Una
tristezza corrosiva del desiderio di Dio
(Dom Bernardo Olivera ocr)
Mi affretto a dire subito che non è facile parlare
dell’accidia: si tratta di un’esperienza
complessa, molto più della golosità, della lussuria, dell’avarizia,
dell’ira, della tristezza o dell’orgoglio. Per questo è importante chiarire
innanzitutto il punto di vista in cui ci poniamo. Di fronte al fenomeno e
all’esperienza dell’accidia, ci possono
essere almeno, quattro opinioni diverse. Vediamole nella loro estrema
semplicità:
• Un medico
potrebbe diagnosticare uno scompenso di energia di natura organica.
• Uno psicologo parlerebbe di
un quadro depressivo dovuto a cause endogene o traumatiche.
• Un moralista penserebbe che
potrebbe trattarsi di un peccato la cui gravità dipende dalla piena coscienza e
dalla volontà deliberata
• Un padre spirituale
potrebbe forse discernere se si tratta o no di uno degli otto Logismoi (pensieri) che tentano coloro che cercano
Dio con tutte le forze del loro cuore.
Tutte queste persone si trovano di fronte allo
stesso fenomeno e ciascuna esprime la propria opinione a partire dal proprio
punto di vista. In parte, tutte hanno
ragione, ed è per questo che, nel
discernimento di un caso specifico, è necessario tener conto tutti gli aspetti
che sono stati segnalati. In una cultura come la nostra, tanto marcata dalla
psicologia, è forse necessario ricordare la realtà del male, oggettiva e
personalizzata, ostile e lucida, che chiamiamo demonio o satana.
La mia angolatura si pone nella prospettiva della
spiritualità, intesa come fede incarnata e vissuta. Considero quindi l’accidia come un male che interferisce, blocca e fa
deviare.., dalla ricerca e dall’incontro con Dio. L’accidia mina la perseveranza nella vita cristiana e monastica. È
duro e triste riconoscerlo, ma più di un abbandono della vita consacrata ha
inconsciamente come causa questo vizio corrosivo.
Mi pongo,
inoltre, nel contesto del combattimento spirituale,
nell’ambito dell’ascesi monastica che conduce alla purezza del cuore nel nostro
pellegrinaggio verso la vera patria, il cuore del Padre.
Comincerò accogliendo la tradizione relativa ai «vizi o peccati
capitali» in generale e all’accidia in particolare. Cercherò quindi di sottolineare alcuni aspetti della
tradizione e, forse, di arricchirla, per poterla trasmettere soprattutto ai
più giovani.
1. La tradizione che
abbiamo ricevuto
1.1.
I peccati capitali
I monaci del deserto di Egitto ci hanno insegnato
che ci sono delle tendenze disordinate
da cui derivano delle altre, come da una fonte. Siamo così agli inizi della
dottrina tradizionale sui «peccati capitali».
Evagrio il Pontico (+ 399) fu
il primo a sistematizzare questa dottrina: egli parla così di otto pensieri o tendenze viziose, che
l’eremita deve affrontare e sconfiggere. Giovanni Cassiano
(+ 425) ha tradotto questa dottrina nel contesto cenobitico occidentale.
Tutti conosciamo la sorte che ha avuto questa
classificazione di vizi o peccati capitali dopo le Istituzioni Cenobitiche di Cassiano. San Gregorio
Magno (+ 604) svolse un ruolo fondamentale in tale evoluzione. Gregorio
segue Cassiano, ma con qualche elemento specifico che
gli è proprio: cambia l’ordine dei vizi;
l’accidia scompare dall’elenco,
anche se alcune delle sue manifestazioni vengono incorporate alla tristezza; aggiunge l’invidia e toglie dall’elenco la superbia,
considerando che è la radice e l’inizio di ogni peccato. Segue in questo la
letteratura sapienziale secondo la versione della Vulgata: «Inizio di ogni
peccato è la superbia» (Sir 10,15). Più tardi, la vanagloria e l’orgoglio verranno fusi in un solo vizio e arriviamo
così alla lista tradizionale dei sette peccati capitali, che si è imposta in
occidente a partire dal secolo XIII. Giovanni Climaco
(+ 650) e Giovanni Damasceno (+ 749) trasmetteranno questa dottrina alle Chiese
di Oriente.
La tabella che segue intende chiarire quello che è stato appena detto.
Mi perdonerete la trascrizione del greco e l’uso del latino. Anche per quelli
che ignorano queste due lingue, quello che voglio dire sarà evidente.
Tra le liste
orientali e occidentali, le differenze sono di poca importanza. Di fatto,
l’invidia è una forma di tristezza a causa dei beni altrui. L’accidia è stata integrata alla tristezza
e si sottolinea la dimensione di pigrizia o di ozio malsano. Si può dire in
definitiva che il punto di vista degli
autori latini è soprattutto dogmatico e morale, mentre quello degli autori spirituali orientali è principalmente pratico e
dell’ordine della vita spirituale.
Alcuni teologi medievali hanno presentato
magistralmente questa dottrina: tra di loro, si distaccano Ugo di San Vittore,
Pietro Lombardo, Bonaventura e Tommaso d’Aquino.
Quest’ultimo meriterà un’attenzione speciale.
Evagrio il
Pontico - Hoi genokptatoi - (Practicòs 6-14) |
Giovanni Cassiano - Gli otto spiriti
o vizi - (Istituzioni
6-12; - Collazioni 5) |
Gregorio Magno - I sette
peccati capitali - (Moralia 31) |
- Gastrimargia |
- Gastrimargia: ventrius influvies (golosità) |
.- Inanis
gloria |
|
|
- Invidia |
- Porneia |
- Fornicatio |
- Ira |
Philargiria |
- Philargiria:
amor pecuniae (avarizia) |
- Tristitia
(+ diversi aspetti della accidia) |
- Lype |
- Ira |
- Avarizia |
- Orge |
- Tristizia |
- Ventris
ingluvies |
- Akedìa |
- Avedia:
anxietas, taedium cordis, otiositas |
|
- Kenodoxìa |
- Cenodoxia:
iactantia, vana gloria |
- Luxuria |
- Hyperephana |
- Superbia |
- (Superbia) |
Alcuni secoli dopo, Giovanni della Croce descrive magistralmente, nel suo libro La Notte Oscura, come questi vizi-peccati si manifestino in
coloro che già sono avanzati nella vita spirituale e cominciano a soffrire per
«la notte passiva dei sensi».
Negli Esercizi spirituali,
Sant’lgnazio di
Loyola raccomanda di presentare i peccati
capitali a chi è in ritiro, perché mediti su di essi. San Francesco di Sales, nella sua
Introduzione alla Vita Devota, offre un’esposizione interessante e pratica.
E così potrebbe continuare la storia. Fermiamoci,
per concludere, su di un testo del Catechismo della Chiesa Cattolica: «I
vizi possono essere catalogati in parallelo - alle virtù al/e quali si oppongono,
oppure essere collegati ai peccati capitali che l‘esperienza cristiana ha
distinto, seguendo san Giovanni Cassiano e san
Gregorio Magno. Sono chiamati capitali perché generano altri peccati, altri
vizi. Sono la superbia, l‘avarizia,
l’invidia, l‘ira, la lussuria, la golosità, la pigrizia o accidia»
(1866).
Ancora una parola per continuare ad aprire un
cammino e creare futuro. La psicologia
contemporanea ha approfondito le motivazioni e le manifestazioni di questi
vizi; la sociologia ci ha mostrato che questi vizi assumono frequentemente
forme sociali e culturali e giungono perfino ad essere fomentati e considerati
rispettabili (per esempio: l’orgoglio si cela nell’autostima e l’ira si
maschera nell’affermazione categorica). Potremmo anche domandarci se la
denominazione di «vizi o peccati capitali» sia adeguata: non ci saranno altri peccati di solito più fondamentali e che generano
altri mali? Ci si dovrebbe anche chiedere se questi peccati capitali
corrispondono alle tendenze disordinate proprie alle donne o ad altre culture e
ad altre religioni.
1.2. Il male
dell’accidia
Tentiamo una visione storica globale, a volo
d’uccello, sul fenomeno dell’accidia. Mi interessano soltanto alcuni pochi
maestri spirituali, che hanno posto le fondamenta sulle quali noi ancora oggi
costruiamo.
Il grande
teorico dell’accidia è Evagrio il Pontico. Il termine
«teorico» deve essere inteso come un aggettivo sostantivato, che indica la
capacità di esprimere in concetti e in parole una esperienza vissuta, Evagrio presenta le varie manifestazioni dell’accidia con
perspicacia e umorismo. Conosciamo tutti questi testi e non è necessario
menzionarli qui, poiché sono stati studiati in profondità e con chiarezza in
questi ultimi anni.
Basti, per il nostro intento, mettere in luce
alcuni aspetti chiave della dottrina di Evagrio. L’accidia è un pensiero-passionale
complesso, si nutre contemporaneamente dell’affettività irascibile e
concupiscibile, e risveglia generalmente tutti gli altri vizi. Questo spiega perché le sue manifestazioni
possano apparire estremamente contraddittorie: indolenza e attivismo, paralisi
e frenesia, frustrazione e aggressività, fuga dal bene e consegna di sé al
male. Si spiega, quindi, il fatto che produca come una specie di disintegrazione
interiore.
La tristezza è sorella gemella dell’accidia; si
assomigliano in qualcosa ma non sono identiche. Chi è triste trova più
facilmente un rimedio al suo male; chi
soffre di accidia è totalmente assediato. La tristezza è un’esperienza
passeggera e parziale; l’accidia è un
modo di vivere permanente e globale e, in questo senso, è contraria alla
natura umana.
Le manifestazioni principali del «demone del mezzogiorno» che è l’accidia
sono: instabilità interiore e
bisogno di cambiare (vagabondaggio dei pensieri e vagabondaggio geografico); attenzione eccessiva per la propria salute
(preoccupazione per il cibo); avvérsione
al lavoro manuale (ozio e pigrizia); attivismo
incontrollato (sotto il manto della carità); negligenza per le pratiche monastiche (si minimizzano le osservanze);
zelo indiscreto rispetto ad alcuni
esercizi ascetici (estrema criticità nei confronti del prossimo); sconforto generalizzato (portico della
depressione).
In quanto
attiva tutti gli altri vizi, l’accidia non può essere curata da una virtù
contraria. Si impone una terapia diversificata e multiforme: lacrime di compunzione (grido non verbale che invoca salvezza); ricorso alla Parola di Dio (per opporsi
all’insinuazione del vizio); meditazione
sulla morte (il presente in prospettiva dell’eternità); pazienza, resistenza e perseveranza
(evitando le compensazioni e ponendo la propria speranza in Dio). È facile
constatare come tutti questi rimedi o armi ci incamminino verso l’incontro con
Dio. In definitiva, l’accidia è una fuga
da Dio e si cura soltanto con la ricerca concreta e paziente del Suo Volto.
Giovanni Cassiano, rispetto
all’accidia, è debitore e divulgatore di Evagrio:
segue la sua dottrina, ne sistematizza e ne semplifica i dati. Utilizza il
termine greco e o traduce con tedio o inquietudine del cuore. Intensifica la
relazione tra tristezza e accidia. Mette eccessivamente in rilievo una sua
manifestazione o sintomo, l’ozio,
per cui insiste sul rimedio del lavoro manuale. Di conseguenza, innocentemente,
permette al demone del mezzogiorno di occultarsi o cercare di occultarsi.
L’insegnamento di Cassiano
sull’accidia- tedio non manca tuttavia di note originali. La più interessante
si riferisce ai «figli e alle figlie
dell’accidia», cioè: l’ozio, la
sonnolenza, la mancanza di opportunità, l’inquietudine, l’andar vagando,
l’instabilità dello spirito e del corpo, la verbosità e la curiosità.
L’importanza di Cassiano
rispetto alla realtà dell’accidia è duplice. Grazie a lui, l’ascesi del deserto
di Egitto è passata al monachesimo occidentale in una forma inculturata
al cenobitismo. E, inoltre, grazie allo sforzo di sistematizzare la dottrina
ricevuta, la sua influenza si farà sentire nelle generazioni future.
Fra gli eredi di questa tradizione, si trova San
Gregorio Magno: la sua dottrina marcherà uno stacco, come abbiamo già fatto
notare sopra; la menzione dell’accidia
scompare dalla sua lista dei vizi capitali, benché alcuni suoi elementi
siano integrati nel vizio della
tristezza. Gregorio dice inoltre che la malizia dell’accidia deriva dal
fatto di essere una tristezza per il bene divino e per tutti i beni che sono in
relazione con questo bene. In altri termini, il giudizio della ragione si è pervertito: il bene viene percepito come
male, e, all’inverso, il male come bene.
L’unica menzione dell’accidia nella Regola di San Benedetto, si trova nel
capitolo 48, dedicato al lavoro manuale e alla lettura. Questo semplice fatto
ci fa pensare alla dipendenza di Benedetto rispetto a Cassiano.
Il capitolo comincia con queste parole: «L’ozio è nemico dell’anima; e quindi
i fratelli devono in alcune determinate ore occuparsi nel lavoro manuale, e in
altre ore, anch‘esse ben fissate, nello studio delle cose divine» (RB
48,1). Notiamo che il vizio da
combattere è l’ozio o la pigrizia. L’arma che ci viene offerta è l’alternanza tra lavoro e la lectio divina.
Più avanti, il Patriarca ci dirà: «[Durante la
Quaresima] si pensi bene poi ad affidare ad uno o due seniori il compito di
girare per il monastero nelle ore in cui i fratelli attendono alla lettura, e
di osservare se per caso non vi sia qualche fratello fannullone (accidioso) che
si dà all’ozio o alle chiacchiere e non si occupa nella lettura, sicché non
solo è inutile a se stesso, ma disturba pure gli altri. Se si trovasse - non
sia mai - un fratello simile, venga ripreso una prima e una seconda volta; se
non si emenda, soggiaccia al castigo regolare in tal misura che gli altri ne
abbiano timore. Né un fratello si accompagni ad un altro nelle ore non
permesse. Anche la domenica si diano tutti alla lettura, eccetto quelli che
siano assegnati all’uno o all’altro ufficio. Se poi qualcuno fosse cosi
negligente e svogliato da non volere o non potere studiare o leggere, gli
s’imponga qualche cosa da fare, perché non stia ozioso. Ai fratelli infermi o
di delicata costituzione si assegni un lavoro o un’arte tale che da una parte
li mantenga occupati, e dall’altra non li opprima con la soverchia fatica o non
li induca ad andar via: la loro debolezza deve essere dall’abate tenuta in
considerazione» (RB 48, 17-25). Nel testo appena citato, San Benedetto
considera tre situazioni diverse. La prima si riferisce al tempo della
Quaresima che, nella mente di San Benedetto, è il tempo paradigmatico della
vita intera del monaco (RB 49,1). La punizione che riceve il monaco accidioso
indica che la sua esperienza è colpevole: non si tratta semplicemente di
pigrizia o di debolezza, ma piuttosto di un disinteresse o di un disgusto per
le realtà spirituali. D’altro lato, non gli manca energia né interesse per
dedicarsi ad altre cose inutili al suo proposito monastico.
Il giorno di domenica costituisce il contesto dove
si colloca temporalmente la seconda situazione. Essendoci meno tempo di lavoro,
ci sarà più tempo per leggere e meditare. Se qualcuno fosse, volontariamente o
involontariamente, negligente o svogliato gli si darà qualche lavoro per
evitare l’ozio. Lo scopo di questo lavoro è più ascetico e terapeutico che
pratico e produttivo. Si noti che la negligenza, la mancanza di attenzione o di
concentrazione può essere causata dalla pigrizia o dalla mancanza di desiderio
e di motivazione. L’accidioso, nella mente di Benedetto, è anche uno svogliato:
sta ponendo ostacoli alla consolazione dello Spirito Santo e non sta aspettando
la Pasqua col gaudio del desiderio spirituale! (RB 49,6-7).
Per la terza situazione, quella degli infermi o dei
deboli che possono essere facilmente preda dell’ozio, Benedetto raccomanda un
lavoro leggero e appropriato alle loro forze.
Si trova nella Regola un’altra serie di testi sulla
tristezza. Al cellerario, egli raccomanda con insistenza di non contristare i
fratelli e prescrive in maniera più generale: «Nella Casa di Dio nessuno si
turbi o si rattristi» (RB 31,6-7; 18-19). Ai più deboli deve procurare un
aiuto per il servizio della cucina perché non lo faccia con tristezza, in
quanto in questo servizio «si guadagna una maggiore ricompensa e un maggior
merito di carità» (RB 35, 1-3). E dice qualcosa di simile rispetto al
lavoro nei campi: la tristezza impedirebbe di essere veramente monaci e di
imitare i Padri e gli Apostoli che lavoravano con le loro mani (RB 48-7-9). In
questi tre testi, l’ambito del lavoro è l’humus in cui può fiorire la tristezza
che è generalmente l’anticamera dell’accidia e, con ciò la malattia rende nullo
il rimedio: il lavoro non potrà essere la terapia contro l’ozio…
D’altro canto, fra gli strumenti dell’arte
spirituale, troviamo i seguenti: «Non indulgere al soverchio sonno, non
essere pigro, temere il giorno del giudizio, desiderare la vita eterna con
ardente brama spirituale, avere ogni giorno la morte in sospetto davanti agli
occhi, ascoltare volentieri le sante letture, non assecondare l’invidia, e
della misericordia di Dio non disperare mai» (cfr RB 4). Queste buone opere
non si riferiranno, in un modo o nell’altro, al demone meridiano dell’accidia?
La concezione benedettina dell’accidia è abbastanza
simile a quella esposta da Giovanni Cassiano nelle Istituzioni
Cenobitiche: accidia, ozio e
tristezza vanno sempre insieme e il lavoro di manuale è il rimedio generico per
curarle. Ci sono tuttavia dei dati originali ed importanti. Benedetto
presenta l’accidia come un ostacolo che impedisce la lectio divina, tramite la
quale il monaco e la monaca tendono verso Dio; l’accidia raffredda il palato e
impedisce di gustare il sapore delle cose del cielo e di Dio stesso. D’altro
canto, il gran rimedio benedettino contro l’accidia è: il recinto del monastero e la stabilità nella comunità! (cfr RB
4,78).
I Cistercensi del secolo del XII sono testimoni
fedeli di questa dottrina del Patriarca Benedetto, anche se non manca loro una
propria originalità. Ascoltiamo soltanto uno di essi, Aelredo di Rievaulx: «Poiché l’ozio è il
nemico dell’anima, la reclusa dovrà evitarlo con somma diligenza, perché è
padre di tutti i vizi: Effettivamente, l’ozio fomenta la lussuria, provoca le
divagazioni, alimenta i vizi, causa l’accidia e genera la tristezza. Semina i
peggiori pensieri, risveglia le affezioni illecite, accende i desideri
disonesti. Produce il tedio della solitudine, rende insopportabile la cella.
Che non ti sorprenda mai oziosa, lo spirito del male. Ma poiché in questa vita
il nostro spirito è esposto al vuoto e non rimane mai stabile, dobbiamo evitare
l’ozio mediante un’ordinata varietà delle occupazioni e proteggere la nostra
solitudine con la successione alterna del lavoro» (La vita della reclusa,
6,35; cfr. Isacco della stella, Sermone 14,1-4).
San Tommaso di Aquino,
nella sua Somma Teologica (Il-lI, 35), buon
conoscitore della tradizione che Io ha preceduto, parla dell’accidia da una
duplice prospettiva. Prima di tutto, egli considera l’accidia come una tristezza che deprime l’animo dell’uomo
in modo tale che nulla gli è gradito di ciò che fa, allo stesso modo in cui
le cose si raffreddano per l’azione corrosiva dell’acido. Più concretamente,
l’accidia è uno dei peccati contro l’atto interno della carità, cioè: l’accidia
è un genere speciale di tristezza che si
oppone al bene divino di cui gode la carità. Come conseguenza di questa
tristezza, si produce un disgusto nei confronti dell’agire che paralizza lo
slancio verso Dio e le realtà divine. Come si può constatare, la gravità
dell’accidia consiste nella sua opposizione
alla regina delle virtù teologali, la carità, che è amicizia dell’essere umano
con il suo Dio. Osiamo dire inoltre che san Tommaso ci insegna a difendere
la nostra gioia spirituale e a promuovere quella degli altri nella misura delle
nostre possibilità.
Prendendo come fondamento San Gregorio, tenta
quindi di armonizzare le diverse liste che conosce sui peccati che derivano
dall’accidia. Egli parlerà così di disperazione (sfiducia nella grazia come
aiuto per vincere il male), di pusillanimità (codardia del cuore nella lotta
contro la tentazione), del non-adempimento dei precetti (non-adempimento dei
comandamenti, dei precetti della chiesa e dei doveri del proprio stato), del
rancore (indignazione contro chi è virtuoso e contro il direttore spirituale),
di malizia (odio contro i beni spirituali), di divagazione sulle cose proibite
(instabilità, chiacchiericcio e curiosità).
L’accidia occupa un luogo centrale nell’insieme
della dottrina morale di San Tommaso. Questo vizio mina il dinamismo dell’agire, cioè, l’amore. Di più: l’accidia
attenta il desiderio di Dio e soprattutto, la gioia che viene dall’unione con
Lui.
Aggiungiamo ancora una parola sulla tristezza, che
ci aiuterà a capire meglio l’accidia. Secondo Santo Tommaso, l’oggetto della
tristezza è il male proprio; ma può succedere che il bene altrui sia
considerato come un male per se stessi, e in questo senso, si può essere tristi per il bene altrui, perché diminuisce la
propria gloria o eccellenza: è questo
ciò che noi chiamiamo invidia (San Tommaso, lI-Il
36 1).
Tutto quello che è stato detto ci aiuta a capire
perché, quando si parla di accidia, la si associa alla tristezza, all’ozio (o
alla pigrizia) e all’invidia. Concretamente, l’accidia:
• è principalmente una forma teologale di tristezza e invidia. In questa direzione vanno
San Gregorio e Santo Tommaso; per loro, l’ozio
o pigrizia è una conseguenza dell’accidia.
• in secondo luogo, o in pratica, è un tipo di ozio o pigrizia in relazione con le cose
divine, In questa linea, vanno molti autori spirituali e monastici; cioè,
fanno un discorso concreto e considerano l’accidia secondo le sue conseguenze
concrete e quotidiane.
Alcuni secoli dopo, l’accidia quasi non compare nel
vocabolario spirituale, questo però non vuole dire che non esista. Sant’lgnazio di Loyola non usa il termine, ma conosce bene questo male.
Nelle sue Regole del discernimento degli spiriti (EE, 313-336), Ignazio
presenta l’opera della Grazia divina con il nome di «consolazione», e ciò che
si oppone ad essa o chiama «desolazione».
Dalla descrizione che fa di quest’ultima, è facile concludere che si tratta
dell’accidia. Ascoltiamo:
«Chiamo consolazione ogni
aumento della speranza, della fede e della carità, ed ogni gioia interiore che
chiama ed attira alle cose celestiali ed alla salvezza della propria anima,
tranquillizzandola e pacificandola nel suo Creatore e Dio (EE, 316).
Chiamo desolazione tutto ciò
che è contrario alla terza regola: così come l’oscurità dell’anima, il suo
turbamento, la mozione verso le cose basse e terrestri, l’inquietudine per
agitazioni e tentazioni varie che inducono alla diffidenza senza speranza,
senza amore, e la rendono interamente pigra, tiepida, triste, e come separata
dal suo Creatore e Signore... (EE, 317).
È proprio di Dio e dei suoi
Angeli, nelle loro mozioni, infondere la vera gioia e il gaudio spirituale,
togliendo ogni tristezza e turbamento indotto dal nemico, di cui è tipico
invece combattere questa gioia, adducendo ragioni apparenti, sottigliezze e
continue illusioni» (EE. 329).
Una volta identificato il male, Ignazio offre il
rimedio: non fare cambiamenti, restare costanti, resistere al male con l’aiuto
delle virtù opposte, la pazienza... ; e ne spiega le possibili cause: una
pigrizia spirituale colpevole, una prova che aiuta la conoscenza di sé,
imparare che ogni bene spirituale è una grazia divina... (EE, 318-322). Alla
conclusione dei suoi Esercizi, Sant’Ignazio offre un antitossico contro
l’accidia: la «contemplazione per raggiungere l’Amore», questa contemplazione è
un esercizio della perseveranza nel bene e una maniera di conservare e
stimolare una vita nella gioia e nella consolazione nella carità (EE, 230-237).
Leggiamo, da ultimo, nel Catechismo della Chiesa cattolica: «L’accidia o
la pigrizia spirituale giunge a rifiutare la gioia che viene da Dio e a provare
ripulsione per il divino» (2094). O, in maniera più concreta, nel contesto
delle tentazioni contro la preghiera, dirà inoltre che «l’accidia è una
forma di depressione dovuta al rilassamento dell’ascesi, ad un venir meno della
vigilanza, alla mancata custodia del cuore» (2733). In questi due testi, è
facile scoprire l’influenza del Dottor Angelico e della tradizione che l’ha
preceduto.
2.
Tradizione offerta
Una tradizione viva è una tradizione che si
rinnova. Non so quando sia nuovo ciò che seguirà tra breve, ma posso assicurare
che nasce dalla vita. Se illumina e stimola ha compiuto la sua missione!
2.
1. Senso delle parole
Accidia è un termine greco che fondamentalmente
significa: trascuratezza, negligenza, mancanza di interesse... Ma quello che ci
interessa ora è il termine latino che lo traduce: taedium (tedio). Questa parola in spagnolo (e
in italiano) significa: fastidio e pesantezza, noia estrema, gran disinteresse,
profondo disgusto.
Ma il termine accidia esiste anche nel vocabolario
della spiritualità di quasi tutti e lingue occidentali. In questo caso,
fondamentalmente significa: oziosità / pigrizia (come antonimo della diligenza)
e tristezza / amarezza (come antonimo della gioia).
In latino esiste tutta una famiglia di termini
imparentati con l’accidia, ad esempio: acer
acris, acre, acetum, acerbum… Questo ci induce a pensare, in senso
figurativo, che la persona accidiosa è stata invasa da un’acidità che l’ha
fatta inacidire come l’aceto. Difatti, quando il vino dolce diviene acido e si
fa aceto, inacidisce; allo stesso modo, quando la gioia della carità
inacidisce, si trasforma in accidia.
Quanto precede ci porta ad affermare che l’accidioso è qualcuno che è si è
inacidito o inasprito nei confronti di tutto ciò che è spirituale o religioso.
Seguendo questa etimologia alla buona, di stampo casereccio, siccome ciò che è
acido è associato con il freddo (ricordiamo San Tommaso), l’accidia ci rende
tiepidi in quanto raffredda il fervore
della carità.
La lingua
giapponese segue un percorso diverso e più diretto quando deve tradurre il
parola accidia. Utilizza il termine mu-ki-ryoku,
cioè: mu (mancanza, carenza), ki (energia), ryoku
(forza, potenza). Si può anche tradurre in modo adeguato con iya-ki, che vuole dire: iya
(infastidirsi, stancarsi, aborrire) e ki
(energia). Chi conosce il valore e la portata del termine ki
nelle culture orientali, si rende conto della gravità terribile dell’accidia: l’accidioso è un affaticato, un esausto,
privo di energia e di dinamismo, qualcuno che detesta l’armonia con Dio, con
l’altro e con il cosmo.
2.2.
Testimonianze bibliche
Vediamo ora due testi biblici relazionati con il
nostro tema. Chissà che non continuino ad illuminarci per farci capire meglio
questo pensiero-passionale tanto pernicioso e che ha effetti così devastanti
dentro e fuori dai monasteri.
Il primo testo è tratto dalla letteratura
sapienziale, più concretamente dal libro della Sapienza, scritto
originariamente in greco. Leggiamo: «Dio ha creato l’uomo per
l’incorruttibilità e lo ha fatto a immagine della propria natura; ma per
invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza i suoi
seguaci» (Sap 2,23-24). Questo testo è ricco di
teologia; l’autore inspirato ci sta dicendo che satana ebbe invidia di noi,
fatti a immagine di Dio, e per questo ci muove guerra. Ora, che cos’è l’invidia? Una tristezza causata
dal bene altrui. Satana non accetta
e combatte contro di noi a causa del gran bene che è la nostra unione con Dio.
I suoi seguaci sperimentano la stessa invidia e la stessa morte spirituale,
questo ci spiega perché il «mondo»
non può lasciare in pace i figli e le figlie di Dio. Ci saranno sempre dei «Caini» che
assassinano Abele, degli «Erode» che
si rattristano e diventano violenti davanti alla buona novella e degli «Iscarioti» che con il loro raziocinio
recriminano contro Maria di Betania a causa del suo
amore.
Il secondo testo viene dal Salterio. Nella versione
latina, opera di San Gerolamo (Vulgata), così recita: Dormitavit
anima mea pare taedio (Ps 118/119,28). Teniamo presente che il termine greco della
versione dei Settanta, che Gerolamo traduce con tedio, è, precisamente,
accidia. E qual è il termine ebraico che soggiace alla traduzione greca? Nulla
di nuovo: tugah = tristezza, afflizione. Le
versioni nelle lingue vernacolari moderne variano, attestando cose di questo
tipo: «lo piango nella tristezza (CEI), La mia vita si consuma nel
dolore (LND); L’anima mia, dal dolore, si consuma in lacrime» (NRV).
Come si può vedere, questo versetto biblico ci permette di affermare che San
Gregorio Magno e San Tommaso non si sbagliavano più di tanto. Possiamo anche
aggiungere che Cassiano associa l’accidia al sonno e
che San Benedetto consiglia: non indulgere al troppo sonno (RB 4,37).
Ma c’è anche un’altro modo di capire questa parola
ispirata. Il testo originale ebraico si può tradurre così: il mio desiderio
(nefesh) viene meno per la tristezza, In altri
termini: la tristezza spegne il desiderio originario che mi lancia verso Dio.
Sappiamo che il pigro, figura frequente nel libro dei Proverbi, è qualcuno che
non funziona perché il suo desiderio, essendo chiuso in se stesso, lo conduce
alla morte (cf. Pr 21,25).
2.3. Combattimento e desideri disordinati
Il
combattimento spirituale ebbe inizio immediatamente dopo il peccato originale e
continuerà fino alla fine dei tempi: «lo porrò inimicizia fra
te (il serpente) e la donna, e fra la tua discendenza e la sua discendenza;
egli ti schiaccerà il capo e tu insidierai il suo calcagno» (Gen 3,15). San Paolo situa questa lotta nella dinamica del
mistero della salvezza (Col 2,15; Ef 6, 11-12; 1 Cor 15,24- 26) e ci offre le armi spirituali appropriate (Ef 6,11-1 7; 1 Ts 5,8; cf. 1Pt 5,6-9).
Noi monaci, abbiamo ricevuto volentieri questa
eredità, e così le espressioni «militare per Cristo» o «milizia di Cristo» sono riferite alla
vita monastica fin dalle origini. San Bernardo, ricordando il testo
paolino: «lotto, ma non come chi batte l’aria ... », esclama: «Questa
è veramente la tromba della milizia, queste sono le parole di un capitano
coraggioso che lotta valorosamente» (Sermone per la Festa di Tutti i Santi,
2,2).
I desideri umani, come espressione di una carenza,
soggiacciono ai sentimenti. Cioè, i desideri muovono l’affettività e questa, a
sua volta, suscita pensieri passionali. I pensieri, chiudendo il cerchio,
possono incentivare i desideri: un pensiero passionale di rabbia, causato da un
desiderio frustrato, può generare un desiderio di vendetta e siamo già in piena
guerra.
Possiamo
dire che il classico combattimento contro i pensieri passionali o logismoi è, in definitiva, una lotta contro i
desideri disordinati che soggiacciono a questi pensieri, caricandoli di
passione. I grandi maestri dell’arte spirituale hanno fatto riferimento a questi
desideri in maniera diversa (spiriti, demoni, pensieri, afflizioni, affezioni,
passioni, attaccamenti, appetiti, volontà, vizi, peccati capitali...) e ci
hanno insegnato a combatterli e ad eliminarli in una lotta singolare mediante
la mortificazione, l’abnegazione e l’umiltà; si tratta, in definitiva, di
spogliarci dell’uomo vecchio per rivestirci dell’uomo nuovo, con l’aiuto della
grazia divina.
Sul campo di
battaglia, si scontrano la vita e la morte: la vita in Dio e la morte, lontano
da Lui. In altre parole, abbiamo da un lato il desiderio fondamentale di Dio,
che ci unifica nella memoria di Dio e permette di realizzarci come persone
umane: gli affetti e i pensieri che da qui emergono restano in relazione con il
Signore. Dall’altra estremità del campo, sta la disintegrazione della persona e
la dimenticanza di Dio. In prossimità a questo estremo, si trova la causa dei
nostri mali, dei nostri desideri, affetti e pensieri definiti da oggetti o fini
negativi. Ogni volta che ci invadono
questi desideri e pensieri passionali, si sta offuscando in noi la memoria di
Dio, ci dimentichiamo di Lui e disintegriamo la nostra interiorità indebolendo
il nostro desiderio originario di Dio.
Quando vogliamo identificare i principali desideri
disordinati, incontriamo di nuovo i peccati o vizi capitali.
• Desideri disordinati del cibo: golosità.
• Desideri disordinati del piacere sessuale: lussuria.
• Desideri disordinati dei beni materiali: avarizia.
• Desideri insoddisfatti e reazione attiva davanti alla frustrazione che
ne deriva: ira.
• Indebolimento del desiderio o trascuratezza nei confronti di Dio e
delle cose spirituali: accidia.
• Desideri disordinati di apparire e di emergere: vanagloria.
• Desideri disordinati della propria eccellenza: superbia.
Questi desideri seguono generalmente un dinamismo progressivo - in crescendo
- che si riconosce facilmente. Non è necessario dire che quanto prima affrontiamo la lotta tanto maggiore sarà la possibilità di
vittoria.
• Risveglio dei desideri e dei sentimenti che ne conseguono.
• Confronto con i pensieri che ne derivano.
• Fascino davanti alla possibilità di assecondarli e timore di
soccombere di fronte ad essi.
• Lotta per respingerli o zoppicamento davanti ai nemici.
• Sconfitta o vittoria davanti a loro.
• Imprigionamento in caso di una possibile sconfitta o libertà come
frutto della vittoria.
Vediamo tre principi generali ed importanti da
tenere presenti prima di attaccare battaglia.
Dobbiamo
innanzi tutto sempre tenere in conto che
- noi non
siamo questi desideri, possiamo solo identificarci con il desiderio originario
e costitutivo che ci apre e ci lancia verso l’Altro e gli altri per realizzarci
personalmente.
- In secondo luogo, questi desideri vanno e vengono, allo stesso modo dei sentimenti e dei
pensieri a cui danno origine.
- Da ultimo, se
noi non li aumentiamo con altri desideri, sentimenti o pensieri, svaniranno
come bolle di sapone.
Allo stesso modo, è utile conoscere anche le quattro modalità tradizionali di combattere
questi desideri disordinati.
• Il primo modo è attaccarli senza indugio appena siano stati riconosciuti, e lo si
può fare concentrando l’attenzione in qualche cosa di opposto o di diverso
dall’oggetto del desiderio. Questa pratica è utile e consigliabile di solito
quando si tratta di desideri che provocano pensieri ripetitivi e compulsivi.
• Il secondo modo è sostituire il desiderio disordinato con
il desiderio di Dio e del suo Regno. È questa la soluzione più adeguata per
i desideri e i pensieri autodistruttivi e che portano a stati depressivi.
• Il terzo modo consiste nell’osservare semplicemente con
attenzione lo sviluppo del desiderio, i sentimenti che suscita e i pensieri
a cui dà origine: in questo modo svaniranno e non riusciranno a diventare
abbastanza forti da renderci prigionieri. Ricordiamo in proposito che sentire
non è consentire.
• Da ultimo, il quarto modo è donarsi in modo disinteressato e gratuito
in qualche opera buona per il servizio e l’utilità del prossimo.
Diciamo infine che quando questi desideri disordinati si sono trasformati in vizi o in
forme abituali di compiere il male, sarà necessario sradicarli mediante
l’esercizio perseverante ed assiduo delle virtù opposte: temperanza,
castità, generosità, pazienza, diligenza, modestia, umiltà e carità.
Nonostante tutto quello che abbiamo detto, si
impone una parola particolare sulla lotta contro l’accidia. In quanto
negligenza nei confronti di Dio e dei mezzi che conducono a Lui, è difficile
combatterla con delle semplici virtù, l’attenzione ad altro, i servizi di
carità, la vigilanza... Il grande maestro dell’accidia, Evagrio
il Pontico e con lui tutti i grandi maestri spirituali di Oriente ed Occidente,
ci dicono all’unisono: hypomoné, hypomoné, hypomoné! cioè
pazienza e perseveranza.
«Al momento delle tentazioni è
necessario non abbandonare la cella, per quanto validi siano i pretesti che ci
vengano in mente. Anzi, bisogna restare seduti all’interno della cella, essere
perseveranti (hypomoné) e ricevere coraggiosamente ciò
che ci assale, specialmente il demone dell’accidia che, essendo il più pesante
di tutti, prova l’anima in sommo grado. Perché fuggire da queste lotte ed
evitarle rende lo spirito inetto, codardo e traditore» (Practikés, 28).
Gesù stesso fa di questa virtù quasi un assoluto
per la salvezza eterna: «Con la vostra perseveranza (hypomoné)
salverete le vostre anime» (Lc 21,19). Unisco ora la mia voce a quella
dell’abate di Clairvaux: l’esortazione che segue,
benché originata in un contesto diverso dal nostro, mi sembra del tutto
opportuna.
«E ora che cosa mi resta,
carissimi, se non ammonirvi a perseverare, che è la sola via con cui gli uomini
possono acquistare gloria e le virtù essere coronate? Senza perseverare chi
combatte non può conseguire la vittoria, il vincitore non può ottenere la
palma. La perseveranza aggiunge vigore alle forze, dà compimento alle virtù,
nutre il merito, fa da tramite al premio. È la sorella della pazienza, la
figlia della costanza, l’amica della pace, il nodo con cui si stringono le
amicizie, il legame di tutti quelli che hanno uguale sentimento, il baluardo
della santità. Elimina la perseveranza; allora il rispetto non avrà più
ricompensa, il beneficio non avrà più gratitudine, la fermezza non avrà più
riconoscimento. Insomma, non chi avrà cominciato, ma chi avrà perseverato fino
alla fine sarà salvo» (Lettera 129,2).
Richiamiamo infine che quello che è impossibile a
noi è ben possibile a Dio; Egli attende da noi soltanto che accogliamo, come
possiamo, il suo dono. Perciò, se ci sentiamo troppo piccoli e troppo deboli
per lottare contro il demone meridiano dell’accidia, accettiamo, per
cominciare, il seguente palliativo raccomandato da San Tommaso d’Aquino: una
doccia ed una buona meridiana (ST, I-lI 38, 5).
Molte cose mi sono rimaste nel calamaio: avrò forse
la possibilità di continuare il tema in un’altra occasione? Dipenderà da due
condizioni: prima di tutto, se continuo a crescere nella mia esperienza; e poi,
se questa lettera sarà ben accolta.
In definitiva, fratelli e sorelle, l’accidia è un
stato interiore ben definito, nonostante le sue molteplici manifestazioni.
Questo detestabile pensiero passionale corrode la gioia di amare e di
appartenere a Dio. Ma l’aspetto più deplorevole di questo vizio propriamente
satanico, è che paralizza e congela, tortura e soffoca il nostro desiderio fontale di Dio. Desiderio su cui poggia la nostra ricerca
del suo Volto e rende la vita monastica ciò che deve essere: una vita
asceticamente orientata verso il Mistero per gustarlo misticamente.