4Elia
s'inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una
ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita,
perché io non sono migliore dei miei padri». 5Si coricò e si
addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse:
«Àlzati, mangia!». 6Egli guardò e vide vicino alla sua testa una
focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d'acqua. Mangiò e bevve, quindi
di nuovo si coricò. 7Tornò per la seconda volta l'angelo del
Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il
cammino». 8Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo
camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb.
9Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand'ecco gli fu
rivolta la parola del Signore in questi termini: «Che cosa fai qui, Elia?». 10Egli
rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli
Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari,
hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di
togliermi la vita». 11Gli disse: «Esci e férmati sul monte alla
presenza del Signore». Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e
gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il
Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era
nel terremoto. 12Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era
nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. 13Come
l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso
della caverna. Ed ecco, venne a lui una
voce che gli diceva: «Che cosa fai qui, Elia?». 14Egli rispose:
«Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti
hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso
di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la
vita». 15Il Signore gli disse: «Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto
di Damasco»".
Thomas Merton, monaco trappista
americano (1915-1968), scrisse a proposito della solitudine: "La vita solitaria, essendo silenziosa,
dissipa la cortina di fumo delle parole, posta dall’uomo tra la sua anima e le
cose. Nella solitudine rimaniamo faccia a faccia con la nuda essenza delle
cose. Eppure scopriamo che la crudezza della realtà, da noi temuta, non è
motivo né di paura né di vergogna. Viene ricoperta nell’amichevole comunione
del silenzio, e questo silenzio è legato all’amore" (Pensieri nella solitudine). In effetti abbiamo
timore di inoltrarci in tempi e spazi di silenzio e solitudine, timore d'
"entrare nella nostra stanza e chiudere la porta". Accampiamo molte
scuse ma nel profondo avvertiamo che si tratta di paura, fuggiamo da noi
stessi, dalla necessità di scoprire o riscoprire la nostra identità al di là
delle mille maschere che indossiamo a seconda delle occasioni.
Ma se
accettiamo la sfida di entrare nella "stanza chiusa", la solitudine e
il silenzio disintegrano "la cortina di fumo" con cui spesso
avvolgiamo la nostra vita e il nostro servizio, essa ci pone "a faccia con la nuda essenza
delle cose". Lasciarci
spingere dallo Spirito nel deserto, come Gesù, è una grande grazia apportatrice
di gioia e vita perché ci permette di far riemergere la nostra fondamentale identità
di figli amati infinitamente dal Padre, creati per vivere in comunione con lui
e con i nostri fratelli.
Invochiamo
allora lo Spirito con le parole di un antico monaco siriano, Isacco di Ninive:
"Santifica, mio Signore, i nostri cuori e
riempili con lo Spirito della tua magnificenza. Per mezzo del santo ricordo di
te, essi ricevono lo Spirito della gioia. Crea in noi, mio Signore, un cuore
nuovo e infondi in noi uno spirito nuovo, affinché nel rinnovamento del nostro
pensiero ci rivestiamo della veste del regno".
Elia
vi giunge dopo un cammino simbolico di "quaranta giorni e quaranta notti " e qui entra "in una caverna" (v.9). Il
riferimento parallelo a questo luogo è sicuramente l'anfratto in cui Mosè si rifugiò
per proteggersi dal fuoco divoratore del passaggio di Dio che gli si rivelava (Es
33,21-22). Elia qui rivivrà la stessa esperienza di Mosè. L'incontro con Dio avviene
senza testimoni, in piena solitudine, e di notte: sono il tempo e il luogo che
nella Scrittura sono i preferiti dell'agire di Dio.
Dio
si rivela ad Elia in due modi: mediante la parola e mediante la teofania. Ci
viene riportato anzitutto il dialogo serrato tra Dio, che ne ha l'iniziativa, e
il profeta che viene interpellato. Gli viene posta una semplicissima ma
fondamentale domanda: "Che fai qui,
Elia?" (v.9). Domanda che sarà ripetuta ancora una volta come non
bastasse. Il Signore chiama Elia per nome invitandolo al dialogo personale ma
perché questo sia proficuo e vero nello stesso tempo lo invita a scendere nel
profondo di se stesso, a definire la
sua identità: chi è? cosa sta cercando? dove sta andando? che cosa veramente vuole?
Elia
risponde con una lamentela (v.10): piange il proprio fallimento in quanto vi
scorge una sconfitta di Dio stesso. Sembra sentirlo dire: Mio Dio tu ti sei
lasciato sconfiggere, e per questo sono fuggito. In altre parole: la mia vita
non ha più senso; il tuo fallimento è il mio. Elia si sente "solo" perché
"tutto" il popolo è
divenuto, a suo parere, totalmente infedele:
"Sono rimasto solo ed
essi cercano di togliermi la vita". Elia che ha perso in certo qual modo
la sua identità, non ha la lucidità
per rendersi conto che la realtà è più sfumata di quel che crede, e infatti il
suo giudizio sarà corretto dal Signore stesso.
A
Dio il compito di riportarlo alla verità: Dio gli manifesterà la sua identità e
di conseguenza aiuterà Elia a riscoprire la sua. Ecco allora l'invito: "Esci e férmati" (v.11). Uscire è
aprirsi al nuovo, fermarsi è smettere di fuggire. E' il momento della teofania.
Elia si copre il volto mentre Dio lo
scopre: è il paradosso di ogni manifestazione di Dio.
"Il Signore passò": è il passaggio
di Dio nella vita del profeta. L'esperienza
qui descritta è unica nella Bibbia e di difficile interpretazione. Sono descritte quattro manifestazioni del
passaggio di JHWH di cui l'ultima contrasta fortemente con le prime tre. Tale
narrazione offre almeno tre piste di interpretazione. Vi è l'interpretazione
polemica contro la religione pagana combattuta dal profeta in cui Baal è il dio
della tempesta e del terremoto: la brezza leggera di contrasto ribadirà che JHWH
non è nel "tremendum" pagano
che distrugge e spaventa. Una seconda interpretazione collega il nostro
episodio all'esperienza di Mosè sul Sinai - la teofania di fuoco del Sinai
provocava la paura nel popolo di Israele (Es 20,18 cfr Sl 29; Dt 4,24; Gb 38,1;
Sal 18; Es 19,16-19) - ma nello stesso tempo è quasi ne prendesse le distanze:
ora di contrasto abbiamo una "brezza
leggera", espressione che è un rompicapo esegetico difficile da
tradurre: "mormorio di un vento leggero", una "calma permeata da
una lieve voce", un "silenzio sottile". Vi troviamo simultaneamente
il concetto di suono e di silenzio. Infine abbiamo un'interpretazione alla luce
delle stesse esperienze di Dio fatte da Elia. Egli ci appare da subito come "un violento per il Regno di Dio"
(cfr Mt 11,12), un profeta "di fuoco"
(Sir 48,1): è impetuoso, intollerante e castigatore. Ci si aspetterebbe perciò
una teofania confacente al suo modo di intendere Dio, ma ecco che qui il
Signore delude le sue attese facendoglisi vicino in un modo nuovo e inaspettato
nella pace e nella dolcezza e non nel fuoco divoratore. JHWH vuole indicare la via
della misericordia e della pace con cui egli vuole visitare e salvare il suo
popolo. Non per nulla alcuni padri vedono in questa scelta di Dio un sottile
rimprovero al profeta; ad esempio lo pseudo Efrem commenta: "Anche con questo simbolo Dio biasima lo zelo
eccessivo di Elia, come per dire: Oh Elia, guardami. Io non mi compiaccio nella
veemenza del vento, Né della grandezza del terremoto, né nell'ardore del fuoco,
ma mi sono manifestato a te con una parola dolce. Perché dunque non imiti la
dolcezza del tuo Signore e non addolcisci questo zelo bruciante di castigare i
figli del tuo popolo, per diventare supplice nei loro confronti, e non il loro
accusatore?" Anche il Siracide commentando questo episodio dà la
stessa interpretazione: "Tu Elia che
udisti al Sinai un rimprovero" (Sir 48,7-8).
Dopo
la teofania ne segue un dialogo illuminante. Elia è chiamato a ridefinire la
sua identità di profeta. Dio certamente ammira il suo zelo ma non apprezza che egli
parli male dei suoi figli. Nessuno può farsi accusatore dei fratelli e
criticarli. Il Signore corregge con realismo
tutta l'interpretazione teologico, storico-salvifica, che Elia aveva fatto sua
e per la quale era caduto nella disperazione: crede di essere rimasto solo, in
qualche modo si crede il migliore anche se sconfitto. Ma Dio gli ricorda che
esiste un "piccolo resto" ("settemila
persone fedeli a JHWH") e che dunque non è il solo rimasto fedele. Così
Dio ribadisce che non intende rompere irato l'alleanza, non vuole abbandonare
il suo popolo, il patto poggia sulla fedeltà di Dio, è sempre in vigore, non ve
ne sarà mai un altro.
A
questo punto Elia viene rimandato da Dio sui suoi passi, là da dove era fuggito
(vv. 15-17), non senza che gli venga rinnovato il mandato profetico, vissuto però
in modo nuovo, dovuto ad un incontro straordinario capace di svelare l'identità
vera di Dio e quindi anche la sua.
E'
essenziale impedirci di fuggire, ne va del nostro cammino di crescita e guarigione.
Occorre accettare di intraprendere un "cammino
lungo" verso la caverna del nostro cuore, così si esprimono i mistici.
E' una discesa solitaria in noi stessi, al fine di ritrovare il profondo
desiderio che ci abita, ma sotto gli occhi di Dio: qui ci è dato di fare verità,
di riscoprire il segreto e il mistero che siamo noi stessi. Nella vita di
Benedetto scritta da s. Gregorio Magno descrivendo il periodo di solitudine
vissuto dal santo nella caverna di Subiaco dopo la delusione dell'esperienza
vissuta a Vicovaro è detto: "Abitò
solo con se stesso, sotto gli occhi di Colui che vede tutto". Come
Elia, anch'egli, come noi ad un certo punto dobbiamo accettare di entrare
"nella caverna", "nella propria stanza e chiudere la porta",
lasciando fuori il cicaleccio e le fantasmagorie del mondo, rimanendovi solo sotto
la luce dello sguardo di Dio: qui ritroviamo noi stessi. Se mancasse questo desiderio e coraggio la
vita rischierebbe di risolversi solo in una perenne fuga da noi stessi, in un
girovagare senza alcuna vera meta. Per questo Dio dirà ad Elia: "Fermati!".
Nel testo è
detto che una
prima salvezza è posta dinanzi ad Elia: un po' di pane, un sorso d'acqua fresca
e l'invito a riprendere il cammino. Così la sua fuga si trasforma in un pellegrinaggio
con una meta precisa: il monte santo di Dio. Sapere dove si va è già gran cosa.
E fortunatamente Elia accetta l'invito. A tutti viene data
questa grazia, in svariati modi quando ci troviamo nella situazione di Elia: sempre
vi sarà "un angelo di Dio"
che ci inviterà ad alzare lo sguardo, a rialzarci e a riprendere la strada con
un po' di pane e un sorso d'acqua fresca. Se si accetta tale invito si inizia
già ad uscire
dal vortice dell'autodistruzione in cui, se non ci si muove, si sprofonda come
nelle sabbie mobili: si intuisce che la soluzione dei problemi non sta nella
fuga, ma nell'incontro con l'Altro, con Dio.
Giunto al monte di Dio il profeta entra nella "caverna": è il luogo dell'incontro con
Dio e della sua trasformazione interiore. E' interessante richiamare la
ricchezza simbolica inerente alla "caverna": essa simbolizza un
ritorno nelle viscere materne, ma essa è anche un abisso da cui emergono
pericoli e mostri e in questo simbolizza anche la morte e il sepolcro. In
questo la caverna è paragonabile al nostro fonte battesimale e nella spiritualità monastica, soprattutto
eremitica, essa trova riscontro nel tema della "cella". Bastano solo
questi pochi accenni per comprendere come attraverso l'immagine di Elia
racchiuso nella caverna ci venga detto che per lui è iniziato un tempo di
"revisione di vita", una "rinascita", che è una nuova
riscoperta sia di Dio che di se stesso. Ma questo passaggio esige una morte: la
morte di quell'Elia che ha costruito la sua identità su un'immagine di Dio
distorta. Dio gli chiederà di aprirsi ad una rivelazione nuova: scoprire che
Dio non è terremoto, fuoco o tempesta ma è "mormorio lieve", mistero
avvolto dalla "brezza soave" della sua misericordia che è fedeltà e
perdono per il suo popolo e non fuoco distruttore e vendicatore.
Così
nel silenzio e nella solitudine della notte, presso la caverna, Elia scopre una
valenza diversa, più matura, della sua identità di profeta. Silenzio e solitudine
sono indispensabili quando si tratta del cammino alla ricerca della propria
identità: non è possibile la divagazione, la dispersione, la superficialità,
l'attivismo fine a se stesso: il miracolo avviene sempre nel profondo silenzio
della propria coscienza posta dinanzi a Dio. Il grande solitario del Sahara, il
beato Charles de Foucould scriveva: "Il deserto mi riesce profondamente
dolce, è dolce e salutare porsi nella solitudine di fronte alle cose eterne; ci
si sente invasi dalla verità" (Lettera
a M.me de Bondy). Essere "invasi dalla verità" significa essere
riempiti di Dio che ci svela chi siamo realmente.
Cosa
fare perché tutto questo avvenga? Una cosa semplicissima ma esigente: lasciarci
raggiungere dalla stessa domanda posta ad Elia dal Signore: "Che cosa fai
qui? Cosa cerchi?". Non è d'altra parte la stessa domanda che san
Benedetto nella Regola (cap 60)
chiede all'abate di porre a chi bussa alla porta del monastero per chiedere di
entrarvi in vista di un autentico discernimento? Tale domanda obbliga a porci
in ascolto del nostro cuore per scoprirvi chi e cosa vi abita: chi sono? chi
voglio essere? cosa cerco realmente? Si può dare una sola riposta perché non è
possibile essere e cercare contemporaneamente cose diverse. Questo ci costringe
ad uscire dalle contraddizioni e dai compromessi, a porre a fondamento della nostra identità l' "unum necessarium" rinunciando a
fragili impalcature o strutture di facciata.
Oratio
Presi dai nostri affanni spesso
andiamo a Dio con tristezza, scoraggiamento, preoccupazione. Ci sembra talvolta
di aver perduto il filo conduttore della nostra vita che ci appare allora slegata
e di conseguenza senza senso. Occorre ad ogni costo ritrovare la giusta
direzione. E questa, ovvero la nostra identità di persone consacrate, va
cercata nel costante ricordo di Dio presente nella nostra vita, essa diviene certezza
capace di donare pace e calma ai nostri cuori affannati. Chiediamo questa
grazia ancora con le parole di Isacco di Ninive: "Nei momenti in cui siamo soli, lontano dagli uomini e dagli
affari, sii per noi, Signore nostro, il nostro guadagno, e in te rallegreremo
la nostra tristezza. È confidando nella tua grazia che noi siamo usciti per dimorare
nella solitudine: fa' che vediamo in modo manifesto, Signore nostro, nella realtà, la forza che ha
il ricordo di te. Riversa la tua pace nei nostri cuori e la tua calma nei
nostri moti, perché la notte che sorpassa ogni tenebra sia per noi come il
giorno. In quell'ora in cui siamo resi un deserto perché la notte ci rinchiude all'interno
della sua tenebra e ci isola da tutti gli uomini, cresca, mio Signore, la
nostra consolazione in te. (Disc X, 13-14).
Attilio Franco Fabris
Monastero di Sant'Andrea
Abbazia di Borzone
16041 Borzonasca - Ge
www.abbaziaborzone.it