Ero straniero e mi avete accolto
Lectio
di Mt 25,34-36
34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite,
benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin
dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da
mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete
accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero
in carcere e siete venuti a trovarmi».
Lo
straniero, suscita in noi sentimenti contrastanti: da un lato curiosità,
interesse, dall'altro timore e sospetto. Da sempre egli conserva per noi un'ambiguità
che ci mette a disagio perché destabilizza i nostri soliti schemi
introducendone di nuovi. Non è un caso che con lo stesso termine, "hospes", la lingua latina indicasse
sia la persona ospitata come anche il nemico e lo stesso valeva per gli antichi
greci con il termine "xenos"
(da cui il nostro negativo "xenofobia"!).
Parto da
questa semplice considerazione semantica perché credo offra spunti interessanti
alla riflessione sul tema, di grandissima attualità e drammaticità,
dell'immigrazione di intere popolazioni straniere nei nostri paesi europei. Si
tratta di una realtà che sta suscitando reazioni diversissime, purtroppo
talvolta anche violente. Possiamo riassumere
le diverse posizioni in una sola frase (che vale sia per chi ospita come anche
per chi viene ospitato!): lo "straniero" rappresenta per noi, per me,
un "problema" oppure un'"opportunità"? Credo non sia possibile
scegliere l'indifferenza perché l'hospes,
lo xenos, è già qui, e bussa alla nostra porta senza essere stato invitato,
arrivato perché costretto da molteplici fattori di cui i nostri paesi
occidentali e industrializzati sono in parte responsabili.
Vogliamo interrogarci
alla luce della Parola, rifuggendo la terribile tentazione dell'"indifferenza globale verso il povero"
(papa Francesco): è possibile leggere quello che sta accadendo sotto i nostri
occhi come un "segno dei tempi"? E se è un "segno dei
tempi" cosa il Signore ci sta chiedendo? Quale atteggiamento la Chiesa, la
comunità e ciascuno di noi, deve assumere per rimanere fedele all'evangelo?
Chiediamo
allo Spirito di aprire il nostro cuore alla Parola che sempre ci apre all'Altro:
Spirito di Gesù, oggi non voglio
passare accanto a nessuno in modo indifferente. Fa' che mi accorga del
desiderio di vita e di speranza che abita nel cuore di ogni persona che
incontro! Aiutami a mettermi a servizio di questo desiderio che è in loro come
anche in me. Aprimi occhi, mente e cuore perché io guardi con occhi di fede il
volto di ogni fratello che bussa alla mia porta. Vinci in me la paura
dell'incontro, anzi donami la gioia di allargare
la tenda del mio cuore facendogli spazio per condividere insieme il dono della
vita che tu ci fai. Amen.
Lectio
Nei capitoli
precedenti al nostro testo evangelico i discepoli avevano posto preoccupati
delle precise domande al loro Maestro circa il "quando" e il "come"
il Regno di Dio si sarebbe manifestato e giunto a compimento. Gesù con questa
parabola, che sarebbe meglio definire una solenne "rappresentazione
scenica" (S. Fausti), dà la risposta ad entrambe le questioni. Cogliamone gli elementi essenziali.
Anzitutto
viene presentata la scena del solenne ingresso in tribunale del giudice finale scortato
dalla giuria composta dagli angeli: "ll
Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà
sul trono della sua gloria" (v.31). Il giudice viene definito come
"Figlio dell'Uomo": si
tratta di un titolo ben conosciuto dall' apocalittica giudaica e usato spesso da
Gesù per definire se stesso: questo personaggio è colui al quale Dio consegna
la piena autorità divina di giudizio sul mondo, sulla storia e l'intera
umanità. Il Figlio dell'Uomo, Principio e Fine della storia, ha il potere regale
(cfr "trono") di riunire
attorno a sé l'intera umanità, di qualsiasi tempo e nazione, e di sottoporla al
suo insindacabile giudizio.
La sua prima
azione giudiziaria, usiamo questo termine, è operare una netta separazione:
"separerà gli uni dagli altri, come
il pastore separa le pecore dalle capre" (v.31). Pecore a destra e
capri a sinistra. Ora il riferimento "destra" o "sinistra"
non è da intendersi in senso spaziale (anche se nelle rappresentazioni
artistiche, pensiamo ad esempio solo al Giudizio Universale di Michelangelo questo
spunto offre abbondante materiale iconografico) ma nel sottolineare
simbolicamente due sorti contrapposte, ben distinte, a cui gli individui
andranno incontro (cfr Ez 34,17-23). Questa separazione di per sé non è ancora
esplicita condanna o salvezza. Qui il
giudice prende semplicemente atto di ciò che ciascuno è (pecora o capra) come
conseguenza di come ha agito nella vita.
Dopo la
separazione viene espressa la sentenza opposta per i due gruppi: "venite benedetti… allontanatevi da me, maledetti"
(v.34). Ma in base a quale motivazione si è benedetti
o maledetti? Ovvero pronti per entrare
nel Regno o esserne esclusi?
Il giudizio è
motivato unicamente dal modo in cui ciascuno si è comportato con i "piccoli" e gli esclusi: le
"opere di misericordia corporale" sono il suo metro di giudizio. Per
poter entrare nella sala del regno l'unica condizione è di aver accolto gli affamati,
gli assetati, gli stranieri, i nudi, i malati ed i prigionieri (Mt 25,35-36). Ovvero
aver vissuto mettendo in pratica il comandamento della carità.
Sorge
un'altra domanda: come mai il criterio di giudizio è proprio questo e non un
altro, ad esempio la fede o il culto? La motivazione è data dal giudice stesso:
"Ogni volta che avete fatto (o non avete fatto) queste cose a uno di questi miei fratelli più
piccoli l'avete fatto (o non l'avete
fatto) a me)".
Il giudice indica un bene e un male che è stato fatto non al tale o al tal'altro,
ma a lui, proprio al giudice stesso: "L'avete fatto …non l'avete fatto a me". Qui il giudice è dunque parte in
causa. Già solidale con i discepoli perseguitati (10,42) e con i bambini
(18,5), ora Gesù si identifica totalmente e indiscriminatamente con tutti i poveri senza
discriminazioni di sorta, minacciati nella loro dignità e nei loro diritti. Se le cose stanno
così la realtà del bene o del male compiuto nei confronti del povero ha un peso
grandissimo.
Poiché il
Giudice parla in prima persona tale elemento di giudizio coglie tutti,
benedetti e maledetti, di sorpresa tanto che per ben tre volte gli viene rivolta
da tutti la stessa domanda: "Quando
ti abbiamo visto…?". Il "quando"
e il "come" che erano
domande che preoccupavano i discepoli in vista del futuro trovano ora la
risposta: il giudizio che sarà dato dalla venuta del Figlio dell'Uomo è già
presente ora (quando?) ed è nel segno
del povero (come?) col quale egli si
identifica.
Ecco allora
che i "benedetti", che si
trovano a destra del giudice, e che lo hanno accolto senza saperlo, quando
costui si è presentato alla loro porta nel povero, nell'affamato, nell'assetato,
nello straniero, nel nudo, nel malato e nel prigioniero, possono entrare nella
benedizione del Regno fatto per i piccoli.
Coloro che
stanno invece alla sinistra del Giudice, chiamati "maledetti", sono destinati al fuoco eterno preparato per il
diavolo ed i suoi angeli: essi non hanno accolto e soccorso l'affamato, l'assetato,
lo straniero, il nudo, il malato e il prigioniero e dunque hanno rifiutato il Signore
che in loro continuava la sua passione. La richiesta di chiarimento da parte di
costoro indica che si tratta di per sé di gente che si è comportata bene,
persone che hanno la coscienza in pace. Sono certe di aver praticato sempre ciò
che Dio richiedeva eppure sono estromessi dalla benedizione del Regno. Non è
che Gesù impedisce ai "maledetti" di entrare nel Regno, bensì il loro
agire rendendoli ciechi e duri di cuore incapaci di farsi fratelli piccoli
verso il fratello piccolo in cui Gesù era presente li rende incapaci di entrare
nel Regno.
L'intento di
Gesù non è certamente quello di suscitare la paura del giudizio, ma di spingere
i suoi discepoli alla consapevolezza che per entrare nel Regno non basta acclamare:
"Signore Signore". Occorre "fare la volontà del Padre"
(7,21-23) che si compendia nel comandamento: "Tutto quanto
volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è
la Legge e i Profeti" (7,12). Gesù non ci proietta perciò nel futuro, ma apre i nostri occhi al
presente. Il nostro destino ultimo ed eterno si gioca qui ed ora nella capacità
di vedere e amare il Signore che si nasconde nel fratello piccolo e bisognoso.
Se lo si amerà si passerà dalla morte alla vita (1Gv 3,14). Saremo
"benedetti".
Collatio
Già nelle
antiche culture ogni straniero era sacro, depositario di diritti inalienabili
che toccava a chi l'ospitava difendere ad ogni costo. Già il grande poeta Omero
ad esempio scriveva: “Vengono tutti da
Zeus, gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro.”
Se pensiamo ad esempio a come veniva vissuta l'ospitalità nei monasteri medievali
(inventori d'altra parte degli ospizi e degli ospedali per stranieri e viandanti)
costatiamo come lo straniero che bussava alla porta venisse accolto come
portatore di una peculiare sacralità. Nel capitolo 53 della Regola
Benedetto detta questa norma: "Tutti
gli ospiti che arrivano, siano ricevuti come se fosse Cristo Signore; poiché
egli dirà un giorno: Fui ospite, e voi mi riceveste. - Ed a tutti sia reso
conveniente onore, ma molto più a quelli della nostra stessa fede e ai
pellegrini". Sono parole che produssero santità e cultura. Furono scritte
in un momento storico drammatico e cruciale, per tanti versi simile al nostro: erano
gli anni che videro il crollo della millenaria cultura romana, crollo
accompagnato dal degrado politico, sociale, morale ed economico. Una situazione
di disfacimento sociale che lasciò aperte le porte alla discesa, nei territori
del morente impero, a intere popolazioni barbare portatrici di un'altra lingua,
cultura, religione e tradizione. Fu una fase drammatica e spesso violenta della
storia del nostro continente che durò alcuni secoli (V-IX sec), ma dalla quale
scaturì, soprattutto grazie alla Chiesa, una nuova straordinaria cultura frutto
del confluire dell'eredità della grande cultura romana con quella barbara, la
qual cosa dette origine allo splendore dell'Europa cristiana medievale. Quella crisi, che per molti venne letta immediatamente
come catastrofe finale e apocalittica, alla lunga si rivelò al contrario provvidenziale
portatrice di nuove opportunità e grande vitalità a tutti i livelli. Benedetto,
erede della grande cultura romana, l'aveva forse intuiva scrivendo la "Regola": l'incontro con questo mondo
diverso e nuovo era orami inevitabile, si trattava di trovare il coraggio di
aprire le porte in un'accoglienza del barbaro che permettesse una mutua
conoscenza fautrice di rispetto e vicendevole arricchimento.
Stiamo
oggi vivendo una situazione similare? Azzarderei una risposta affermativa, con
la differenza che il fenomeno odierno è molto più globalizzato non interessando
più solo l'area mediterranea, e più profondo perché interessi economici e
politici globali interferiscono pesantemente nel dettare direzioni e
conseguenze di questi spostamenti di intere popolazioni. Ma in Dio quel che
accade rientra sempre in un imperscrutabile disegno che è sempre di salvezza;
non togliendo nulla al fatto che di primo acchito ci riesca difficile se non
impossibile comprenderlo. Ma ci sorregga questa certezza.
Come
vivere questo momento di "crisi"
(che in greco significa "decisione") che ci tocca direttamente? Quale
decisione il cristiano, e la comunità, deve assumersi di fronte allo straniero
che ci è a fianco? Far finta di niete?
E' problema o opportunità? Già parecchi anni fa il sociologo austriaco Ivan Illich indagava sulle
radici del male presente nella nostra società. Egli affermava che andavano
riconosciute nel fatto che le persone vengono ridotte a pazienti, clienti,
dipendenti. Accusava questo fenomeno come perversione della proposta del
Vangelo che invita invece ad entrare nella logica della prossimità. Se questa
manca si va incontro, a suo parere, allo stravolgimento dell’arte evangelica
dell'ospitare, del soccorrere il prossimo facendosi prossimo. "Tutto – scriveva – si è irrigidito quando la chiamata di ciascuno di noi a vivere la
relazione fraterna (che diventa concretezza dell’amore) e la relazione
educativa (che diventa luogo di crescita reale delle nuove generazioni verso
una pienezza di umanità) è stata dimenticata in un processo di
istituzionalizzazione che obbedisce a logiche diverse rispetto a quella che dà
il primato alla persona". Sono certamente parole provocatorie che però
ci possono aiutare a capire meglio la direzione da percorrere per superare la
soluzione immediata di un semplice, seppur necessario, in un primo tempo,
assistenzialismo. Se continuiamo a ragionare, come si fa nella grande
maggioranza delle strutture ecclesiali, di immigrazione solo sotto il profilo di
interventi assistenziali e caritativi, il che significa occuparsi dei soli e
primari bisogni dei nuovi arrivati, di fatto si tampona certamente una minaccia,
ma non si accede alla prospettiva di cogliere in quel che accade una nuova
opportunità di crescita per tutti: loro e noi. Si chiedeva già il cardinal
Martini: " Perché tante comunità
ecclesiali, tante parrocchie, tanti movimenti continuano a pensare che il
problema è noi e loro e non tutti insieme?...".
Il
percorso verso questa meta del "tutti insieme" non è per nulla
facile, e credo lo sarà per molto tempo. Esigerà fatica, sofferenza, non sarà
neppure assicurato un cammino scevro da ventate di violenza da ambo le parti,
come purtroppo ci è dato di costatare già ora. Nessun cammino di integrazione
verso la fraternità è facile e scontato come ben insegna la tradizione biblica.
Occorrerà da entrambi le parti educare ed educarci alla mutua conoscenza e
rispetto senza le quali non si faranno grandi passi in avanti.
Per
nulla facile perché l’incontro/scontro con lo straniero è segnato dalla paura
vicendevole. Lo straniero - e noi lo siamo a nostra volta per lui! - appare sempre
"altro" da noi, diverso, e questa paura non deve essere ignorata. Chi
emigra è solo ed è sradicato e ogni sradicamento non è mai un capolavoro di
armonia, come non lo è neppure il nuovo radicamento. Non può essere sottovalutata
come a volte avviene in certi ambienti che vogliono mostrare immediatamente e ingenuamente
grande solidarietà e integrazione senza un serio discernimento e un cammino
adeguato. Non basta invocare e proclamare l'ideale di stampo illuministico dell’"uguaglianza
universale" che “deve” unire (in
base a cosa?) senza distinzione, razze, culture, religioni. Ma non possiamo
neppure innalzare barriere perché l'altro rimanga "fuori" e non ci
disturbi. Questo sarebbe intollerabile e ingiusto.
Nel
credente, ma credo non solo in lui, deve crescere la consapevolezza che nessuno
è ultimo padrone in casa propria, anche se può essere uno slogan vincente per
qualche partito. La casa, che è il mondo, non è nostra: essa appartiene a Dio. Siamo tutti suoi ospiti in questo giardino che lui ci
ha regalato, e proprio
perché ospitato ciascuno di noi deve a sua volta ospitare. E' una verità
ribadita moltissime volte nella Legge data a Israele popolo in terra straniera che
entrato nella terra promessa è chiamato, proprio in forza di questa memoria, al dovere dell'ospitalità
dello straniero (cfr Lv 19,33-34). In Dt 10,17-19 troviamo addirittura il
comando di accogliere e amare “il tuo
immigrato” (5,14; 24,14; 29,10; 31,12): lo straniero è "mio",
ovvero deve entrare a far parte del mio popolo, gli appartiene, e non può
essere lasciato fuori. La
comunione che ne scaturisce è quella di una comunione di gente che si sente
ospite vicendevole e mai padrona. Questo eviterà un duplice pericolo: sacralizzare
la diversità dell’altro abdicando alla propria identità o, all’opposto, di assolutizzare
la propria identità per contrapposizione, come esclusiva ed escludente l'altro diverso da me (cfr Es
2,23-25).
Cosa
ci chiede Gesù Maestro e Signore? La risposta ci è data senza ambiguità di
sorta nella parola che abbiamo ascoltato: "ero straniero e mi avete accolto". Gesù fa rientrare lo straniero nel
numero dei suoi “fratelli più piccoli”:
straniero per noi ma non per lui che si riconosce suo fratello, non
dimentichiamolo! Il verbo usato qui da Gesù per ben tre volte per indicare l'accoglienza
è "sunàghein" il cui
significato base è "riunire insieme cose sparse" e "diverse",
"separate", da cui il significato di "raccogliere" "radunare"
in uno stesso luogo. Il verbo "accogliere" contiene perciò una
valenza che va ben al di là del semplice soddisfare alcuni bisogni immediati; esso
è un invito al coraggio dello "stare insieme", pur nella diversità,
accolta come opportunità, ricchezza e non pericolo.
Su
questo parametro la Chiesa gioca oggi le sue carte per presentarsi concretamente
al mondo, devastato da paure e violenze reciproche, come concreto luogo di
incontro e di fraternità nella diversità.
Che fare
allora nell'immediato? Ritornando al nostro testo evangelico abbiamo visto che ciò
che richiede da noi il Signore non esige nulla di eroico. Si tratta di imparare
a renderci vicini, attenti, accoglienti, generosi nei confronti dell'altro, vincendo
le nostre paure. Poco importa del risultato immediato: la strada è comunque quella
giusta. E il giudizio che il re emanerà su ciascuno di noi
"allora" sarà lo stesso di
quello che noi "ora" esprimiamo
nei riguardi del povero, accogliendolo o respingendolo.
Oratio
Chiediamo al
Signore un cuore misericordioso a misura del suo, capace di far spazio
all'altro riconosciuto come fratello anche se di colore, razza, lingua o
religione diversa dalla nostra. Nel suo volto vedremo specchiarsi il volto
dell'Altro/Dio di cui anch'egli è sempre e comunque "immagine
e somiglianza".
Signore, aiutami ad essere per tutti un amico,
che attende senza stancarsi, che accoglie con bontà,
che dà con amore, che ascolta senza fatica, che ringrazia con
gioia.
Un amico che si è sempre pronti a ricevere,
un amico che si è sempre certi di trovare quando se ne
ha bisogno.
Aiutami ad essere una presenza sicura,
a cui ci si può rivolgere quando lo si desidera;
ad offrire un'amicizia riposante,
ad irradiare una pace gioiosa, la tua pace, o Signore.
Fa che sia disponibile e accogliente soprattutto verso
i più deboli e indifesi.
Così senza compiere opere straordinarie,
io potrò aiutare gli altri a sentirti più vicino, Signore della Tenerezza. (Anonimo)
Attilio Franco Fabris
Monastero di Sant'Andrea
Abbazia di Borzone
16041 Borzonasca - Ge
www.abbaziaborzone.it