Essere monaci nella Chiesa
locale
di Mario Torcivia
Sono qui non in quanto monaco, sono infatti presbitero
diocesano. Sono qui perché ho condotto un lavoro di ricerca e mi interesso di
monachesimo, specificamente delle nuove
comunità monastiche considerate come una
modalità nuova — e sottolineo una, non la modalità — odierna, post-conciliare, di vivere il
carisma monastico. La sottolineatura è voluta perché non ci deve essere mai
alcuna pretesa da parte del nuovo di poter dire: «lo sono il monachesimo, gli
altri non lo sono». Sarebbe banale e insipiente. D'altra parte, il carisma
monastico, come la storia insegna, non si è presentato mai in modo monolitico
ma, fin dall`inizio, si è manifestato variegato. E di questo dobbiamo gioire.
Ma entriamo
nel contenuto della relazione assegnatami.
Le nuove comunità monastiche sono realtà ecclesiali
che volutamente hanno scelto di non far parte dell`Ordo
monasticus tradizionale per vivere un
monachesimo nella Chiesa locale, o diocesano, senza alcuna esenzione dall'autorità
episcopale. Uso una duplice dicitura perché quando dico «monachesimo nella Chiesa locale» mi riferisco alla Comunità di Bose, alla Piccola Famiglia dell'Annunziata, alla Comunità
dei Figli di Dio — per citare le più famose — che vivono una certa autonomia
dall`autorità episcopale anche per il deciso, forte carisma dei suoi fondatori
(Bianchi, Dossetti, Barsotti). Parlo di «monachesimo diocesano» — e mi
riferisco, soprattutto, alla Piccola Famiglia della Risurrezione di Marango (VE) - quando
si vive una stretta dipendenza dal vescovo. Questi, infatti, riceve la
professione monastica degli stessi monaci, cosa che non avviene nelle altre
nuove comunità monastiche. Se, pertanto, «monachesimo nella Chiesa
locale dice un po' più di distanza, «monachesimo
diocesano» dice il riconoscimento del fatto che il vescovo è colui nelle cui
mani tu, monaco, professi, anche se ci sono delle situazioni che, con il
cambiamento del vescovo possono evolversi, ma questo fa parte del gioco e della
magmaticità delle nuove comunità monastiche.
La principale ragione della scelta fondamentale delle
nuove comunità monastiche è data, oltre che dal rifarsi al monachesimo nei primi secoli della Chiesa, dall'assunzione dell'ecclesiologia di comunione
che ha caratterizzato il Concilio Vaticano II e dalla riscoperta della
centralità della Chiesa locale.
Sul rapporto tra queste motivazioni e gli eventuali
problemi in ordine ad una riproposizione del monachesimo nella Chiesa locale,
così scriveva Enzo Bianchi nel 1998: «Nella
storia si sono registrate, e tuttora si possono registrare, gravi difficoltà
tra l'ordinario del luogo, l’assetto istituzionale del presbiterio e la
comunità monastica che apre un'altra forma
vitae: occorrerebbe un altro tipo di vescovi e una «grazia» particolare
per capire che si deve vivere di comunione, ma in una unità plurale, non in
un'unità uniforme. Eppure questo non mi impedisce di ribadire che in
un’ecclesiologia di comunione il monachesimo si troverà legato alle Chiese
locali come nel primo millennio». La
scelta della Chiesa locale si è pertanto operata, ma si capisce che la
difficoltà c'è e non può che essere così. Con buona pace dobbiamo
accettarla e non dobbiamo avere la pretesa di avere subito una soluzione. Può
essere che i tempi non siano maturi, può essere che noi non siamo pronti, o che
voi, monaci, specificatamente, non siate pronti a essere ancora più soggetto
per dire «questo siamo, questo vogliamo realizzare».
La Chiesa locale è, infatti, la comunità dei fedeli in
cui existit (LG 23) e si rende veramente
presente la Chiesa di Cristo (LG 26; CD ll) e la cui speciale manifestazione si ha quando è
radunata per la celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo (SC 41), segno
sacramentale di unità e di comunione della porzione di popolo affidatogli da
Dio.
Un altro aspetto relativo alla riscoperta della
teologia della Chiesa locale è dato dal fatto che il Vaticano II vi arriva
anche per tutta una serie di studi che sono stati fatti in ordine alla
comprensione che i Padri hanno avuto della centralità della Chiesa locale.
Le nuove forme di vita monastica accolgono pertanto quella che è una riflessione patristica antica,
riflessione che poneva la Chiesa locale al centro, ma Chiesa locale nella sua interezza di comunità che la
costituivano. Fra queste c`era anche
la comunità monastica, e penso alla riflessione di Ignazio di Antiochia (motivo per cui Dossetti lo ha voluto come uno
dei quattro santi particolarmente venerati dalla sua comunità), come pure agli
studi sul monachesimo basilicale, quel monachesimo del IV·VIII
secolo, specialmente palestinese, che si prendeva cura delle basiliche
all`interno delle Chiese locali.
C`è quindi
una riscoperta della Chiesa locale, ma c'è anche una riscoperta nelle fonti
monastiche del fatto che il monachesimo non è semplicemente quello che noi
conosciamo.
Il monachesimo che noi conosciamo, specialmente dopo
la soppressione napoleonica, è stato un monachesimo velato anche di
romanticismo, che ha privilegiato
l’unica tipologia del monastero extra-moenia,
possibilmente in ambiente rurale, in campagna, e anche con gli stilemi
architettonici neo-romanici o neo-gotici, proprio per significare una precisa
tipologia. Dopo la soppressione napoleonica e la rinascita del monachesimo in
Europa e anche da noi, in Italia, si perviene a questa idea che, forse, è
diventata esaustiva del discorso monastico. Quindi, se noi pensiamo al
monachesimo. pensiamo al monachesimo in campagna, rurale. Poi magari era un
monachesimo rurale in cui però i monaci avevano tutte le comodità di cui si ha bisogno,
però quella tipologia è rimasta, in sé, nel sentirsi monaci, ma anche,
dicevamo, nell`architettura.
Ma
ritorniamo al discorso della Chiesa locale.
Questa Chiesa locale accanto alle tante altre comunità
ecclesiali che la costituiscono (la comunità familiare, parrocchiale, le
associazioni, i movimenti, i gruppi) presenta
anche la comunità monastica nei confronti della quale AG 18 afferma che,
essendo pertinente che la vita contemplativa manifesti in maniera piena la
presenza della Chiesa, è necessario che
venga instaurata (ubique instauretur), che sia presente, presso le chiese locali
che vanno nascendo nei territori di missione. Questo numero di AG dice pertanto
che la vita contemplativa è importante perché la Chiesa si manifesti nella sua
pienezza. Nelle giovani chiese deve esserci, quindi, la presenza della vita
contemplativa.
Se tale presenza monastica è pertanto fondamentale per la forma più piena della
Chiesa locale — cioè perché realmente la Chiesa locale sia completa nelle
sue varie compagini che la compongono — perché,
si domandano i fondatori delle nuove comunità monastiche relegare la vita
monastica solo all'interno dei tradizionali Ordini monastici, tutti
canonicamente esenti? Ed ancora: perché il vescovo dovrebbe essere privato del
ministero di guida responsabile, di padre, e di promotore della fecondità
spirituale di quella porzione di fedeli che hanno ricevuto il dono carismatico
della vita monastica? Se la Chiesa locale è posta al centro della riflessione
del Vaticano II e se il vescovo. in quanto pastore della Chiesa locale, è colui
che ha il carisma e il ministero di avere la sollecitudine per tutte le
componenti del popolo di Dio, di quella porzione di Chiesa che Dio gli ha
affidato, perché il vescovo deve essere
esentato da quella funzione di paternità responsabile, promotrice di fecondità
spirituale nei riguardi di quelle persone che hanno ricevuto il dono
carismatico della vita monastica?
Accanto alla riscoperta conciliare della Chiesa
locale, c'è anche da evidenziare la necessaria scelta della Chiesa locale da
parte delle nuove comunità monastiche, perché nate volutamente fuori dall`alveo
tradizionale o perché, a volte, si sono distaccate da esso - in questo caso la
scelta, per forza di cose, si è rivelata quella della Chiesa locale. Mi
riferisco, per quest'ultimo caso, alla Comunità della Ss.
Trinità di Dumenza, alla comunità di Buccinasco e a quella di Siloe. Queste nuove comunità hanno dovuto bussare
alla porta della Chiesa locale, anche se variegata si è presentata l'accoglienza
dei singoli vescovi.
Ci sono stati, infatti, due tipi di
accoglienza: pensiamo a
Bose, talmente avversata dal vescovo di Biella che
non ha permesso la celebrazione dei sacramenti, o pensiamo alla Piccola
Famiglia dell'Annunziata di Dossetti e il Fondamentale appoggio ricevuto dal
card. Lercaro. Quindi: avversione o appoggio. Fin dall'inizio, pertanto, non c'è stata
uniformità nelle nuove comunità monastiche nel presentarsi in rapporto alla
Chiesa locale.
Il principale tratto distintivo
delle nuove comunità monastiche è quindi quello di non vivere alcuna esenzione
dall’autorità del vescovo della Chiesa locale e quindi alcuna fuga ecclesiae, per essere invece, in toto, parte del
popolo credente che forma la Chiesa locale.
Per la legge della Chiesa l'esenzione, inerente solo
la vita interna degli Istituti (can. 593) è un mezzo per tutelare una certa
autonomia degli Istituti specie in ordine al loro governo (can. 586 § 1) e ha
lo scopo di provvedere agli Istituti di vita consacrata, alle Società di vita
apostolica e all’apostolato del Papa, sempre per la comune utilità (cann. 591 e 732). Anche nel Codice di Diritto Canonico
delle Chiese Orientali abbiamo la presenza dell'esenzione per i monasteri
patriarcali, che dipendono direttamente dal Patriarca e non dal vescovo del
luogo.
Considerato il fatto però che queste nuove comunità
hanno scelto volutamente di non appartenere al monachesimo tradizionale e di
essere totalmente radicate nella Chiesa locale dove vivono, penso che questo
renda vana ogni richiesta, ogni desiderio di esenzione.
E' nell'essere pienamente inseriti
nella Chiesa locale che si vive ciò che la Chiesa locale sta vivendo. Concretamente: si vive con quel
pastore, quel presbiterio, quel popolo di Dio che costituiscono quella Chiesa
locale. Ci sono tempi buoni e tempi meno buoni. Ci sono pastori con i quali si
dialoga meglio e quelli con i quali si dialoga meno bene.
La scelta di non avere nessuna esenzione dall’autorità
del vescovo costituisce un elemento precipuo delle nuove comunità monastiche.
Dopo il Vaticano II è andata sempre più avanti la riflessione sul necessario
dialogo fra la comunità monastica e la Chiesa locale, mentre da parte delle
comunità tradizionali non vi è alcuna volontà di abbandonare l'esenzione.
Si nota chiaramente il desiderio della comunità
monastica di dialogare con la Chiesa locale, però c'è una piccola differenza
tra le nuove comunità e il monachesimo tradizionale. Le prime infatti sono
pienamente inserite nella Chiesa locale in quanto hanno scelto di essere monaci
nella Chiesa locale/monaci diocesani. Le
comunità tradizionali non rinunciano invece all'esenzione per cui c`è rapporto,
ma con una certa distanza.
La scelta di vivere nella Chiesa
locale vanifica inoltre la pretesa superiorità della vita monastica rispetto ad
ogni altra vocazione cristiana. Noi forse oggi non lo diciamo più, però, badate: non
lo diciamo a parole, ma lo si può dire anche in altri modi. Ci possono essere
altre modalità (visive, architettoniche, ecc.) per continuare a dire che c'è
una certa superiorità. Ma perché è importante vanificare questa pretesa
superiorità? La risposta è semplice: per
un monachesimo percepito solo come radicalizzazione della vita battesimale del
credente in Cristo, dove il soggetto è la vita battesimale (alla luce della riscoperta
del Vaticano II) e dove l’apporto del monachesimo è quello della
radicalizzazione. Alcuni sottolineano solo il discorso escatologico, il
segno dell`oltre e dell'Altro, perché già la radicalizzazione può essere vista
come un'ulteriore superiorità. Dobbiamo essere quindi anche attenti, perché il
linguaggio veicola sempre idee.
Inoltre, questo
monachesimo nella Chiesa locale sveste la vita monastica del grande e a volte
appesantito apparato strutturale delle grandi congregazioni monastiche. La
nuova comunità ha più agilità perché
non ha un passato e la comunità tradizionale è incapace a volte di porre anche
quelle che riconosce essere delle riforme necessarie, perché sente l`eredità
pesante di una storia. C'è una pesantezza storica che indubbiamente rallenta il
cammino. Le nuove comunità monastiche sono più agili, più snelle, anche se, dall'altra parte, mancano di
tradizione, e questo è un limite perché la vita monastica la si riceve, non la
si inventa.
La scelta di vivere pienamente inseriti nella Chiesa
locale da parte delle nuove comunità monastiche costringe queste stesse nuove comunità monastiche a non beneficiare
delle linee di spiritualità, ma anche delle regole e delle plurisecolari
garanzie canoniche, esistenti nel monachesimo tradizionale.
A parte le comunità scisse da altri monasteri che
hanno mantenuto la Regula Benedicti, tutte le altre nuove comunità hanno creato delle regole nuove. Questa
è una bella novità, un apporto significativo delle nuove comunità monastiche.
Alcune regole sono state scelte da altre nuove comunità monastiche, come nel
caso della Piccola Famiglia della Risurrezione di Marango,
e questo è bello perché c'è già stata una paternità e una filiazione anche in
ordine alle regole stesse. Questa è creatività dello Spirito. Dicevamo come
molte nuove comunità non hanno la regola di Benedetto, ma hanno una loro
propria regola; comprendiamo però bene che i
padri monastici sono gli stessi: Basilio, Cassiano,
Pacomio, ecc. Quindi
anche se non c`è materialmente la regola di San Benedetto, di fatto c'è un
attingere a piene mani da quelle che sono le regole monastiche tradizionali,
perché la vita monastica non la si inventa ma la si riceve.
Tutto questo — l`essere più agili, l'essere svestiti
dalle strutture, l'essere liberi da regole, costituzioni, costumi tipici,
consuetudini monastiche che sono presenti nella vita delle tante comunità
monastiche tradizionali — perché le nuove comunità monastiche vivano pienamente
inserite nella Chiesa locale con la sua storia, la sua riflessione ecclesiologica,
le sue ricchezze, ma anche le sue povertà. Vivono e respirano di quella che è
la storia e la riflessione della Chiesa nella quale si trovano a vivere.
D'altra parte perché dovreste essere diversi dalle parrocchie, dai gruppi, dai
«normali» cristiani che costituiscono il popolo della Chiesa locale? Se un
episcopato è «difficile», perché incapace di dialogare con i componenti della
Chiesa locale, come è «difficile» per la parrocchia, per il consiglio
presbiterale, per il consiglio degli affari economici, per il comune
battezzato, sarà «difficile» anche per la comunità monastica. Perché dovreste
avere una differenziazione di rapporto se il problema è magari a monte, perché
quel vescovo non dialoga o è autoritario e quindi decide tutto lui? L’inserimento nella Chiesa locale fa
sposare la Chiesa locale in toto, con la sua storia, il tessuto, la
riflessione, il vivere, le persone, senza alcuna esenzione. Si respira lo
spirito della Chiesa locale.
Il riferimento alla Chiesa locale acquista un ulteriore
coloritura nelle comunità dossettiane perché, secondo
don Giuseppe Dossetti, esso fa sì che la comunità sia formata da celibi e da
coniugati e ciò, ancora prima che per una determinata tipologia monastica, per
il legame con la stessa Chiesa neotestamentaria, con la stessa comunità
neotestamentaria. Don Dossetti, relativamente alla Piccola Famiglia
dell'Annunziata, preferisce definirla «comunità neotestamentaria» ed egli
stesso diceva: «La qualifica monastica non ci interessa». Poi, quando si
parlava di contemplativi, diceva: «Meno che mai contemplativi!», perché
conosceva bene la disputa relativa al discorso sulla contemplazione. Questo
riferimento alla Comunità neotestamentaria è la volontà di far sì che la Chiesa
locale si riappropri dell'unità battesimale del popolo di Dio — questo, per
Dossetti, era molto chiaro — e viva la varietà dei carismi matrimoniale e
celibatario come ricchezza elargita dallo Spirito. Ecco perché il richiamo
neotestamentario, dove la comunità è costituita da celibi e coniugati insieme.
Per questo comunità neotestamentaria più che monastica, perché monastica
dice solo il celibato. Se noi invece riandiamo alla fonte neotestamentaria ci
accorgiamo che questa unità del popolo di Dio, questa unità battesimale, si
realizza nella varietà dei carismi che costituiscono questa comunità
neotestamentaria e i carismi sono quello matrimoniale e quello celibatario.
Ecco perché l`opzione di don Dossetti è di far sì che la Piccola Famiglia
dell’Annunziata sia unica, composta da celibi e da coniugi, appartenenti a due
rami diversi.
Come anche l'opzione di don Barsotti
riguardo alla Comunità dei Figli di Dio, che si presenta come comunità
anch'essa unica e arricchita dalla presenza di tutte le vocazioni, tra cui
quella comunitaria, celibataria, maschile e
femminile. Se per Dossetti sono due i rami, per la Comunità dei Figli di Dio
sono quattro, però il criterio è lo stesso, cioè l'unicità della comunità viene
salvaguardata e questo è l'asserto fondamentale. L'unicità della comunità poi
si realizza nella diversità dei rami all''interno dei quali si situano i
componenti (possono essere celibi, sposati, vedovi, possono essere persone che
fanno vita comune, cioè quelli che noi chiamiamo strictu
sensu i monaci e le monache).
Questo pieno inserimento della vita
monastica nella Chiesa locale non deve attentare però a quella necessaria
distanza della comunità monastica dal vescovo diocesano e dall’istituzione
ecclesiastica in sé. Questo per evitare il rischio di
un`eccessiva «protezione episcopale» che non gioverebbe al cammino autonomo,
alla piena libertà che le nuove comunità monastiche presentano, al loro volere
camminare autenticamente in modo monastico. Si rischierebbe infatti di non
diventare mai adulti e di restare sempre figli piccoli. Allora rileggiamo la
storia di quelle comunità monastiche che hanno avuto all’inizio il vescovo
dalla loro parte, che li ha aiutati, che li ha anche protetti all'inizio dalle
critiche non sempre positive del clero e dei laici. Ma la protezione poi deve
finire, perché il bambino deve essere capace di camminare con le proprie gambe.
Perché camminando con le proprie gambe si cresce, si afferma la propria
identità, si diventa maturi. Si faranno anche degli sbagli, è ovvio, però si
cammina in modo libero. Quindi leggiamo la storia di questi cambiamenti, ma
leggiamola in modo anche provvidenziale, nella misura in cui ha permesso ad
alcune nuove comunità di essere sganciate da una presenza bella, graziosa, ma
che rischia di essere una presenza un po` gravante, involontariamente, per
un'autonomia di cammino. Un cammino monastico così realizzato, scevro da ogni
sicurezza istituzionale, per vivere la precarietà del quotidiano. Proprio perché non c'è alcuna protezione tu
devi vivere nella ferialità, nella quotidianità, la
precarietà del tuo camminare. Tu
devi essere lontano da ogni sicurezza che ti può venire, specialmente se questa
sicurezza può giocare anche psicologicamente perché ti porta a dire: «Va beh...
se va così, però c'è il vescovo...». No! Tu sei libero e tu vivi questa
precarietà nella ricerca quotidiana e costante delle mozioni dello Spirito, per
come tu devi vivere, per come tu devi realizzare il cammino monastico qui ed
ora nel tuo essere comunità nuova. Ti aiuta ad essere adulto e, dal punto di
vista spirituale, ti costringe a ricercare costantemente quello che lo Spirito
ti sta suggerendo, come tu devi vivere e realizzare la tua vocazione monastica,
perché non hai nessun altro appiglio.
E', pertanto, quella delle nuove
comunità, un’appartenenza alla Chiesa locale sui generis: perché il
monachesimo resta e deve restare sempre fondamentalmente libero rispetto ad
ogni apparato istituzionale e ciò a totale vantaggio di quel naturale dialogo
improntato alla sincerità che deve contraddistinguere ogni rapporto ecclesiale. Proprio perché tu sei altro, tu
hai la possibilità di dialogare da soggetto a soggetto, ma questa possibilità
di dialogo ti deriva dal fatto che tu sei libero nel tuo cammino. In relazione
con l'istituzione, col vescovo, tu sei libero, come ogni altro soggetto della
Chiesa locale. Quindi possiamo parlare di una necessaria autonomia dei
monasteri, delle comunità monastiche, che non diventa però indipendenza,
esenzione canonica, come ogni altra associazione di fedeli presente nella
Chiesa locale deve realizzare.
Parlare di questa necessaria distanza, significa sottolineare la scelta di marginalità
che si manifesta sia nel luogo in cui
queste nuove comunità vivono (molte volte è un luogo veramente difficile da
raggiungere), sia come marginalità in
ordine all`azione pastorale della Chiesa. Anche se alcune nuove comunità
monastiche svolgono dei servizi ecclesiali (alcune sono custodi di santuari) e
alcuni fondatori sono parroci. Per me la marginalità nella vita monastica
significa non tanto una marginalità di luogo — anche, in quanto può assicurare
maggior ossigeno alla vita monastica - ma in ordine all'azione pastorale della
Chiesa.
Capisco bene che un presbiterio, nel momento in cui
c`è un prete che fa il monaco e non fa il parroco, dice: «Ma costui che fa?
Perché non va a fare il parroco come gli altri?». E capisco bene che il
vescovo, per far tacere il presbiterio, dice: «'I`i scelgo una parrocchietta nella plaga più lontana. Là dove nessuno
vuole andare vai tu...e allora io calmo il presbiterio perché tu svolgi un servizio
ecclesiale in quanto parroco, anche se sperduto nella plaga solitaria. E là tu
puoi fare quello che vuoi, puoi dirti le tue preghiere...». Questo fa parte
delle nuove comunità, perché cinque fondatori sono anche parroci. Però io dico:
in sé non si deve essere parroci
perché una delle cose che è emersa nel dibattito monastico è che un
appesantimento della vita monastica è consistito sempre nel fatto che la
comunità monastica, l'abbazia, fosse anche parrocchia e quindi l`abate o il
priore della comunità monastica fosse anche il parroco della comunità locale.
Secondo me non dobbiamo ricadere in un errore che le stesse comunità monastiche
e anche i religiosi, soprattutto i mendicanti, ripetono e fa loro oggi sovente
affermare: «Lasciamo le parrocchie, perché non siamo nati per questo, siamo
nati per altro e riscopriamo la genuinità del nostro carisma ed evitiamo la «parrocchializzazione»». Io lo so che molte volte la
parrocchia rappresenta la conditio sine qua non perché il vescovo ti dia la possibilità di...
però, secondo me, dobbiamo batterci perche la vita monastica sia esente dal discorso parrocchiale.
La marginalità — e qui mi piace la riflessione dossettiana — riguarda anche lo specifico atteggiamento di stranierità/xenitía. Dossetti parlava dell'«inutilità» della
vita monastica, che dice distacco dal quotidiano transeunte per una solidale
comunione con tutti i senza storia dell`umanità — che sono tali non perché
abbiano scelto di esserlo, ma perché la storia o altri uomini li hanno resi
tali. Perché, fintantoché io posso scegliere liberamente di essere marginale,
la mia è una scelta di libertà, di marginalità, che mi permette di dire: «Io la
sto facendo» — e soprattutto con l’Eterno, con Dio. E' la concezione di un monachesimo scarnificato da ogni apparenza, che
non fa notizia, che non organizza alcun momento culturale o spirituale, ma in
cui si prega — attività propria della ricerca monastica — si pratica l'ascesi,
si lavora in assoluto silenzio e che gioisce grandemente per l'assoluta insignificanza.
Questa è la tipologia monastica dossettiana. Per
questo il pensiero di Dossetti ha avuto anche un'evoluzione perché, se prima
era più disponibile all`ordinazione dei monaci, poi egli stesso scriverà: «Ho
capito che il monachesimo deve essere laicale» e ha ridotto tantissimo
l`ordinazione dei preti. Dimensione, sempre per Dossetti, questa dell'assoluta
insignificanza, che rende il monachesimo paradossalmente rilevante per la
società. Questo è il paradosso dossettiano: proprio
questo tipo di monachesimo assolutamente irrilevante, proprio questa assoluta
estraneità dalla storia, per Dossetti rende paradossalmente rilevante il monachesimo
per la società (è il discorso all’Archiginnasio di Bologna).
La salutare distanza, marginalità, si dovrebbe a mio avviso concretizzare
nell'assenza di opere pastorali proprie (guida di parrocchie, scuole, opere
assistenziali...), anche se previste da PC 9. Credo infatti che la
caratteristica propria, il servizio
precipuo che la comunità monastica deve offrire rimanga quello della lettura
sapienziale della Parola, della preghiera e dell`accoglienza. E per far ciò
non c’è bisogno dell’opera pastorale.