IL
FUTURO DELLA VITA CONSACRATA
La crisi attuale un “evento pasquale”
Lai crisi
della VR va letta con coraggio e lucidità.
Essa sta
forse vivendo la fase conclusiva di un faticoso trapasso. Ma, attenzione!
Questa crisi, non è una crisi nel senso di una decadenza spirituale o morale
come lo può essere stato in passato. Va letta, piuttosto, come una
“tribolazione”(in senso paolino, una thlipsis),
come una “ars moriendi”: una “infirmitas”, un “esodo” in cui qualcosa certamente muore, ma, insieme, qualcosa
rinasce nella contininuità di ciò che, nella VR, resta fondativo.
il calo
delle vocazioni è un dato impressionante: dati sui quali si dovrebbe riflettere
molto più a fondo. Pensando, inoltre, al progressivo aumento dell'età media dei
religiosi/e, non si dovrebbe mai sottovalutare il fatto della stanchezza e, in
non pochi casi, anche della frustrazione vera e propria che contrassegna tante
situazioni di VR. L'entusiasmo e la speranza che avevano contrassegnato l'epoca
del rinnovamento postconciliare, oggi sono sempre più lontani.
Non è in
crisi solo la VR tradizionale. Anche nelle “nuove comunità” di vita consacrata sono
tramontate da tempo le forti convinzioni e l'entusiasmo degli inizi.
Soprattutto la seconda generazione di queste nuove realtà, dimostra di non
essere più quella “primavera” tanto sperata ed entusiasticamente osannata, a
suo tempo, un po' ovunque.
La crisi è
solo delle persone o forse, in misura ancora maggiore, non anche dello
“statuto” della stessa VR?
I
religiosi e il Vaticano II
Ma che cosa
è successo in questi cinquant'anni postconciliari?
Non si può
sottovalutare, prima di tutto, il “contributo decisivo” che i religiosi/e hanno
saputo dare all'aggiornamento conciliare della vita della Chiesa. In
particolare, lo sono stati nella riforma liturgica, nell'affermazione della
centralità della Parola di Dio, nell'instaurazione del dialogo con le altre
comunità cristiane, con le altre religioni, con gli uomini non credenti, in
vari campi caritativi anche nuovi. Spesso nel
Non si può
dire, invece, la stessa cosa per ciò che è accaduto nella forma vitae dei
religiosi e nel come essi hanno vissuto alcune istanze di rinnovamento.
Il primo periodo
(inizi anni '60 e fine anni '70), è sicuramente caratterizzato da una “rapida
lievitazione” dei fermenti di rinnovamento della VR. Ma va anche detto, con
tutta onestà, che non furono i padri conciliari provenienti dalla VR a
manifestare istanze di riforma. Nessuna voce di quei superiori-padri conciliari
ha mostrato istanze di riforma nel cammino della Chiesa. Sono stati i vescovi
non appartenenti a ordini religiosi a chiedere alla VR di interrogarsi e di
intraprendere un rinnovamento. Non è venuto dai religiosi il contributo più
significativo in vista di un loro cammino di riforma. Perché meravigliarsi, allora, se - come è
stato osservato da molti - il decreto Perfectae caritatis, tra i vari documenti
conciliari, risulta uno dei più poveri e sprovvisti di qualità profetica e di
indicazioni feconde per il rinnovamento della VR?. Purtroppo, questa scarsità
d'indicazioni conciliari “forti” e soprattutto l'inadeguatezza del cap. 6°
della costituzione Lumen gentium sull'identità e la collocazione della VR nella
vita della Chiesa, hanno pesato non poco negli anni del postconcilio».
Ma più che
la lettera è grazie allo spirito del concilio, che la VR ha potuto affrontare
l'aggiornamento come un esodo, un'attraversata nel deserto, carica di
sofferenza, di fatica, ma anche di scoperte e di acquisizioni essenziali. Un
po' in tutte le congregazioni, insieme alle costituzioni e alla regola, si è
ripensata la propria forma vitae. Si è manifestata da subito la volontà di un “ritorno alle fonti”. Non è cambiato
soltanto l'abito. Viene riconosciuta la soggettività dei singoli religiosi/e
unitamente a tante altre e conseguenti istanze come il rispetto della persona,
il superamento della relazione superiore-suddito, il passaggio, nella vita
comunitaria, dall'osservanza uniforme delle regole e degli esercizi di
devozione alla condivisione, alla comunicazione, alla relazione fraterna, alla
corresponsabilità. L'antica e diffusa “autarchia pastorale e spirituale” della
VR, ha ceduto il posto ad un più reale innesto nella chiesa locale. Molte
famiglie religiose, in una società sempre più lontana dai tempi della fondazione
del proprio carisma, si sono trovate nel la necessità di inventarsi una nuova
diaconia, una nuova missione apostolica.
In quel
periodo si è avvertita l'esigenza della creatività, di una presenza come vera
testimonianza. Si sono cercate ed esperimentate nuove forme di vita più
semplici, a misura d'uomo, «inserite in contesti sociali allora giudicati
creditori dell'annuncio del Vangelo. Quelli furono gli anni della fioritura di
piccole comunità, soprattutto urbane, formate da frati o suore che cercavano
con l'uscita dalle grandi case o dalle opere degli istituti di provenienza, una
forma più rispondente ai segni dei tempi, dei segni dei luoghi, nonché più
fedeli, secondo il loro giudizio, al Vangelo. La stessa scelta della condizione
di lavoro rispondeva soprattutto a una logica d'inserimento nel quotidiano dei
poveri, nelle periferie urbane, nelle aree scristianizzate inseguendo il
“discutibile” ideale, allora molto in voga, di “vivere come loro”.
Si trattava,
allora, di mutamenti che le congregazioni hanno accettato alcune volte con benevolenza,
altre volte con rassegnazione o con difficoltà, per non parlare dei casi in cui
sono state obbligate ad espellere dal loro corpo e a riconoscere queste nuove
vie come incompatibili con la loro identità. Purtroppo, in quel tempo è
mancata, da parte dei superiori religiosi, la forza e l'autorevolezza necessarie
per comprendere che la VR si stava avviando verso una pluralità di orizzonti.
Quello, i superiori religiosi allora non lo hanno capito e soprattutto non hanno
saputo guidare, accompagnare, e anche, all'occorrenza, correggere questi
movimenti creativi. Non sono mancati casi in cui l'inserimento nel mondo diventava
un annegare nella mondanità» o si trasformava in una vera e propria “militanza
politica”, con l'esito scontato di «sfigurare quella diaconia che si voleva
svolgere a favore dei poveri.
Sono stati
gli anni dell'entusiasmo della riforma, ma anche di molti abbandoni. Quanti
uscirono in quegli anni! Chi c'era lo sa! Quante contraddizioni! . A volte, proprio
i più entusiasti artefici del rinnovamento, sono stati i primi a lasciare.
L'affannosa ricerca del carisma
Nel secondo periodo
va dalla fine degli anni '70 al 2000. All'inizio degli anni `80 si parlava
comunemente di tramonto della cristianità e dell'ecclesiologia universalistica
ed eurocentrica, di emergenza non solo del multiculturalismo ma, soprattutto,
del soggettivismo individuale, con pesanti ripercussioni anche nell'ambito
della VR. Inevitabili allora le domande sul senso della VR, sulla sua identità,
sulla sua capacità profetica, sul suo posto nella Chiesa.
Proprio in
quel periodo volendo trovare una risposta solo a queste domande, si è andata
innescando una affannosa ricerca o riscoperta del carisma del fondatore. Ogni
congregazione, soprattutto nel mondo femminile, ha speso le sue migliori
energie in questa direzione, distogliendole da quella riforma che andava
cercata soprattutto nel Vangelo, ed eventualmente riscoprendo lo spirito che
aveva ispirato il fondatore o la fondatrice. È sicuramente facile parlare del
proprio carisma quando il fondatore è un san Francesco, un san Domenico, un
sant'Ignazio di Loyola. Ma quando la fondatrice è una santa donna che, magari sollecitata
dal suo vescovo, ha risposto semplicemente a un bisogno emergente in quel
determinato luogo, trovare i carismi e “cantarli” diventa molto difficile.
Purtroppo, quelli
furono anche gli anni di una incomprensione, andata via via crescendo, tra
santa Sede, molti vescovi e i religiosi. Di fronte all'autorità ecclesiastica,
i religiosi avevano ormai definitivamente compromesso la loro qualifica di
“figli prediletti della Chiesa” di pacelliana memoria. A partire, poi, dagli
anni '80, di fronte a una considerazione crescente, da parte della gerarchia,
dei nuovi movimenti ecclesiali, sempre più numerosi e visibili nelle chiese
locali, la VR è stata in qualche modo abbandonata a se stessa. Non ha più
sentito su di sé né gli occhi di predilezione, né gli occhi di chi l'avrebbe voluta
in qualche senso sostenere. Erano gli anni della crescente
secolarizzazione,della scristianizzazione, della presa di coscienza, da parte
dei cristiani, di essere diventati una “minoranza” all'interno di un Occidente
segnato dall'indifferenza.
Andava
sempre più emergendo la figura dell'individuo che vuole essere libero, vuole
autodeterminarsi, che rifiuta l'autorità esterna e privilegia l'autorità
propria, non sente più come determinante l'appartenenza. Prendono il
sopravvento l'esperienza vissuta e l'intensità emozionale. In quegli anni ci fu
un rincorrere una certa psicologia che avrebbe dovuto risolvere problemi sia
dell'individuo come comunitari. Le diverse forme di vita comunitaria, la
convergenza verso un progetto comune, l'assunzione di responsabilità con gli
altri e mai senza gli altri, erano tutte prospettive che non solo non esercitavano
più nessun'attrazione, ma sembravano sempre più contraddette.
Solo verso
gli anni '90, di fronte alla presa d'atto della problematicità crescente della
vita comunitaria, la congregazione degli istituti di VC,per la prima volta
nella sua storia, ha tentato di affrontare questo tema. Nel suo discorso,
tenuto il 20 novembre 1992 alla “plenaria” della medesima congregazione,
Giovanni Paolo II sembrò aver capito uno dei punti focali della crisi, quando
ha affermato che «tutta la fecondità della VR dipende dalla qualità della vita
fraterna in comune».
Con molto
ritardo è venuto poi il Sinodo sulla VR del 1994», seguito due anni dopo dalla
pubblicazione dell'esortazione apostolica “Vita consecrata”. Era un testo certamente
ricco di tutte le acquisizioni postconciliari nel campo del rinnovamento della
VR. Ma quel testo è arrivato, come lo stesso Sinodo, troppo tardi, un testo che
non apriva grandi visioni sul futuro.
Rifondazione e precarietà diffusa
Dopo il periodo
del rinnovamento, dopo quella della ricerca del carisma del fondatore, eccoci
al terzo periodo
(dal 2000 a oggi),quello della rifondazione. Rifondare la VR, riscattare la sua
dimensione teologale: in quegli anni non si parlava d'altro.
Al di là di
tutti i ricorrenti slogan sulla rifondazione o sulla fedeltà creativa, in
realtà, in quel periodo, andava sempre più emergendo “la precarietà”. Sia che
si parlasse del futuro delle comunità o del futuro delle opere (affidate sempre
più spesso ai laici, ma non per questo necessariamente garantite nella loro
efficacia), da ogni angolo spuntava sempre il tema della precarietà. Perché non
voler guardare in faccia una realtà sempre più contrassegnata dalla precarietà?
Perché continuare, invece, a parlare di “caos”, di “notte oscura”, di “stagione
invernale” della VR?
Il problema vero,
oggi, è quello di una VR sempre meno attraente e sempre più anacronistica per
le nuove generazioni che non riescono a cogliere in essa, a ragione o a torto,
l'evangelicità e la possibilità di una sequela concreta, per tutta la vita, del
Signore Gesù.
Anche se la
crisi della VR va necessariamente collocata nel contesto della crisi non solo
di tutto l'occidente, ma anche della Chiesa, non è comunque corretto pensare
che questa crisi venga dall'esterno della VR, sottraendosi così, in partenza,
alle doverose domande sulle sue eventuali inadempienze. La crisi, come insegna
la Bibbia, potrebbe anche essere un giudizio di Dio sulle nostre inadempienze,
potrebbe essere una prova, o, una tribolazione in vista di una riforma, di una
conversione. La Scrittura, infatti, è li a ricordare che il giudizio di Dio sui
credenti interviene quando c'è infedeltà nella propria vocazione, quando, per
la durezza del cuore (sclerocardia), i credenti non sono più capaci di leggere
l'oggi di Dio.
Senza
colpevolizzarsi più di tanto e senza scaricare su altri le proprie
responsabilità, basterebbe avere il coraggio di porsi delle semplici domande per
verificare dove siamo e dove stiamo andando. Eccone alcune:
- In questi
decenni di rinnovamento, la VR ha cercato di essere ciò che la sua vocazione le
chiede, ossia una memoria vivente del Vangelo?
- La VR ha
cercato di essere nella Chiesa il luogo che indica in modo limpido, per quanto
è possibile a noi uomini, la croce e la sua efficacia?
- La VR non
si è qualche volta lasciata tentare dal rincorrere forme e metodi mondani,
forme di aggiornamento che non sono secondo la logica adottata come stile di
vita da Gesù?
- La VR ha
saputo custodire quel nucleo irrinunciabile che consiste nella sequela di
Cristo, cercando di vivere come l'uomo Gesù è vissuto?
- Si è
veramente convinti che l'unico vero compito della VR è quello di essere nella
Chiesa e tra gli uomini segno di rappresentanza della vita Jesu, sino a darne
una percezione sensibile e trasparente?
- La VR ha
saputo, in questo clima di dominante secolarizzazione, non secolarizzarsi e
tuttavia tentare di entrare comunque in comunicazione con quell'umanità nuova
che già appare agli orizzonti della storia?.
Si tratta
sicuramente di domande inquietanti e urgenti, anche se in verità, la domanda
dovrebbe essere una sola: la VR è esegesi vivente della vita di Gesù? Sì o no?.
Solo se è tale, infatti, sarà anche profetica e portatrice di una parola da
annunciare in un contesto ecclesiale e sociale come quello attuale.
Un cammino di conversione
Quali
potrebbero essere le esigenze più urgenti per una VR significativa in sé e per
gli uomini del nostro tempo? Parlando di esigenze urgenti emergono senza
volerlo, dice, anche le inadempienze.
Ne indico
tre: un cammino di conversione, una piena umanizzazione, una comunità che sia
veramente tale.
La prima di
queste urgenze è quella di un reale cammino di conversione, un andare avanti sulle
tracce di Cristo, senza mai sentirsi pienamente arrivati. Prima di ogni
missione, di ogni diaconia, prima delle opere, la VR è un ritorno a Dio, un
cambiamento di vita, scelta continua della differenza cristiana, tentativo
continuo di fuga mundi, dalla mondanità. È una conversione sempre in atto,
giorno dopo giorno, disposti ad accettare la precarietà degli assetti, attuando
la sequela religiosa, rinnovando ogni giorno la decisione di amare l'altro,
senza reciprocità, in una vita comune, e incontrando gli uomini, gli ultimi,
che si vogliono servire.
Purtroppo,
invece, si continua a pensare la VR come uno “stato di perfetti”, di arrivati
alla meta, di domiciliati in una
situazione di pienezza, di perfetta carità. Fino a quando si vive su questa
terra ci si dovrà sempre arrabattare fino alla morte, sperando che quello che
non siamo riusciti a fare qui, Dio lo completi di là. Non per nulla, nella
professione religiosa, si chiede proprio che «lo Spirito porti a termine il lavoro
che in te, oggi, ha iniziato». Non ci si dovrebbe mai dimenticare che stare nel
mondo, senza essere del mondo, è una condizione di “equilibrio instabile”. La
VR è “differenza cristiana” rispetto al mondo. Basterebbe la sua presenza per
essere testimonianza di Cristo, per essere “segno” della “buona notizia” del
Vangelo. Per Francesco era molto più importante “vivere il Vangelo”, esserne
una “memoria vivente”, che non predicarlo.
Di fronte
alla totale indifferenza del mondo di oggi, andrebbe pienamente recuperata
tutta la “differenza” del Vangelo. È proprio questo scarto, questa differenza
che dovrebbe stimolare il cammino di conversione della VR. Non si tratta
semplicemente di una “pia esortazione”. Sulla piena disponibilità a questa
conversione sta o cade la stessa VR.
Una piena umanizzazione.
Questo cammino di conversione dev'essere, però, accompagnato da una piena umanizzazione. Non dimentichiamolo mai:
la VR è vita umana, vissuta da uomini e donne che cercano di innestare la loro
umanità nell'umanità di Gesù. È un innesto tutt'altro che semplice. Può
avvenire solo attraverso un'arte del vivere, che esige spoliazione
semplificazione, unificazione, ricerca di ciò che è essenziale, per l'uomo
d'oggi. Gesù non è solo colui che ha raccontato Dio, che ha raccontato il vero
uomo, come Dio l'ha pensato, lo ha voluto e lo ha creato. È anche colui che ha
raccontato quel Dio che nessuno ha mai visto e, insieme, ha raccontato
quell'uomo che noi dovremmo cercare di essere.
Perché
negarlo? Molto spesso, ciò che ostacola la realizzazione di una vera VR
personale e comunitaria, è la scarsa “qualità umana”. Sono le frequenti e amare
constatazioni che vengono fatte tutte le volte che si ha a che fare con
esistenze vissute senza passione, senza convinzioni profonde,
senza sensibilità, senza bellezza, senza libertà interiore. Ma senza libertà,
si diventa schiavi. C'è un passaggio nel vangelo di Giovanni che non si
dovrebbe troppo facilmente dimenticare: «ora, lo schiavo non resta per sempre
in casa; il figlio vi resta per sempre» ( 8,35). Che dire, infatti, di tutti
quelli che lasciano la VR? Non potrebbe essere solo l'ultimo passo di una vita
non pienamente umanizzata in cui si sono sempre sentiti schiavi?
Non basta,
nella VR, far balenare di tanto in tanto, delle scelte eroiche. Bisogna avere
il coraggio di dircelo: o la VR è un cammino di umanizzazione, diversamente non
riusciamo a viverla. Come la conversione, anche l'umanizzazione è un percorso
che attraversa tutte le fasi della vita. È un cammino faticoso. Vivere i voti è
difficile. Piantiamola con il dire che nella VR tutto è bello, quasi che non ci
fosse un prezzo da pagare. Certe seduzioni creano facili entusiasmi che, alle
prime difficoltà, svaniscono come la neve al sole. La disponibilità all'azione
dello Spirito Santo esige una lotta spirituale continua. Non ci può essere VR
senza rinuncia, senza patire delle mancanze, senza soffrire.
Purtroppo,
di fronte all'ideale dominante dell'edonismo, della soddisfazione immediata,
del bisogno di “non farsi del male”, dell`”et... et...”, senza avere il
coraggio di una scelta anche in controtendenza, in questi ultimi decenni, si è
troppo spesso occultato o minimizzato il contenuto, ereditato dalla tradizione,
dell'aspesis (disciplina). Aspesis è fare di tutto per stare
nell'alleanza con Dio, per essere uomini e donne secondo una vocazione divina,
per fare della nostra vita umana un'opera d'arte, in cui bontà, bellezza e
beatitudine sono immanenti l'uno all'altro. Aspesis
è anche accettare la mancanza di beni, di cose, di mezzi, è accettare l'assenza
di altri nella nostra vita intima e corporale, è accettare la rinuncia a
decidere sempre autonomamente su di sé. È un esercizio a volte umiliante,
faticoso, proprio perché è in contraddizione con il nostro egoismo.
La vita fraterna essenza
della VR. Sia il
cammino di conversione che quello di una piena umanizzazione, non possono non
tendere alla comunione. È proprio il celibato che chiede di essere vissuto in
una vita di comunione, lì dove l'amore fraterno sa anche vivere di distanza, di
discrezione, di sobrietà, nel rispetto della libertà di ciascuno, in una vita che
già di per sé è una profezia in atto. La
vita fraterna è il fine e la ragion d'essere degli stessi voti religiosi. Nella
misura in cui vuole essere memoria reale e concreta della comunità vissuta da
Gesù, la vita fraterna diventa il dono per eccellenza dello Spirito.
Anche se
questa comunione comporta il mettere in comune i propri beni, l'abitare e il
pregare insieme, nella VR significa soprattutto lotta contro l'individualismo,
contro una vita comune che obbedisce a regole mondane, al comunitarismo. Significa
soprattutto una vita strutturata e regolata. Se si vive insieme e si vuole
incarnare il comandamento nuovo dell'amore reciproco dato da Gesù, non ci può
non essere la regola, una struttura oggettiva.
In passato
la vita comune era vista essenzialmente in funzione dell'opera, della diaconia
da compiere. Oggi, invece, abbiamo la consapevolezza che una vera vita di
comunione dev'essere pensata in primo luogo come servizio reciproco, come una
vita in cui l'opera prima e al di sopra di tutto è amarci gli uni gli altri,
perché allora Dio dimora in noi. Solo in questo modo i religiosi saranno
riconosciuti come discepoli di Gesù.
In un
contesto in cui le comunità religiose sono sempre più formate da persone di
origine, cultura, preparazione intellettuale, età ecc., molto diverse, i
religiosi dovrebbero essere sempre più degli “esperti in comunione”. Perché
questo cammino sia praticabile i religiosi devono sapere che la vita comune è
un'alleanza stretta non solo con Dio, ma anche con i fratelli, con le sorelle. Solo
in questo modo, l'alleanza può diventare un messaggio per tutta la Chiesa, per
il mondo, per quegli uomini e quelle donne che celebrano l'alleanza all'interno
dell'avventura dell'amore matrimoniale.
Nella fase
attuale contrassegnata dalla precarietà, c'è chi si chiede se ci sarà un futuro
per la VR. Questa domanda non ha nessun senso, perché, finché esiste la fede
cristiana, ci saranno sempre uomini e donne che sentiranno la chiamata a
servire Gesù nel celibato e nella vita comune, perché è questo ciò che la VR
offre, non altro. Tutto il resto, infatti, lo possono fare i presbiteri, i
semplici fedeli. Proprio pensando al futuro, sarebbe opportuno, di tanto in
tanto, guardare indietro, non dimenticando quel passo straordinariamente
eloquente con cui Isaia si rivolge ai suoi figli (discepoli): «Io ho fiducia
nel Signore, che ha nascosto il suo volto alla casa di Giacobbe, e spero in
lui. Ecco, io e i figli che il Signore mi ha dato, siamo segni e presagi per
Israele da parte del Signore degli eserciti, che abita sul monte Sion»
(8,17-18). Anche se la VR sarà ridotta ad un piccolo “resto”, continui a non
temere. Sempre Isaia ci assicura che se anche restasse soltanto un ceppo,
perché l'albero è abbattuto e tutti i rami e anche il tronco sono a terra, quel ceppo, dice Isaia, è un “ceppo
santo” che continuerà a gettare virgulti e sarà “seme santo” (6,13)». Come il
Signore non è mai venuto meno alla sua fedeltà nel passato, «così sarà anche
nel futuro».