ancora i genitori e la vita di un tempo. Gli prospetta la lunghezza della vita
e gli mette sotto gli occhi le fatiche dell'ascesi. In una parola, lo scuote da
capo a piedi, fino al punto che il monaco, abbandonata la sua cella, fugga
fuori dallo stadio. Tuttavia, a questo demone non ne segue alcun altro,
per cui, se supera il combattimento, l'anima si ritrova in uno stato di pace
e in una gioia ineffabile.
Il pensiero della vanagloria è estremamente sottile, e nasce
facilmente in coloro che praticano l'ascesi: cerca in tutti i modi di rendere
note le loro lotte, ricerca la gloria che viene dagli uomini, fa loro
immaginare demoni che gridano, donne sanate, folle che cercano di toccare i
loro abiti; poi predice loro il sacerdozio, fa apparire alla loro porta persone
che bramano di vederli al punto di costringerli, se mai non volessero. Dopo
averli così innalzati con speranze piene di vanità, li abbandona a se stessi
o alle tentazioni del demone dell'orgoglio o a quello della tristezza, che li
assalgono con pensieri contrari alla speranza. Consegna infine al demone
della lussuria colui che, proprio un istante prima, era un sacerdote
così santo da doverlo perfino legare per poterlo ordinare.
Il demone dell'orgoglio provoca all'anima le cadute più
terribili. La persuade a non riconoscere che l'aiuto gli viene da Dio;
a pensare di stare praticando l'ascesi con successo e di innalzarsi al di sopra
degli altri, stimandoli tardi di mente perché non ne riconoscono la
superiorità. In seguito sopraggiungono la collera, la tristezza, e -
male supremo - lo smarrimento dello spirito e la follia, così come anche
visioni di folle di demoni nell'aria
(Evagrio Pontico).
2.
LA SOBRIETA'
SPIRITUALE E IL DISCERNIMENTO DEGLI SPIRITI
Le cose sarebbero
relativamente semplici se la tentazione si presentasse sempre a viso scoperto.
Ma già l'apostolo Paolo metteva in guardia i Corinzi di quanto Satana era
capace di trasformarsi in angelo di luce (cfr. 2Cor li, 14). Molte sono le illusioni che attendono
al varco il novizio inesperto. Le consolazioni nella preghiera, le lacrime, gli
stessi colloqui spirituali possono nascondere delle trappole per chi non è
vigilante.
Le lacrime, se sono causate dal timore, hanno in se stesse la garanzia.
Ma se sono causate dall'amore, quando è ancora a uno stadio imperfetti o, come
può accadere per certuni, possono facilmente cambiarsi in illusione. A meno che
il pensiero del fuoco eterno non abbia acceso il cuore nel momento dell'azione.
Ed è significativo notare che in quel momento il fuoco meno nobile è anche il
più sicuro.
Nel
tempo della tentazione, ho sperimentato come questo lupo producesse
ingannevolmente nella mia anima una gioia, delle lacrime e una consolazione
che erano prive di un ragionevole fondamento; e io ero come un bambino:
credevo di cogliere un frutto buono, non un oggetto che mi corrompeva (San Giovanni
Climaco).
Esaminiamo,
soppesiamo, sorvegliamo le dolcezze che sentiamo durante la salmodia, per
distinguere quali provengono dal demone della lussuria e quali dalle parole
dello Spirito e dalla grazia e dalla forza che esse contengono. Non ingannarti,
o giovane. Ho visto infatti uomini pregare con tutta l'anima per quanti erano
loro cari. Credevano di adempiere alla legge dell'amore, ed erano invece mossi
dallo spirito di lussuria. Voi tutti che avete deciso di custodire la purezza,
ascoltate un'altra furbizia e un altro espediente di quell'astuto, e
guardatevene. Qualcuno che aveva esperienza di questa scaltrezza mi ha riferito
che molto spesso il demone della lussuria si nasconde completamente, e mentre
il monaco siede e conversa con delle donne, gli ispira grandi sentimenti di
pietà e forse anche torrenti di lacrime, e gli suggerisce di ammaestrarle
parlando loro del ricordo della morte, del giudizio e della castità. Allora le
sventurate, ingannate da questi discorsi e dalla sua falsa pietà, accorrono da
quel lupo come fosse un pastore, e quando i rapporti sono diventati più
familiari ecco che l'infelice viene travolto nella caduta. Esamina
attentamente la soavità che provi nella tua anima, per timore che non sia stata
preparata con inganno da medici crudeli, anzi da traditori (San Giovanni Climaco).
Come
discernere la moneta falsa? Nulla può sostituire la chiaroveggenza del padre spirituale. Tuttavia, sin dalle
origini del monachesimo, sant'Antonio aveva fissato alcuni criteri che possono
aiutare a scovare l'illusione. Antonio considerava soprattutto il caso delle
apparizioni angeliche o demoniache. Ma la portata delle sue osservazioni è più
ampia. Un pensiero, un moto interiore o
una ispirazione accompagnata da pace,
gioia, umiltà, è "spirito buono". Al contrario, tutto ciò che fa
nascere nell'anima turbamento, agitazione e durezza porta il segno dello
spirito cattivo, anche se l'apparenza è buona.
È possibile e facile, se Dio ne fa la grazia, discernere la presenza
degli spiriti buoni da quelli cattivi. L'apparizione dei santi non genera
turbamento: "Non griderà, non alzerà il tono, non farà udire la
sua voce nelle strade (Is 42, 2). La loro presenza è così dolce e tranquilla
che colma immediatamente l'anima di gioia, esultanza e fiducia. Perché con loro
c'è il Signore, il quale è la nostra gioia e la
potenza di Dio Padre. I pensieri dell'anima rimangono tranquilli e
senza turbamento. Essa stessa, immersa nella luce, può contemplare da
sola coloro che le sono apparsi. Allora il desiderio delle cose divine e future
si impossessa di lei, e vorrebbe assolutamente unirsi i con loro. Se avviene
che, essendo mortali, alcuni temono alla vista degli spiriti buoni, la carità
di questi è tale da dissipare questo timore. Allo stesso modo fece Gabriele con
Zaccaria (cfr. Lc 1, 13), e l'angelo che apparve alle donne presso il divino
sepolcro (cfr. Mt 28, 5), e quello che secondo il Vangelo, apparve ai
pastori e disse "Non temete" (Lc 2, 10). Perché questo
timore non proviene dall'infermità dell'anima, ma dal fatto che essa
riconosce la presenza di esseri che le sono superiori. Tali sono le
apparizioni dei santi spiriti. Al contrario, l'incursione e l'apparizione
dei cattivi spiriti getta nel turbamento; essi vengono con rumore, strepito
e grida, e si agitano come giovani senza educazione o briganti. Subito
nascono nell'anima il timore, il turbamento e il disordine dei pensieri; la
tristezza, il rancore verso gli asceti; l'accidia, l'afflizione, il ricordo dei
genitori; la paura della morte; infine i desideri malvagi, il disprezzo della
virtù e il disordine dei costumi. Perciò, quando qualche apparizione vi
spaventa, se questo timore si dissipa subito e al suo posto provate una gioia
ineffabile, ardore, fiducia, conforto, tranquillità nei pensieri, generosità e
amor di Dio, e tutto ciò che è stato già detto, prendete coraggio e pregate,
perché questa gioia e questo stato quieto dell'anima manifestano la santità di
colui che si rende presente (Sant’ Atanasio di
Alessandria).
Mille
anni dopo, san Massimo Capsocaliva si
esprimerà quasi negli stessi termini nel corso di un colloquio con san
Gregorio Sinaita.
Altri sono i segni dell'inganno, e altri quelli della grazia e della
verità dello Spirito. Ecco quelli dell'inganno: quando il Maligno entra in
contatto con noi, suscita nell'intelletto il turbamento; lo rende ribelle e
indurisce il cuore; gli ispira mollezza e sfiducia; effonde tenebre sui suoi
pensieri; rende cattivo lo sguardo; confonde la mente; consegna il povero corpo
al tremore; fa apparire davanti agli occhi il fuoco fascinoso dell'errore, e
non quello che diffonde una luce chiara e serena. Fa uscire poi di senno e
rende l'intelletto demoniaco. Infine fa uscire dalla bocca parole sconvenienti
e bestemmie. L'uomo diventa così soltanto irritazione e collera. In lui non vi
è più né umiltà, né preghiere, né lacrime; egli trae continuamente motivo
di vanto dalla sua virtù e se ne gloria. Resta chiuso nelle sue passioni,
finché perde il senno e va in perdizione. Da questo inganno del Maligno,
o Padre santo, il Signore ci liberi. Quanto ai segni della grazia, eccoli: quando il Santo
entra contatto con noi, unifica l'intelletto donandogli sapienza, umiltà e
misura. Pone nell'anima il pensiero della morte, del giudizio, dei nostri
peccati, e anche del castigo del fuoco. Dona al cuore la perfetta compunzione,
l'afflizione e il pianto; rende lo sguardo più dolce, e le lacrime scendono
dagli occhi. Più il contatto è ravvicinato, più l'anima trova dolcezza e
consolazione nella preziosa Passione di Cristo e nel suo immenso amore per gli
uomini. Egli suscita nell'intelletto contemplazioni altissime scevre da inganno
[...]. In questo modo lo illumina con lo splendore della conoscenza divina. E
quando l'intelletto è rapito, nello Spirito Santo, da questa inaccessibile luce
divina, esso viene illuminato da questa stessa luce divina e splendente. Ciò
rende il cuore quieto, e colui che ha ricevuto tali doni ottiene nel suo
intelletto, nel suo cuore, nella sua ragione e nel suo spirito una beatitudine
e una gioia ineffabili.
Dopo che è stata
riscontrata la natura cattiva di un pensiero, com'è possibile resistergli efficacemente? A questo scopo è utile
conoscere il processo della tentazione, al fine di opporle resistenza al
momento opportuno. San Giovanni Climaco ha così descritto le varie fasi della
tentazione:
I
padri, dotati di discernimento, hanno distinto gli uni dagli altri l'approccio,
l'adesione, il consenso, la prigionia, il combattimento e ciò che viene
chiamata passione dell'anima. Questi uomini beati definiscono l'approccio
come la prima apparizione, nel cuore, del semplice pensiero o dell'immagine di
un oggetto che si presenta. L'adesione consiste nell'accettare il
dialogo con ciò che si è manifestato, seguito o meno da passione. Il
consenso è l'acquiescenza dell'anima, accompagnata da diletto, a ciò che le
viene proposto. La prigionia è un impulso violento e involontario del
cuore; o anche un continuo attaccamento all'oggetto in questione tale da
distruggere la buona disposizione della nostra anima. Il combattimento è
definito come un confronto, ancora a parità di forze, con l'avversario, in cui
l'anima, secondo la scelta della sua volontà, riporta la vittoria o subisce una
sconfitta. Essi dicono che la passione, in senso proprio, è un male che da
tempo affliggeva segretamente l'anima e che l'ha portata a contrarre un intimo
legame con sé, costringendola, con disposizione abituale, a piegarsi ad essa
spontaneamente e connaturalmente. Di tutti questi movimenti, il primo è senza
peccato; il secondo non sempre lo è; quanto al terzo, è colpevole o no secondo
lo stato interiore del combattente. Il combattimento infine è l'occasione che
procura corona o castigo (San Giovanni Climaco).
L'approccio o suggestione è la semplice apparizione nella coscienza del
pensiero di una cosa cattiva, e
di un'attrazione verso di essa; potrà essere, per esempio, un pensiero di
vendetta, di golosità, un invito a compiacersi in una cattiva tristezza, ecc. Esso è involontario, e sarebbe vano
pretendere di impedire che nascano in noi questi moti. Al contrario,
dandoci l'occasione di dimostrare il nostro amore per il Signore e mantenendoci
nell'umiltà, la tentazione ha un ruolo importante nell'opera della nostra
santificazione. È in questo senso che Evagrio Pontico poteva dire: «Togli le tentazioni, e nessuno sarà
salvato».
Nell'adesione o dialogo, riflettiamo sulla
tentazione e, in qualche modo, ci intratteniamo
con essa. Ciò può non comportare nessuna connivenza segreta con essa e non
avere altro fine che opporgli ragioni contrarie. E questo un metodo che non è senza pericolo e che i Padri generalmente
sconsigliano, soprattutto agli asceti inesperti. Perché il dialogo può nascondere già un mezzo consenso, un compiacimento
inconfessato che non è del tutto esente dal peccato.
Il consenso è una presa di
posizione personale: accettiamo di far
consistere il nostro piacere nella gioia cattiva che ci è proposta:
aderiamo a questa tensione disordinata e identifichiamo, in qualche modo, il
nostro io con essa.
Se consensi simili si
ripetono, generano dapprima la passione, che è la
tendenza cattiva promossa a stato di seconda natura, poi la prigionia,
vera ossessione, impulso irresistibile in cui la libertà non ha più posto.
S'impone
quindi un'estrema vigilanza che i
Padri chiamano custodia del cuore o
sobrietà (nepsis). Bisogna combattere i pensieri sin dal loro
apparire, sin dallo stadio in cui sono semplici suggestioni:
Dobbiamo
perciò costantemente ricordarci di questo precetto: «Custodisci il tuo cuore
con tutte le possibili attenzioni» (Prv 4, 23), e, secondo il comandamento dato
da Dio al principio, sorvegliare la testa velenosa del serpente (cfr. Gn
3, 15), cioè l'inizio dei pensieri cattivi, coi quali il diavolo tenta di
penetrare nella nostra anima. Non lasciamo che, per negligenza, il resto del
suo corpo, cioè il consenso al piacere cattivo, entri nel nostro cuore; se vi
entrasse, certamente il suo morso velenoso darebbe la morte all'anima divenuta
sua prigioniera. Dobbiamo anche mettere a morte sin dal mattino i peccatori
della terra» (SaI 100, 8), cioè i pensieri carnali, e «sbattere contro la
pietra i figli di Babilonia» (Salì 36, 9), quando sono ancora piccoli, perché
se non li sterminiamo nella loro infanzia, cresceranno grazie alla nostra
connivenza e ci combatteranno con ancora più forza per la nostra perdizione -
oppure non potremo vincere se non con molta pena e fatica (San Cassiano).
3. LA PREGHIERA "MONOLOGICA" DI GESU'
Evidentemente, non
basta essere vigilanti, mettere allo scoperto i pensieri cattivi e volervisi
opporre. Soltanto la potenza di Cristo
può permetterci di combatterli vittoriosamente. Già Origene, molto
consapevole della stretta unione che c'è tra Cristo e i cristiani sue «membra»,
insegnava che è il Cristo stesso che
continua nei fedeli il suo combattimento contro Satana e che ogni vittoria
ottenuta da un cristiano è una vittoria di tutta la Chiesa. E’ dunque
principalmente a Origene che risale l'idea del combattimento spirituale come
continuazione del combattimento redentore e l'immagine della campagna militare
di Cristo e delle due Città contrapposte, che si ritroveranno, nel XVI secolo,
nelle meditazioni di sant'Ignazio di Loyola su «il Regno» e "le due
Bandiere". Ma essa è stata profondamente assimilata dai primi
monaci e da Evagrio Pontico. Nello stesso tempo, l'antica concezione secondo la
quale, nella persona del martire, è il Cristo stesso che soffre e combatte
veniva trasferita, dopo la fine delle persecuzioni, al combattimento del
monaco contro le tentazioni diaboliche. Per questo, alla vigilanza, i maestri spirituali consigliavano di aggiungere un'invocazione a Cristo, breve, ma ripetuta
incessantemente. E
quella che è stata chiamata «preghiera
monologica», composta cioè di una sola breve formula.
Con questa pratica, i pensieri si spezzeranno contro
la potenza vittoriosa di Cristo, che si fa presente appena lo
si invoca; contemporaneamente, essa
permetterà di opporre al «ricordo del male» il «ricordo di Dio», che nei
nostri autori indica la presa di coscienza di questa attrazione divina e di
questo senso intimo delle cose di Dio iscritto nell'anima col battesimo. Già
Cassiano dava a questo metodo una formulazione quasi definitiva, anche se non
conosceva l'invocazione del Nome di Gesù:
Ogni
monaco che tende al ricordo continuo di Dio, deve abituarsi a sussurrare
interiormente e a ripetere incessantemente, nel suo cuore, la formula che
vi consegno, e, mediante ciò, cacciare la moltitudine degli altri pensieri,
perché non potrà realizzarlo se non liberandosi da tutte le cure e le
sollecitudini del corpo. E questa una dottrina alla quale siamo stati iniziati
dai rari superstiti dei più antichi Padri, e che, anche noi, consegniamo ai
rari privilegiati, che abbiano veramente sete di conoscerla. Per conservare
continuamente il ricordo di Dio, dovete quindi tenere presente nel vostro
spirito, incessantemente, questa santa formula: «Mio Dio,
vieni in mio aiuto; Signore, affrettati a soccorrermi» (Sal
69, 2). Non è senza motivo che questo versetto è stato scelto fra tutta la
Sacra Scrittura. Esso esprime tutti i sentimenti che la natura umana può
concepire, ed è perfettamente adatto a tutti gli stati e a tutte le tentazioni.
Vi è in esso l'invocazione di Dio contro tutti i pericoli, l'umiltà di un'umile
e pia confessione, la vigilanza che proviene da un'attenzione e da un timore
continuo, la considerazione della nostra fragilità, la fiducia di essere
esauditi, la certezza di un soccorso sempre presente e pronto a intervenire.
Perché colui che invoca incessantemente il suo Protettore è certo di averlo
sempre presente. (San G. Cassiano)
I due elementi
fondamentali della preghiera di Gesù sono già presenti ante
litteram in questo testo degno di nota: anzitutto l'umile confessione della nostra miseria, che sola può aprirci alla
grazia, e nella quale i Padri del deserto vedevano,
proprio per questo motivo, l'unica via di salvezza: e poi lo stretto legame stabilito tra l'invocazione e la presenza intima del
Signore.
È in Egitto, in un'epoca indeterminata, ma poco posteriore a quella di
Cassiano, che la menzione del nome di Gesù sembra sia stata introdotta nella
formula della preghiera monologica, che è diventata così: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi
pietà di me, peccatore!». Non è mai stata, tuttavia, una formula
stereotipa. La sua pratica ammette delle varianti, e l'invocazione può anche
ridursi al solo nome di Gesù. I Padri raccomandano però di non variare troppo
spesso la formula, perché la monotonia della ripetizione ha un ruolo importante
nel metodo.
Diadoco di
Fotica è uno dei primi testimoni di questa «preghiera di
Gesù», che è anche una «meditazione del suo santo glorioso Nome” dando al termine «meditazione» il suo antico senso di
ruminazione di una parola o di una formula:
Quando chiudiamo tutte le sue
uscite col ricordo di Dio, l'intelletto esige assolutamente da noi un'opera che
deve soddisfare il suo bisogno di attività. Bisogna dargli perciò il «Signore
Gesù» come la sola occupazione che risponde interamente al suo scopo. E scritto infatti:
«Nessuno può dire "Gesù è Signore", se non nello Spirito Santo» (1Cor
12, 3). Ma per non volgersi ad alcuna fantasia, bisogna che contempli sempre in
modo esclusivo questa parola, nel suo segreto. Infatti, tutti quelli che
meditano incessantemente nel profondo del loro cuore questo santo e glorioso
Nome, possono vedere infine la luce del proprio intelletto. Infatti esso,
trattenuto dalla mente con attenta cura, brucia con intensa percezione tutta la
sozzura che copre la superficie dell'anima; è detto infatti: «Il nostro Dio è
un fuoco divorante» (Dt 4, 24). Il Signore poi sollecita l'anima a un grande
amore della sua gloria. Perseverando, attraverso il ricordo dell'intelletto,
nel fervore del cuore, questo Nome glorioso e così desiderabile fissa in noi
l'abito di amarne la bontà senza che nulla ormai vi si opponga. È questa
infatti la perla preziosa che si può acquistare vendendo tutti i propri beni,
per godere, alla sua scoperta, di una gioia ineffabile (Diadoco di Fotica).
Con ciò, Diadoco vuole
dire che il Nome di Gesù, come i versetti della Scrittura che gli antichi
monaci amavano ruminare con una meditazione incessante, ha in sé un'efficacia eccezionale per
risvegliare nel cuore l'amore divino che in lui è nascosto, in virtù del
battesimo, come una scintilla sotto la cenere. Con l'invocazione, il gusto di
Dio e delle cose di Dio si fa sentire e trionfa sulle false dolcezze del
peccato. Lo spirito può allora «vedere la
sua propria luce», espressione evagriana che indica la contemplazione e
significa che lo spirito, prendendo
coscienza sperimentata dell'inclinazione che lo spinge verso Dio, gusta
qualcosa di Dio stesso, poiché questa stessa attrazione è la manifestazione
della presenza divinizzante del Cristo e del suo Spirito nell'uomo. In seguito,
Diadoco mostra l'intima connessione che deve stabilirsi tra l'invocazione
formulata dallo spirito dell'uomo, e l'aspirazione dello Spirito Santo che, a
poco a poco, si lascia provare nel fondo del cuore:
Allora
l'anima afferra la grazia stessa che medita e che grida con essa «Signore
Gesù», come una madre che insegna al proprio figlio la parola «padre»,
ripetendola insieme a lui finché lo porti, invece del balbettio infantile,
all'abitudine di chiamare distintamente suo padre, anche nel sonno. Per questo
l'Apostolo dice: «Allo stesso modo lo Spirito viene in aiuto alla nostra
debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo
Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili» (Rm
8, 26). (Diadoco di Fotica).
Questa
abitudine alla preghiera, che prosegue «anche
nel sonno», è tutt'altra cosa rispetto a un semplice riflesso automatico
originato dalla ripetizione degli atti. Essa è il frutto di una pienezza interiore, di una perfetta unificazione di
tutte le energie dell'anima messe al servizio della carità e animate da essa. Il costante ricordo di Dio, al quale
conduce l'esercizio dapprima faticoso della preghiera di Gesù, risulta più da
uno stato, da un orientamento divenuto spontaneo e stabile del cuore verso Dio,
che da una successione di atti. E', come dirà il patriarca Callisto in un
breve trattato tra i più notevoli della Filocalia,
un’acqua viva e zampillante che scaturisce dall'anima come da una
sorgente perpetua. E' ciò che assillava l'anima di Ignazio il Teoforo e gli
faceva dire: «Ciò che è in me, non è il fuoco avido della materia, ma è l'acqua
che opera e che parla»
(Callisto II).
L'elemento
fondamentale del metodo esicasta è quindi la preghiera monologica: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi
pietà di me, peccatore!». La tradizione esicasta vi ha aggiunto
in seguito l'assunzione di una determinata posizione corporale e di un certo
controllo della respirazione. Le prime descrizioni scritte sistematiche che ci
sono pervenute risalgono al XIII secolo, ma vari indizi fanno pensare che
questo metodo psico-fisico esistesse già, almeno in
uno stadio rudimentale, in un'epoca più antica. La necessità assoluta di
controllo da parte di un padre spirituale esperto giustifica il carattere
dapprima orale della tradizione su questo punto; gli stessi resoconti letterari
non pretendono d'altra parte di supplire all'iniziazione vivente, essendo
incompleti.
La testimonianza più
antica sul metodo ci viene da Niceforo il Solitario:
Innanzitutto bisogna che la tua vita sia
quieta, pura da ogni preoccupazione, in pace con tutti. Allora entra e
chiuditi nella tua cella e, seduto in un angolo, fa' ciò che ti dico:
Tu sai che il nostro respiro è l'aria che inspiriamo ed espiriamo grazie
al cuore. Perché è il cuore il principio della vita e del calore del corpo. Il
cuore attira l'aria per emettere all'esterno il proprio calore, mediante
l'espirazione e raggiungere una buona temperatura. Il principio di questa
organizzazione, o meglio il suo strumento, è il polmone. Creato poroso dal
Creatore, incessantemente introduce ed espelle l'aria come un mantice. Allo
stesso modo il cuore, attirando il freddo con il respiro ed emettendo il caldo,
conserva imprescindibilmente la funzione che gli è
stata assegnata per l'equilibrio del vivente.
Tu dunque, come ti ho detto, siediti, raccogli il tuo intelletto,
introducilo - il tuo intelletto - nelle narici; è quello il cammino che
percorre l'aria per andare al cuore. Spingilo, costringilo a scendere nel tuo
cuore insieme all'aria inspirata. Quando vi sarà giunto, vedrai la gioia che ne
seguirà: non avrai nulla da rimpiangere. Come un uomo che rientra a casa
dopo un'assenza non trattiene più la gioia di poter ritrovare la moglie e i
figli, così l'intelletto, quando si è unito all'anima, trabocca di una gioia e
di delizie ineffabili.
Fratello mio, abitua il tuo intelletto a non affrettarsi ad uscire di là.
All'inizio è privo di zelo - è il meno che si possa dire - a causa di questa
reclusione e di questa strettezza interiore. Ma, quando si sarà abituato, non
proverà più alcun piacere nelle relazioni esterne. Perché «il regno di Dio è
dentro di noi» e per colui che si volge verso di esso e lo cerca con la preghiera
pura tutto il mondo esterno diventerà vile e detestabile.
Se fin dall'inizio entri attraverso l'intelletto nel luogo del cuore che
ti ho mostrato, siano rese grazie a Dio. Glorificalo, esulta e tieniti sempre
occupato in questa attività, ed essa ti insegnerà ciò che tu ignori. Sappi,
poi, che quando il tuo intelletto si trova in quel luogo, tu non devi tacere o
restare ozioso. Ma non devi avere altra occupazione o meditazione che il grido:
«Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio,
abbi pietà di me!», senza tregua e ad ogni costo. Questo esercizio,
mettendo il tuo intelletto al riparo dalle divagazioni, lo rende impenetrabile
e inaccessibile alle suggestioni del nemico e, ogni giorno, lo innalza
all'amore e al desiderio di Dio.
Ma se, fratello mio, nonostante tutti i tuoi sforzi, non giungi a
penetrare all'interno del cuore seguendo le mie indicazioni, fa ciò che ti dico
e, con l'aiuto di Dio, riuscirai nel tuo scopo. Tu sai che la ragione dell'uomo
ha sede nel petto. E' infatti nel nostro petto che, pur rimanendo mute le
labbra, parliamo, decidiamo, ordiniamo le preghiere e i salmi, ecc. Dopo
aver bandito da questa ragione tutti i pensieri (e se vuoi lo puoi), dalle
l'invocazione: "Signore Gesù
Cristo, abbi pietà di me!" e costringila a gridare interiormente
queste parole, escludendo ogni altro pensiero. Quando, col tempo, sarai padrone
di questo esercizio, esso ti aprirà certamente la porta del cuore, così come ti
ho detto. Io stesso ne ho fatto l'esperienza. Insieme alla gioiosa e
desiderabile attenzione, vedrai venire a te tutto il coro delle virtù, l'amore,
la gioia, la pace e il resto. Grazie ad esse tutte le tue richieste saranno
esaudite nel Nostro Signore Gesù Cristo.
San Gregorio Palamas, che difese il metodo
dalle facili accuse dei suoi avversari, così lo commenta:
Tu
lo vedi, fratello: Giovanni (Climaco) ha dimostrato che basta esaminare il
problema umanamente, non solo spiritualmente, per vedere che è assolutamente
necessario introdurre e mantenere l'intelletto dentro il corpo, quando si è
scelto di possedersi veramente e di essere un monaco degno di questo nome
secondo l'uomo interiore. D'altra parte, non è sconveniente insegnare,
soprattutto ai principianti, a guardare in se stessi e a introdurre il proprio
intelletto dentro di sé mediante l'inspirazione. Nessuna persona sensata,
infatti, impedirebbe a qualcuno di introdurre in se stesso, attraverso certi
procedimenti, il proprio intelletto che non è ancora in grado di contemplare se
stesso. Coloro che hanno appena iniziato questa lotta vedono continuamente
fuggire il proprio intelletto, appena raccolto, e devono, altrettanto
continuamente, ricondurlo; nella loro inesperienza, non si rendono conto che niente
al mondo è più difficile da contemplare e più mobile dell'intelletto. Per
questo motivo, alcuni raccomandano di controllare l'emissione e la ripresa del
respiro e di trattenerlo un poco, in modo da trattenere con esso anche
l'intelletto, vigilando sulla respirazione perché, con l'aiuto di Dio,
progrediscano fino a impedire al proprio intelletto di uscire verso ciò che lo
circonda, e purificarlo, perché possano ricondurlo davvero a un raccoglimento
uniforme. Si può anche constatare che questo è un effetto spontaneo
dell'attenzione dell'intelletto, perché l'entrata e l'uscita del respiro
diventa quieta anche durante una riflessione intensa, soprattutto in coloro che
sono nell'esichia col corpo e con la mente [...]. Colui che cerca di
raccogliere l'intelletto in se stesso per spingerlo non ad un movimento in
linea retta (verso l'esterno), ma ad un movimento circolare e infallibile
(ritornando su se stesso), invece di girare gli occhi qua e là, come potrebbe
non trarne grande profitto fissando il proprio petto o il proprio ombelico come
punto di appoggio? Perché non soltanto si raccoglierà in se stesso
esteriormente, per quanto gli sarà possibile, conformemente al movimento
interiore che va ricercando per il suo intelletto, ma, mediante questo
atteggiamento del corpo, invierà verso l'interno del cuore anche la potenza
dell'intelletto che si riversa all'esterno attraverso la vista.
Alcuni ironizzeranno
sulla fisiologia «sorpassata» che sembra implicare l'insegnamento degli
esicasti. Ma in realtà non è questa a fondare il metodo; essa cerca piuttosto
di spiegarlo a posteriori. La cosa più importante è l'esperienza, ed essa ha rivelato a questi spirituali un misterioso ma innegabile legame tra il
respiro, e quindi i polmoni, il cuore fisico, e lo spirito (o «intelletto»).
E innanzitutto un fatto, e la sua attuazione nel campo della vita
spirituale si è rivelata molto feconda. Poco importa, in definitiva, che in
seguito sia spiegata con una teoria fondata su dati di ordine anatomico e
fisiologico. Lo si è già visto riguardo all'ascesi corporale, per gli esicasti,
la cui concezione del complesso umano è vicina a quella della Bibbia. É
tutto l'essere, corpo e anima, che deve partecipare della vita spirituale,
perché è tutto l'essere che deve ricevere la salvezza ed essere divinizzato. Si tratta sempre di simboleggiare le attitudini dell'anima con
gesti del corpo, per permettere «l'integrazione armoniosa di tutto il nostro
essere nella sua ascesa verso Dio». D'altronde non si tratta di un
metodo, in senso stretto, proporzionato all'effetto che si vuole ottenere, ma
soltanto di un aiuto, però non trascurabile. Altrimenti verrebbe
compromessa la gratuità del dono di Dio.
Prima di tutto, è con l'aiuto della grazia divina che l'intelletto
riesce in questo combattimento. È la grazia divina che corona l'invocazione
monologica rivolta a Gesù Cristo con fede viva, con tutta purezza, senza
distrazioni, col cuore. Non è l'effetto puro e semplice del metodo naturale
della respirazione praticato in un luogo tranquillo e oscuro. I santi Padri,
inventando questo metodo, miravano soltanto a fornire un aiuto, se così si può
dire, per raccogliere l'intelletto
(San Callisto e Ignazio Xanthopouli).
La nostra ricerca
sulle origini del metodo esicasta ha troppe lacune perché si possa determinare
se esistono rapporti d'influenza tra esso e le
spiritualità musulmana, induista o buddista, che predicano
anch'esse l'invocazione del Nome divino unita a una tecnica respiratoria. Una
simile influenza non avrebbe in sé nulla che screditi il metodo: le leggi
della fisica umana sono universali, e la grazia, lungi dal distruggere la
natura, ne assume il dinamismo profondo, trasfigurandolo. E soprattutto la tecnica è sostenuta, nel nostro caso, da una dottrina
autenticamente biblica e cristiana. Senza la fede nei dogmi della creazione dell'universo spirituale e
materiale, della salvezza per grazia in Cristo, della risurrezione dei corpi,
della deificazione mediante i sacramenti, l'insegnamento che i «santi Padri
niptici» ci hanno trasmesso riguardo alla preghiera del cuore sarebbe
incomprensibile. L'ultimo fondamento del metodo è la confessione del corifeo
degli Apostoli davanti al Sinedrio: «Non vi è altro nome dato agli uomini sotto
il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati» (At 4, 12).
In un tempo in cui
molti cristiani sono alla ricerca di «una
disciplina totale di vita, anche corporale, che favorisca il loro equilibrio e
il loro sviluppo spirituale», è interessante per noi ascoltare i vecchi
monaci che hanno saputo mettere al servizio del pieno sviluppo della grazia di
Cristo nell'uomo una sapienza umana il cui segreto l'Occidente ha perduto.