Rallegratevi!
Lectio di Isaia 66,10-14

 

 

 

10Rallegratevi con Gerusalemme,

esultate per essa tutti voi che l'amate.

Sfavillate con essa di gioia

tutti voi che per essa eravate in lutto.

11Così sarete allattati e vi sazierete

al seno delle sue consolazioni;

succhierete e vi delizierete

al petto della sua gloria.

12Perché così dice il Signore:

"Ecco, io farò scorrere verso di essa,

come un fiume, la pace;

come un torrente in piena, la gloria delle genti.

Voi sarete allattati e portati in braccio,

e sulle ginocchia sarete accarezzati.

13Come una madre consola un figlio,

così io vi consolerò;

a Gerusalemme sarete consolati.

14Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore,

le vostre ossa saranno rigogliose come l'erba.

La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi,

ma la sua collera contro i nemici.

 

 

“Tu mi domandi se sono allegro; e come non potrei esserlo? Finché la fede mi darà la forza sarò sempre allegro. Ogni cattolico non può non essere allegro; la tristezza deve essere bandita dagli animi dei cattolici, il dolore non è la tristezza, che è una malattia peggiore di ogni altra. Questa malattia è quasi sempre prodotta dall’ateismo, ma lo scopo per cui noi siamo stati creati ci addita la via, seppur seminata di molte spine, ma non una triste via: essa è allegra anche attraverso i dolori”. Sono parole del beato Pier Giorgio Frassati (Torino 19011925), studente e terziario domenicano, membro della Fuci e di Azione Cattolica, proclamato beato nel 1990 da papa Giovanni Paolo II, alle quali potremmo benissimo aggiungere quelle di papa Francesco rivolte ai religiosi: "Una sequela triste di Cristo è una triste sequela. Non c’è santità nella tristezza".

In quale misura la gioia è realtà che ci accompagna, certo "tra molte spine", nella nostra vita cristiana e di consacrazione? Al servizio del Signore e della Chiesa ci sentiamo schiavi o figli amati? Perché penso che l'avere la gioia nel cuore dipenda proprio dalla percezione che abbiamo del nostro rapporto con Dio. Un Dio padrone da servire con paura e diffidenza non infonderà mai una santa esultanza nel nostro cuore. Un Dio che è padre, o addirittura come ci dirà Isaia, un padre capace di tenerezza materna ci scalda il cuore e lo intenerisce: non possiamo allora non amarlo e far conoscere agli altri il suo amore.

Chiediamo questo dono allo Spirito con le parole di Simeone il Nuovo Teologo:

Vieni, o Spirito, gioia eterna.

Vieni, corona immarcescibile.

Vieni, porpora del grande re nostro Dio.

Vieni destra veramente sovrana.

Vieni, tu che la mia anima hai desiderato e desideri.

Tu il Solo al solo, poiché tu lo vedi, io sono solo.

Vieni, tu che sei diventato tu stesso desiderio in me,

tu che mi hai dato di desiderarti,

tu l’assolutamente inaccessibile.

Vieni, mio soffio e mia vita.

Vieni consolazione della mia povera anima.

Vieni, mia gioia, mia gloria, mia delizia per sempre. Amen.

 

Lectio

 

Il testo è ricavato dalla terza parte del libro di Isaia, chiamato Terzo Isaia (Is 56-66) che consiste in una raccolta di oracoli composti dopo il ritorno dei giudei dall’esilio babilonese.

Il profeta annunzia ai pochi e delusi che sono ritornati dalla deportazione delle realtà grandiose.

In questa sezione del libro viene riportato anzitutto un oracolo in cui il profeta preannunzia l’inizio di un'era di pace, in cui tutti avranno lunga vita e abbondanza di beni materiali, unitamente al favore divino; persino gli animali selvaggi si riconcilieranno con quelli domestici e non faranno più male a nessuno (65,20-25). Il brano successivo inizia con questa domanda: "Quale casa mi potreste costruire?" (Is 66,1-2). Non certo un tempio dove "uno sacrifica un giovenco e poi uccide un uomo, … uno brucia incenso e poi venera l'iniquità" (66,3). Il vero tempio, che Dio vuole, è una comunità nuova, un popolo rinnovato nel cuore. Ma nessuno, all’infuori di Dio, può far nascere questa comunità nuova.

Dio promette di tornare ad essere lo sposo di questa Gerusalemme che si sente ancora in "lutto" credendo di essere stata dimenticata da Lui. Ma la notizia va ben oltre questa promessa per diventare annuncio gioioso addirittura di una nuova maternità per la sua sposa. Gerusalemme sarà costituita da Dio quale madre del suo popolo, premurosa, tenera, amorevole, capace di saziare abbondantemente. Madre di un popolo nuovo. È un miracolo inatteso e imprevisto di Dio. Egli che "apre" il grembo materno, cioè che ha creato la donna perché partorisca, può darle la fecondità e far generare figli (v. 9). 

Inizia qui il nostro brano, che è un inno di gioia per la rinascita di Gerusalemme.

Anzitutto il profeta invita coloro che amano la città santa a rallegrarsi con lei. Coloro ai quali è rivolto l’invito sono tutti gli abitanti di Gerusalemme, soprattutto quelli che erano desolati e depressi per la situazione di rovina in cui era caduta la città. Essi, che prima erano in lutto, adesso sono invitati a sfavillare di gioia (v. 10). Infatti tutto è cambiato, la città è risorta, ed essi devono rallegrarsi. Gerusalemme è come una madre che allatta i suoi figli con abbondanza e tenerezza, riempiendoli di consolazione e inondandoli della sua gloria (cfr v. 11).

Dio ricorre ad altre immagini legate ancora alla fecondità e dunque alla vita: la città santa è ora una città in pace, il che la rende simile a un grembo protetto e sicuro (v. 12); Dio farà scorrere verso di essa, come un fiume ricco d’acqua lo "shalom", e con questo la gloria delle genti (v. 12a).  

Viene qui ripreso un tema tipico del Terzo Isaia che descrive il futuro radioso di Gerusalemme con l’arrivo dei popoli pagani che, in pellegrinaggio, si recano al tempio per adorare il Dio di Israele portando con sé in dono tutte le loro ricchezze (cfr. Is 60,1-22). Nel nostro cantico le parole del Signore rivolte a Gerusalemme riprendono il tema della vita, espresso con l'immagine d fertilità e di energia: quella dell’erba fresca applicata alle ossa aride, ad indicare un ridonato vigore (cfr 66,14; cfr Ez 36).

La prosperità di Gerusalemme assicurerà ai suoi figli una esistenza circondata di tenerezza materna: essi "saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati" (ibid.) L'’uso del passivo significa che il soggetto non è più direttamente la città, ma Dio stesso che ha profuso in essa i suoi doni. Questa tenerezza materna sarà la tenerezza di Dio stesso: "Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò" (v. 13). Gerusalemme diventa allora il luogo in cui Dio personalmente si prenderà cura del suo popolo con lo stesso amore di una madre che vuole ogni bene per i figli da lei generati.

 

Meditatio

 

L’annunzio fatto da Isaia al suo popolo è straordinario e unico. Per la prima volta, infatti, Dio si presenta con le stesse intenzioni amorevoli di una madre. Egli, che sempre è stato rappresentato come figura paterna, viene ora annunziato dal profeta con chiare manifestazioni teneramente femminili. Un amore materno di cui i figli non possono che "rallegrare... esultare... sfavillare di gioia". Sono tre imperativi che percorrono tutto il nostro testo.

Questa gioia dirompente è motivata dal fatto che la città di Dio, ridotta ad una sorta di vedovanza e solitudine, è tornata alla vita, è risorta dalle ceneri della rovina: "Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l'amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto" (v 10). JHWH padre/madre ha aperto per lei un nuovo futuro, il tempo del lutto, ovvero della disperazione, è ormai lasciato definitivamente alle spalle.

E che nella città santa rinasca una comunità di figli giusta e santa, prospera e pacifica, è solo in virtù di un vero miracolo di Dio. E' solo la potenza di Dio che può ridare pienezza di vita e di felicità a ciò che sembrava ormai spento e senza forza: "La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi" (v.14).

Si tratta di un dono così straordinario di fronte al quale non c’è altro da fare che rallegrarsi, esultare, lasciarsi accarezzare da questa consolazione proveniente da Dio: "Voi sarete allattati e portati in braccio,e sulle ginocchia sarete accarezzati" (v.12).

Ora, con Cristo e la nascita della Chiesa, le parole del profeta sono divenute realtà destinata ad abbracciare il mondo intero. La Chiesa è la nuova Gerusalemme madre, sposa di Cristo che genera, tramite la prosperità del fiume dello Spirito Santo, nel battesimo sempre nuovi figli. Scrive Agostino nel suo commento ai salmi: "Quale donna sposata ha più figli della santa Chiesa? È vergine per la santità che riceve nei sacramenti ed è madre di popoli. La sua fecondità è attestata anche dalla Scrittura che dice: "Sono più numerosi i figli dell’abbandonata di colei che ha marito" (Is 54,1; Gal 4,27), la nostra madre non ha marito, ma ha uno sposo, perché tanto la Chiesa nei popoli quanto l’anima nei singoli - immuni da qualsiasi infedeltà, feconde nella vita dello spirito - senza che venga meno il pudore, si sposano con il Verbo di Dio come con uno sposo eterno" (Disc.14). In un'omelia mattutina dello scorso dicembre papa Francesco ebbe a dire a riguardo: “La gioia di uscire per cercare i fratelli e le sorelle che sono lontani: questa è la gioia della Chiesa. Lì la Chiesa diventa madre, diventa feconda. Quando la Chiesa non fa questo, quando la Chiesa si ferma in se stessa, si chiude in se stessa, forse si è ben organizzata, un organigramma perfetto, tutto a posto, tutto pulito, ma manca gioia, manca festa, manca pace, e così diventa una Chiesa sfiduciata, ansiosa, triste, una Chiesa che ha più di zitella che di madre, e questa Chiesa non serve, è una Chiesa da museo. La gioia della Chiesa è partorire; la gioia della Chiesa è uscire da se stessa per dare vita”.

 

Per tale motivo la Chiesa è sempre la sposa ricolma di gioia e sempre consolata, perché mai abbandonata, sempre rinnovata e arricchita dall'abbondanza dei doni dello Spirito, tra cui la vocazione di tanti figli e figlie alla sequela del Cristo sposo che li consacra a sé. Scriveva Giovanni Paolo II nell'esortazione Vita Consecrata: "In realtà, la vita consacrata si pone nel cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo per la sua missione, giacché «esprime l'intima natura della vocazione cristiana» e la tensione di tutta la Chiesa-Sposa verso l'unione con l'unico Sposo. Al Sinodo è stato più volte affermato che la vita consacrata non ha svolto soltanto nel passato un ruolo di aiuto e di sostegno per la Chiesa, ma è dono prezioso e necessario anche per il presente e per il futuro del Popolo di Dio, perché appartiene intimamente alla sua vita, alla sua santità, alla sua missione" (n.3).

Colui che dunque ha ricevuto questo "dono prezioso e necessario", che è per la Chiesa tutta, non può non "rallegrarsi... esultare...sfavillare di gioia". Allora non è possibile che dei "chiamati" o una comunità che è "famiglia di chiamati", non vivano e non testimonino la gioia che la loro vita sia spesa/consacrata totalmente come segno e risposta all'amore con cui ci ama e a annunciare al mondo la bellezza di essere figli e fratelli radunati insieme dalle braccia della Chiesa Madre. Se ciò accadesse significherebbe purtroppo che non si ha ancora sperimentato la gratuità dell'amore e della tenerezza di Dio, che non ci si è ancora "saziati delle consolazioni" dell'essere nella comunione con la propria madre.

Se al contrario siamo stati toccati dall'amore di Dio, il nostro cuore ne rimane irrimediabilmente segnato, un po' come lo fu il cuore di Veronica Giuliani le cui ultime parole riassumono un'esistenza tutta incentrata nella ricerca e nel desiderio dell'unione con Cristo suo sposo: "Ho trovato l'Amore! Ditelo a tutte. E' questo il segreto delle mie gioie e delle mie sofferenze: l'Amore si è lasciato trovare".  Papa Francesco ribadisce tale realtà più volte: "Mostrate a tutti che seguire Cristo e mettere in pratica il suo Vangelo riempie il vostro cuore di felicità. Contagiate di questa gioia chi vi avvicina, e allora tante persone ve ne chiederanno la ragione e sentiranno il desiderio di condividere con voi la vostra splendida ed entusiasmante avventura evangelica".

Il segnale inequivocabile di questo contatto sarà una gioia profonda, una grande tenerezza capace di accarezzare ogni essere e ogni realtà con la mano materna di Dio. Sarà una gioia "che nasce e rinasce dalla certezza di sentirsi amati e chiamati dalla presenza benevola di Dio nella nostra vita...Ogni cristiano e soprattutto noi, siamo chiamati a portare questo messaggio di speranza che dona serenità e gioia: la consolazione di Dio, la sua tenerezza verso tutti. Ma ne possiamo essere portatori se sperimentiamo noi per primi la gioia di essere consolati da Lui, di essere amati da Lui. ... Ho trovato alcune volte persone consacrate che hanno paura della consolazione di Dio, e si tormentano, perché hanno paura di questa tenerezza di Dio. Ma non abbiate paura. Non abbiate paura, il Signore è il Signore della consolazione, il Signore della tenerezza. Il Signore è padre e Lui dice che farà con noi come una mamma con il suo bambino, con la sua tenerezza. Non abbiate paura della consolazione del Signore" " (papa Francesco).

Nel mondo c'è un deficit di gioia perché si vive una vita troppo individualistica, priva di relazioni gratuite attraverso le quali offrire e ricevere gioia e consolazione. Ed è per questo forse che noi non siamo tanto chiamati a compiere gesti epici né a proclamare parole altisonanti, ma a testimoniare la gioia che scaturisce dall'incontro con l'altro accolto come un fratello, ma ciò può scaturire solo dalla certezza di sentirci salvati, consolati, abbracciati da Colui dal quale gratuitamente abbiamo ricevuto in dono la vita. Essere uomini e donne "specialisti di comunione": questo è il mandato che la Chiesa oggi ci affida: "la Chiesa affida alle comunità di vita consacrata il particolare compito di far crescere la spiritualità della comunione, prima di tutto al proprio interno e poi nella stessa comunità ecclesiale ed oltre i suoi confini, aprendo o riaprendo costantemente il dialogo della carità, soprattutto dove il mondo di oggi è lacerato dall’odio etnico o da follie omicide" (Vita Consecrata n. 51).

Nel mondo vi è pure un deficit di consolazione. Oggi troppo spesso si sperimenta la vita come fosse vagante in un vuoto, in un nulla, senza appartenenza, con una libertà fine a se stessa perché priva di scopo, la vita si impregna di un non senso che trasforma l'esistenza rendendola insopportabile: in poche parole non si sperimenta alcuna consolazione, nessuna tenerezza. Si vive la vita arrabbiati con se stessi e con gli altri. Oggi abbiamo tutti disperatamente bisogno di sentirci nel grembo di qualcuno che ci rassicuri del fatto che la nostra esistenza è amata perché voluta. Ecco che la nostra missione di consacrati assume il compito di "vivere e portare la consolazione che non è un puro sentimento ma un’appartenenza, l’abbraccio di un Dio di misericordia". Lo avvertiamo l'abbraccio tenero delle mani di Dio con cui egli avvolge la nostra vita in ogni istante?

Chi ha sperimentato la gioia e la consolazione di Dio non può non farsi testimone di questa straordinaria scoperta presso il fratello, esortandolo affinché anch'egli si apra alla stessa esperienza: "Un giorno, frate Francesco rimproverò un suo compagno che aveva un'aria triste e il viso malinconico: «Perché manifestare così la tristezza e il dolore che provi a causa dei tuoi peccati? Questo tocca Dio e te. Pregalo di renderti, per la sua bontà, la gioia di essere salvato (Sal 50,14). Davanti a me e davanti agli altri, sforzati di mostrarti sempre lieto, perché non conviene che un servo di Dio si faccia vedere con il viso triste e accigliato". (Vita di San Francesco d'Assisi detta "Anonimo perugino").

 

 

Oratio

 

Terminiamo con le parole stupende di una preghiera composta da Madaleine Delbrel (1904-1964), una mistica del nostro tempo. A diciassette anni Madeleine aveva professato un ateismo radicale e profondo. L'incontro con alcuni amici cristiani, la spinsero a prendere in considerazione la possibilità dell'esistenza di Dio, il che la fece giungere alla conversione (1924). L'esperienza di Dio la spinse a scegliere di stare dalla parte dei poveri volendo farsi portatrice della consolazione di Dio. Fu assistente sociale attivissima, operò nelle periferie operaie, condividendo una semplice vita fraterna con alcune compagne, con il desiderio di installarsi in una sorta di "vita di famiglia" con gli uomini e le donne del suo quartiere. Per lei proprio questi ambienti atei furono la sua "periferia esistenziale", una provocazione a riscoprire la fede come un dono inaudito da condividere con gli ultimi:

Poiché le tue parole, mio Dio, non son fatte

per rimanere inerti nei nostri libri,

ma per possederci e per correre il mondo in noi,

permetti che, da quel fuoco di gioia

da te acceso, un tempo, su una montagna

e da quella lezione di felicità,

qualche scintilla ci raggiunga e ci possegga,

ci investa e ci pervada.

Fa che come “fiammelle nelle stoppie”

Corriamo per le vie della città

E fiancheggiamo le onde della folla,

contagiosi di beatitudine, contagiosi della gioia.      

 

                 

 

Attilio Franco Fabris
Monastero di Sant'Andrea
Abbazia di Borzone

16041 Borzonasca - GE

www.abbaziaborzone.it