L’accidia:
il vizio nella vita spirituale
e la lotta contro di esso
di d.Angelo De Donatis
L’accidia,
il “demone del mezzogiorno”
Evagrio chiama
l’accidia il “demone del
mezzogiorno”, perché è la tentazione che assale il monaco a metà
della giornata, quando l’entusiasmo viene meno, quando l’ardore si è spento.
Questo “mezzogiorno” che è anche il
mezzogiorno della vita, quando ad un certo punto, l’entusiasmo viene meno,
quando non c’è più la gioia profonda di fare una cosa, la gioia di vivere.
Ecco perché Evagrio Pontico dice che questo è un
demone pericolosissimo.
Noi tante volte traduciamo
“accidia” con “pigrizia”. Ma non è la pigrizia, è proprio un disgusto, quando non ti va di fare più
niente, quando sei svogliato perché ti
è passata proprio la voglia di impegnarti, di andare a fondo alle cose.
Evagrio enumera delle manifestazioni di
questo atteggiamento spirituale che adesso per intenderci chiamiamo pigrizia,
ma che è molto più profondo della pigrizia. Evagrio
dice: “A volte si ha una paura esagerata
degli ostacoli che si possono incontrare”. C’è quasi una paralisi: mi spavento, ho paura di questi ostacoli
e mi paralizzo. Oppure c’è un’avversione a tutto ciò che costa fatica. Sento
proprio una repulsione; non mi va perché so che una cosa mi impegna nella
fatica e quindi la rifiuto.
Andando avanti, Evagrio dice ancora che c’è una
negligenza nell’osservare l’ordine, le regole, mi ribello a questo. Oppure
un’instabilità nel bene.
Magari ho scelto di fare delle cose buone però non sono costante, non sono
fedele a questo. C’è un’instabilità continua.
Andando avanti, Evagrio
parla dell’incapacità di resistere alle tentazioni. L’avversione
verso quelle persone che sono veramente zelanti e che diventano odiose proprio
perché fanno sempre le cose per bene, sanno osservare le regole.
Un altro sintomo di questa malattia è la perdita
di tempo prezioso oppure la
libertà che viene concessa ai sensi, alla curiosità, al piacere di
divertirsi, di usare di tutto. L’ultima cosa: la negligenza nei principali doveri del proprio stato. La
dimenticanza di vivere quella che è la missione specifica del mio stato, che io
sia sposato o sacerdote ecc. e la dimenticanza del fine ultimo della vita. Sono
sintomi che riguardano questo tipo di situazione che non è senz’altro bella. La
descrizione è quindi negativa e a tutti noi verrà voglia di dire a noi stessi
in quali di questi sintomi ci riconosciamo.
S.Bernardo definiva questa accidia, che lui
chiamava tiepidezza, l’ombra della morte.
Il tiepido assomiglia ad una vigna non
coltivata, una vigna che è stata abbandonata. Il tiepido è così: è una casa
senza porta, senza chiusura. Qualcun altro ha detto: “E’ un verme che nella radice divora dal di
dentro”. Divora soprattutto le virtù principali anche se esternamente la
vita continua apparentemente come prima.
Un’altra immagine del pigro a livello accidioso, è
quella di colui che nasconde i talenti sotto terra, o la persona non
troppo buona né troppo cattiva alla quale si applicano le parole
tremende dell’Apocalisse: “Conosco le tue
opere, non sei né freddo né caldo, magari tu fossi freddo o caldo, ma poiché
sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”.
Questi sono i sintomi generali secondo Evagrio Pontico. Se ne vogliamo esaminare qualcuno in
maniera specifica, possiamo vedere che uno dei primi sintomi di cui ci
accorgiamo quando siamo attaccati da
questa tentazione è che c’è una certa irrequietezza interiore.
Abbiamo bisogno di cambiare, non ci accontentiamo di rimanere stabili, in una
scelta, in una situazione. Ci
viene voglia di cambiare casa, lavoro, amicizie, compagnie. Questo è
tipico di questa situazione. Non portiamo avanti un lavoro che abbiamo
iniziato, ne iniziamo tanti ma non li concludiamo, lo facciamo anche con i
libri. Li iniziamo e li lasciamo lì. Il più delle volte non ci rendiamo conto
di quello che ci sta accadendo e ci inventiamo tanti motivi per dire che è bene
cambiare. Siamo abili in questo, facciamo un sottile ragionamento per trovare
tutti quegli aspetti che ci portano a dire che è una cosa giusta non rimanere
in questa decisione, che dobbiamo cambiare.
Evagrio menziona più volte questa
tentazione del cambiamento perché, ritornando nell’ambiente monastico, era
tipica dell’anacoreta, perché l’eremita
è esposto all’irrequietezza. Ricordo che due anni fa sono andato a
trovare un eremita vicino a Cascia e lui stesso
raccontava questo tipo di tentazione. Perché per noi le giornate sono
cortissime, ma per uno che vive in un eremo deve essere difficilissimo se non
si ha un grande equilibrio, un’impostazione armonica della giornata. Ti viene
voglia di scappare, di cambiare, quando sei nella solitudine. Ecco perché un
aspetto tipico del monaco è proprio la stabilità, perché essere stabili in un
posto significa che c’è anche una stabilità interiore, che non mi lascio
prendere dall’irrequietezza continua. Il
desiderio di vagabondare fisico è la manifestazione di un disagio che vivo
dentro, di un vagabondare dei pensieri, un essere instabili nelle scelte
che abbiamo fatto. Ecco perché l’anacoreta fissa il suo corpo nella sua
cella e soprattutto i suoi pensieri nel ricordo di Dio. Questa è la vera
stabilità, quella che S. Benedetto richiede ai suoi monaci.
I pretesti per un trasloco sono
diversi da persona a persona. Ognuno di noi è fatto in modo diverso ed ognuno di
noi si inventa delle cose particolari quando è preso dall’accidia per poter
giustificare il cambiamento che desidera realizzare. Questa irrequietezza può
vestirsi di argomenti sottili. Viene descritto per esempio per il monaco questo
aspetto dell’umidità della cella. Siccome questa cella è umida o esposta poco
al sole, devo cambiare. Oppure c’è un’altra dimensione. A volte l’accidia si
manifesta con una preoccupazione eccessiva per la salute fisica. Diventa
quasi un’ossessione. Queste sono spesso manifestazioni dell’accidia, questo
timore della malattia. Anche se ripensando sempre all’ambiente monastico dove è
stata approfondita questa malattia, non è una cosa strana. Il monaco nel
deserto non aveva tutti gli aiuti che noi abbiamo oggi, mancava spesso
l’essenziale. E poi soprattutto ammalarsi significa una sfida. Imparare a
ringraziare per l’aiuto che riceviamo, per le persone che ci aiutano. Bisogna
essere pazienti con i fratelli che si prendono cura di noi e non sempre è
facile. I demoni cercano di impedire questo tramite le paure: ci presentano il
tempo della vecchiaia, tutte le malattie possibili e immaginabili e quindi
l’anima cade in una certa desolazione, si scoraggia facilmente.
La tentazione di considerare il lavoro improvvisamente
come la causa del proprio malessere. Questo può capitare a volte. La professione svolta
con tanta serenità fino al giorno prima diventa un peso opprimente. Non lo
sopporto più, mi costa tantissimo andare la mattina a lavorare.
A volte sento che colpevoli della mia infelicità
possono essere considerati i superiori o i colleghi che diventano odiosi;
non li sopporto più. L’accidioso si ricorda improvvisamente - questo aspetto è
tremendo - con dolorosa precisione, di tutte le ingiustizie che ha subito da
parte degli altri, o che pensa di aver subito, perché non sempre sono oggettive.
Però l’accidioso le richiama tutte perché lui crede di aver subito questi torti
o magari oggettivamente li ha anche subiti, però è puntiglioso nel ricordarli
tutti, con grande precisione.
Evagrio dice che l’accidioso è
addolorato dal pensiero che l’amore sia sparito fra i fratelli e che non ci sia
nessuno per consolarlo. E’ tipico questo, quando uno vive questo stato
d’animo. Tutto crolla, nessuno riesce a manifestare un amore. A volte anche
nelle comunità parrocchiali diciamo: “Mi ero avvicinato pensando di trovare
chissà quale ambiente, ma qui non c’è nulla”.
E’ comprensibile che in particolar modo chi vive il
celibato possa pensare che la fonte della propria infelicità sia proprio il
celibato, la mancanza di affetti veri, la convinzione di non avere nessuno
che si prenda cura con amore di noi. Io però direi che questa è l’esperienza di
tutti, non solo dei celibi, ma anche delle persone sposate.
Ma il vero
motivo della depressione non sta nell’altro: non è l’altro che me la causa,
non è perché l’altro non si prende cura di me o non mi ama. Non è questo. Non
si capisce che si è invischiati in una stranissima lotta con se stessi. L’avversario
non è l’altro, l’avversario sono io. E’ con me stesso che me la prendo:
non è l’istituzione, non è il celibato o il coniuge o i compagni, ma solo il
mio Io ferito da quell’amor proprio, da quello che i Padri chiamavano, con una
parola interessante, la philautìa.
Quando ci trattiamo con troppa compiacenza poniamo il terreno sul quale
fiorisce l’accidia.
C’è un metodo collaudato per sfuggire
a questo tormento, almeno in apparenza, che è il divertimento e
la distrazione. Non penso, così scappo da questa situazione e la copro.
Ma non si risolve così, lo sappiamo.
Siccome il vizio non è bello generalmente, per essere
accettato deve coprirsi con qualche maschera più accettabile, perché è talmente
brutto che deve camuffarsi. Qui avviene una cosa interessante: noi non staremmo
mai in compagnia di un accidioso e così
il vizio si nasconde sotto qualche velo di virtù.
Evagrio dice che l’accidioso adduce come pretesto
visite ad ammalati. Di fatto soddisfa solo la sua intenzione. Il monaco accidioso è pronto a servire, a
donarsi, a fare qualcosa per l’altro e considera la propria soddisfazione come
un dovere. Cosa avviene quindi? Siccome sono in questa situazione difficile
di vuoto, di pesantezza, questa irrequietezza deve trovare uno sbocco e
quindi mi butto nell’attivismo. Devo trovare un canale e allora mi illudo che questa sia la virtù
cristiana dell’amore, ma non ha niente a che fare con l’amore. Sono io che ho
bisogno di quell’attivismo per riempire il mio vuoto, ma questo non è la
carità. Questo è un errore pericolosissimo, l’illusione dell’agenda piena. Siccome sono impegnato non ci
penso più alle cose profonde, alle cose che mi prendono e che dovrebbero essere
considerate in altro modo. Questo attivismo mi impedisce di vedere il mio vuoto interiore. Questa
tendenza è pericolosa perché a volte si copre di scopi elevati. Per questo Evagrio dice che il monaco, pur di non stare nella sua
cella, pensa: “Vado a trovare il fratello che è malato”. Apparentemente è una
cosa santissima, ma la motivazione non è altrettanto santa. Non parte da
un’autentica carità.
Qualcuno potrebbe pensare che sono finezze a livello
spirituale però, se ci pensiamo bene, sono cose importanti da vedere con calma
e serenità. Questo non è un discorso per demoralizzare, ma per far crescere.
Questa è la prospettiva: intervenire dove qualcosa non si è incanalata per il
verso giusto. Perché quando c’è
esagerazione nella vita, quando siamo esagerati, ricordiamoci che lì c’è sempre
in azione il nemico. Le forme di esagerazione nascondono sempre qualcuno
che ci porta fuori strada. Il demonio è amico di ogni forma di
esagerazione.
E c’è anche un criterio sicuro per distinguere il
vero amore del prossimo che, per Evagrio, si
manifesta sempre come mitezza. L’amore vero è sempre mite e allora per Evagrio il vero amore si riconosce dai frutti. L’amore
quando è vero rende la persona amabile, serena, amorevole. L’attivismo che
nasce dall’accidia rende invece amari e impazienti. Una persona si può fare in quattro, ma alla fine della giornata non è
contenta, mentre l’amore vero, anche se sei stanchissimo la sera, ti lascia
una grande pace. L’amarezza che sentiamo alla fine delle nostre giornate, a
volte per aver fatto tanto, nasce quindi da questo tipo di tentazione, non dal
lavoro fatto. Perché il lavoro fatto
serenamente lascia una grande pace, mentre l’amarezza nasce quando ho fatto
tutto quello che dovevo fare ma non con le motivazioni giuste, quelle
dell’agape, dell’amore. E’ una bellissima distinzione quella che Evagrio offre per capire da dove nasce il servizio, la
dedizione agli altri.
L’accidia diffonde anche l’indolenza
che si manifesta in trascuratezza e pigrizia dei propri doveri. Da qui il minimalismo che è la tentazione tipica dell’accidia. Possono
capitare momenti della nostra vita in cui ci troviamo in un umore
particolarmente nero: tutto ci pesa, ci sembra eccessivo. Ci sono incombenze
che magari in altri momenti della nostra vita abbiamo svolto con facilità che
in quel momento in cui l’accidia ha preso il sopravvento ci sembrano macigni.
Ma si può oscillare da questo minimalismo al massimalismo distruttivo (agenda
piena). E’ un pendolo che va da una parte all’altra.
Evagrio pone un criterio di discernimento
che è l’intenzione. Su questo tutti dovremmo lavorare di più, tutti! Vedere quale intenzione c’è alla base di ciò che facciamo o tralasciamo.
Si tratta di vedere se facciamo il bene per se stesso oppure se lo
strumentalizziamo in vista di scopi egoistici. Questa è una verifica che
ciascuno può portare avanti.
L’egoismo in tutte le sue forme altro non è che
l’innamoramento di noi stessi che sta alla radice di ogni male. Ecco perché citavo quella parola
che usavano i Padri, la philautìa,
l’essere troppo innamorati di se stessi.
Quale frutto viene quando si va avanti su questa
strada? Lo scoraggiamento, che è una
cosa tremenda. E’ perdere la speranza. Nascono
i dubbi. A volte, anche sulla vocazione che si vive, uno si
chiede: “Forse non era la mia strada, ho sbagliato tutto”. Sono dubbi che si
insinuano lentamente e, se non vengono bloccati, cercano di corrodere la nostra
fiducia come una goccia che scava una roccia. E’ facile per il nostro nemico convincere la persona accidiosa che ha
sbagliato tutto per quanto riguarda la sua vocazione, perché le motivazioni che
lo hanno spinto a scegliere quella strada sono tutte di ordine naturale, non
soprannaturale. E’ lui che si è industriato, ma non era cosa che veniva da
Dio.
Romano Guardini descrive
bene la situazione di scoraggiamento provocata dall’accidia: “La persona fatta così non si riconosce
nessuna qualità o capacità, è persuasa di essere da meno degli altri, di non
essere nulla, di non sapere nulla, non già perché sia dotata insufficientemente
e neppure abbia subito degli insuccessi. E’ piuttosto una convinzione a priori
che non si riesce mai a togliere di mezzo definitivamente, neppure con la buona
riuscita e il successo. In ogni sconfitta si legge poi confermata la
disistima di sé al di là della portata reale della sconfitta stessa”.
E’ un andare sempre in discesa, questa dimensione di scoraggiamento e disistima
di se stessi.
Enzo Bianchi dice che è una specie di asfissia, un soffocamento dell’anima che
condanna l’uomo all’infelicità, portandolo a disdegnare ciò che ha, la
situazione che vive, il proprio lavoro, la propria professione, la situazione
affettiva. Sogna un’altra cosa, irraggiungibile, che non esiste. Questo
causa fuga dalla realtà, illusione, deliri.
Ma qual è la causa? Perché si arriva a questa
situazione? Come mai la persona può arrivare a questo tipo di depressione, di
tristezza? Le cause sono tante - non è neanche il mio campo - potrebbero essere molte. Dal
punto di vista spirituale vorrei, però, che fosse chiara solo una cosa. Il terreno fertile per questa situazione è
questo amore smodato per noi stessi, la troppa compiacenza per noi stessi.
Non dimentichiamocene perché quando siamo troppo amici di noi stessi questo può
tradursi addirittura in qualcosa di non buono.
Perché l’Io ad un certo punto prende il posto di Dio. Questo amore di sé è il vero idolo
che minaccia la nostra vita, è l’idolo più seducente, il più sottile. Perché va
avanti il nostro progetto, il nostro cammino. Tutto diventa intaccato dall’idolatria. Se Dio non è più il Signore della nostra vita, l’Io diventa il nostro
Signore. E i frutti sono questi. E’ l’idolatria più tremenda perché il
centro assoluto del mondo diventiamo noi, non Dio e si comincia a valutare ogni cosa in funzione dei propri bisogni,
della propria idea, dei propri desideri, dei propri giudizi. In questo
modo si sviluppa una brama di potere che vizia alla base ogni relazione con gli
altri. Perché si vive nel regime della preda, del possesso, e non del dono di
sé. Questo ripiegamento su di sé può trasformarsi benissimo in una smodata preoccupazione
di sé, in indifferenza, disprezzo, mancanza di interesse. Tutte porte aperte
per l’accidia. Questo è il terreno su cui fiorisce questa malattia. Ecco perché
forse in passato i formatori avevano
una buona vigilanza su questo aspetto, poi ci siamo lasciati prendere troppo
dalla preoccupazione per lo “stare bene” della persona, per il non avere disagi.
Accenno ora ai rimedi dell’accidia: niente di
eccezionale ma quello che la Chiesa da sempre ha proposto.
Prima di tutto la pazienza. Intesa come capacità
di resistenza. Siccome
l’irrequietezza porta a cambiare luogo, situazione, io devo mettere qualcosa
che va contro quello stato d’animo che si crea. E’ importante che ci sia questa virtù della pietra, il
rimanere. Io lo racchiudo in una parola
che nella Bibbia è fondamentale: l’ “eccomi”. “Eccomi” significa ci
sono: io non scappo, non desidero una situazione diversa da quella che sto
vivendo. Non posso dire: “Se avessi un’altra famiglia, un’altra parrocchia,
altri amici, altre relazioni, chissà cosa potrei fare”. Questo è un inganno,
un’illusione. La cosa principale è
quindi rimanere in quella situazione. Dire “eccomi” vuol dire dunque
che io non sto fuggendo nei miei deliri, nella mia illusione. Credo che sia
molto importante questa dimensione della pazienza. Perché sintetizza la
condizione del cristiano nella storia. Deve essere accolta come via normale di
maturazione, in attesa dell’incontro con il veniente, con colui che ci darà la
pienezza. La pazienza è la fermezza che
fa restare quello che si è, qualsiasi cosa succeda, la pazienza del contadino.
La pazienza di attendere, non importa se a lungo.
La seconda via di guarigione è la stabilità. Rimanere
stabili dentro soprattutto. Anche se poi richiede una stabilità nel tempo e
traduce in fondo la pazienza. Rimanere
stabile è già una risposta.
C’è una stabilità nello spazio naturalmente, per non fuggire lo
spazio che ci circonda. Perché anche questa sarebbe, secondo i Padri del
deserto, una fuga da se stessi. Dice un detto dei Padri del deserto: “Va’, rimani nella tua cella e la tua cella
ti insegnerà ogni cosa”. Una cosa è fuggire quando c’è difficoltà di
relazione, altro è affrontarla ed approfondire quella relazione. Si diventa più
maturi e la relazione stessa diventa più bella quando ha superato una certa
fatica, una certa difficoltà. Anche la stabilità nello spazio è importante.
La terza via è la preghiera, vissuta soprattutto come preghiera
semplice: la preghiera fatta nell’attesa
deve essere semplice, a volte fatta con le lacrime. Evagrio
dice: “Invoca il Signore nella notte con
lacrime e nessuno si accorga che stai pregando, e troverai grazia”. Qui il
richiamo alle lacrime è fondamentale perché le lacrime sono l’espressione di un
passaggio da una tristezza negativa ad una tristezza secondo Dio. Ci
sono due tipi di tristezza. Uno può essere veramente scoraggiato, senza
speranza, nella depressione più nera, oppure triste perché consapevole dei
propri limiti ma fiducioso al massimo della misericordia e dell’amore di Dio.
Le lacrime segnano questo passaggio da una tristezza senza Dio a una tristezza
secondo Dio. E’ la famosa contrizione del cuore, che è un’esperienza spirituale
fortissima, perché le lacrime ci fanno
prendere coscienza delle nostre ferite più intime, ma quelle ferite non sono
causa per rimanere ripiegato su me stesso, incartato, ma il luogo della mia
povertà per cui mi apro di più a Dio proprio in quella situazione.
Mi ricordo P. Tomáš Špidlík.
Avete conosciuto questo patriarca stupendo. Lui mi raccontò una volta per farmi
capire cos’è la contrizione del cuore, la tristezza secondo Dio, l’episodio di
un signore che era andato via di casa. Un signore che si ubriacava, maltrattava
la moglie e che ad un certo punto se ne era andato con un’altra donna. Dopo
anni la moglie ritrova il marito per strada che era diventato un barbone. Lo
prende, lo porta a casa, lo ripulisce, gli dà da mangiare, lo cura come se
niente fosse. E lui, diceva padre P. Špidlík, passa i
suoi giorni guardando sua moglie e piangendo. Questa è la tristezza secondo Dio, il dolore di sentire che è una situazione
di limite, di peccato, ma di sentirsi amato. Il frutto delle lacrime nasce
proprio dall’esperienza della misericordia che faccio su di me. Ma è importante
che ci sia una preghiera semplice. La preghiera del cuore qui può andare bene.
Conoscete i “Racconti del pellegrino russo”? La preghiera potrebbe essere
allora: “Gesù abbi pietà di me che sono
un peccatore”. Perché siccome
l’accidia porta a sviluppare un pensiero complicato e a ricamarci sopra, non
devo fare preghiere troppo impegnative, ma una preghiera semplice, affettiva,
che mi aiuti ad andare avanti.
C’è poi il quarto
rimedio della vigilanza, molto importante nel vangelo. E’ una parola che torna tantissime volte.
Questa è la condizione di fondo della vita cristiana, perché occorre avere
questo atteggiamento che previene le situazioni. Essere attenti, essere svegli,
non addormentarsi nella vita perché il sonno, lo sappiamo, è simbolo del
peccato, dell’addormentarsi, del non accogliere il Signore. Custodire il cuore: che ci sia un
portinaio davanti al cuore per non far entrare certi pensieri che sappiamo essere contrari al pensiero di
Dio. Occorre esaminare l’intenzione a cui i pensieri ci conducono,
secondo le indicazioni di Evagrio. Perché vorrei fare
questo?
Il quinto rimedio è la memoria mortis, avere la coscienza della morte, la
consapevolezza che la vita è realtà che va vissuta come pellegrini. Devo avere questa coscienza della
mia fragilità e della mia mortalità. Questa è un’arma contro la tiepidezza. Se
non sbaglio è Mozart che dice: “Non c’è
stato giorno della mia vita che io non abbia pensato alla morte”, come
chiave di interpretazione della vita. Questo è molto bello, non ha niente a che
fare con pensieri tristi e brutti, ma è
per vivere con pienezza l’oggi, perché la luce per l’oggi la devo
attingere dall’eternità, dalla vita eterna.
L’altro rimedio il sesto è l’apertura
del cuore al padre spirituale. Che ci sia questa trasparenza, questo
non avere pieghe dove nascondersi e dove nascondere gli altri, ma avere questa
limpidezza e questa fiducia perché da solo non
posso discernere tutti i pensieri che mi vengono e in che direzione stanno
andando. L’apertura ad un padre spirituale richiede trasparenza e il
fatto di aprirmi, di avere questa trasparenza, impedisce al nemico di lavorare
dentro di me, perché non trova dove nascondersi. E’ apertura alla luce, allo
Spirito Santo. Tanto è vero che i Padri del deserto chiedevano ai propri figli
spirituali alla fine di ogni giornata di passare da loro e di manifestare tutti
i pensieri cattivi o strani che avevano avuto durante la giornata. Perché solo
così si spezzano, si frantumano, e non si crea quel lavorio interiore che
l’accidioso porta avanti costruendo dal niente un castello costruito sulla
sabbia, che non esiste.
L’ultimo rimedio, il settimo, è il lavoro. Il lavoro è fondamentale. Sono andato a trovare un eremita
due anni fa e lui mi ha fatto vedere che sta ricostruendo il suo eremo vicino a
Cascia. Sta facendo un lavoro con la pietra di
bellezza straordinaria. E’ stato bello vedere la passione con la quale faceva
questo lavoro, l’amore, l’entusiasmo. Il
lavoro ha una grande funzione di guarigione, naturalmente se commisurato
alle proprie forze. Anche qui non ci deve essere esagerazione. Evagrio dice: “Fissati
una misura in ogni lavoro e non abbandonarlo prima di averlo portato a termine”.
Ma con una misura, perché se si esagera si finisce di nuovo fuori pista. Il
lavoro vissuto con serenità è un mezzo prezioso per vincere l’accidia. Si
racconta di S.Antonio Abate: “Un giorno il santo padre Antonio, mentre sedeva nel deserto, fu preso
da sconforto, da accidia e da fitta tenebra di pensieri e diceva a Dio: O
Signore, io voglio salvarmi, ma i miei pensieri me lo impediscono, che posso
fare nella mia afflizione? Ora, sporgendosi un poco, Antonio vede un altro come
lui che sta seduto e lavora, poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e
prega. Poi di nuovo si mette seduto ad intrecciare le corde e poi ancora si
alza e prega. Era un angelo del Signore mandato per correggere Antonio e dargli
forza. E udì l’angelo che diceva: Fai così e sarai salvo. E all’udire queste
parole fu preso da grande gioia e coraggio. Così fece e si salvò”.
Come vedete non c’è niente di straordinario nei rimedi
proposti, sono mezzi che già conosciamo e che vanno vissuti con molta costanza
e fedeltà. Perché come ogni cura funzionano se c’è la fedeltà.