PICCOLO
COMPENDIO TEORICO-PRATICO
SULL’ESICASMO E LA PREGHIERA DI GESU’
Tomàs Spidlìk, LA PREGHIERA secondo
la tradizione dell’Oriente cristiano – ed. Lipa
L’ESICASMO - LE
SUE CARATTERISTICHE PRINCIPALI
Storia
dell'esicasmo
Quando oggi si parla dell'esicasmo, si pensa
generalmente ad un certo metodo di preghiera, la cui forma è stata codificata nei contesti monastici del Monte
Athos nel XIII e XIV secolo. Ma si dimentica spesso che l'esicasmo, nel
senso proprio e tradizionale, è in realtà una
tendenza della spiritualità così antica che coincide con le origini stesse del monachesimo. In linea generale,
si possono distinguere cinque periodi principali:
1) il tempo dei Padri del deserto;
3) la tendenza
di Simeone il Nuovo Teologo;
5) il movimento «filocalico»
dei tempi più recenti.
Se per i monaci il vero padre è Antonio,
per gli esicasti è Arsenio, che, dopo aver lasciato il
palazzo imperiale, divenuto anacoreta udì una voce dal cielo che gli diceva: «Arsenio,
fuggi, taci, rimani tranquillo». L’ideale che egli incarna è
raccomandato da numerosi monaci dell'epoca patristica.
Anche la spiritualità degli autori sinaitici del VI e VII secolo
(Nilo, Giovanni Climaco, Esichio, Filoteo) si concentra sulla custodia del cuore o dei pensieri in vista dell'orazione mentale.
L’importanza del pensiero per lo stato del cuore è meglio analizzato da loro
che dai loro predecessori.
I sinaitici avevano predicato il vantaggio dell' hesychìa come preparazione alla theoria o
«visione» di Dio. Ora, se il regno di
Dio è veramente nel cuore, pensa Simeone
il Nuovo Teologo (+1022), noi dobbiamo averne coscienza. Chi non ha visto
Dio non può avere né l'amore, né la speranza, neppure la fede. Conoscere le ispirazioni divine in un cuore
purificato non è più un carisma riservato agli autori sacri, ma il modello
della grazia da ricercare da parte di tutti i cristiani.
Nel XIV secolo un sinaita, Gregorio,
discese dalla sua montagna alla conquista spirituale dell'Athos e dei
monasteri greci, balcanici, russi. Benché al suo arrivo al Monte Athos non
avesse trovato che tre monaci che avevano qualche nozione di orazione mentale,
doveva poi radunare dei discepoli così numerosi e influenti che avrebbero fatto
ben presto trionfare la loro dottrina: la rinascita dell'ideale esicasta della
pura contemplazione. La «preghiera di Gesù»
(o piuttosto a Gesù) era consigliata con una insistenza tutta particolare e la
sua pratica fu accompagnata presto da
una vera tecnica
psicosomatica. La descrizione dettagliata di questa tecnica è
registrata in Niceforo l'Esicasta, così come in
Gregorio Sinaita e lo pseudo-Simone,
che ne sono i più antichi teorici conosciuti.
La diffusione del
metodo dà luogo ad una viva controversia. Essa urta i sentimenti di un
umanista, l'italo-greco Barlaam di Seminaria,
detto il Calabro (+1348). Ma Gregorio Palamas,
futuro arcivescovo di Tessalonica (+1348), allora
monaco all'Athos, prese la difesa
degli esicasti e inserì questa preghiera nella sua sintesi teologica.
Alla fine del XVIII secolo, dopo tre secoli di
torpore, la Chiesa di Grecia conobbe una rinascita spirituale di cui i
principali artefici sono gli autori della Filocalia.
Questo «movimento filocalico» porta i
suoi frutti soprattutto nei monasteri della Romania e della Russia,
la cui pietà fu profondamente segnata da Paisij Velickovskij (+1794).
Si può anche parlare di un neoesicasmo in epoca recente, dovuto a numerose
edizioni e traduzioni nelle lingue occidentali della Filocalia
e dei Racconti
sinceri di un pellegrino russo al suo padre spirituale.
Si vede con questo giro d'orizzonte che l'esicasmo è
un grande movimento spirituale che attraversa tutta la storia della
spiritualità orientale. Gli esicasti dedicavano la loro vita alla preghiera; a
loro si debbono numerosi scritti sulla preghiera, di cui trattano tutti gli
aspetti. Qui cercheremo di sottolineare ciò che li caratterizza.
Il senso della parola hesychia
L’etimologia della
parola è incerta. Forse si collega all’ essere seduti. Nel greco
profano, essa indica lo stato di calma,
la cessazione delle cause esteriori di turbamento o l'assenza di agitazione
interiore. E anche la solitudine,
il ritiro solitario.
Nel greco della
LXX, il termine hesychìa e i suoi
derivati sono frequenti e vi conservano il senso che avevano nella lingua
profana. Ma l' hesychìa
consiste allo stesso modo nell'astenersi, sia dalla parola che dal
movimento inutile (Pr 11,12; 7,11).
Nel Nuovo
Testamento, […] (si usa) il verbo tacere (Lc 14,4), osservare il riposo del sabato (Lc 23,56), non importunare gli altri (At 21,14; 11,18). Paolo esorta
coloro ai quali scrive a «vivere in pace» (1Ts 4,11), a
«condurre
una vita calma e pacifica» (2Ts 3,12). Egli vuole che in chiesa
la donna conservi il silenzio durante l'istruzione (1Tm 2,11-12).
Pietro, da parte sua, esorta le donne ad adornarsi all'interno del cuore «con un anima incorruttibile piena di mitezza
e di pace» (1Pt 3,4). Questa costellazione di sensi vari, ma
coerenti, lascia già indovinare ciò che sarà l'esicasmo, e l'ideale che esso
seguirà.
Si può
dunque definire l'esicasmo come una forma di spiritualità basata sull'hesychìa e il cui orientamento è essenzialmente
contemplativo |
Tuttavia l'esicasta
non vede nella pace o nella tranquillità un fine in sé, come lo stoicismo
nell'apatheia. L’hesychìa è, come ogni altra corrente nel
cristianesimo, un mezzo, forse il mezzo per eccellenza, in ogni caso un mezzo eccellente per arrivare allo scopo
che è l'unione con Dio, la preghiera perpetua.
Bisogna evidentemente distinguere due forme di tranquillità: una
esteriore, un'altra interiore; una nelle cose, un'altra nell'uomo. Esse non vanno necessariamente insieme. Ma
in numerosi spirituali rappresentativi di questa corrente si ha l'impressione
che la tranquillità e la solitudine si confondano e che come regola generale la
prima supponga la seconda. La sinonimia pura e semplice, o almeno la messa in
parallelo e in relazione delle parole hesychìa
e anacoresi, o di deserto ed hesychìa, è
frequente, anche se la distinzione tra le due realtà è tuttavia
sufficientemente conosciuta e sentita.
Condurre la vita di un
esicasta nel linguaggio dei bizantini è la realtà propria del monaco che abita
il deserto e coltiva il silenzio per essere tranquillo. Arsenio, «il grande
e angelico esicasta» è esemplare di questa maniera di vivere.
La tranquillità della solitudine
I saggi dell'antichità raccoglievano in gran quantità
delle massime in favore della solitudine. Il suo scopo è
chiaro: «L’istruzione e la filosofia
richiedono molta solitudine e ritiro», nota Dione
Crisostomo. Ma l'uomo antico temeva
di essere esiliato, di essere privato della comunicazione con coloro che gli
erano vicini. La condanna all'esilio si sostituiva spesso alla pena di morte.
Invano i grandi filosofi assicuravano ai loro contemporanei che la beatitudine
procurata dalla filosofia supera di gran lunga quella data dalla conversazione
umana. L’eudaimonismo razionale è una nobile forma di
edonismo, dunque di egoismo che non procura a nessuno la felicità.
Questo problema non esiste per i solitari cristiani.
Lo scopo del loro ritiro è la «filosofia cristiana», la preghiera, che è per
definizione un colloquio con Dio. Ora, colui
che conversa con Dio, anche se è separato da tutti, nello stesso tempo è unito
a tutti. Ecco perché gli elogi della solitudine sono molto
più sinceri presso i monaci che presso i filosofi, e l'anacoresi non è solo
raccomandata, ma anche ardentemente desiderata.
Nella loro solitudine, gli anacoreti cristiani non si
sentivano affatto soli e non volevano vivere separati dalla comunità della
Chiesa. Essi pensavano di poter, in virtù della loro vocazione speciale, che
non è destinata a tutti, realizzare la natura sociale dell'uomo ad un livello
più profondo di quello procurato dai contatti corporali. Se essi consideravano la solitudine come condizione della preghiera,
con questa stessa preghiera superavano la solitudine.
Il silenzio
Vi sono dei gradi della solitudine. Si è soli quando nello spazio che si è
soliti percorrere non si rischia di incontrare nessun essere umano. Si tratta
della «fuga dagli uomini» in senso materiale. Si è ancora soli anche quando non
si entra a lungo in conversazione con nessuno. E’ la solitudine del silenzio.
Come la solitudine
materiale, il silenzio è allo stesso modo in sé negazione della prerogativa
naturale dei logikoi. Ridurre qualcuno al
silenzio è privarlo della sua dignità umana, perché noi siamo degli esseri
dotati del dono del linguaggio. D'altra parte, certe forme di
silenzio sono imposte come condizioni per una comunicazione tranquilla. Se uno
parla e se noi siamo attenti ad ascoltarlo, esigiamo dagli altri che stiano
zitti.
L’ uomo che prega è
attento a questo Uno le cui parole sono più preziose di tutte le altre voci
udibili.
Niente è dunque più naturale di esigere il silenzio durante le letture, la
salmodia, la liturgia. Si comprende anche che nel monastero la
regola generale per tutte le conversazioni è quella di Basilio: «Quali parole rendono un discorso
"ozioso"? Risposta: in generale, è inutile ogni parola che non
contribuisca all'adempimento di ciò che è nostro dovere nel Signore. E tale è il
pericolo di una simile parola che, quand'anche sia bene ciò che si dice, e non
sia tuttavia ordinato all'edificazione della fede, chi ha parlato non è affatto
al sicuro a motivo della bontà del suo discorso, ma anzi, per non aver ordinato
il suo parlare all'edificazione, egli rattrista lo Spirito Santo di Dio».
Ma le forme eroiche del silenzio, la rottura quasi
totale dei contatti umani, di cui le Vite dei santi «silenziosi» danno
tanti esempi, non peccano dell'eccesso opposto? Non contraddicono lo Spirito
che parla agli uomini per mezzo di altri uomini ispirati? L’obiezione diviene
ancora più grave se si ricorda che gli esicasti riducevano, per così dire, al
silenzio Dio stesso che parla nella salmodia e nelle letture spirituali: essi
semplificavano progressivamente la preghiera fino all'«orazione
del silenzio».
Va da sé che simili forme di silenzio non sono per
tutti. Per apprezzarne il valore,
bisogna anzitutto sapere che tra tutte le parole ispirate la più preziosa è la
voce di Dio, ascoltata nel silenzio del cuore.
L'amerimnìa - il silenzio interiore
La solitudine e il
silenzio non fanno un esicasta. Come dirà un giorno un
grande promotore della spiritualità esicasta, Nicodemo l'Aghiorita, abbiamo
dentro di noi un discorso interiore con il quale «ragioniamo e componiamo delle opere, diamo dei giudizi e leggiamo libri
interi in silenzio senza che la bocca parli». La
maggior pane delle persone ragionano o sragionano silenziosamente, in balia
della loro affettività.
Nella sua ricerca di Dio, l'esicasta ha un nemico più
temibile della società degli uomini e della dissipazione esteriore: è la dissipazione di un cuore che rimane
agitato, turbato, legato ai suoi attaccamenti, alle sue preoccupazioni, ai suoi
pensieri, tutto un arsenale che egli porta con sé nella sua anacoresi. L’hesychìa
esige dunque l’apatheia. Tuttavia
non è con il termine di apatheia che si
esprime generalmente l'esicasmo, se si fa eccezione per il circolo evagriano. Presso gli autori esicasti più autentici la
parola apatheia non prevale mai su
quella di noncuranza.
La noncuranza di cui si tratta non è la noncuranza in
senso colpevole, la negligenza riguardo alle cose di Dio, l'accidia, né
la noncuranza alla maniera dei messaliani, che
desideravano una vita oziosa e una falsa sicurezza. Si tratta piuttosto della
buona noncuranza che lo pseudo-Efrem caratterizza
chiamandola «noncuranza delle cose terrene». È ad essa che
fa spesso allusione Doroteo di Gaza, spiegando che consiste nel «lottare per non avere più nessun affanno
delle cose di questo mondo e attendere a Dio solo assiduamente e senza
distrazioni, come è detto della vergine (1Cor 7,34-35)».
È ad essa che Giovanni Climaco consacra il XXVII
scalino della sua Scala del
Paradiso, dove dice: «L'opera principale dell'hesychia è una amerimnìa riguardo a tutte le cose, razionali
e irrazionali». Giovanni Climaco
si rende conto che egli si esprime troppo radicalmente, allora giustifica la
sua sentenza con due motivi psicologici. Anzitutto, gli affanni si chiamano
l'un l'altro. Inoltre, la tranquillità interiore è uno stato
d'animo che non soffre di alcuna divisione. «Un pelo da niente turba completamente la vista e una preoccupazione
minima fa svanire l'hesychìa».
Ma bisogna andare ancora più lontano. Per Climaco,
l'hesychìa
non è solo l'«allontanamento dei
turbamenti razionali», essa è anche «eliminazione
dei pensieri»; è l'espressione evagriana che
qualifica la sommità della preghiera contemplativa. Si tratta
dunque di una noncuranza mistica che si giustifica con la vocazione speciale di
Dio e non con qualche desiderio quietista.
La nepsis - l'antìrresis
Per acquisire e conservare l'hesychìa
del cuore, la prudenza domanda «che
si massacrino fin dall'inizio i figli di Babilonia», cioè a dire i pensieri
cattivi, i logismoi. Così i
trattati parlano della «custodia del cuore», della «custodia dello spirito»,
dell'attenzione. Per
custodirsi, bisogna essere sobri e vigilanti, «neptici»
(cf 1Pt 5,8), «attenti». Già nello pseudo-Macario hesychìa,
népsis, prosoché e
preghiera si trovano intimamente uniti.
Ma è soprattutto la
scuola sinaitica che insiste su questa vigilanza. Per l'autore delle Centurie,
conosciuto sotto il nome di Esichio di Batos o il Sinaita, tutta
l'ascesi sembra ridursi alla nepsis da
lui definita come «un metodo spirituale
che libera interamente l'uomo, con il soccorso di Dio e per mezzo di una
pratica sostenuta e decisa, dai pensieri e dalle parole appassionate, così come
dalle azioni cattive».
La «custodia alla porta del cuore» è
anzitutto un metodo di difesa per respingere immediatamente i pensieri intrusi
per mezzo dell'antìrresis. Gesù, tentato dal
demonio, risponde alle sue suggestioni con i testi della Scrittura (Mt 4,3 - 11). Allo stesso modo gli asceti
sapevano rispondere a ogni suggestione diabolica con una bella citazione della
Bibbia. Il manuale classico di questa arte è l'Antirrètikos
di Evagrio, diviso in otto parti che corrispondono allo
stesso numero di vizi. A proposito di ciascun pensiero si danno
citazioni di testi scritturistici che permettono di scacciarlo.
Ma che bella fatica impararli per un monaco senza
cultura! Tuttavia la pratica porterà ad
una semplificazione. L'invocazione di Gesù è
sufficiente a «scacciare tutti i demoni»
e la «preghiera di Gesù» sostituisce nell'esicasmo le classificazioni
complicate. «Nel numero delle misteriose e straordinarie proprietà del Nome
di Gesù, scrive Ignatii Brjancaninov; si
trova quella di cacciare i demoni. Questo potere è stato annunciato dal Signore
stesso: “coloro che credono in me, ha
detto, nel mio Nome scacceranno i demoni” (Mc 16,17)».
L’attenzione - prosoché
Secondo la definizione più semplice, l'attenzione è
una applicazione dello spirito. Enunciato che basterà a rendere evidente il
ruolo dell'attenzione nella spiritualità. I cristiani potrebbero qui
riferirsi alle più grandi autorità filosofiche. Epitteto
offre tutto un capitolo «sull'attenzione». Sant'Antonio ricevette un
giorno dal cielo un avvertimento: “bada a
te stesso”. Questa semplice ingiunzione scritta nella prima
pagina degli Apoftegmi e che
tutti i monaci dovevano sapere a mente, ha avuto più influsso dei lunghi
discorsi di Basilio e di altri predicatori. Tuttavia anche un'altra sentenza
sarà spesso citata, quella di Evagrio: «l'attenzione
in cerca di preghiera troverà la preghiera, perché se c'è una cosa che segue la
preghiera, questa è l'attenzione. Bisogna dunque sforzarsi in essa».
Il testo si staglia bene da solo nella memoria, sia per la promessa che
contiene che per la suggestiva allitterazione delle due parole: attenzione, preghiera. Gli esicasti
scriveranno dunque dei trattati «Sull'attenzione
e sulla preghiera». Come applicazione dello spirito, l'attenzione ha un ruolo di selezione che va fino ad escludere ciò che
non è desiderabile.
Nella preghiera essa lo esercita a differenti livelli.
Il primo tipo di
attenzione è detta verbale: essa è volta alla pronuncia stessa delle parole
della preghiera e sul senso immediato del testo. Il flagello delle distrazioni
ha suscitato negli spirituali, dopo i primi secoli, delle continue esortazioni
morali, come queste di Giovanni Crisostomo: «Molti entrano in chiesa; recitano
innumerevoli versetti della preghiera, poi vanno via; ma non sanno ciò che
hanno detto. Le loro labbra si agitano e il loro orecchio non ascolta. Tu
stesso non ascolti la tua preghiera e vorresti che Dio l'esaudisca?». Ciascuno
si sente obbligato a ripetere queste ammonizioni che tutti però considerano
alla lettera irrealizzabili. Gli esicasti ebbero il coraggio di dirlo
apertamente. Niceforo chiama questa specie di
attenzione la «seconda orazione» e la
definisce così: «Lo spirito, ritirandosi
dalle cose sensibili, custodendosi dalle sensazioni di fuori e raccogliendo
tutti i suoi pensieri, avanza, dimentico di tutte le vanità; ora fa l'esame dei
suoi pensieri, ora applica la sua attenzione alle domande che la sua bocca
rivolge a Dio, ora attira a sé i suoi pensieri cattivi, ora, preso lui stesso
dalla passione, usa violenza per ritornare a sé. Combattendo così, la pace è
impossibile come la vittoria». Tutti sanno che la molteplicità affatica.
Sono allora proporsi dei metodi per semplificare questa «attenzione verbale».
Il
secondo tipo di attenzione può essere chiamato «meditativo» o «contemplativo». Tale attenzione si
definisce con queste belle parole di Riccardo
di San Vittore: «Una libera veduta
dello spirito sugli spettacoli della sapienza che la tengono sospesa di
ammirazione». L'intelletto
non si sente più costretto a seguire tutto ciò che le labbra mormorano, esso fa
la sua libera scelta per concentrarsi su ciò che è utile alla sua pietà.
La terza attenzione è definita in Occidente «mistica» o «affettiva»; in
Oriente il termine classico è l'«attenzione al cuore». Essa è concepita a gradi diversi.
Da dove viene la dissipazione continua dello spirito?,
si domanda Basilio. Lui stesso risponde: «La
dispersione viene dalla pigrizia dello spirito che non si occupa delle cose
necessarie». E da dove viene questa pigrizia? «Lo spirito si abbandona alla pigrizia e alla noncuranza per mancanza di
fede nella presenza di Dio che scruta i reni e i cuori». Basilio
è dunque, come tanti altri, fermamente convinto che tutte le distrazioni
possono essere guarite da un vivo
sentimento della presenza di Dio.
Ecco un'altra testimonianza proveniente dai solitari
di Egitto: «Il discepolo di abba Ammonas
raccontava: “Un certo giorno, mentre noi dicevamo l'ufficio, il mio spirito fu
turbato e io dimenticai una parola del salmo. Quando avemmo terminato,
l'anziano riprese la parola e mi disse: Quando sono all'ufficio, io penso che
sono sul fuoco e che brucio, e il mio pensiero non può allontanarsi né a destra
né a sinistra, e tu, dove era il tuo pensiero mentre dicevamo l'ufficio, se hai
omesso una parola [un versetto] del salmo? Non sapevi che stavi davanti a Dio e
che parlavi a Dio?”. In questo caso non sarebbe preferibile concentrare tutta la
nostra attenzione sulla presenza di Dio e considerare tutto il resto come
secondario? Tutti gli esperti della vita spirituale rispondono affermativamente
a tale questione.
Per riuscire in questo sforzo, sono dati molti consigli.
Il sentimento della
presenza di Dio può prendere una forma immaginativa. «Io pongo sempre innanzi a me JHWH, sta alla
mia destra, non posso vacillare», dice il Sal 15,8. Rappresentarsi un
giudice davanti al quale si deve rendere conto delle proprie opere fu sempre
raccomandato ai monaci che coltivavano il pénthos,
mentre la visione di Lui che sta alla nostra destra dà coraggio ai
deboli. Se questa forma di attenzione è considerata utile, molti spirituali
considereranno il suo valore assai relativo e gli esicasti cercheranno di
scartarla come una aberrazione.
Ma già Basilio era cosciente dell'imperfezione di
queste immagini che collocano Dio fuori di noi, mentre è presente in noi, nel
nostro cuore. L'esercizio d'attenzione a Dio diviene dunque esortazione a
fare attenzione a se stessi. Abbiamo tutta un'omelia di Basilio su tale espressione;
e una istruzione di Efrem con un prologo
e dodici capitoli. Questo tema sarà uno dei favoriti, soprattutto dagli esicasti,
campioni per eccellenza dell'attenzione. Solo che il loro vocabolario
identifica chiaramente «se stessi» con il cuore: là è il centro della persona
umana e la sede dove Dio abita.
La visione delLa luce taborica
Se la «preghiera del cuore» è ben conosciuta nella
spiritualità orientale, per gli esicasti
essa è la chiave della loro mistica. Essa costituisce la «terza orazione»
proposta nel famoso trattato Metodo della santa orazione e attenzione.
Il suo principio non è «raccogliere
le idee e invocare il soccorso del cielo» (seconda orazione), né
«immaginare le bellezze celesti»
(prima orazione). La vera attenzione» consiste «in questo, che nell'orazione lo spirito custodisce il cuore, dentro al
quale torna e ritorna senza sosta...;
allora, avendo gustato che il Signore è
buono, non è più espulso dal soggiorno del cuore, perché dice anch'esso con
l'apostolo: è bene per noi stare qui (Mt 17,4)».
Da questa descrizione sommaria possiamo ricavare
qualche nota caratteristica della «preghiera del cuore».
Essa non è immaginativa. L'autore predica un autentico iconoclasmo interiore.
Essa non è più «concettuale», sapendo che la
molteplicità delle idee non va di pari passo con l'esichia.
Inoltre, colui che prega «si vede lui
stesso tutto intero illuminato». "Tutto
ciò fa supporre che l'ispirazione evagriana vi sia
facilmente riconoscibile e che la mistica esicasta appartenga al tipo della mistica della
luce».
In effetti, sono numerosi i testi della letteratura
esicasta che parlano della visione della luce. Il più famoso è quello di Massimo il Capsocalyvita.
I lettori senza esperienza potranno facilmente interpretare queste
visioni come delle visioni sensibili. Anche Niceforo
protesta con veemenza contro questo errore. D'altra parte, tuttavia, non si ha
l'impressione che si tratti di una visione della «pura luce» senza oggetto né forma, come è descritta da Evagrio. Perché Niceforo vede in
questo stato l'«io illuminato». In
altri testi «tutto» è illuminato, il
mondo intero, in modo simile a ciò che hanno visto gli apostoli durante la
Trasfigurazione del Signore.
Simeone il Nuovo Teologo esorta l'esicasta ad essere «come coloro che salgono con Gesù sul Tabor e contemplano il bagliore sfolgorante, la
trasformazione delle sue vesti e la luce del suo volto», o
ancora, tra altri modelli a cui l'esicasta può ispirarsi, come Mosè, recandosi
solo sulla cima della montagna ed entrando all'interno della nube. «Colui che
giungerà là, non vedrà solo Dio di spalle, ma si troverà scientemente faccia a
faccia con Lui...; sarà anzitutto l’iniziato ai misteri del regno dei cieli,
poi detterà le leggi agli altri; sarà illuminato, poi illuminerà gli altri..
Nelle visioni di Simeone, abbiamo constatato
due cose capitali: egli identifica
la luce con Cristo e Cristo vive nel cuore dell'uomo soprattutto per mezzo
della carità. Concezione che spiega perché gli esicasti davano una tale
importanza all'invocazione di Gesù.
Il ricordo di Gesù
Per esercitarsi nella «preghiera del cuore», gli
antichi monaci praticavano delle invocazioni giaculatorie perché la loro preghiera fosse monologistos, un puro ricordo di Dio.
Ora, presso gli esicasti il ricordo «di Dio» riceve la
sua forma concreta come ricordo «di Gesù». Essi vi insistono molto. Per Esichio di Batos, l'invocazione costante del Signore Gesù
deve diventare tanto abituale quanto la respirazione (notiamo l'espressione
«quanto la respirazione!»), perché senza Gesù Cristo non si può niente.
Questo tratto mette fortemente in rilievo il carattere cristologico della preghiera.
Dio non si rivela all'uomo se non per mezzo di Cristo e se egli illumina il
cuore è perché la sua immagine appare più chiaramente. Lo scopo della preghiera sarà dunque di unire costantemente il suo
cuore a Gesù e, con Gesù nel cuore, unirsi al Padre e a tutto ciò che esiste.
La preghiera giaculatoria degli esicasti sarà la
«preghiera a Gesù» (o «preghiera di Gesù»). Nella sua forma
tradizionale, l'invocazione diventerà uno dei tratti più caratteristici della
pietà degli esicasti.
II. LA PREGHIERA
DI GESÙ
Storia della preghiera di Gesù
Si tratta di quella forma di preghiera in uso
specialmente presso i cristiani bizantini, soprattutto presso gli slavi, che si
esprime da più secoli nel modo seguente: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà
di me». I russi aggiungono «peccatore».
E’ detta generalmente preghiera di Gesù, secondo la traduzione letterale dal
russo molitva Iisusova,
equivalente del greco: preghiera a
Gesù.
Le origini di questa preghiera vanno ricercate nel monachesimo orientale, nella corrente
che praticava la custodia del cuore, la preghiera continua e il sentimento del pénthos.
La custodia del cuore
suppone la lotta contro i pensieri cattivi. Il metodo per
eccellenza è l'antìrresis, cioè
il saper rispondere con dei testi sacri ad ogni suggestione diabolica. Il
manuale classico di quest'arte è l'Antirrétikos di
Evagrio, dove sono citati 487 testi
scritturistici. Ma la pratica semplificherà il principio. L'invocazione appropriata di Gesù sarà sufficiente a «cacciare tutti i
demoni»" e la preghiera di Gesù si sostituirà ai cataloghi di testi. Essa è dunque una formula antirretica.
Gli ambienti monastici
praticavano anche la preghiera continua con la «meditazione» di una formula
ripetuta.
Queste formule sono le più varie, ma a partire dal V secolo gli asceti
(Nilo d'Ancira e Diadoco di Fotica)
danno un posto privilegiato
all'invocazione di Gesù, tuttavia senza una formula precisa. Nel secolo
successivo troviamo due formule presso i monaci del deserto di Gaza: una di
tipo catanittico («abbi pietà di me!»), l'altra di invocazione di aiuto («Vieni in mio aiuto!»).
Si attribuisce
generalmente un influsso importante ai sinaiti nella
storia della preghiera di Gesù, ma in realtà né Climaco, né Esichio, né Filoteo prescrivono delle formule fisse pur insistendo
sulla preghiera monologista di Gesù.
Nel Mètérikon del monaco
bizantino Isaia (XII-XIII secolo) la formula è ancora allo stesso tempo catanittica e di richiesta di aiuto; essa era stata ridotta
al suo aspetto puramente catanittico da un certo
abate Filemone, sconosciuto alle cronache del
deserto, la cui Parola utile è stata edita nella Filocalia
e presentata come un rimedio contro l'inconsistenza dello spirito
grazie all'eliminazione di ogni altro pensiero che non sia il ricordo di Dio.
L'opuscolo è anteriore al XII secolo.
Presso gli esicasti athoniti questa preghiera si accompagna ad una tecnica
psicosomatica. Nicodemo l'Aghiorita
inserisce tali testi nella Filocalia e
lui stesso attribuisce a questa «orazione mentale» dei frutti considerevoli:
distacco dalle cose sensibili, umiltà, compunzione, lacrime, chiara visione di
se stessi come in uno specchio, purezza perfetta, gioia ineffabile.
La pratica della preghiera
di Gesù assume presso gli autori spirituali russi una tonalità originale. Si tratta
soprattutto dei Racconti sinceri di un pellegrino russo che
celebrano la sua virtù straordinaria per condurre le anime all'unione con Dio.
La formula catanittica è conservata. Tuttavia, ciò che si cerca maggiormente è il
sentimento della presenza divina dappertutto nel mondo, più precisamente quella
di Cristo. Allora si comincia a dare più importanza all'invocazione del
nome di Gesù. «Non solo Dio è invocato
con questo nome, ma è già presente in questa invocazione» come
«in un 'icona».
Una venerazione estrema di questo nome condusse dei
monaci russi della fine del XIX secolo ad una dottrina «onomatolatrica» che agitò la
Chiesa russa durante gli anni 1912-1913. Ma all'epoca attuale la Preghiera di
Gesù ha ricoperto il giusto posto che essa ha nella preghiera esicasta.
Rimane tuttavia un dubbio teorico. La preghiera di
Gesù si compone di due elementi: l'invocazione del nome e la domanda della
misericordia. Quale di essi deve essere considerato il principale? Vediamo
anzitutto le ragioni di coloro che
optano per la forza del nome divino.
La forza del nome di Gesù secondo certi autori russi
In una piccola opera Sulla preghiera di Gesù, il
vescovo Ignatii Brjancaninov
sostiene che «la forza spirituale della
preghiera di Gesù risiede nel nome del Dio-uomo, il
nostro Signore Gesù Cristo». «Quanto alla sua forma esteriore, questo nome è limitato, ma
rappresentando un oggetto illimitato, Dio, ne riceve un valore illimitato e
divino, le proprietà e la potenza di Dio stesso». “Perciò noi vediamo la fiducia senza confini dei santi apostoli nel nome
del Signore.”
Senza identificare il nome con la persona come gli «onomatolatri», S.
Bulgakov, che era intervenuto nella controversia, sviluppa da parte sua una
teoria secondo la quale il nome divino
invocato nella preghiera contiene dinamicamente e in una maniera quasi
sacramentale la presenza di Dio. Nel linguaggio umano risuonano «i nomi-voci dell'universo»." Il nome di
Gesù, che è il nome proprio di Dio e dell'uomo, quando risuona nel cuore umano
«gli comunica la forza della divinizzazione che il Redentore ci ha accordato».
Bulgakov oppone questa teoria mistica del nome alla concezione
razionalista e nominalista, a suo parere, della teologia di scuola.
Kologrivov si è ispirato a lui
quando ha detto che il nome di Gesù «rivela
il Signore e lo rappresenta, cioè lo rende presente come è presente nell'icona
benedetta o in ogni altro sacramentale».
Sia come sia, più
autori avvertono che non bisogna esagerare le conclusioni di queste teorie.
Esse non sono tradizionali. «Si farà
qualche fatica, scrive A. Scrima, a trovare un fondamento nella tradizione
della preghiera esicasta per questa corrente russa moderna di devozione al nome
di Gesù». Teofane il Recluso si era opposto a coloro che
volevano attribuire al nome una virtù quasi sacramentale: «la forza [di questa preghiera] non sta nelle
parole, ma nella disposizione dell'intelligenza e del cuore». «Si
parla degli effetti di questa preghiera come se non ci fosse niente di più alto
al mondo. E tutto questo senza motivo! Si crede di aver trovato un talismano.
Dei frutti [che produce questa preghiera] nessuno appartiene alla sola
composizione verbale della formula né alla sua recita; tutti possono essere
ottenuti senza questa preghiera e addirittura senza nessuna preghiera orale,
perché essi sono dovuti all'elevazione dell'intelligenza e del cuore verso Dio».
L’invocazione del nome divino nella Bibbia e presso i primi cristiani
I difensori della forza del nome ricorrono spesso ai
testi biblici. Nella mentalità semitica,
il nome è in effetti come una emanazione dell'essere che lo porta; conviene
anche distinguere nel nome un valore noetico (il nome fonte della conoscenza) e
un valore dinamico (il nome, fonte di potere). Pronunciare il
nome o i nomi di Dio è dunque raccogliere nella propria fede tutte le
esperienze religiose di un popolo.
Per i cristiani, il
nome di Gesù acquisisce lo stesso valore. Il testo di Gioele (3,5) sull'invocazione del nome del Signore («Chiunque invocherà il nome del Signore sarà
salvato») ha giocato un grande ruolo nella prima teologia cristiana. Pietro
invita i suoi uditori ad invocare il nome del Signore Gesù per essere salvati.
I cristiani sono caratterizzati secondo un'espressione desunta da questo stesso
testo profetico: «coloro che invocano il
Nome» (At 9,14.21; Rm 10,12-14;
1Cor 1,2). L'archeologia testimonia l'onore che i semplici cristiani rendevano
a Gesù iscrivendo il suo nome sui documenti o su degli oggetti. Più
tardi il trattato pseudo-dionisiano De divinis nominibus eserciterà in questo campo un influsso
considerevole.
Inoltre si è giustamente osservato che invocare il nome di Gesù non significa dire
«Gesù» e basta. I primi cristiani amavano confessare la loro fede dicendo: Gesù Cristo, Gesù Messia, Figlio di Dio, e
soprattutto Signore. I primi che nella loro devozione hanno detto Gesù e
basta sono stati i siri. Benché gli gnostici si siano compiaciuti di fare ogni
sorta di speculazioni mistiche sul nome di Gesù, gli ortodossi diffidavano di
una tale fede verbale. Nessun nome né
nessun titolo vale senza le opere. Un testo di Origene
lo conferma chiaramente: «Il mezzo per
dire in modo perfetto Signore è che le opere stesse parlino quando si dice:
Signore, Signore. È chiaro dunque che invocare il nome del Signore comporta la
giustizia, e una giustizia vera».
«Abbi pietà di me»
Unanimemente gli
spirituali ammettono che il principale merito delle brevi preghiere è di
aiutare a creare uno stato del cuore, una disposizione stabile dello spirito. Da qui deriva la
grande varietà delle preghiere giaculatorie. Ma già Cassiano ha
fatto la sua scelta vedendo in Deus in adiutorium meum intende (Sal 69,2) una «formula di pietà» capace
di muovere in tutti noi i sentimenti pii.
La tradizione monastica in generale ha anch'essa fatto
una scelta. I monaci sono arrivati alla conclusione che per amore della
preghiera bisogna farsi mendicanti
davanti a Dio, come il pubblicano che si batte il petto e ritorna
giustificato (Lc 18,l0ss). Allora la preghiera «abbi pietà di me peccatore!» si ripete in innumerevoli varianti. Ne
segue la conclusione che la preghiera di
Gesù» non è cominciata con l'invocazione del nome di Gesù, ma con il pénthos, il
luctus, il dolore del peccato.
Ciò non contraddice evidentemente la tenera devozione
a Cristo. Si è visto come questo fosse vissuto da Simeone il Nuovo Teologo e
tuttavia nessuno ha mai avuto più alta concezione delle lacrime di lui. Egli
vede in esse il vero battesimo dello Spirito, il grande photismòs,
l'illuminazione per la quale l'uomo diviene tutto luce. Egli
ne ha constatato gli effetti santificanti e illuminatori sul suo padre
spirituale, Simeone Studita. Dopo la morte di
quest'ultimo, gli rivolge questa preghiera: «San Simeone, divenuto conforme all'immagine di Gesù Cristo per la
partecipazione dello Spirito Santo, rivestito della tunica splendida dell'apàtheia grazie ad una lunga ascesi, lavato
nelle tue stesse lacrime, così abbondanti da uguagliare la fonte del battesimo...».
Al nostri giorni si parla volentieri delle pratiche di
pietà per rinnovare il battesimo.
Gregorio di Nazianzo era, quanto a se stesso,
convinto che l'ultimo battesimo di cui
noi abbiamo bisogno è quello delle lacrime, che consiste nel «bagnare ogni notte di lacrime il nostro
letto e la nostra coperta». E nel domandarsi: «Quale quantità di lacrime dobbiamo versare, per uguagliare il fonte
battesimale?».
Alla luce di questa tradizione orientale, il compendio della preghiera di Gesù è il
Kyrie eleison. La spiegazione di questa invocazione è, secondo la
Filocalia, grandemente
utile per ogni cristiano», perché la formula «Signore Gesù Cristo, abbi pietà
di me», o, più succintamente, «Signore, abbi pietà», è stata trasmessa
ai cristiani fin dai tempi degli apostoli.
In questo stesso senso, Briancaninov
scrive: «La scelta della preghiera di
Gesù come formula di meditazione si giustifica pienamente, perché il nome del
Signore Gesù Cristo racchiude una forza divina particolare e anche perché, quando
ci si esercita nella preghiera di Gesù, nel ricordo della morte, delle torture
inflitte dagli spiriti che sono nell'aria, dell'ultimo giudizio pronunciato da
Dio e dei tormenti eterni, comincia, ad un certo momento a venire da solo.
Questa memoria viene in un modo così vivace che essa immerge l'asceta in
lacrime abbondanti e inesauribili...».
Dio e l'uomo peccatore
La discussione sulla priorità storica del primo o del
secondo elemento della preghiera di Gesù è senza dubbio assai utile per comprendere
la diffusione di questa formula in Oriente. D'altra parte, bisogna evitare di
precisarne troppo i contenuti. Il senso
di una preghiera, soprattutto se essa è ripetuta spesso, sta più nella
disposizione interiore di colui che prega che nelle sole parole pronunciate.
Ora, leggendo il Pellegrino russo, così come
molti altri testi dell'epoca attuale, si
ha l'impressione che il sentimento del pénthos
sia in un certo senso diminuito. Con la recita di questa formula si cerca piuttosto di prendere coscienza della
presenza di Dio dappertutto e in tutto, nel battito del proprio cuore come
nel respiro dell'universo.
Si tratta di un sentimento proprio alle «religioni
cosmiche» antiche e recenti. Presso i cristiani, si distingue per un
tratto speciale: la coscienza del dialogo tra l'uomo e Dio che gli è vicino. Ma
nello stesso tempo e paradossalmente, Dio appare estremamente lontano, non solo
a causa della sua trascendenza, ma anche a causa delle nostre colpe, dei nostri
peccati. God-sin, queste due parole
riassumono l'esperienza dell'autore inglese di un famoso scritto mistico del
medioevo di fronte a tutta la realtà. Ma il cristiano prova
anche un altro sentimento, inseparabile dal primo: la coscienza che l'abisso è colmabile da una parte per la grazia di
nostro Signore, Figlio di Dio incarnato, e dall'altra per la nostra confessione
e la nostra preghiera che domanda misericordia.
In questo contesto, non è sorprendente che a partire
dal XIV secolo alcuni autori, ammessi o non ammessi nella Filocalia,
celebrino a gara l'eccellenza della formula destinata a riconciliare tutte
le antinomie della vita: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà
di me peccatore!
I gradi della preghiera di Gesù
Ogni preghiera, secondo l'insegnamento tradizionale,
si sviluppa in tre tappe: recita vocale, attenzione mentale o comprensione del contenuto, sentimento del cuore. Per quanto
concerne la preghiera di Gesù, la seconda tappa è assai ridotta, perché si
tratta di una invocazione molto semplice, benché dopo il XIV secolo degli
autori abbiano artificialmente celebrato la sua profondità dottrinale. Il vantaggio delle brevi invocazioni è, al
contrario, che esse aiutano a passare direttamente dalla recita orale alla
preghiera del cuore.
I monaci bizantini e russi associano alla preghiera di
Gesù l'uso di una specie di rosario;
esso aiuta a contare le invocazioni e le metanie
che l'accompagnano. Il primo grado della preghiera di Gesù è dunque quello
della recita vocale, che possiede incontestabilmente un certo valore. Tuttavia
alcuni seri autori protestano a buon diritto contro coloro che vorrebbero farne
una formula quasi magica. Abbiamo già riportato il parere di Teofane il Recluso a questo proposito. Su questo
punto il Pellegrino russo è più entusiasta. Allo stesso modo coloro che tengono
conto del valore del nome di Gesù.
Dalle labbra si passa direttamente al cuore, dicono
spesso gli autori. Il passaggio per l'intelligenza, abbiamo notato, non è
importante. Ignatii Brjancaninov
tuttavia ne parla, ma dal punto di vista negativo. La breve preghiera non sveglia dei ragionamenti; essa fa sì, al
contrario, che l'uomo taccia interiormente: «All'inizio questa pratica appare come straordinariamente arida... la
preghiera di Gesù agisce per gradi successivi: per cominciare, la sua azione
agisce solo sull'intelletto, conducendolo ad uno stato di silenzio e di
attenzione; poi comincia a guadagnare il cuore, risvegliandolo da un sonno
simile alla morte... Rinforzandosi ancora più profondamente, la preghiera si
mette poco a poco ad agire in tutte le membra dell'anima e del corpo».
Sostituisce le altre preghiere?
Una questione: questa formula deve avere la preponderanza
nella vita di orazione al punto da sostituire tutte le altre preghiere, in
particolare l'ufficio divino? Secondo il parere di Teofane
il Recluso, la preghiera di Gesù deve
essere considerata piuttosto come un complemento; essa non rimpiazza le
altre preghiere, anche le private, fissate dalla regola. «Certo, è
possibile sostituire alla meditazione la preghiera di Gesù, ma quale necessità
vi è di farlo?», risponde il nostro autore ad uno dei suoi figli spirituali che
praticava l'orazione mentale. D'altra parte, tuttavia, la malattia, la stanchezza, la fatica
raccomandano questa sostituzione. Teofane
giudica anche che è meglio sostituire «delle metanie
e la preghiera di Gesù o qualche altra breve preghiera» ad una recita nella
quale non si comprende niente e che lascia il cuore insensibile. Un'altra
ragione milita in favore di questa invocazione, la stessa che in Occidente è all'origine
della recita del rosario. Giuseppe di Volokolamsk
prescrive la preghiera di Gesù ai monaci senza istruzione, incapaci di recitare
dei salmi quando vanno dalla chiesa al refettorio.
Tutti questi consigli non sono che l'applicazione
particolare dei principi sulla preghiera in generale. La questione da risolvere
riguarda il diritto canonico: può un monaco o un sacerdote, tenuto dalla regola
alla recita dell'ufficio, sostituirlo con la preghiera di Gesù? Teofane non dice di no: «E’ ammesso fin dai tempi più
antichi che si possa sostituirla a tutte le altre preghiere». Ecco
un fatto: lo stesso Sluzebnik, edito a
Roma nel 1942, prevede che si possano sostituire i vespri con 100 preghiere di
Gesù e 25 metanie, il notturno con 100
preghiere di Gesù e 25 metanie, la
compieta con 25 preghiere di Gesù e 12 metanie,
il mattutino con 300 preghiere di Gesù e 50 metanie,
le ore con 50 preghiere e 7 metanie, i typika con 100 preghiere di Gesù e 10 metanie. Per Ignatii Brjancaninov, sostituire gli uffici canonici con la
preghiera di Gesù «è incomprensibile per
i principianti e non può loro essere applicato in modo soddisfacente».
Bisogna anzitutto acquisire l'esperienza della preghiera del cuore.
«Un principiante può abituarsi in un modo
assai facile alla preghiera di Gesù nel corso dei lunghi uffici monastici.
Quando vi assiste, a che scopo lasciare i suoi pensieri errare qua e là... Applicati
dunque alla preghiera di Gesù, essa tratterrà il tuo spirito e gli impedirà di
vagabondare». In altre parole, ci si abituerà a recitare questa
preghiera giaculatoria non al posto degli uffici, ma durante.
Lo pseudo-Simeone
La tecnica psicosomatica è descritta in Niceforo l'esicasta, Gregorio Sinaita
e lo pseudo-Simeone, i più antichi teorici conosciuti.
Lo pseudo-Simeone sarebbe un contemporaneo di Niceforo, se non Niceforo stesso.
Trascriviamo il famoso passo:
«Poi siediti nella tua cella tranquilla, in disparte
nell'angolo, e fa' quello che ti dico: chiudi la porta ed eleva il tuo
spirito al di sopra di ogni oggetto vano e temporale, poi, appoggiando la
barba sul petto e volgendo l'occhio corporale con tutto lo spirito nel mezzo
del ventre, altrimenti detto ombelico, comprimi l'aspirazione d'aria che
passa dal naso in modo da non respirare comodamente ed esplora mentalmente il
dentro delle viscere per trovarvi il luogo del
cuore che amano frequentare tutte le potenze dell'anima.
All'inizio troverai una tenebra e un'oscurità ostinata, ma perseverando e praticando questo esercizio di giorno e di
notte proverai, oh meraviglia!, una felicità senza fine. Non
appena in effetti lo spirito trova il luogo del cuore, percepisce l'aria
esistente al centro del cuore, e vede se stesso tutto intero luminoso e,
pieno di discernimento, da qui in avanti, quando spunta un pensiero, prima
che esso si compia e prenda forma, con
l'invocazione di Gesù Cristo esso gli dà la caccia e lo annienta.
In questo momento, lo spirito, nel suo risentimento contro i demoni,
risveglia la collera che è secondo natura e va all'inseguimento
dei nemici spirituali. |
I «supporti esterni»
Il metodo ha delle varianti e il suo esercizio sembra
diventare sempre più complesso considerando certe descrizioni, ma
spesso, ad un tratto, il procedimento si semplifica. Più elementi sono in gioco. C'è bisogno anzitutto di una cella tranquilla e chiusa, e di una
certa attitudine corporale: la
posizione su una sedia bassa, uno sgabello. Si appoggia la barba sul petto,
volgendo l'occhio corporale con tutto lo spirito nel mezzo del ventre». E’
richiesto un rallentamento regolato della respirazione e una esplorazione
mentale dell'io viscerale alla ricerca del «luogo del cuore», l'unificazione delle potenze dell'uomo e
l'invocazione ripetuta e perseverante del nome di Gesù. I primi
teorici non dicono, almeno esplicitamente, che bisogna sincronizzare la ripetizione
della formula con il ritmo rallentato della respirazione o con il battito del
cuore, come invece sarà descritto dal Pellegrino russo. Molti
esicasti avevano inoltre la visione della luce.
Brjancaninov che ha cercato di
raccogliere gli elementi di questo esercizio, parla di sette «supporti
esteriori per i principianti nella pratica della preghiera di Gesù»:
1)
un rosario o lestovka,
2) le
grandi e le piccole metanie,
3) gli
occhi fermi,
4)
tenere la mano sinistra sul petto,
5) una
cella oscura,
6) stare
seduti su una sedia bassa,
7)
bagnarsi con acqua fredda o applicare dei panni bagnati sulle parti del corpo
in cui si produce un afflusso di sangue.
La cella oscura
La cella è lodata nella letteratura monastica.
È un felice «deserto»,
anche nel mezzo della città. Per evitare le «immagini», i Padri consigliano
agli esicasti una cella un po' oscura
e con le finestre munite di tende, per
proteggere l'intelletto contro le distrazioni e aiutarlo a concentrarsi nel
cuore.
Lo sgabello basso
Sedersi durante la preghiera è per gli antichi Padri
una concessione in caso di malattia o per un'altra seria ragione. Nell'esicasmo
è al contrario una posizione
privilegiata per il fatto che fa parte del «metodo fisico». «Si raccomanda agli esicasti di sedersi su
uno sgabello basso, anzitutto perché la preghiera attenta necessita di una
posizione stabile, e poi per seguire l'esempio del cieco di cui si parla nel
vangelo, che, seduto al bordo della strada, si mise a gridare verso il Signore:
“Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me!” (Mc 10,47); egli fu ascoltato ed esaudito. D'altra parte, questo
sgabello basso ben rappresenta l'immondezzaio sul quale si mette a sedere
Giobbe (2,8)... Il monaco deve vedersi mutilato, sfigurato, squarciato dal
peccato...».
La respirazione
«Bisogna
respirare assai dolcemente. In generale, bisogna reprimere tutti i movimenti di
sangue e custodire il corpo e l'anima in uno stato tranquillo... l'esperienza
insegnerà rapidamente che la ritenzione del soffio, cioè il fatto di respirare
meno spesso e con dolcezza, contribuisce molto a farci entrare in uno stato di
calma e a ricondurre il nostro intelletto dal suo vagabondaggio».
Abbiamo paragonato la tecnica respiratoria degli
esicasti athoniti alla disciplina del soffio dello yoga
indù, il pranayama, che persegue
l'«unificazione» della coscienza e la preparazione alla meditazione. Se vi
fosse stata un'influenza dello yoga
indiano sul metodo degli esicasti, questo non potrebbe essere stato che
indiretto. Al contrario, si dice che i
parallelismi tra il dhikr musulmano e
il metodo di Niceforo siano sorprendenti.
Ma le somiglianze possono spiegarsi anche con
l'esperienza comune. In questo senso, scrive V. Solov’ev «la
respirazione è la condizione fondamentale della vita e il mezzo costante per il
nostro corpo di comunicare con il suo contesto. In vista della signoria dello
spirito sul corpo, è desiderabile che questa funzione fondamentale si trovi
sotto il controllo della volontà umana; di conseguenza, sorgeranno da lungo
tempo e dappertutto diversi metodi ascetici che riguardano la respirazione».
La localizzazione dell'attenzione nella parte superiore del cuore
Lasciamo ai medici e agli psicologi di giudicare che
cosa produce nei nostri sentimenti un'attenzione fissata su certi «centri» del
corpo. Contentiamoci di segnalare l'esperienza (unita talvolta a
delle teorie discutibili) tradizionalmente ripresa dagli autori spirituali.
«Bisogna
vegliare perché la preghiera agisca nella parte superiore del cuore, là dove si
trova, secondo l'insegnamento dei Padri, la potenza spirituale e dove, di
conseguenza, deve compiersi la nostra liturgia interiore».
«Il cuore umano
ha la forma di un sacco allungato che si allarga verso l'alto e si restringe in
basso. È fissato dalla sua estremità superiore che si trova al livello della
sinistra del petto, mentre la sua parte inferiore, che discende fino al basso
delle costole, è libera; quando essa si mette in movimento, questa oscillazione
si chiama battito del cuore. Sono in molti a non avere nessuna nozione
sull'anatomia del cuore e a pensare che esso si trovi là dove sentono il suo
battito. Intraprendendo di loro iniziativa a praticare la preghiera del cuore,
dirigono il loro soffio verso questa parte del cuore; ciò ha per effetto di
provocarvi un riscaldamento carnale e di intensificare considerevolmente i
battiti. Tutto questo fa loro realizzare uno stato spirituale incorretto e li
tuffa nell'illusione».
«La potenza
spirituale o lo spirito dell'uomo si trovano nel petto, più esattamente nella
parte superiore del cuore; nella parte centrale si trova la potenza dello zelo;
nella parte inferiore, la potenza del desiderio o concupiscenza naturale».
«E’ utile tenere
la mano sinistra sul petto, sul seno sinistro, leggermente più in alto. Questo
gesto aiuta a percepire la potenza spirituale che si trova localizzata nel
petto».
Si rimprovera talvolta agli esicasti di aver
introdotto nei testi che parlano dell'«attenzione al cuore» una confusione per
quanto riguarda l'uso delle parole. Il «cuore» ha presso gli orientali un
significato complesso, ma esclusivamente metaforico. Allora perché insistere
per una concentrazione sull'organo materiale? Coloro che studiano il metodo
esicasta dal punto di vista psicologico e medico giustificano scientificamente una
«localizzazione dell'attenzione». Ma questa tendenza «sapiente» si manifesta
già con Gregorio Palamas. Certe delle sue
considerazioni sono filosofiche, altre psicologiche. Egli dice che si deve
distinguere lo spirito stesso dalla sua energia o operazione. Lo spirito
ha la sua sede nel cuore, ma per la sua operazione tende ad andare fuori sugli
oggetti sensibili. Occorre far cessare
questo stato di dispersione riconducendolo da fuori a dentro, nel cuore.
Dopo il suo «rientro in sé», lo spirito agisce in se stesso e si vede lui
stesso in una specie di movimento circolare.
È facile constatare che il rallentamento del soffio
favorisce il raccoglimento. Perché, allo scopo di aumentare l'efficacia del
processo, si avrebbe un grande profitto a fissare il proprio sguardo sul
petto?, si domanda Palamas. E risponde: l'uomo
interiore è portato a modellarsi sull'uomo esteriore. Adottando una posizione
corporale inclinata, che è conforme al movimento circolare che si cerca di
imprimere al proprio spirito, si rinvia
verso l'interno l'energia dello spirito che altrimenti scorre con la vista
verso l'esterno.
Teofane il Recluso, che si
appoggia su delle semplici osservazioni personali, dice solo che gli organi
corporali seguono naturalmente l'attenzione interiore: la tensione dei muscoli
si concentra in qualche maniera sul cuore, gli occhi non portano fuori il loro
sguardo. Non è facile, aggiunge, prescrivere né descrivere questo sforzo.
Si può tuttavia indovinare il motivo spirituale per il
quale gli esicasti erano attaccati a questa pratica. La «preghiera pura», come la concepiva Evagrio,
rinuncia a tutte le forme e a tutti i pensieri per gustare la sola presenza di
Dio dentro l’uomo. Ma la coscienza umana è necessariamente legata a qualche
simbolo. Il battito del cuore non può forse diventare un segno eloquente di
questa presenza del Salvatore nell'uomo?
Il Pellegrino russo
Si può seguire il metodo del Pellegrino russo tappa
per tappa nei Racconti. La narrazione comincia ponendo il problema
capitale che preoccupava i monaci da sempre: la preghiera incessante. «Entrai in una chiesa a pregare durante la
liturgia. Stavano facendo la lettura, tratta dalla lettera ai Tessalonicesi, al
passo in cui è detto: pregate incessantemente (1Ts 5,16)»; «Queste parole mi si
radicarono nella mente e cominciai a pensare: come è possibile pregare
incessantemente, se ciascuno deve per forza preoccuparsi anche di tante altre
cose per il proprio sostentamento?» Dopo aver criticato gli
insegnamenti che si danno ordinariamente sulla preghiera come insufficienti, il
pellegrino incontra finalmente uno starec esperto
nella «preghiera di Gesù» secondo la Filocalia.
E si rivolge a lui.
Lo starec gli
dice: «l'incessante preghiera interiore
di Gesù è l'invocazione costante e ininterrotta del Divino Nome di Gesù Cristo,
fatta con il cuore e la mente nella consapevolezza della sua continua presenza
e nell'implorazione della sua misericordia, in ogni nostra attività, in ogni
luogo e in ogni momento, persino nel sonno... Essa si esprime con le parole: Signore Gesù Cristo, Figlio di
Dio, abbi pietà di me!
E chi praticherà questa invocazione proverà una grande consolazione e la
ripeterà sempre, e non potrà più vivere senza tale preghiera, che presto
sgorgherà da sola».
L'ideale è dunque tracciato, ma bisogna raggiungerlo a
poco a poco. Il primo grado è l'abitudine
a recitare la formula con la bocca, oralmente. Il pellegrino riceve
l'ordine di recitarla 3000 volte al giorno. «I primi due giorni mi sembrò piuttosto difficile, ma poi tutto divenne
più agevole; quando non pronunciavo queste parole, sentivo dentro di me la
necessità di ripetere ancora la Preghiera di Gesù». Poi lo starec gli ordina di recitarla 6000 volte al
giorno e infine 12000 volte.
Si abitua così bene che l'abitudine passa dallo stato della veglia a quello del
sonno. «Una volta, erano le prime ore
della mattina, fu come se la preghiera mi ridestasse». E il
pellegrino si sente felice e comincia a credere di essere già arrivato alla
preghiera incessante.
Ma deve fare un passo ulteriore: dalle labbra alla lingua («Smisi
di muovere le labbra e mi sforzai di dire la preghiera muovendo la lingua»).
Si trattò evidentemente di una cosa forzata. Arriva così l'ultimo grado, che
consiste, secondo la Filocalia, nel far
passare la preghiera dalla lingua al cuore:
«Immagina...
il tuo cuore e rivolgi ad esso i tuoi occhi, come se lo guardassi. Ascolta
attentamente con la mente i suoi battiti, l'uno dopo l'altro... Quando ti
sarai abituato a questo, comincia allora, sempre guardando interiormente il
cuore, a far coincidere a ogni suo battito una parola della preghiera. Al
primo battito dirai o penserai: Signore; al
secondo: Gesù; al terzo: Cristo; al quarto: abbi pietà; al quinto: di me. Ripeti molte volte questo
esercizio». |
Il metodo del pellegrino è dunque descritto in modo
preciso. Per esprimersi, la preghiera vocale utilizza una parola come simbolo.
Essa può evidentemente essere sostituita da un gesto, unito ad un pensiero
dalle leggi di associazione. Ora, se è
legata ai battiti del cuore e alla respirazione, la preghiera diventa
inseparabile dalla vita stessa. È così almeno che la
capisce il pellegrino. E vi trova la sua felicità e la soluzione ai suoi
problemi.
I fenomeni naturali che seguono la pratica del metodo
Nella conclusione del primo racconto, il Pellegrino
russo racconta quello che «succede in lui».
«Così fino ad oggi». Esperienze
simili sono attestate da altri devoti della preghiera esicasta. Non è facile distinguere ciò che si
presenta come risultato della preghiera come tale, cioè l'unione dell'anima con
Dio, da ciò che si potrebbe attribuire ad una forte concentrazione mentale e da
ciò che deriva dal metodo. Tra i fenomeni più direttamente legati agli esercizi
psico-fisici si notano soprattutto le visioni della luce e una sensazione di calore.
Le controversie attorno al metodo
Le discussioni sul
valore del metodo sono continuate fino ai nostri giorni. Non andrebbe
misconosciuto il suo interesse dal punto di vista della psicologia religiosa.
Abbiamo già ricordato come la tecnica degli esicasti athoniti
è stata paragonata allo yoga indù. Si sviluppano delle teorie sui rapporti
dell'attività psichica con il corpo e i suoi diversi centri. La
preghiera esicasta è inoltre avvicinata talvolta agli Esercizi spirituali di
Ignazio di Loyola, che danno una grande importanza al
contesto e alle attitudini corporali. Se certi insistono molto sulla
concentrazione corporea e sul potere di raccoglimento, altri cercano di
separare il metodo dalla sua materialità riducendo la relazione cuore-spirito a
qualche forma di simbolo.
Quale era il giudizio dei maestri spirituali in
Oriente.? Il metodo psicofisico è stato
certamente messo in pratica dagli asceti orientali. Ma in quale misura? Ci
sfuggono i fatti concreti. In cambio le testimonianze sommarie di autori
classici e dei maestri spirituali riconosciuti come tali riflettono
un'esperienza vissuta che è di grande valore. Le loro note, per la maggior
parte delle ammonizioni pratiche, si riassumono in alcuni punti.
1) Il metodo
fisico non è che una disposizione corporale che prepara alla vera preghiera
interiore del cuore che è, secondo Teofane il
Recluso, un dono di Dio ai cuori puri. Bisogna considerare i
fenomeni «fisici» come degli effetti «della natura» e non come una
manifestazione della presenza dello Spirito. «Certamente essi non sono solo qualcosa di semisensuale, come mi aveva
detto l'anziano defunto», scrive il Pellegrino russo. «Ciò si verifica naturalmente in seguito a una frequente preghiera
orale: a causa della mia indegnità e della mia mancanza di comprensione, non
oso ancora accostare la preghiera spirituale nel fondo del mio cuore».
2) Colui che ha imparato a discernere può utilizzare
con profitto l'atmosfera propizia per la preghiera senza distrazioni. Ma rimane
nondimeno che i maestri spirituali mettono in guardia che nel campo della «sensazione spirituale» i pericoli di illusione sono
gravi. Durante la pratica del metodo fisico, si è tentati di prendere per azione della
grazia «non solo le sensazioni carnali grossolane dell'uomo vecchio, ma anche
le sensazioni più sottili, talvolta estremamente fini, che provengono dal
movimento del sangue». I grandi maestri spirituali russi, come Paisij Velickovskij, riportano
che molti dei loro contemporanei si sono arrecati un danno facendo un cattivo
uso dei supporti fisici.
Ma si tratta di una pratica così complicata? Ignatij Brjancaninov dice
piuttosto il contrario: «L’attività spirituale più alta è
estremamente semplice. Per
adottarla, si deve avere una semplicità e una fede da bambini; ora, noi siamo
così complicati che proprio questa semplicità è il motivo per cui abbiamo
bisogno di un maestro che ci faccia uscire dalla nostra complessità..».
Trovare un buon padre spirituale è sempre stato
difficile. Anche Brjancaninov se ne lamentava: «capita spesso che dei maestri inesperti
prendano una funesta deviazione [di un discepolo] per un grande progresso».
Tuttavia la colpa non è sempre imputabile ai maestri, aggiunge. Si cade
nell'illusione anche durante la lettura dei libri patristici non ben compresi,
o anche per il contatto con i più grandi servitori di Dio e per l'ascolto della
loro santa dottrina, se la presunzione rende l'anima impermeabile al
pentimento.
3) La
distinzione tra la realtà «fisica» e quella «spirituale» serve a prevenire la
confusione. Palamas aveva tuttavia ragione ad
insistere sulla loro compenetrazione,
frutto della divinizzazione. Il sensibile è allora come simbolo, come
partecipazione allo spirituale. Giudicare da questo punto di vista i casi
concreti esige evidentemente una prudenza straordinaria. Ma non bisogna
rigettare a priori come illusione o aberrazione tutte le esperienze fatte dai
«santi esicasti» di cui Palamas prende le difese.
C'è stato bisogno di una spiegazione soprattutto sul
doppio effetto di cui si parla spesso: le sensazioni luminose e il calore.
La doppia luce
Nell'insegnamento degli esicasti, la cristofania della Trasfigurazione era la
manifestazione dell'umanità divinizzata e penetrata dalla luce divina. Il
metodo fisico conduce alla visione della luce? Bisogna «fidarsi» di questa
visione? E’ su questo punto che gli antipalamiti attaccarono gli esicasti
accusandoli di serie aberrazioni. Questi rispondevano con una distinzione, in
principio assai semplice: la luce divina
è spirituale e interiore, non sensibile ed esteriore. Ma Palamas aggiunge che questa visione spirituale non esclude
qualche riflesso sui sensi corporali: «Si
vede che questa luce, contrariamente alla concezione che se ne fanno il Calabro
Barlaam e i latini, non è fisica, ma spirituale, che
apre gli occhi dell'anima e che è contemplata da essi, benché nello stesso
tempo agisca anche sugli occhi del corpo, come sappiamo da san Paolo (cf At 9,3)
Il doppio calore
Il metodo fisico produce alla fine di un certo tempo
un calore interno. Come gli altri, anche Teofane il
Recluso mette in guardia contro coloro che vorrebbero identificare queste
manifestazioni naturali con la grazia di Dio. Egli non crede
tuttavia che il calore come tale sia un male, se dà una sensazione di benessere
nel freddo di una cella monastica. Ignatij Brjancaninov è più severo. Per lui, è meglio liberarsene
per non confonderlo con il vero calore dello spirito.
«Quando si fanno
degli sforzi corporali considerevoli per giungere alla preghiera del cuore, un calore
comincia a diffondersi nel cuore... Bisogna prendere delle precauzioni
raddoppiate fin dal suo apparire. Esse sono necessarie perché questo calore,
essendo quello del sangue, non si diffonda solo nelle diverse regioni del
petto, ma possa anche assai facilmente discendere nelle parti inferiori del
ventre e provocarvi una eccitazione assai violenta».
Abbiamo già ricordato come Brjancaninov
raccomandi di bagnarsi con acqua o di applicare delle pezze bagnate sulle parti
del corpo dove si produce un afflusso di sangue. Ma «l'acqua deve essere
tiepida, mai troppo fredda, altrimenti aumenta il calore». Sono
addirittura le attività «intellettuali» a provocare in certi individui la
febbre: la grazia «spirituale» è un'altra cosa: «Quando la grazia di Dio copre con la sua ombra l'asceta della preghiera
e comincia ad unire in lui l'intelletto al cuore, il calore materiale del
sangue sparisce totalmente. L'atto della preghiera cambia allora completamente:
diventa per così dire naturale, assolutamente libero e facile. Allora si
manifesta nel cuore un altro calore, sottile, immateriale e spirituale... esso
suscita un inesprimibile amore di Dio e degli uomini».
Antico simbolo della sede della vita dell'anima, il
sangue e la sua circolazione hanno un'importanza capitale per l'equilibrio
della salute. Ciò che gli esicasti cercano di evitare è l'agitazione del
sangue, segno dei movimenti carnali. «Grazie
agli influssi spirituali, quelli del sangue sull'anima sono definitivamente
superati; il sangue entra nel compimento della sua funzione naturale in seno al
composto corporeo, avendo cessato di servire, opponendosi alla sua destinazione
originale, come strumento del peccato e dei demoni. Lo Spirito Santo riscalda
l'uomo spiritualmente, coprendo di rose e di freschezza la sua anima fino ad
allora familiarizzata solo con l'agitazione del sangue».
Osservazioni finali
Tutte le professioni e tutte le attività umane
organizzano prima o poi la loro disposizione secondo le necessità o l'utilità
dello scopo che esse perseguono. Sarebbe strano che la vita religiosa sfuggisse
a questa legge. L'eremitismo, il monachesimo,
l'esicasmo classico sono nati dalla preoccupazione di rispondere alle esigenze
della preghiera o di allontanare le distrazioni e le loro cause. Dal momento
che la preghiera è un dialogo con Dio, due considerazioni determineranno il suo
«contesto», come il suo «comportamento fisico»: il rispetto per il Dio che è
pregato e la psicologia dell'uomo che prega. Entrambi si uniscono spesso nella
realtà, ma spesso anche si separano o l'una vince sull'altra.
Il monachesimo orientale, con il suo ideale di
preghiera «pura», continua, è più impegnato nella seconda
direzione. In questa scelta, il rispetto
di Dio e della sua volontà è evidentemente, per un certo aspetto, in ultima
analisi principale; ma praticamente, e per la coscienza limpida, ciò che si
afferma di più è l'aspirazione ad uno stato di preghiera caratterizzato da un
insieme di elementi psicologici e sperimentali. Con delle sfumature diverse
e a gradi diversi, il monachesimo universale si dà per scopo delle esperienze
di questo genere. Diciamo «monachesimo universale», termine che può convenire
ad un gran numero di pratiche, dallo «yoga» indù fino agli Esercizi di
Ignazio di Loyola.
Tra i pericoli che minacciano l'uomo spirituale
nell'utilizzazione di un metodo, il più insidioso è il seguente: che sotto la preoccupazione di essere
scrupolosamente fedele al suo metodo, questo sia messo così al centro della
propria attenzione da dimenticare il rispetto dovuto al Dio che si prega e la
ricerca della sua volontà. Allora il dialogo con Dio degenera in un monologo
e, se si continua a chiamare una tale meditazione «trascendentale», è una
contraddizione in termini.
Inoltre, una
mentalità tecnica e «ragionatrice» si libera difficilmente dalla tendenza a
pensare secondo «la causa efficiente»; ci si domanda dunque che cosa possa causare
il controllo della respirazione, la ripetizione di una formula, ecc. Così si abbassano i metodi a mezzi puramente
psicologici e si trascura il loro carattere spirituale. In Oriente, al contrario, si ama
considerare le cose sotto l'aspetto della «causa esemplare» e, davanti a ciò
che succede, ci si domanda piuttosto che cosa questo significa.
Tale atteggiamento è fondamentale per l'uso dei metodi
della preghiera; gli elementi che mettono in opera giocano solo il ruolo di
«immagini sacre» che si superano continuamente per andare dal typos all'Archétypos,
nel dialogo con Dio Padre a cui è rivolta ogni preghiera. Se vi è il pericolo di una idolatria nelle
impressioni sensibili e nelle idee dell'intelletto, l'idolatria del proprio
corpo è la più nefasta, ed è facile cadervi. Grazie alle consolazioni
sensibili si immagina simbolicamente lo stato di una unione intima con Dio. Ma se la vita morale non va di pari passo
con il grado della preghiera, questa incoerenza produrrà una specie di
schizofrenia spirituale, cioè di follia, denunciata dallo pseudo-Simeone. «Finché non si è purificati e rinnovati dallo Spirito, scrive Ignatii Brjancaninov la prudenza consiste nel non riconoscere
come corretta nessuna sensazione, nessun sentimento del cuore tranne il
sentimento del pentimento, la salutare afflizione per il peccato, misto alla
speranza nella misericordia di Dio».
Le deviazioni e i pericoli non dovrebbero tuttavia
scoraggiare coloro che quaggiù cercano di ritrovare
l'armonia primordiale tra lo spirituale e il materiale, la divinizzazione
dell'uomo intero. Cassiano ha tracciato questo
ideale: «Tale deve essere lo scopo del
solitario, ciò a cui deve tendere ogni suo sforzo: meritare di possedere in
questa vita una immagine della beatitudine futura, e di avere come
un'anticipazione, nel suo corpo mortale, della vita e della gloria del cielo».