LA
PREGHIERA NEL MONACHESIMO LATINO ANTICO
E NELLA REGOLA DI S. BENEDETTO[1]
ADALBERT DE VOGÜÉ
Le regole monastiche antiche si sono
ispirate alla sacra scrittura, in modo speciale all’Evangelo, in quanto la
Bibbia è considerata norma diretta per giungere a Dio (RB LXXIII,
3)[2]. Esse però sono
debitrici anche alla tradizione cattolica testimoniata dai padri ortodossi:
«Per chi ha fretta di giungere alla perfezione della vita religiosa, esistono
gli insegnamenti degli antichi padri, la cui osservanza può condurre l’uomo al
grado più alto della santità. Quale pagina, infatti, o quale parola dell’antico
o del nuovo testamento, scritta sotto l’ispirazione di Dio, non costituisce per
la vita dell’uomo la più retta delle norme? O quale libro dei santi padri della
chiesa cattolica non è un grido che ci spinge a percorrere la via diritta che
conduce al nostro Creatore?» (RB LXXIII, 2-4).
1. Le
fonti
Per quanto concerne la preghiera, il
NT, in particolare, raccomanda di pregare
continuamente, senza stancarsi (Lc 18, 1; ITs 5,
17) e mostra Gesù e gli apostoli, assidui alla preghiera. Per tale ragione i
padri e i maestri dei monaci inculcano la necessità della preghiera personale e
determinano con norme precise lo
svolgimento della preghiera comunitaria.
a) Cassiano sotto l’influenza di Tertulliano
Fra i più insigni teorici della
preghiera nel mondo monastico d’occidente, deve essere citato innanzi tutto
l’abate di Marsiglia, Cassiano.
Uno dei suoi grandi meriti consiste nell’aver studiato successivamente le due
grandi forme della preghiera, legandole l’una all’altra: l’ufficio comune (Inst. II-III) e la preghiera personale (Conl. IX-X). Seguendo lui, noi distingueremo questi
due tipi di preghiera, non senza rilevare come lui le loro interferenze. Un
altro tratto interessante della dottrina di Cassiano
è che ha origine non solo dall’insegnamento del suo maestro Evagrio,
ma anche dalla tradizione occidentale dei trattati sulla preghiera. Come i suoi
contemporanei Gerolamo, Pelagio e Agostino, l’abate
di Marsiglia dipende dal più antico trattato, il De Oratione
di Tertulliano già così visibilmente imitato da
Cipriano nel suo De Oratione Dominica. Bisogna
sottolineare in particolare ciò che tutti questi autori latini devono a una
pagina fondamentale del trattato di Tertulliano (De
Orat. XXIV-XXV), quella nella quale il prete
Cartaginese si interroga sul tempo che un cristiano deve dedicare alla
preghiera. Costatando che il NT non da che una regola «Pregate senza
interruzione» (Lc 18,1; ITs 5,17), egli raccomanda
tuttavia la pratica già in uso tra i fedeli ferventi di celebrare, oltre le
preghiere «obbligatorie» del mattino e della sera, le ore di terza, sesta e
nona. Oltre ai grandi ricordi biblici che vi si trovano, queste ore hanno il
vantaggio di richiamare – a intervalli regolari – il dovere di pregare senza
interruzione che esse permettono di riempire in maniera almeno incoativa,
aperta a una realizzazione più continua.
b) Pregare
continuamente
Questa riflessione di Tertulliano sui tempi della preghiera, il cui equivalente
appare in oriente in Clemente, Origene, Basilio, è in
occidente all’origine di una problematica comune che si ritrova in tutti gli
scrittori del IV e V secolo che si sono interessati alla questione: dovunque i
momenti dell’orazione o della lettura, riservati a Dio ogni giorno, sono messi
in rapporto con il richiamo scritturistico a pregare o a meditare senza
interruzione.
Così la preghiera discontinua delle ore appare come un surrogato della
preghiera continua. Anche quando la prima è assicurata da un ufficio
comunitario, come è il caso dei cenobiti di cui parla Cassiano
(Inst. II-III), la seconda rimane comunque la norma suprema verso la quale tende tutta
la vita monastica (Conl. IX, 2, 1). Questo
ideale di preghiera incessante è particolarmente in onore presso gli eremiti (Conl. I, Praef. 5), ma
certe forme cenobitiche più vicine alla vita solitaria, nelle quali gli uffici
comuni sono rari, giungono a un alto grado di essa (Inst.
II, 2) e l’ufficio cenobitico di tipo corrente, col suo ciclo di sette
celebrazioni quotidiane, ne è una bella e utile approssimazione (cf. Inst. III, 3, 8).
2. La
preghiera comune
Se il ciclo delle ore dell’ufficio ha origine dall’ascetismo premonastico di un Tertulliano o
di un Cipriano, la sua adozione dai cenobiti del IV e V secolo gli ha impresso un carattere nuovo. Da private e
spontanee che erano, le celebrazioni diventano comuni e obbligatorie, mentre il
loro contenuto più o meno indeterminato finora, prende la forma precisa di un ordo immutabile.
In pratica questo ordinamento
dell’ufficio comporta ovunque due
elementi di base: il salmo e
l’orazione, la cui alternanza costituisce la trama di ogni celebrazione.
Dopo ogni salmo, ci si ferma per pregare in silenzio. Conclusa o no da una
preghiera del presidente, questa
preghiera silenziosa di tutti i presenti, è l’elemento più importante
dell’ufficio, quello che gli procura il nome di preghiera (oratio). Quanto
alla recita dei salmi, non è – nel linguaggio proprio – una preghiera, ma
piuttosto una preparazione e un invito alla preghiera. Inteso come parola
di Dio, il salmo suscita in risposta, nel tempo di orazione che segue, la
preghiera propriamente detta. Una omelia di Cesario
di Arles, indirizzata ai laici (Serm.
LXXVI, 1), è per noi la miglior spiegazione di questo senso, dato allora da
tutti, secolari e monaci, alla coppia salmo-orazione, di cui l’ufficio
monastico ha sfortunatamente perduto molto presto e fino ai nostri giorni il
secondo e principale elemento.
Ai salmi e alle
preghiere si son aggiunti, a poco a poco, altri elementi, come letture e inni, mentre la stessa salmodia si caricava di
antifone più o meno estese. Si può seguire questa evoluzione nelle regole
monastiche antiche, un buon numero delle quali contengono una sezione che
regola l’ufficio. La più antica legislazione che abbiamo conservato, l’Ordo Monasterii,
attribuito ad Agostino, inizia così con direttive per la preghiera comune del
giorno e della notte. Dopo Cassiano, che segue
l’ordine inverso (prima l’ufficio notturno di dodici salmi, secondo il costume
egiziano, poi gli uffici diurni di tre salmi secondo il canone siriaco), le
piccole regole galliche del V secolo originariamente di Lérins, le così dette Regulae Patrum, ci
lasciano sfortunatamente ignorare il modo in cui l’ufficio era celebrato e
dobbiamo attendere Cesario e Aureliano in Provenza,
il Maestro e Benedetto in Italia per trovare descrizioni dettagliate su ciò.
Malgrado questo vuoto di circa un
secolo tra Cassiano e Cesario,
una continuità evidente collega l’ufficio dei monaci gallici, criticato dal
primo, e quello descritto dal secondo. Da entrambe le parti il numero dei salmi è enorme e non fa che
aumentare nel passaggio da Cesario al suo
successore Aureliano. La critica di Cassiano non ha
avuto dunque, come sembra, alcun effetto sul posto: nessuno è profeta in
patria. Al contrario le regole italiane del Maestro e di Benedetto, tutte e due
tributarie di una pratica monastica romana, prescrivono il numero dei salmi
ridotto, che Cassiano, in nome della tradizione
egiziana e orientale, aveva così insistentemente raccomandato. Dal Maestro a Benedetto questo numero di
salmi tende ancora a diminuire per un movimento esattamente inverso a
quello che si osserva in Provenza.
La preghiera comune occupa dunque un
posto molto diverso nella giornata del monaco, secondo come si vive in Gallia o
in Italia. Nel primo caso, assorbe una gran parte del tempo. Nel secondo lascia
più spazio agli altri due elementi costitutivi dell’orario monastico: la lettura
e il lavoro, essendo l’una e l’altro interrotti da preghiere brevi e frequenti.
Se le piccole regole galliche del V
secolo non ci informano sull’ordo
dell’ufficio, per lo meno hanno coniato la formula celebre «non preferire niente alla preghiera»,
che diventerà, sotto una forma leggermente modificata, «niente preferire all’opera di Dio», uno degli assiomi della regola
di s. Benedetto (RB XLIII, 3). Tenuto conto del contesto che ne limita la
portata – si tratta semplicemente di
lasciare qualunque occupazione per rispondere al segnale dell’ufficio –
questa massima attribuisce alla preghiera comune una specie di primato
nell’osservanza cenobitica. La stessa priorità è affermata in altri passi della
regola benedettina. Contrariamente al Maestro che trattava dell’ufficio
abbastanza tardi (RM XXXIII-XLIX) nel mezzo di una revisione generale degli
incarichi e delle occupazioni conventuali, Benedetto colloca l’ordo officii all’inizio
della parte pratica della sua regola (RB VIII-XX) subito dopo la parte
spirituale alla quale la collega con un aggancio molto evidente (cf. RB XIX, 1-2 e VII, 10-30). Ugualmente, è in primo luogo
che parla dello «zelo per l’opus Dei», quando indica i tre criteri dai quali si riconoscono le
vocazioni autentiche (RB LVIII, 7). È d’altra parte significativo che
un’espressione così generale – l’«opera di Dio» nel NT significa tutta la vita
di fede e di carità del cristiano – sia venuta ad indicare specialmente la
preghiera comunitaria dell’ufficio.
Questa promozione dell’ufficio al primo rango delle attività monastiche
appare ancora quando si segue l’evoluzione di certi temi come quello della
prontezza del monaco a rispondere ai richiami della campana. In una pagina
celebre (Inst. IV, 12) Cassiano
aveva mostrato il cenobita egiziano che rispondeva immediatamente, lasciando,
all’occorrenza, incompiuta una lettera che aveva iniziato a scrivere, ad ogni
segnale che annuncia un’attività comune, sia la preghiera che il lavoro. La
medesima descrizione è ripresa un secolo dopo dal Maestro e Benedetto (RM
LIV; RB XLIII, 1-3), ma in essi l’applicazione si restringe: il segnale
al quale il monaco obbedisce immediatamente è solo quello dell’ufficio.
L’opposizione non è più tra attività privata e attività comune, ma tra lavoro e
preghiera, tra profano e sacro. L’ascesa
di prestigio dell’ufficio è andata di pari passo con una certa svalutazione
delle altre occupazioni monastiche, il cui rapporto con l’ideale della
preghiera continua diveniva meno stretto e meno evidente.
Le correnti monastiche galliche e
italiane, delle quali abbiamo abbozzato la storia divergente nel VI secolo, non sono le sole che devono essere menzionate.
Nella stessa Gallia appare, nel secondo decennio del VI
secolo, un nuovo fenomeno destinato a uno sviluppo importante: la laus perennis. È ad Agaune (oggi
S. Maurizio in Valais) che il burgundo Sigismondo e i
vescovi del suo regno instaurano nel 515 questa celebrazione perpetua della lode divina da numerose turmae
o gruppi di monaci che si succedono in coro senza interruzione giorno e notte.
Si potrebbe non vederci che una
esasperazione della tendenza prolissa dell’ufficio gallico. In effetti è
intervenuta un’altra influenza: quella orientale. Un secolo prima, gli acemeti,
comunità di origine siriaca, avevano iniziato a cantare a Dio perpetuamente in
un monastero alle porte di Costantinopoli e le relazioni del regno burgundo con
Bisanzio ci fanno pensare che questo modello grandioso era davanti agli occhi
dei fondatori di Agaune, così come un altro modello
orientale, la regola dell’angelo donata a Pacomio,
imponeva al monachesimo italiano contemporaneo, per mezzo di Cassiano, l’assai sobrio canone di 12 salmi alle vigilie e
di tre salmi alle ore del giorno.
Mentre la laus
perennis si propagava in numerosi grandi
monasteri merovingi maschili e femminili, la preghiera regolare ha conosciuto
un altro sviluppo impressionante in
Spagna. Secondo Fruttuoso di Braca, i monaci devono celebrare non solo le 8
ore canoniche osservate comunitariamente, ma anche sette uffici intermedi di carattere privato[3],
in modo che nessuna delle 12 ore del
giorno passi senza una preghiera della regola. Da parte sua, il monachesimo
irlandese, propagatosi nel continente, vi ha introdotto una quantità di
salmodie considerevoli, almeno all’ufficio notturno. Nelle due grandi notti, del sabato e della domenica, in inverno, la
regola di Colombano fa recitare tutto il salterio.
Con un simile numero di salmi, non fa meraviglia che l’orazione silenziosa
diminuisca, come si costata nelle regole successive di Colombano
e del suo discepolo Donato. Originariamente
destinata a nutrire l’orazione, la salmodia ha finito per divorarla.
Come la lode perpetua degli acemeti e il canone egiziano dei dodici salmi, l’aspirazione a una preghiera personale
incessante è un fatto orientale che non è rimasto senza effetto o parallelo in
occidente. Senza che si possa parlare precisamente di influenza, si trova
qualcosa di analogo a Marmoutier alle porte di Tours, dove gli
ottanta monaci, riuniti attorno a Martino, «si dedicano all’orazione» tutto il
giorno senza lavorare, eccetto i più giovani (Sulpicio
Severo, Vita Martini X). Un po’ più tardi, verso il 400, i monaci di Cartagine sono turbati da individui che esaltano la
disoccupazione per dedicarsi senza sosta ad occupazioni puramente spirituali
(Agostino, De opere monachorum). Alla fine del
V secolo un monaco siriano di nome Isacco arriva a Spoleto e fa colpo
perseverando in preghiera giorno e notte (Gregorio, Dial.
III, 14).
Di fronte a questi
eccessi, il monachesimo latino ha elaborato, nella linea dei migliori autori
orientali, una dottrina equilibrata del lavoro e della preghiera, fondata
principalmente su alcuni passi paolini che sostengono l’ideale dell’orazione
perpetua, esigendo però che il monaco si sforzi di guadagnarsi la vita col
lavoro. Anche su questo punto Cassiano è forse il
miglior interprete del pensiero comune (Inst.
X). Anche quando scrive il sublime trattato della preghiera per gli eremiti, vi
inserisce alla fine una raccomandazione del «lavoro incessante» (Conl. X, 14).
Per lui, tra lavoro e preghiera non c’è contrasto. A condizione di mantenersi nei limiti del necessario (Conl. IX, 5-6), il lavoro è un aiuto per la
preghiera, perché assicura la stabilità del monaco e permette al suo spirito di
concentrarsi. Lavorare con le mani recitando le Scritture, è questa la doppia
attività incessante del cenobita egiziano che gli procura la sua qualità
contemplativa eccezionale (Inst. II, 14; cf. II, 12, 2 e III, 2). Effettivamente è indispensabile
«meditare» cioè recitare la Scrittura imparata a memoria, pur lavorando. Questa «meditazione», nel corso del lavoro,
prolunga il tempo della lettura quotidiana – in genere tre ore – e assicura
l’ascolto continuo della parola di Dio. A questa il monaco risponde con brevi
orazioni, fatte così spesso, come il suo cuore detta e il lavoro permette.
La giornata monastica è così di una
unità perfetta. Dal mattino alla sera il monaco ascolta Dio che gli parla, e a
sua volta gli parla rispondendogli. Questo
dialogo continuo ha luogo tanto durante le tre ore di lectio, quanto nel
corso del lavoro manuale, nell’andare e nel venire, nei piccoli fatti e
nelle azioni della vita corrente. Come l’operaio porta con sé un transistor, il
monaco ha senza sosta alle orecchie e nel cuore la parola divina per
rispondergli ad intervalli nella preghiera.
Questa unificazione della vita
monastica per il dialogo con Dio è ancora più evidente se si prendono in
considerazione l’ufficio e il pasto. L’«opera
di Dio», l’abbiamo detto, è fatta di salmi e di orazioni. Come dire che
la struttura dell’ufficio è identica a quella dei tempi della lectio divina
e del lavoro accompagnato da «meditazione». L’ascolto della parola divina,
che sia letta, recitata o salmodiata, precede e suscita sempre la risposta
della preghiera. In questa trama uniforme gli
stessi pasti non provocano un’interruzione: mentre i corpi si ristorano, la
lettura fatta ad alta voce nutre le anime con la parola di Dio. La vita
monastica è dunque semplice. Secondo il significato più profondo del nome
monaco (deriva da mónos = uno), essa si
unifica in un dialogo continuato dell’anima con Dio. L’abate Isacco, portavoce
di Cassiano, l’aveva detto bene in una frase
stupenda, il cui tenore letterale è intraducibile: «Tutta la finalità del monaco, tutta la perfezione del suo cuore è
tendere alla preghiera continua, ininterrotta» (Conl.
IX, 2).
c) Unità della preghiera personale
e della preghiera comune
Lo stesso carattere di unità si
imprime nei diversi modi della preghiera monastica. Per gli antichi preghiera
comune e orazione privata non differiscono in maniera profonda. L’orazione
personale e silenziosa era al centro della prima, mentre la recita della
Scrittura sosteneva la seconda.
L’opposizione che noi conosciamo oggi
tra recita corale dell’ufficio e orazione privata non esisteva. Non si
immaginava che l’ufficio comune potesse consistere semplicemente nel recitare
senza sosta testi biblici: ogni salmo doveva essere seguito da un tempo di
preghiera in silenzio. Non veniva nemmeno in mente che la preghiera privata
potesse nascere senza il soccorso della parola divina: ogni orazione era
normalmente suscitata da un testo biblico letto o recitato.
Da questa coppia inseparabile, vero
ritmo respiratorio della preghiera antica, si trova una espressione completa in
due massime consecutive dell’«arte spirituale» del Maestro o degli «strumenti delle buone opere» di
Benedetto: «Lectiones sanctas
libenter audire – Orationi frequenter incumbere» (RM III, 61-62; RB IV, 55-56). «Ascoltare
volentieri le sante letture» conduce
a «prostrarci frequentemente per pregare».
Illuminate dalle molteplici formule analoghe che si trovano in Gerolamo e in Cesario d’Arles, queste due
massime riassumono bene ciò che si può chiamare il metodo dell’orazione del
monachesimo primitivo. Menzionate sole qui, le «letture» sono sostituite dalla
«meditazione» durante il lavoro e dalla «salmodia» durante l’ufficio. Queste
tre maniere di ascoltare Dio provocano tutte la medesima risposta: quella di
preghiere, relativamente brevi, ma più frequenti e ferventi.
La concisione è in
effetti, agli occhi dei monaci antichi, una delle note della preghiera
autentica, conformemente al precetto dell’Evangelo (Mt 6, 7). Ma Cassiano le associa la frequenza (Inst. II, 10,
3; Conl. IX, 36, 1) e Benedetto la purezza (RB XX, 4). Per quest’ultimo d’altronde, non è
vietato pregare più a lungo quando ci si sente spinti dalla grazia divina.
Senza menzionare questa, Agostino aveva mostrato che la preghiera prolungata,
fatta di lacrime più che di parole, non va contro il divieto evangelico del multum loqui (Ep. CXXX, 20).
Cassiano e Benedetto
raccomandano inoltre di pregare a voce bassa (Inst.
II, 10, 2; Conl. IX, 35; RB LII, 4) e il primo
con numerosi esegeti dell’antichità fonda questa raccomandazione sul precetto
di «chiudere le porte», quando si
prega (Mt 6, 6). La «compunzione» e le «lacrime» accompagnano anche la
preghiera ogni volta che Benedetto parla di questa (RB XX, 3; XLIX, 4; LII, 4).
Menzionate in qualche grande racconto di preghiere bibliche (ISam 1, 10; Is 38, 3) e
accuratamente studiate da Cassiano (Conl. IX, 27-30), le lacrime assolvono agli occhi degli antichi un ruolo importante nella
vita dell’orazione, testimoniando che il cuore è stato colpito dalla parola
divina e produce a sua volta parole vere. Del resto, la «compunzione del
cuore» non prelude alla conversione e non è stato il frutto della prima
predicazione apostolica? (At 2, 37). Come gli uditori di Pietro la mattina di
Pentecoste, i monaci che sentono la voce di Dio nella Scrittura, devono «averne
il cuore trafitto» e rispondere pregando con le lacrime[4].
[1] Cf. A. de Vogüé, Prière
dans le monachisme occidental primitif, vol. VI del «Dizionario degli istituti di perfezione», Roma.
[2] La sigla RB indica la regola di s. Benedetto (Regula
Benedicti), mentre la sigla RM indica la regola
del Maestro (Regula Magistri).
[3] Ora seconda, quarta, quinta, settima, ottava,
decima e undicesima.
[4] Cf. C. Butler, Western Mysticism, London 1926; A. de Vogüé, Orationi frequenter incumbere. Une invitation a la prière continuelle, in RAM 41 (1965), 467-472; Id., La Règle de saint Benoît, VII: Commentaire doctrinal et spirituel, Paris 1977, 184-240. 338-359; Id., Lectiones sanctas libenter audire. Silence, lecture et prière chez saint Benoît, in «Benedictina» 27 (1980), 11-26; Id., La Règle de saint Benoît et la vie contemplative, in Saint Benoît sa Vie et sa Règle. Études choisies, Bellefontaine 1980.