CERCO I
MIEI FRATELLI
alla ricerca del fondamento
della fratellanza perduta
Lectio di Genesi
37-45
Casa di Preghiera sant’Andrea
Abbazia di Borzone
gennaio 2012
1.
“Queste le generazioni di Giacobbe”
Gen 37,1-2
Cos’è la fratellanza?
All’inizio costituisce una relazione
imposta, non scelta, che dipende dal semplice fatto di avere gli stessi
genitori dei quali bisogna condividersi l’amore.
Generalmente i
genitori amano “in ugual misura” i propri figli. In verità, poiché i figli sono
diversi, amare in ugual modo degli
esseri differenti implica che li si ami in modo differente.
Il problema nasce
perché le differenze sono percepite
generalmente da noi in termini “di più o di meno”.
Non ci meraviglia allora
che la fratellanza pur essendo una relazione di fatto, generi tensioni,
conflitti, gelosie e odi talvolta feroci e inguaribili (“fratelli coltelli”?). Per
cui essa è un’esperienza il più delle
volte problematica, in cui ciascuno
dei figli cerca di ritagliarsi un posto in uno spazio già occupato in cui
sembra che l’unica arma sia doversi imporre eliminando l’altro (con diverse
strategie più o meno consapevoli).
Tuttavia per piacere ai loro genitori e
riceverne l’amore i fratelli “devono” far
vedere di amarsi anche se solo in apparenza. E questa finzione non può che creare ulteriori conflitti sia con i
genitori che con gli altri fratelli che alla fine esplodono talvolta
violentemente quando la classica goccia fa traboccare il vaso.
Niente dunque è acquisito anticipatamente
nella fratellanza tranne lo stesso sangue: essa è una relazione tutta da costruire. Non si tratta
di essere fratelli ma di diventarlo. Ma su quali basi? Questo è il problema di fondo.
Nella Scrittura la prima storia di fratelli è una storia di
un primogenito che non diventa mai fratello: se Caino “ha” un fratello, egli non viene mai detto che “è” “fratello di Abele”. Non diventerà
mai tale.
Ora le difficoltà tra
fratelli inscenate dalla Genesi hanno
sempre stretti legami con le relazioni che i genitori intrattengono tra di
loro.
“Adam aveva conosciuto Eva sua moglie”
(Gn 4,1). In poche parole si tratta di una
relazione malata che ha rifiutato l’altro come dono sin dall’inizio: è un
uomo, Adam soggetto e una donna oggetto (“sua moglie”), si parla di
un atto di dominio: “conoscere” (3,5). Anche Eva avverte anch’essa l’avidità che la
porta verso “il suo uomo”. Ma stranamente quest’uomo non è Adamo ma suo figlio Caino del quale Eva dice: “Ho acquistato un
uomo con Adonai” (4,1). Una madre soggetto, un figlio oggetto.
Il gioco è dettato dall’invidia e dalla paura, frutto del vuoto di
autentiche relazioni provocato dal peccato, che fanno sì che uno si voglia appropriare dell’altro, il
quale si lascia prendere prima di… riprodurre a sua volta lo stesso gioco con
altri. Se l’appropriazione non riesce l’unica strada percorribile sembra essere
quella dell’eliminazione.
In queste condizioni
non ci stupiamo che Caino venga preso a
sua volta da bramosia e gelosia di essere e avere tutto che lo spingerà a
escludere un fratello che, ai suoi occhi, rappresenta un ostacolo al
proprio delirio di onnipotenza. Ai suoi occhi è insistente: “Abel=fumo”.
Adonai cerca di spezzare questo circolo
vizioso
imponendo a Caino un “terzo” Abele: lo impone, rischiosamente, attraverso una
preferenza, ovvero guardando quest’ultimo e la sua offerta e non Caino e la sua.
Questo atteggiamento pedagogico divino, questa predilezione, ha di mira il bene di Caino: Dio vuole dare consistenza ad Abele agli
occhi del fratello per il suo bene. In questo senso Dio assolve ad un compito paterno assente
che consiste nell’inserire un “terzo” per aprire il proprio figlio a una nuova
realtà che non sia il desiderio della totalità rappresentata dalla madre. È una opportunità di vita l’offerta che Dio
fa a Caino. Egli lo invita a
“rendere buono” ciò che vive male.
Ma Caino non riesce ad attraversare questa
crisi dolorosa, precludendosi così al
mondo della fratellanza. Diventa
assassino votandosi all’erranza di colui che si perde poiché non può più
trovarsi. Vivendo di conseguenza una
continua paura della diversità dell’altro (4,14) che sfocia in un rapporto
di violenza autodifensiva (cfr Lamech).
Caino odia Abele, perché non è capace di accettare il modo diverso con cui Dio lo ama; non solo il modo con cui ama Abele, ma anche il modo con cui Dio ama lui stesso. Se Caino fosse stato felice e contento del modo con cui Dio lo amava, non avrebbe avuto nessun problema nel fatto che anche Abele fosse amato in un modo diverso, che sembra persino migliore, questo non avrebbe creato problemi. Se io sono contento di come mi ama Dio, non mi fa problema se Dio ama un altro in un altro modo, se quell'altro riesce meglio di me. Io sono contento di come sono, perché sono il risultato dell'amore di Dio. Allora cosa è accaduto a Caino? Egli non ha acconsentito alla differenza, ovvero al limite. Nella sua bramosia vuole cancellare ogni differenza dell’altro per iscriverlo solamente dentro la propria logica: Abele non è che un concorrente che bisogna neutralizzare, allontanare o addirittura eliminare. Ma eliminando la differenza dell’altro elimina la sua: così Caino uccide non solo Abele ma anche se stesso (Filone). Questo non vuol dire solo mancata accettazione dell'altro come diverso, bensì non accettazione della propria diversità e soprattutto mancata accettazione dell’amore dei genitori.
Siamo allora avvertiti: la famiglia originaria è una famiglia segnata dalla tragedia, e la storia di ogni famiglia nasce e si sviluppa sotto il segno della morte in cui la fraternità (e la sponsalità!) non è per nulla scontata.
Il problema si
ripresenta con Abramo. Il figlio
Isacco è privato del fratello maggiore Ismaele quando Sara esige che questi sia
mandato via con la madre Agar (21,8-14): ancora la gelosia e la paura sono la motivazione
di questa fratellanza abortita sin dall’inizio.
Isacco a sua volta diventa padre di due gemelli: Esaù e Giacobbe. Ma egli preferisce il
primogenito, cacciatore degli spazi aperti come suo zio Ismaele strappatogli
all’inizio della sua vita. Dal canto suo la moglie Rebecca preferisce l’altro figlio Giacobbe che vive di fatto alla
sua ombra pedissequo esecutore dei suoi capricci e rivendicazioni. E come la
suocera anche Rebecca macchinerà con inganni e stratagemmi in modo che il suo
preferito abbia la meglio sulla primogenitura: ancora la bramosia è la molla di
tutto.
Giacobbe dunque ha vissuto grossi problemi di preferenza con suo padre Isacco
e di conseguenza col fratello Esaù… che li porterà al conflitto a cui si
prenderà soluzione solo dopo anni giungendo ad una pacifica separazione (ma non
comunione).
La fuga di Giacobbe
dall’odio di Esaù lo aveva portato da Labano,
suo zio materno. Qui Giacobbe si innamora della secondogenita la bella Rachele
invece della primogenita e brutta Lea. Ma furbo come la sorella Rebecca Labano
trae in inganno Giacobbe obbligandolo a sposare per prima la bruttina. Questo
creerà un conflitto tra zio e nipote
e di conseguenza tra le sorelle-mogli di cui una, Lea, è odiata ma è feconda, la
seconda Rachele è bella ma sterile.
Non è allora un caso
che quando Rachele finalmente riuscirà ad avere dopo tanto tempo un figlio,
Giuseppe, il padre Giacobbe riverserà su di lui la sua predilezione. Contrariamente a suo padre Isacco, Giacobbe preferisce i due figli più giovani figli di
Rachele ai figli maggiori di Lea e delle due schiave. Forse voleva ristabilire
così l’ingiustizia subita? Ma il male si cura forse con il male? Di fatto Giacobbe perpetua questo gioco delle
preferenze che l’ha fatto soffrire così tanto? La storia quasi mai è
ascoltata a causa della nostra testardaggine.
Questo rapido percorso lascia intravedere
che, da una generazione all’altra, i problemi relazionali si ripetono, si
spostano, si amplificano: il male ricade sui figli sino alla terza e alla
quarta generazione.
“Ecco le generazioni di Giacobbe”
(37,2). Questa è l’introduzione al nostro racconto e qui il narratore vuole
forse esprimere che gli avvenimenti si sviluppano da altri avvenimenti come se
questi ne fossero il seme. Se il racconto inizia con il far memoria delle “generazioni di Giacobbe” ciò significa
che ciò
che ci apprestiamo a leggere non è la storia di Giuseppe, neppure dei suoi
fratelli. Si tratta della storia di Giacobbe, il padre, e dei suoi figli che
tentano di nascere alla fratellanza.
A questo punto fa la sua comparsa Giuseppe: egli non è il
figlio primogenito di Giacobbe, il figlio che ci aspetteremmo subito dopo la
formula che introduce le liste genealogiche. È solo il primogenito di Rachele,
la sposa amata e morta dando alla nascita il secondo figlio Beniamino. Eppure l’attenzione
è posta subito su di lui.
Il
nome Giuseppe significa “Aggiunto”:
egli sarà “aggiunto” agli altri figli delle altre mogli? Ovvero sarà accolto
come fratello? Ma Giuseppe è portatore di antiche ferite, anche se ignora tutta
questa storia, questa lunga “genealogia” di traumi. Al conflitto delle
donne, mai rappacificatesi, fa seguito la lotta fra i loro figli. I dieci
fratelli, figli di Lia e delle altre due schiave, non possono sopportare l'evidente predilezione di Giacobbe per i due
figli di Rachele, Giuseppe e Beniamino. Dei due è soprattutto Giuseppe il
più amato, lui il primogenito di Rachele.
“Giuseppe all'età di diciassette anni pascolava il gregge con i fratelli. Egli era giovane e stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa, mogli di suo padre”. Così il racconto si premura subito nel dirci che egli si trova a servizio dei figli delle schiave Bila e Zilpa e non di quelli di Lea. Perché è messo all’ultimo posto? Che significa? Un indizio en passant che ci segnala una situazione di una figliolanza mal vissuta, che diviene una fratellanza mal vissuta.
Il narratore fa una ulteriore
annotazione su Giuseppe: questi continua a riferire a Giacobbe i “pettegolezzi”
sui fratelli. Fa la “spia” in poche parole, li denigra presso il padre. Perché?
Sicuramente per assicurarsi il suo affetto,
e compensare così il disprezzo che i fratelli nutrono nei suoi confronti. Che
poi il padre non reagisca a questo fatto disdicevole si spiega con quanto ci dice
subito dopo: “Ora
Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli poiché era un figlio di
vecchiaia per lui”. Una
sottile complicità lega padre e figlio in cui ciascuno cerca di trarre
vantaggio dall’altro. Probabilmente Giacobbe non si è rassegnato, non ha
veramente elaborato il lutto per Rachele, compensando questo con tutto un
morboso affetto per il figlio di lei e Giuseppe ne porta inconsapevole le
conseguenze.
In tale condizione si
è svolta la vita dei patriarchi. Consegnata
alle mani degli uomini, alle loro dissimulazioni, alle loro paure, alle loro
vigliaccherie, gelosie e ripicche la storia somiglia a un caos feroce, in cui
tutti lottano contro tutti nella selvaggia lotta per la sopravvivenza della
propria personalità a qualsiasi prezzo. In una frase: Mors tua vita mea! Il cammino che tutti dovranno fare, alla luce
del mistero pasquale realizzatosi in Cristo, ne dovrà portare al ribaltamento: Mors
mea vita tua!
CATTEDRALE
DI OTRANTO- MOSAICO PAVIMENTALE
2.
Quando l’amore suscita l’odio
Gn 37,3-4
“Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli”.
Giacobbe viene chiamato Israele: ci
viene offerta con questo un’angolatura di lettura del fatto che Giuseppe penultimo
dei fratelli sia il figlio “amato più di tutti”. Israele (nome con cui Giacobbe è stato benedetto) preferirebbe Giuseppe agli altri suoi figli
proprio in quanto benedetto da Dio e
in quanto eletto. Predilezione
legata al retaggio delle promesse che fin da Abramo non è mai collegata con il
diritto della primogenitura.
Segno visibile dell’amore di elezione di cui gode
Giuseppe è il dono da parte del padre di una ketonet-“tunica dalle lunghe maniche”. Non è una veste ordinaria: è l’alba ornata di applicazioni multicolori
che portano i dignitari, ed è riservata ai figli di notabili. Nella Scrittura una tunica
di questo tipo può indicare un’investitura regale (2Sam 13,18ss). È anche
una tenuta da festa, che impedisce di certo il lavoro nei campi! Donandola a Giuseppe, Giacobbe manifesta
agli occhi di tutti che gli attribuisce uno status
particolare, un ruolo privilegiato: Giacobbe
consacra così la superiorità di Giuseppe sugli altri figli, anche se non viene
detto apertamente!
Essa si aggiunge come elemento di
ulteriore ostilità per i fratelli.
Giuseppe ha una vocazione molto più esigente dei
fratelli. In essa si riassumerà
la triplice riconciliazione come risposta al triplice danno del peccato:
Giuseppe volgerà i suoi fratelli al padre e tra di loro, rivelerà l’amore di
Dio per tutti e tutto tramite la
benedizione della terra non considerata come “merce” di cui impossessarsi con
avidità ma come mezzo di comunione e condivisione. È a causa dell’esigenza di questa vocazione che Giuseppe riceve da
Giacobbe l’amore necessario per compierla. Certamente ogni fratello di
Giuseppe aveva la sua vocazione e da Giacobbe tutti avevano ricevuto l’amore
paterno necessario per realizzarla, ma poiché Giuseppe sarà colui che avrà come
vocazione il ricomporre la famiglia, il ritrovare i fratelli come figli di
Giacobbe, c’è un “di più” dell’amore del padre per lui. E' il problema che sta alla base dell’elezione. Chi non è all’interno di questa logica di
gratuità vede l’elezione come motivo di discriminazione e dunque di lotta.
È una costante della storia dell’umanità di cui la Scrittura da testimonianza. Perché
mai Dio ha scelto Israele e l'ha preferito rispetto a tutti gli altri? Perché
era il più grande? No! Perché era il migliore? No! Perché allora? Perché di sì!
Perché ha scelto quello e non un altro! Perché mai scegliere Abramo, Mosè,
Davide, Geremia, Osea, Maria, i dodici,….?
D’altra parte nella
vita spirituale sappiamo come è sottile la
tentazione di prendere l’elezione come forza di leva per imporsi sugli altri.
Ma l’elezione ha la sua radice nell’amore, ed è impossibile viverla nella
verità, senza rivalse, fuori della logica dell’amore (Giacobbe ne ha fatto
esperienza! E anche Giuseppe con i suoi “pettegolezzi” risulta fragile su
questo punto). Solo in Cristo
contempliamo l’immagine di una elezione vissuta nell’amore perfetto. Solo
nel compimento della storia santa, quando l'Unigenito, il Prediletto sarà
venuto, la sua predilezione nulla toglierà agli altri, ma anzi si muterà in
abbondanza di grazia infinita riversata su tutti. Mostrerà che come c'è una preferenza apparentemente “contro”
altri, c'è una elezione di Dio che è “a favore di tutti”. Giuseppe è
profezia di questo.
L'amore di elezione, come ogni amore, è gratuito e l'amore di elezione non vuol dire che non si ami anche l'altro, ma vuol semplicemente dire che si amano le persone in modo diverso. Dato che il termine fratelli ricorda ciò che li rende uguali a Giuseppe, l’ineguaglianza di trattamento di uno da parte del “padre di tutti loro” appare come un’ingiustizia, un’ingiuria fatta alla fratellanza, un ostacolo alla fratellanza. Così gli altri figli si sentono vittime di una mancanza di amore, e ciò fa scattare l’odio.
Un odio dunque provocato dalla gelosia e dall’invidia le quali si legano sempre alla bramosia di
possesso, al volersi misurare su una scala quantitativa. Anche l’amore purtroppo
come tutto può essere ridotto a schemi quantitativi. “Quanto mi ami?”! E la
presenza di chi è amato “di più” rinnova continuamente la coscienza della
presunta assenza di amore che ci accompagna, la sete di amore mai saziata, la
ferita, la paura di non essere mai abbastanza amati ed amabili. Ciò che si desidererebbe fosse l’amore
per l’altro, il modo in cui si vorrebbe che l’altro fosse amato, è solo
espressione di una fame insaziabile di cose (“una cattiva infinità” Soloviev).Se si perde questa visione della persona e si sostituisce questa
logica dell’amore gratuito con dei criteri quantitativi, con una cultura
reificante e reificata, l’uguaglianza diventa un criterio irrinunciabile.
Il vero significato dell’amore personale e
libero rimane per una persona gelosa completamente nascosto e continuamente ingombro
da una brama di cose, di gesti, di affermazioni che non daranno mai la vita, non
creeranno relazioni libere. Si sostituisce l’amore con la sua espressione, il
donatore con il dono, e la bilancia
della misurazione diventa il criterio e la giustificazione della propria
contentezza o ribellione. Nel mondo biblico questa mentalità è il primo
frutto del peccato. Chi si è
sganciato dall’abbraccio dell’amore, cioè non ha aderito liberamente all’amore,
non percepisce più quanto egli stesso è amato, ma guarda geloso a come è amato l’altro. In Gen 4,
Caino soggiace a tale visione che suscita gelosia perché attribuisce un peso
esistenziale irrinunciabile a certe cose, ma questo lo fa vivere ad un livello
assai inferiore a quello della realtà vera dell’amore, e anche la sua
conoscenza dei fatti e delle persone diventa cieca. E dal momento che la gelosia è l’atteggiamento dell’uomo solo,
isolato, staccato dalla fonte della vita, tutto ciò che può creare una
mentalità del genere porta alla morte: si giustifica l’omicidio. Gelosia e invidia sono le vie
attraverso le quali la morte è entrata nel mondo (Sap 2,24).
Quando comincia la gelosia, l'invidia, la
rivalità tra fratelli, c'è sì un problema di fratelli, ma c'è fondamentalmente
un problema di padre e di accettazione del suo amore. Per Caino e Abele,
il padre di riferimento era Dio, qui, per i fratelli della storia di Giuseppe,
il padre di riferimento è invece il padre carnale, Giacobbe.
“Per questo lo odiavano”: ma chi è la persona odiata? Il pronome può rimandare sia a
Giuseppe come anche al padre Giacobbe. Non è questi forse la causa
dell’ingiustizia? I fratelli se sono gelosi i fratelli lo sono perché
desiderano l’amore del padre: ma siccome
non possono odiare consciamente il padre, allora il loro odio non può che rivoltarsi contro Giuseppe rivale di
quell’amore di cui ciascuno si sente privato.
Un criterio
importante per la verifica della maturità della vita spirituale è la capacità di saper gioire per il successo
dell’altro, per l’amore con cui è “coccolato”, dal momento che questo è
indice del trovarsi all’interno dell’amore del Padre. Si gioisce perché l’altra
persona aderisce a Dio, gioisce con Dio perché Dio lo benedice. Se non si è con Dio questo non si può fare,
non si riesce a farlo, perché non si è in grado di vincere invidie e delusioni.
Soloviev dice che il peccato vuole il livellamento, una uniformità dal basso.
Non è infatti che i fratelli aspirino ad un amore più alto per il fatto che
Giuseppe è amato di più: vorrebbero solo
che Giacobbe amasse di meno.
Se invece io percepisco quanto l’altro mi
ami, non posso odiare quell’altro che egli ama, perché, facendo male a lui, io
faccio male a chi mi ama (Mt 25,40). Così nel
racconto l’odio per Giuseppe diventa un
attacco allo stesso Giacobbe.
Come Caino incapace
di parlare con il fratello (4,8) i fratelli “non potevano parlare in pace” con “lui”: ma chi? Sia con Giuseppe che
con Giacobbe! In un conflitto di
relazione sempre la parola viene messa in una situazione difficilissima:
alle calunnie sui fratelli riferite da Giuseppe a Giacobbe che non proferisce
parola (37,2) risponde l’incapacità da parte dei fratelli di avere ancora delle
parole di pace nei confronti di Giuseppe ma anche di Giacobbe (37,4). La parola, in una relazione ammalata, si
ammala anch’essa e diventa incapace di generare vita, anzi il più delle
volte si trasforma in arma mortale
non fosse altro perché non più rivolta all’altro, il che è un modo per “eliminarne”
la presenza. Ma questo non è un “omicidio”?
Di questo male che
affligge questa famiglia nessuno è
l’unico responsabile e colpevole: si ha la sensazione che in questa
famiglia istintivamente ciascuno cerchi
di salvare se stesso e non sia disposto a morire per il bene dell’altro.
Giacobbe
si finge Esaù
3.
I sogni
Gn 37,5-12
Giuseppe nonostante
si trovi in una situazione difficile, dal momento che è amato in modo
privilegiato dal padre e proprio per questo è malvisto dai fratelli, fa dei sogni che lo mettono al centro della
famiglia. Il narratore tace le
intenzioni di Giuseppe e, pur non sapendo perché agisce in questo modo, di
Giuseppe possiamo dire almeno che non si dimostra molto sensibile alle reazioni
sempre più astiose dei fratelli. E dal punto di vista relazionale questo è
certamente un errore.
Il primo sogno è
riferito ad una sorta di elevazione di
Giuseppe sopra i suoi fratelli, nel secondo addirittura i genitori parteciperebbero ad un atto di
venerazione nei suoi confronti. Come leggere questi sogni? Una lettura psicoanalitica potrebbe
intravvedervi una forte valenza narcisistica. Non è da escludere. Potrebbero trattarsi tutto sommato di un modo adolescenziale per affermarsi, per non
lasciarsi opprimere dalla situazione tesa in cui si trova. I sogni possono
benissimo allora essere letti come un desiderio
da parte di Giuseppe di essere
riconosciuto. Tuttavia il fatto che lui sia al centro dice forse anche il desiderio di essere un punto di forza al
fine di unire i suoi fratelli attorno a sé, desiderio per ora frustrato dal
suo essere posto in condizione di na’ar-servo.
Nonostante queste possibili interpretazioni
ricordiamo che la persona che è chiamata e viene definita dalla
vocazione, è sempre ben concreta. Ciò significa che il carattere, i talenti, la
storia personale, anche le tendenze negative magari, nel caso di Giuseppe pure
una sorta di narcisismo, non tolgono
nulla all’azione di Dio e alla sua chiamata. La vocazione è infatti ricevuta
sempre da una persona concreta segnata
dalla sua storia e dal suo carattere, e quindi anche dai suoi limiti e dai
suoi desideri e paure. Se il Signore dovesse scegliere solo perfetti…
probabilmente non troverebbe nessuno!
I sogni dicono una realtà importante: le
scelte più importanti, la nostra stessa vocazione, il modo di realizzarla non sono
una teoria che abbiamo capito o costruito a tavolino e che dopo viviamo come
una sorta di proiezione nella vita concreta. Se fosse così la
vita sarebbe un continuo conflitto tra le idee e la realtà. Quando gli uomini
cercano di applicare nella vita principi astratti o teorie o ideologie
costruite a tavolino, questo si traduce sempre in una grande sofferenza. Neanche
con la violenza si riesce a sottomettere la vita a degli schemi astratti.
Invece è nella vita quotidiana,
concreta, che la vocazione della persona si comprende attraverso la sinfonia di
più voci: lo spirito, la chiesa, le persone, gli avvenimenti, le necessità.
E questa comprensione è un processo
dinamico che dura tutta la vita. E questo passa sempre attraverso una
maturazione che ci fa passare dalla tentazione ideologizzante ad una accoglienza umile della realtà in cui ci si fa servi per amore, servi
inutili che non cercano di realizzare i propri progetti, di affermarsi, di far
carriera. Si passa dal “fare” al
“seguire” il Signore, dall’ “agire” al “testimoniare”. È di fronte al crollo degli ideali che la vera vocazione inizia a
trasparire, quando ad agire non sono io ma lo Spirito.
Ma perché i sogni?
Essi sono via attraverso la quale in modo velato e nascosto è permesso all’uomo
di intravvedere il mistero della sua
vita. Si tratta di una sorta di
profezia soggetta ad interpretazione (cosa cerca di fare d’altro lato la
psicanalisi? Però ristretta al fenomenologico). Giuseppe con i suoi due sogni
riceve un segno da Dio di una vocazione che ora non comprende ma che si espliciterà
solo alla fine della storia e che in pienezza si realizzerà in Cristo. Nel sogno intravvediamo un’intima,
personale, comunicazione di Dio alla verità della persona stessa, secondo la
visione di Dio. Tuttavia il racconto non precisa che Dio sia legato a
questi sogni, lascia un dubbio. È un momento di grazia che, con l’efficacia
tipica della profezia, rende l’uomo partecipe dello sguardo di Dio su di lui,
sulla vita, sulla storia o su qualsiasi realtà. Ora quale profezia è adombrata in questi due sogni? Giuseppe non solo
salverà fisicamente i suoi fratelli, proprio tramite il grano, ma soprattutto
il suo destino sarà quello di
ricostruire una famiglia distrutta e questo facendo tutti ritrovare a motivo
dell’amore del padre.
Giuseppe assolverà alla sua vocazione di unificare i suoi
fratelli attraverso il male che gli infliggeranno. In questo senso i “fratelli” proprio per
la loro resistenza e contrarietà, fungono da discernimento e da verifica della
vocazione stessa. Se si tratta della vocazione in senso teologico,
ossia che scaturisce da Dio, essa entra inevitabilmente nel dinamismo della
pasqua, e messa a morte continua ad esistere. Se non vi entra il rischio è che
essa non maturi, anzi si vanifichi e scompaia. La via di Giuseppe nella
realizzazione dei suoi sogni è disseminata di infinite prove ed esperienze di
morte dalle quali egli uscirà sempre confidando nel suo Dio.
Seguendo la visione si arriva sempre, se non
ci si irrigidisce nella propria volontà, alla sua realizzazione perché Dio ci
sorveglia e ci protegge su questo cammino. Nella storia di Giuseppe infatti non ci sono teofanie dirette, saranno le
vicende dolorose della sua vita delle vere e proprie teofanie. Ora Dio agisce e si rivela ma attraverso le
azioni e anche i peccati degli uomini che Giuseppe riconoscerà come strada
fattagli percorrere dal Signore. La voce di Dio non è più sconvolgente e
altra, come era per Abramo, ma diviene qualcosa di interiore all’uomo. Una voce che lo rende capace di leggere
tutto nella chiave della fede.
Anche per noi le teofanie
esplicite sono rare, ma Dio ci guida con
la sua sapiente provvidenza attraverso gli incontri, le persone, gli
eventi, i luoghi,…i sogni! Si tratta allora di avere la saggezza per discernere e
vagliare le cose che ci stanno capitando, la vita stessa anche nel suo grigiore.
Si tratta di trovare Dio in tutte le
cose. Diventa con ciò una vita
vissuta alla luce del kairòs
ovvero del momento presente in cui impariamo a cogliere una parola che non è
distante e che ci apre alla vita piena.
Torniamo al racconto.
Giuseppe racconta i sogni ma non è lui
ad interpretarli. Sono i fratelli e
il padre a farlo. Ma come i fratelli e il padre si pongono dinanzi ai sogni
narrati? I fratelli, lo abbiamo
visto, non vivono nella libera adesione dell’amore filiale, ma sottomessi ad
una logica di invidia per questo non sono in grado di comprendere i sogni. Le
griglie del loro cuore non sono libere! Da
loro i sogni sono interpretati solo attraverso un’ottica di avere e di potere,
un essere di più o di meno.
La domanda che essi
pongono a Giuseppe tradisce un’ironia
preoccupata per il futuro, ma anche una certa aggressività nei confronti di
questo fratello considerato un megalomane. Riguardo al padre invece si dice che
Giacobbe sgridi energicamente Giuseppe, mostrando con ciò indirettamente che
egli prende seriamente la cosa. Ha forse timore delle conseguenze che avrà
questo racconto nella sua famiglia. Tuttavia si dice che "conservò in mente la
cosa".
A queste interpretazioni Giuseppe non risponde. Non entra in discussione. Si trova di fronte
a dialoghi abortiti che confermano che nella sua famiglia la parola ammalata
continua a inoculare il suo virus.
Dopo questo episodio
ci viene detto che i fratelli si
allontanano per andare a nuovi pascoli. Essi di fatto prendono le distanze da Giuseppe e dal
padre Giacobbe, un allontanamento onde
evitare il problema che così non è risolto. E questa decisione dice una separazione di fatto all’interno della famiglia.
Giuseppe
racconta i suoi sogni ai fratelli
4.
Cerco i miei fratelli
Gn 37,12-30
I fratelli sono
lontani a pascolare i greggi, a nord di Ebron ad una distanza di 80 km. È una
lunga distanza geografica che ne indica soprattutto
una interiore: essi sono lontani dalla
casa ovvero dal loro sentirsi figli e
fratelli. Rimangono “fuori” (un po’ come il figlio maggiore nella parabola
del padre misericordioso)
Questa situazione è insostenibile, una tensione che
va risolta. Giacobbe tenta un espediente. Affida
a Giuseppe una missione: andare a trovare “la pace” (2 volte) dei “suoi fratelli”. Suo padre lo invita a vedere che lo shalom manca ai fratelli e alla famiglia
(il gregge): lo invia per riuscire ad instaurare nuovamente il benessere. Gli
chiede di “far
tornare” a beneficio del padre, una parola laddove è divenuta
impossibile. Per far questo Giuseppe si deve allontanare dalla casa del padre,
dal suo paese: come fu per Abramo, Isacco e Giacobbe stesso.
In questo Giuseppe non smette di essere l’eletto. Anzi, a
partire da qui, la sua elezione viene
investita nel conflitto che ha indirettamente creato. Giuseppe deve
acconsentire di trovarsi immerso nel conflitto con i fratelli evitando la
tentazione di baypassarlo facendo finta che non esista e accontentandosi della
sicurezza della casa e del calore della benevolenza del padre.
Il fatto che Giuseppe cerchi i fratelli è già un
principio di ricerca di unità della famiglia, dal momento che il
padre lo manda dai suoi fratelli per cercarli. E il padre che invia Giuseppe a trovare i fratelli è un forte rimando a
Cristo (Mt 15,24). Pensiamo a Cristo che si incammina dietro la pecora
smarrita, che fruga per trovare la dramma perduta. Pensiamo alla parabola dei
lavoratori della vigna a cui infine, e con cattivo risultato, è mandato il
figlio stesso del padrone. Questo essere mandato per trovare la pace dei suoi
fratelli in pienezza accadrà a Gesù di Nazareth che supera per cercarli una
distanza infinita.
Interessante
l’annotazione che mentre Giacobbe-Israele gli dice di “andare” dai suoi fratelli, di Giuseppe si dice che “viene”:
un verbo che dice avvicinamento e
non allontanamento. Giuseppe non “va” lontano, ma “viene” dove pensa che suo
padre lo voglia.
.
Nel viaggio verso Sichem
troviamo la breve e apparente accidentale narrazione di un misterioso incontro tra
Giuseppe che erra sperduto nei campi di Sichem alla ricerca dei suoi fratelli e
un “uomo” sconosciuto. Si tratta di un episodio tutt’altro che marginale
quanto sembrerebbe a prima vista. Vediamo Giuseppe girovagare senza meta e perduto
e quindi incapace di portare a termine la missione, pronto a rientrare a casa
visto la ricerca infruttuosa dei fratelli. Incapace di trovare chicchessia può solo essere trovato da una terza
persona che lo tirerà fuori da questa erranza e lo indirizzerà verso la sua missione. L’esegesi ebraica ha visto
in questo personaggio l’arcangelo Gabriele, inviato da Dio affinché Giuseppe
porti a termine il mandato divina che Dio, attraverso il padre, gli ha
assegnato: salvare la sua famiglia e di conseguenza il popolo eletto.
Alla importante domanda dell’uomo si esplicita la vocazione di Giuseppe: “Cerco i miei fratelli!”. Egli non comprende
ancora in pienezza il significato di questa frase, ma nell’obbedienza vive già
la sua identità. Alla domanda diretta
dell’uomo Giuseppe deve rispondere con
il suo reale desiderio: “cerco i miei fratelli!”. Giuseppe non sta solo assolvendo un comando
del padre, ma sta investendo responsabilmente la sua vita nella ricerca di
persone concrete.
L’uomo incoraggia Giuseppe a seguire questo
desiderio:
lo fa con molta discrezione senza dare ordini. Non fa altro che suggerire un cammino. È importante questo
intervento di questo misterioso personaggio perché questi ha simbolicamente separato Giuseppe da suo padre,
permettendo a Giuseppe di aderire al proprio desiderio, andando anche al di là di quanto il padre
ha chiesto.
L’incontro termina
annotando che Giuseppe “va dietro ai suoi fratelli” al posto del più
giovane, rinunciando così al posto privilegiato al quale lo aveva promosso
l’elezione paterna.
A proposito
dell’essere “mandati” occorre qui fare una riflessione: una realtà dalla quale
siamo oggi pesantemente segnati è che ciascuno di noi ha le sue idee, i suoi progetti, i suoi
interessi che vuole realizzare e portare avanti a tutti i costi, in un
desiderio di autoaffermazione che implica anche il voler essere originali a tutti
i costi. Ci è difficile entrare in
un’altra logica, quella dell’accogliere un mandato. Ma la missione si compie
solo se si è mandati! (Gv 14,31; Gal 2,20).
Cristo compie ciò che gli dice il Padre, fa
non ciò che è suo, ma ciò che è del Padre. Così
la vocazione di ciascuno nella Chiesa non si può compiere se non nel mandato
della Chiesa. La sottomissione di ogni battezzato alla Chiesa, sia nella
sua dimensione comunitaria che gerarchica, garantisce l’obbedienza,
atteggiamento indispensabile per la realizzazione della vocazione. Non si può vivere una vocazione volendo
affermare se stessi! Più la mia vocazione e missione è spoglia di passioni,
di possesso, più è autentica perché scaturisce dall’amore, non è inquinata. Si
arriva a comprendere la difficile lezione che l’io si realizza sacrificando la voglia di autoaffermazione e dunque dando
volontariamente la precedenza all’altro. Così si può ricevere il mandato ed
essere mandati.
Giacobbe, Giuseppe e i fratelli, Venezia,
Basilica s. Marco
5.
Una storia di inganni
Gn 37,18-22
Vedendo arrivare Giuseppe,
nei fratelli complottono di ucciderlo, ovvero di poter risolvere, come un tempo
Caino, il problema della difficile relazione eliminandolo: “Arriva il sognatore!”. Lo riconoscono da lontano per la tunica di cui è rivestito
e che lo rende ben distinguibile! Colui che vedono arrivare non è più il loro fratello ma solo il “padrone dei sogni”, definizione
sarcastica e sprezzante. Le parole dell’uno danno
spazio alle idee all’altro e la premeditazione è sempre una circostanza
aggravante di fronte a un tribunale.
Il sognatore subisce
la sorte di tutti i profeti,
respinti a causa delle loro profezie considerate non salvezza ma minaccia per
il futuro (Gr 38,1-6). Così nei fratelli
si risveglia solo la paura del suo potere, del rischio di perdere l’eredità.
I fratelli, suggestionati dalla loro
interpretazione dei sogni, hanno paura che la centralità di Giuseppe si
realizzi come dominio su di loro. Ancora una volta si mette in gioco la questione dell’eredità (Mt 21,38). I
fratelli con il loro complotto pretendono di opporsi ai sogni dando loro una
smentita definitiva. Ma il tentativo di annullare i sogni, in cui vedono una
predizione per loro funesta, aprirà la via al loro compimento.
Ma qual è l’eredità di cui i fratelli si vogliono
accaparrare a costo della violenza? È
l’amore del padre. Allo stesso modo
l’umanità vuole impossessarsi dell’eredità di Cristo, che è la figliolanza del
Padre. Quando Dio si è rende vicino nel suo Figlio Gesù Cristo, scatta il
solito meccanismo di brama dell’eredità per impossessarsi di ciò che una volta
l’uomo stesso ha abbandonato. E’ la conseguenza del peccato di origine: accaparrarsi
con la forza del dono di Dio. E’ l’eterna illusione distruttiva dell’uomo di
voler essere dio senza Dio. Per questa eredità l’uomo ha ucciso Cristo.
Fino ad ora il
narratore ha utilizzato la parola “i suoi
fratelli” per indicare i dieci in riferimento a Giuseppe. Smette di farlo dal momento del loro complotto.
Ormai la fratellanza è decisamente
scomparsa e rifiutata perché Giuseppe ne è definitivamente escluso.
Giuseppe all’ultimo momento viene tuttavia risparmiato dall’uccisione grazie all’intervento
del fratello maggiore Ruben e di Giuda, i due figli di Lia. Ruben, il
primogenito, è la voce della coscienza dei fratelli. È un vero ebreo e come
tale sa che il principio dell’unità
familiare è il sangue. Ma è un
principio di unità fragile. Egli sente di dover sostituire il padre in
veste di più anziano, deve difenderne gli interessi..ma anche i suoi. Ma perché?
In lui è forte un senso di colpa. Ha violentato la schiava del padre, Bila, e
ora sa che il padre gli serba un forte rancore. Il privilegio della
primogenitura gli può sfuggire di mano. Egli non sta forse manovrando la
situazione in modo subdolo, anche se a fin di bene, in modo da acquistarsi
nuovamente favore agli occhi del padre? Le sue parole – come tutte le altre - viaggiano
sull’onda della dissimulazione.
La questione di
Ruben, che è comunque l’unica voce positiva tra i fratelli, dovrebbe reggere
dentro una mentalità tribale, ma essa va
inevitabilmente superata a livello spirituale. La vita spirituale è il
cammino della filiazione e della fratellanza in Cristo che solo può generarla. Con Gesù il principio di unità cambia: passa dalla carne e dal sangue all’amore (Mt
12,50).
Anche nella vita
spirituale quando cominciano le
disgregazioni, nascono tanti
Ruben, tanti principi di unità, ma
nessuno di questi è efficace, non
regge se non viene inglobato in una dimensione spirituale, se non si riferisce
direttamente all’amore di Dio. Ogni sforzo per l’unità che l’uomo fa ha
senso se incluso nell’amore che lo vivifica altrimenti è una illusione che
prima o dopo diventa un giogo . Ogni principio di unità sganciato dall’amore diventa
un principio di esclusione, e gli esclusi sono una costante minaccia all’unità.
Cercando un punto unificante della persone, degli avvenimenti, dei sentimenti, ogni
cosa che si pone come principio unificante fuori dello sguardo amoroso del
Padre diventerà un principio di schiavitù, una sorta di taglio di intere parti
della persona, della storia, degli affetti… Solo l’amore personale di Dio comunicato all’uomo dallo Spirito santo è
un magnetismo che unifica tutto armonizzando i contrasti, facendo convivere gli
opposti, orientando tutto al servizio dell’amore.
Quando Giuseppe arriva i
fratelli compiono un atto altamente
simbolico: lo spogliano della bella
tunica. Prendere la tunica a
qualcuno era un gesto grave: utilizzata in viaggio, essa serviva da coperta
e ci si poteva dormire dentro; in caso di debito, si poteva prendere in pegno
il mantello soltanto il giorno, bisognava restituirlo per la notte… Ma in
riferimento a Giuseppe la sottolineatura è sul fatto che egli si ritrova in questo modo senza l’indumento che indica la sua
identità. La tunica segno dell’amore del padre rendeva visibile il suo
posto privilegiato tra i fratelli come anche la posizione particolare evocata
dai sogni. Ed ecco Giuseppe, venduto dai fratelli, senza la sua tunica; ora è
nudo, e la nudità è la vergogna dei fuggitivi, dei prigionieri, dei deportati…è
essere esposti alla balia degli altri senza alcuna difesa, totalmente
vulnerabile, privato di ogni dignità e valore, ridotto ad oggetto. È la povertà estrema di chi non può
avanzare alcun diritto! Come Cristo sul
Calvario venuto a cercare i suoi fratelli anche Giuseppe è spogliato della
tunica, privato della sua regalità. Ma gli altri si possono impossessare della
sola espressione dell’amore ma non dell’amore.
Il piano di salvataggio di Ruben
fallirà a causa dell’intervento convincente di Giuda quando vedrà passare una carovana di Ismaeliti. Proponendo di vendere Giuseppe, Giuda,
senza secondi fini, e gli altri con lui crede
di poter risparmiare definitivamente la vita di suo fratello liberandosi
comunque di lui.
6.
Nella notte nella cisterna
Gn 37,23-25
Giuseppe è calato in una “buca” in attesa della sua sorte. Nella cisterna dove è buttato Giuseppe non c’è acqua ma c’è il buio. Assenza di acqua e tenebre sono sinonimo di morte. Il salmo 22 pregato da Gesù sulla croce ben si adatta alla situazione: troviamo l’immagine della preda completamente vulnerabile, impotente caduta nella trappola e circondata da belve furiose. Ed è da questa tomba che Giuseppe uscirà mandato avanti per salvare i fratelli. Il nesso con Cristo è evidente: Cristo vince la morte lasciandosi inghiottire da essa, ma con ciò la attira all’interno dell’amore trinitario, dove essa è annientata da un fuoco divorante. Canta la liturgia orientale del lunedì santo: "Delineando l'icona del Signore, Giuseppe fu gettato in una fossa, e venduto dai suoi fratelli. Tutto sopporta quell'uomo glorioso vero tipo del Cristo".
Dopo averlo gettato
nella “buca”, dopo aver compiuto un fatto veramente agghiacciante – questi che
dovrebbero essere dei fratelli – siedono sopra la cisterna e si mettono a mangiare. Questo è un modo
con cui il testo sottolinea l'assoluta crudeltà di questi fratelli e anche
l'esasperazione radicale a cui ormai erano arrivati, per cui questi si mettono
a mangiare tranquillamente quasi fosse una festa. Ma questo nella logica del
racconto crea anche un gioco di rimandi
perché loro lo gettano nella cisterna e mangiano ma poi quando non ci sarà
proprio più niente da mangiare, essi dovranno andare in Egitto e lì se lo
ritroveranno davanti, vivo, senza saperlo, loro che pensavano in questo modo di
essersene liberati per sempre. Ci sarà dunque
il cibo che farà da filo conduttore.
In tutto il brano, Giuseppe, non ha più diritto di parola e non dice una parola. Il narratore
chiude Giuseppe nel silenzio della cisterna significativo di un uomo che si
confronta con la durezza del suo destino. L’ultima parola proferita da Giuseppe
a Canaan riveste allora un’importanza simbolica straordinaria: Cerco i miei fratelli. (37:16).
Questa immagine di Giuseppe silenzioso nella cisterna svela la grande maturazione per la vera
vita. Proprio nel momento in cui si
chiudono le porte, in cui all’uomo sembra che tutto sia finito, si apre il
giorno, proprio quando un abisso insormontabile di solitudine circonda l’uomo,
si aprono vie inaspettate e si gettano ponti. È la logica della pasqua.
Ma attenzione! La
persona non può buttarsi da sola nella cisterna sperando che quest’atto eroico
sia la via per l’esito positivo e la gioia finale. Non si possono scegliere i sacrifici, pensando che questa scelta
sia il cammino della croce e che pertanto porti sicuramente alla resurrezione. Bisogna piuttosto essere sicuri di trovarsi
nella scia dell’amore, cioè trovarsi sulla scia del volere divino, trovarsi
all’interno dell’intima dinamica della vocazione spirituale. Le notti non ce le
procuriamo da soli, si accettano quelle che derivano dalla vita e dagli altri. La
Pasqua non ce la procuriamo da noi stessi, ce la preparano gli altri. Nella notte solo l’amore può rafforzare
la persona preservando il suo cuore dal rancore, dalla vendetta,
dall’angoscia.
È questa la prima morte di Giuseppe: spogliato, lontano dal padre, abbandonato dai fratelli. Viene venduto a dei commercianti ismaeliti (discendenti di Abramo come anche i madianiti) per 20 sicli d’argento… che corrisponde al valore di un giovane schiavo tra i cinque e i vent’anni (cfr Lv 27,5). Come un oggetto viene messo tra il carico - tuttavia prezioso - che gli ismaeliti/madianiti stanno portando in Egitto. Gli Ismaeliti, come i Madianiti, sono senza scrupoli nei confronti del giovane che comprano - o forse trovano inizialmente nella cisterna (allarmati dalle sue grida?). Il commercio non conosce altra legge se non quella del profitto. Queste vendite successive sono state interpretate dall’esegesi ebraica come gli esili di Israele di nazione in nazione. Anche Cristo è venduto per trenta monete d’argento e così si rese schiavo fino in fondo del male del mondo, fu reso un oggetto (“consegnato”) come Giuseppe.
Il testo su questi ultimi avvenimenti rimane comunque volontariamente confuso: non si capisce che parte abbiano i fratelli nella vendita di Giuseppe. Tuttavia se i fratelli non hanno venduto Giuseppe, l’intenzione di farlo, o solamente il fatto di non opporsi alla proposta di Giuda, può bastare affinché la colpa pesi su di loro, tanto più che proprio loro hanno dato un risvolto violento al dissidio familiare. E la scomparsa del fratello ne è il risultato diretto.
7.
L’inganno restituisce l’inganno
Gn 37,28-36
Ruben quando non trova più Giuseppe nella cisterna si straccia
le vesti. Allora esclama: “Io, dove andrò io?”
(v.30). Il raddoppiamento del pronome “io” significa che è soprattutto preoccupato della propria sorte. Il sangue del
fratello ricade su di lui come primo responsabile (Gn 9,6; Dt 19,12). È proprio il principio di unità
rappresentato dalla carne che mette sotto inchiesta proprio lui per primo.
Ora
occorre avvertire il padre: ma come? I fratelli non osano affrontare
il del padre. Nasce
allora l’espediente della tunica
macchiata del sangue del capro mandatagli da un messaggero. In fin dei conti il capro sgozzato non è forse figura di
Giuseppe, vittima di un omicidio simbolico da parte dei fratelli. Non hanno
avuto l’intenzione di ucciderlo? Il vangelo mette in evidenza il nesso tra
l’omicidio e la menzogna. Anzi, rivela che il diavolo è omicida e padre della
menzogna (Gv 8,44). Nelle mani dei fratelli, la
tunica dovrebbe diventare la «prova» di un incidente, ovvero della morte di
Giuseppe. Il messaggio è emblematico: “E’ questa la tunica di
tuo figlio? " come se Giuseppe non fosse loro fratello! Ciò
sottolinea la distanza tra loro e il padre e il fratello, e nello stesso tempo
la preferenza di Giacobbe per Giuseppe.
La
domanda che pongono al padre è machiavellica. Si tratta, come tutte le
menzogne, di una mezza verità in cui la
menzogna nasconde una omissione ancor peggiore, destinata a fuorviare
Giacobbe per allontanarlo in modo più sicuro dalla verità. Forse si tratta
anche di una indicazione velata che in ultima istanza, fa sì che Giacobbe si senta come l’unico responsabile
della morte del figlio prediletto: non sei stato tu a metterlo in viaggio
da solo? Con questo espediente vogliono
forse far pagare a Giacobbe l’umiliazione che ha fatto loro subire?
Qui la storia si ripete. Giacobbe
che per carpire la primogenitura ha imbrogliato sul letto di morte suo padre
Isacco (Gn 27) ormai cieco e vecchio è a
sua volta ingannato da un capro e da una veste per mano dei propri figli.
Giacobbe non aveva infatti raggirato il padre indossando gli abiti del figlio
prediletto, rivestendo le braccia e il collo di un capretto e dandogli da
mangiare lo stesso capretto accompagnato da parole false?
I fratelli con questo
espediente sviluppano una falsa
creatività; ma di fatto questa
invenzione ha due misteriosi nessi con la verità: anzitutto che si tratta
del capro con cui anche Giacobbe ha ingannato e che adesso ritorna come sangue
versato e dunque come morte; secondariamente, fanno dire al padre che le bestie
feroci hanno divorato il figlio, dove queste bestie non sono altro che l’immagine
di loro stessi. Il male rimbalza su chi
lo compie? Giacobbe si fece bestia per eliminare Esaù e adesso sono i figli
a farsi bestie nei confronti del padre e del fratello. I fratelli hanno
prodotto in tal modo una falsa creatività staccata dall’amore. Per la vita spirituale l’esistenza della
falsa creatività è un punto che non va trascurato: si può intravvedere che
cosa si nasconde dietro le invenzioni escogitate per giustificare i vizi, i
difetti, gli sbagli e tanto più i peccati. La falsa creatività giunge a volte
persino a servirsi delle parole dei santi e della scrittura. Si fa dire e far fare agli altri il
possibile pur di non incontrarsi con la verità e di non entrare nella dinamica
pasquale della conversione.
Giacobbe deduce dalla
tunica insanguinata - ma fino a che punto? - la morte del figlio prediletto. Infatti
parlando della bestia feroce responsabile
della morte di Giuseppe, il padre sta denunciando i figli con parole velate?
Sono loro le belve? Se è così vediamo
Giacobbe rispondere alla mezza bugia dei fratelli con una verità detta a mezze
parole.
I
fratelli ora che Giuseppe è scomparso sperano che Giacobbe riporterà il suo
amore su di loro e che la famiglia potrà
ritrovarsi, prima nel lutto, poi attorno ad un padre senza più il prediletto.
A loro sembra che ora si possa
ricostruire il cerchio della famiglia. Di fronte all’inevitabile dolore del padre, i fratelli cercano di consolarlo ma invano. Questo
non accade: Giacobbe non… elabora il
lutto. E questo fatto è una
sconfitta tragica per tutti. Rigettando la consolazione Giacobbe manifesta
chiaramente che non si decide a “seppellire” il figlio, e questo rifiuto deciso significa il fallimento della strategia dei figli, poiché
questa non nascondeva solo la volontà di castigare il padre ingiusto, ma anche
il desiderio positivo di ritrovare la pace familiare dopo aver eliminato colui
che ai loro occhi la dilaniava.
Si può facilmente immaginare
il peso del senso di colpa che grava su ognuno dei fratelli, appesantito ancora
di più dal peso del segreto che fa di loro non più fratelli e figli ma complici, causa di diffidenza
tra loro stessi. Così mantenendo viva la ferita dell’assenza
di Giuseppe non c’è più possibilità
di shalom se questo dovrebbe da ora nutrirsi di oblio, di diniego del conflitto,
di menzogna.
I fratelli cercano di rimuovere Giuseppe dalla loro coscienza. La vita sembra per loro poter andare avanti
lo stesso. Ma a che prezzo? Apparentemente niente fa più pensare a un
collegamento con quel terribile passato. Ma
quell’avvenimento non può essere rimosso dalla coscienza, eliminato dalla
storia e confinato nel mito o nella ideologia. Conosciamo la storia degli omicidi che si costituiscono anni dopo aver
commesso un crimine, perché non possono più vivere liberamente la propria vita.
Paradossalmente, sono più liberi in prigione dopo aver confessato la loro
colpa!
Siamo così giunti a confrontarci con una famiglia che non ha più nessun punto di coesione, perché la situazione è quella di fratelli che hanno la loro unità ormai tutta basata solo sulla complicità in un delitto e, dall'altra parte, c'è un padre ingannato e disperato. La famiglia non c'è più! C'è un padre che non è più capace di essere tale e che viene in qualche modo ridotto all'impotenza dai suoi stessi figli e questi figli che rifiutando il padre non sono più fratelli.
È un quadro desolante, in cui alla fine tutti
soffrono.
Ma se tutti soffrono, ognuno porta una
parte di responsabilità nel conflitto e nella sventura da esso generata. Il
peccato di Caino si perpetua: il cattivo è un disgraziato infelice che agisce
come se potesse liberarsi della propria sventura facendola ricadere su altri,
reazione che non fa altro che aggiungere male al male. Ogni personaggio fa del male ad altri mentre sta
cercando un bene per sé.
Giacobbe ha ottime ragioni per amare Giuseppe più degli altri, ma ciò che fa
del bene al padre, fa del male ai figli: ai dieci fratelli il cui desiderio di
essere amati viene frustrato da questa preferenza percepita come ingiusta, ma
anche Giuseppe che preso tra amore e odio, viene spinto verso suo padre da
coloro che lo odiano, e semina zizzania con le sue parole, mentre sembra
aspirare all’unità di tutti. L’odio geloso accumulato nella misura in cui non
può esprimersi – la parola di tutti qui è malata – genera la violenza dei
fratelli, infelici diventati cattivi, che se la prendono con coloro che hanno
feriti, ignorando che questi sono cambiati e che avevano il desiderio di shalom
nei loro confronti. Ma dal punto di vista dei fratelli questa violenza nei
confronti di Giuseppe e di Giacobbe è percepita come un male necessario in
funzione del loro benessere, tra l’altro il loro desiderio di una normale vita
familiare. Insomma anch’essi cercano quanto è bene per se stessi, tentando di
liberarsi di ciò che fa loro del male o di quello che gli altri fanno loro.
In questa
storia, se si desidera una svolta reale, l’obiettivo non potrà essere che uno:
ognuno dovrà essere portato a voltare le spalle a ciò che era un bene solo per
se stesso e a sacrificarlo al bene degli altri.
8.
Non ti smarrire nel tempo della seduzione
Gn 39,1-6
Tralasciamo il cap. 38
che come il 49 narra la storia di Giuda. Leggendoli è possibile constatare come
anche Giuda e la sua discendenza siano
invischiati in storie di inganni e
di ingiustizie. Giuda ne trarrà lezioni importanti per affrontare la vita
nella verità. Anche qui traspare il messaggio principale che il disegno di Dio agisce attraverso le
vicende di uomini concreti e che questo non si concretizza quasi mai in un
cammino lineare, ma una strada di costante sorpresa.
Giuseppe spogliato
della sua libertà e della propria dignità è condotto in Egitto in qualità di
schiavo. Su un orizzonte spersonalizzato la persona diventa un puro oggetto. Egli
assume i tratti della vittima che,
puramente passiva, non fa altro che subire quello che gli altri gli infliggono.
Viene
venduto ad un notabile egiziano Potifar comandante delle guardie di Faraone. Questi ben presto sa individuare
le qualità di Giuseppe tanto che lo eleva o al rango di servitore personale e
di maggiordomo della sua casa.
Per la prima volta, l’autore del brano fa intervenire
Dio: “Il Signore fu con Giuseppe, così che questi
divenne un uomo a cui tutto riusciva”. (39, 2) Nonostante le
apparenze Dio è presente nella storia e nella vita del “bambino” minacciato, abbandonato dai fratelli e venduto come schiavo.
Questa “riuscita” di Giuseppe non è
che l’adempirsi della promessa fatta da Adonai ad Abramo: Giuseppe appare dunque chiaramente come
erede dell’elezione e della benedizione di Abramo.
Giuseppe sa collocarsi nella
nuova situazione con sapienza e non
sfruttando la situazione per il suo tornaconto. Ha imparato a stare al suo posto diremmo noi. Invece di riprodurre
il gioco ambiguo che era il suo con i suoi fratelli, Giuseppe non cerca di
imporsi, di prendere il primo posto, soprattutto nel momento in cui questa possibilità
gli verrà subdolamente offerta. E questo
è già un primo indizio della sua trasformazione. Accetta consapevolmente i
limiti impostigli, e i “limiti” vengono posti in vista di un “bene” in modo che
possano instaurarsi relazioni armoniose (cfr Gn 1).
Ora “Giuseppe era bello
di forma e avvenente di aspetto”. Questo dono non richiama solo una
dote umana, ma è un segno della grazia
di Dio (cfr Mosé: Es 2,2; Giuditta
8,7). Ma ogni dono di Dio prima o poi
diventa tentazione. Più grande è il dono, il talento, più forte e la
seduzione della tentazione. E sempre con lo scopo di impossessarsi del dono, di
gestirlo in maniera autonoma, all’interno di una passionalità e del proprio
interesse personale. Insomma usare il dono per raggiungere gli scopi prefissati
da noi senza il donatore. Dove la
tentazione sarà di impegnare il dono non per la gloria di Dio ma per costruirsi
un mondo in cui il proprio io sarà l’epicentro delle cose e delle relazioni.
Ad un certo punto la moglie di Potifar pone lo
sguardo su Giuseppe e vede che è bello e affascinante. Se ne invaghisce. A
spingerla c’è di nuovo una bramosia che traduce l’altro in oggetto da sfruttare
per il proprio tornaconto. “Or un certo giorno egli entrò in casa per fare il suo lavoro,
mentre non vi era in casa nessuno dei domestici. Essa lo afferrò per la veste,
dicendo: « Giaci con me! ».Ma egli le abbandonò tra le mani la sua veste, fuggì
ed uscì fuori.” (Gn. 39,11s). Giuseppe potrebbe
entrare in questo gioco erotico e approfittarne in tanti sensi, soprattutto
per costruirsi tutta una rete di potere
e privilegi. Ma a quale prezzo?
Per la prima volta,
la donna, cerca di far deviare la
relazione di Giuseppe con Dio, non
per la ricerca di qualcosa ma per una passione travolgente, il bisogno di comunione e intimità. Creare
comunione, unirsi, sono proprio la vocazione di Giuseppe e sono precisamente
queste realtà che adesso lo porterebbero via da Dio, invalidando la sua
missione e la sua identità.
Occorre vivere una grande purificazione soprattutto dove il
talento è più spiccato. Lì occorre vivere una pasqua non nell’ambito delle cose
ma all’interno delle relazioni. La
tentazione di Giuseppe si gioca dentro questa situazione. Giuseppe è solo,
separato dai suoi fratelli, e quando uno è solo è molto facile cedere alla tentazione
di unirsi a qualcuno per sentirsi finalmente accolti e amati. Quando uno è
colpito, ferito, subisce le tentazioni più terribili di unirsi alle cose più
banali, più stupide, più umilianti, proprio perché sente la sua condizione di
“separato”. A qualcuno o qualcosa mi devo unire per sentirmi riconosciuto e
amato!
Ma c’è anche un altro aspetto dentro questa tentazione:
quella di cedere al rancore che spinge
alla vendetta. Escluso da una parte,
scatta il meccanismo di unirsi ad un altro per colpire la parte che ci ha
tagliati fuori, per dimostrare che si è riusciti, che gli altri devono pentirsi
dell’esclusione.
Giuseppe nella tentazione combatte, si difende: “come potrei fare
questo grande male e peccare contro Dio?” (39,9). In ultima istanza
Giuseppe si appella a Dio. Non tanto per difendere la virtù della
castità quanto per ottemperare alla
giustizia, alla responsabilità, alla gratitudine verso il padrone. D’altra
parte la vera castità è sempre una questione di giustizia e di carità verso il
prossimo. Nasce dopo tanto un’etica biblica che non è semplice codifica di
comportamenti morali, ma invito ad un comportamento che nasce dalla relazione corretta
con Dio, con l’altro e con le cose. Ed è questo il criterio vincente. Tutte le
cose stanno in piedi a causa di Dio e niente si può costruire o mantenere senza
di lui.
Giuseppe lega
immediatamente la relazione con questa donna al suo rapporto con Dio. È l’uomo religioso che vede Dio che
agisce in tutto. È proprio ciò che a noi riesce così difficile, questo nesso
immediato tra la storia, la nostra storia, intessuta di tanti gesti quotidiani
ritenuti più o meno insignificanti, e la salvezza, tra il tempo e il Signore.
Qui occorre chiedere il dono della contemplazione!
Il fatto poi che
Giuseppe sposti l’attenzione dalla seduzione erotica all’onestà, alla
responsabilità e alla gratitudine verso il padrone, indica come di fatto bisogna stare attenti alle tentazioni
perché spesso, o nella maggior parte dei casi, la loro verità non sta nella
loro prima apparenza. Nella vita spirituale accade spesso di combattere su
di un campo che diventa un motivo per occuparsi di se stessi. È un classico
esempio della “furbizia” della tentazione, far spostare la nostra attenzione su
una realtà, mentre è un’altra che sta minando, senza che ce ne rendiamo conto.
Anche questo brano ha il suo nesso con Cristo tentato (Lc
4,1-13). La difesa di Cristo davanti alle tentazioni è una totale fedeltà di
Dio e a Dio. Ed è un’esplicitazione per il discepolo che la via per la vera vita è la rettitudine del cuore, è un tenere lo sguardo su Cristo, che a sua
volta fissa lo sguardo nel Padre senza che nessuno riesca a distoglierlo. Nella vita spirituale è salutare
imparare a fissare l’attenzione sulle
realtà vere, che rimangono, che non sono corruttibili. Saper posare il
pensiero e l’attenzione sulle cose che hanno peso, che contano, significa non
disperdersi, non perdersi, ma custodire la pace interiore. Le agitazioni provengono quasi sempre da un’attenzione dispersiva e da
un pensiero fissato su cose che noi stessi ci prefissiamo, ma che non ci
vengono comunicate né rivelate.
Il dominio sulle
passioni in questa prova è per Giuseppe un passo di maturazione per la sua
missione che sarà il dominio sull’Egitto. Giuseppe dominerà allora l’Egitto non
per qualche sua voglia di scalata sociale o di dominio per affermare se stesso.
Proprio perché ha imparato a dominare le passioni a causa dell’amore verso Dio,
salverà il suo popolo, distribuirà il cibo: sarà servitore della vita e non un “arraffattore” di potere. Si intravvede qui il vero
senso di ogni ascesi, che culmina nel distribuire i beni, nel salvare gli
altri, ovvero nel consumarsi per amore.
Giuseppe che scappa e
lascia la veste
richiama Mc 14,52, il ragazzo che lascia il lenzuolo e scappa via nudo. La veste
di servizio diventa veste di tradimento, ed è nuovamente a causa della tunica
che Giuseppe si ritrova in prigione! Fra i versetti 12 e 18, la parola «veste»
viene citata 6 volte. Giuseppe
ha prima subito il furto della tunica, poi della veste. Si va sempre più verso
uno spogliarsi radicale, una kenosis totale.
Essere
nudi abbiamo visto significa in realtà essere vulnerabili, essere esposti. Lasciare la veste significa che
si sta davanti ad un pericolo più grande
di quello rappresentato dalla nudità, ovvero fuggire da una vergogna e da un
pericolo ancora maggiore (se il tuo occhio….se la tua mano…). Canta
un tropario della liturgia orientale: "Trovando nell'egiziana una seconda Eva, si studiava il Drago di far
cadere Giuseppe nella lusinga delle sue parole; ma egli abbandonò la veste e
fuggì il peccato e nudo non si vergognava, come il Progenitore prima della
disubbidienza. Per le sue preghiere, o Cristo, abbi pietà di noi". Giuseppe
si ritrova ancora una volta nudo, come quando i suoi fratelli lo hanno
spogliato della sua tunica, prima di servirsene contro di lui, cosa che la
donna non mancherà di fare a sua volta. Nel nostro contesto è esplicita la fuga dal peccato,
dall’autodistruzione, perché rinnegamento della parola di Dio, della sua legge.
Si intravede già l’uomo nuovo di cui parla Paolo che, anche se spoglio, è sopravestito
dell’immortalità, dell’incorruttibilità (1Cor 15,53-54).
Di fronte al rifiuto di
Giuseppe per vendetta la donna gli si ritorce contro. Abbandonata
nelle mani della moglie di Potifar, la
veste di Giuseppe diventa una prova a carico per una falsa accusa. L’odio non è mai molto lontano dall’amore,
e il fallimento non è mai molto lontano dal successo! Il rifiuto di Giuseppe è uno specchio per la donna che riflette la
sua cattiva coscienza, e per non vedere più questa immagine meschina di se
stessa la donna cerca di rompere questo specchio sbarazzandosi di Giuseppe.
La donna rimane con la veste in mano
e dovrà inventare qualcosa, allo stesso modo dei fratelli. Si deve
sempre inventare una menzogna, dal momento che il tentatore è il padre della
menzogna (Gv 8,44). E l’accusare l’altro,
fosse anche il marito (“che tu….”), del
proprio desiderio colpevole è un trucco vecchio quanto il mondo. Non c’è
forse qui un’eco della scena del giardino dell’Eden, in cui dopo aver ceduto
alla bramosia, l’uomo tenta di discolparsi puntando il dito contro la donna e
anche contro Dio che gliel’ha messa accanto? (3,12). Dalla sua la donna è abile
nel tirar dalla sua parte gli schiavi
certamente gelosi di Giuseppe e desiderosi di essere ricompensati.
Così il futuro di
Giuseppe è ancora in balia delle macchinazioni malsane di altri. Quante volte il disegno di Dio passa
attraverso persone annoiate e fatti banali con conseguenze tragiche: pensiamo
al Battista e ai giochi di potere e seduzione durante il banchetto del re Erode.
Anche Gesù muore in mezzo alle banali vicende di giochi potere umani e
religiosi. Mc 15 non descriverà la passione come una parodia del rito di
incoronazione del re dei giudei da parte di soldati annoiati e arrabbiati? Il destino del discepolo è dunque anche
quello di essere vittima di episodi spesso così crudelmente banali.
Murillo,
Giuseppe e la moglie di Potifar
9.
Il bene punito e dimenticato
Gn 39,19-23
Quando il padrone udì le parole (menzognere) di sua
moglie che gli parlava in questi termini: «È proprio così che mi ha fatto il
tuo servo!», si accese d'ira. E il padrone di Giuseppe lo prese e lo mise in
prigione nel luogo dove il re detiene i carcerati.(Gn 39,19-20). La donna racconta la sua versione dei fatti
in maniera tale da non lasciare spazio a nessun’altra interpretazione oltre
alla sua. Espediente che anche i fratelli avevano utilizzato con Giacobbe. E
Giuseppe, che non si difende, rimane fedele al padrone il quale lo getta in
prigione. Rifiutando di entrare nel
gioco di accuse in cui la donna lo trascina, Giuseppe testimonia anche il rifiuto da lui
opposto al male. Poiché comprende il processo della produzione del
male, evita di riprodurlo, in modo tale da non rendere infelici altre persone
nel disperato tentativo di sfuggire alla sventura. Se viene gettato in prigione al posto di venire
giustiziato, lo deve esclusivamente al fatto che Potifar è un uomo retto, che
forse, ma senza dirlo, comprende l’accaduto. Rimane il fatto che per la seconda volta Giuseppe si ritrova
“in fondo al baratro”.
Siccome in ultima
istanza Giuseppe faceva appello a Dio, uno potrebbe aspettarsi che almeno Dio
adesso si faccia sentire e faccia capire al padrone l’errore che sta
commettendo, che sveli l’inganno, salvando Giuseppe. Ma se il Signore è con Giuseppe non significa la garanzia che tutto gli andrà bene e che ci sarà un
lieto fine né che gli verranno risparmiate sofferenza e solitudine. Il Dio
di Giuseppe che gli fa riuscire tutto bene non è un Dio strumentale ai fini
dell’uomo. Significa piuttosto che
accompagna l’uomo nel suo cammino, non gli risolve magicamente i problemi.
Per cui non ci meravigliamo che il testo affermi che Adonai “scese con lui nella prigione, non lo abbandonò mentre era in catene” (Sap
10,13). Ma se il Signore è con lui, ciò significa che Giuseppe si tira dietro anche nella prigione la
benedizione promessa ai padri attirando la benedizione anche su chi lo
accoglie (Gn 12,2s). E’ così ancora immagine di Cristo che si dà al mondo sino
alla morte di croce e dalla croce riversa sul mondo l’abbondanza della sua
benedizione: chi accoglie Cristo accoglie il Padre (Mt 10,40) ovvero accoglie
ogni bene.
In effetti la storia
di Giuseppe richiama continuamente il
mistero e la sapienza della croce. La
maturità spirituale consiste proprio nel mettere anticipatamente in conto la
pasqua. Chiunque si addentra sulla strada del vangelo e, toccato da
Cristo, vuole seguirlo, già sa che per la logica del mondo i conti non
torneranno. Quando si fanno scelte nella vita, quando ci troviamo ad incroci
importanti, è bene sapere che, su
quella che per noi è la via giusta, prima o poi ci aspetta la punizione per un
bene compiuto. È frequente fare del bene ed essere fraintesi, essere giudicati
in maniera errata. Ma è proprio una delle caratteristiche dell’operare
dell’amore e per amore quella di essere fraintesi. Immersi in una cultura di
peccato e di sensualità, del protagonismo e dell’avere, un’opera e un gesto
dell’amore non possono essere compresi senza che si faccia sopra del calcolo e
della speculazione. Il bene, essendo l’amore, non cerca mai se stesso (1Cor
13,5), ma è tale proprio perché è di tutti, ed è il bene perché è
privo di interessi, non chiede per sé, e per questo il peccato del mondo non lo
sopporta: esso contesta la
sua logica (mors tua vita mea!). Il bene perciò deve essere punito,
perché smaschera il male e lo fa crollare nella sua essenza, cioè nel
suo interesse egoistico. Ed è per questo motivo che il male punisce il bene.
Ma il bene continua a fare il bene,
anche se punito, proprio perché non può cominciare a difendersi, perché non
cerca il proprio interesse (cfr 1Cor 13,5): “Non lasciati vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Rm
12,21). Ma noi non riusciamo a pensare
così il più delle volte, perché coltiviamo
sempre la visione della riuscita del bene, del bene riconosciuto e
approvato, di una sua vittoria formale, dove tutti gli applaudono.
Così Giuseppe si ritrova di nuovo in prigione è in una situazione disperata. Un
momento più buio sarebbe impossibile immaginarlo. La prospettiva è proprio
quella della pasqua, di Gesù nell’agonia dell’orto, di Israele in Egitto che non
avrà più alcuna chance, tutti i figli
maschi saranno uccisi e non ci sarà più nulla da fare, allora il Signore
interviene a portare la salvezza. Lo stesso è ora.
Dobbiamo sottolineare
un aspetto importante: Giuseppe non
rimane bloccato da ciò che gli capita. In questo senso sono
interessanti i nomi che darà ai suoi due figli che gli nasceranno dopo alcuni
anni. Il primo è Manasse “perché - disse - Dio
mi ha fatto dimenticare ogni affanno e tutta la casa di mio padre”
(41,51). Il suo è un dimenticare che
non è un rimuovere ma un ricordare nella verità e nell’amore, ovvero senza
alcuna carica negativa. E infatti non
è tanto Giuseppe che dimentica ma è
Dio che gli fa dimenticare. L’uomo da solo non riesce da solo a risolvere i
nodi irrisolti del suo passato: non riesce né a perdonare né a perdonarsi. (La
psicologia qui rivela tutto il suo limite nell’operare una vera reintegrazione
del male: può giustificare ma non perdonare!). Il secondo figlio ha nome
Efraim: “perché –
disse – Dio mi ha reso fecondo nel paese della mia afflizione”
(41,52). Giuseppe è conscio
dell’intervento di Dio nella sua vita. Tiene costantemente aperta la relazione con lui e vede tutti gli avvenimenti in Dio nella
certezza che egli attraverso questi scrive la sua storia. Da qui lo sguardo
colmo di gratitudine verso Dio anche se è nel paese dell’afflizione. C’è una profonda sapienza nel non
cancellare le tracce del passato, nel custodire la memoria delle ferite che si
è riusciti a superare e dei vicoli ciechi che la vita ha dovuto attraversare
per trovare la fecondità. Giuseppe non parlerà mai perciò di una vendetta
che la sua elevazione in Egitto avrebbe reso possibile. La gratitudine, in
senso spirituale è un atteggiamento di umiltà, aspetto costitutivo dell’amore. La gratitudine approfondisce
nell’uomo la sua verità relazionale, impedisce le chiusure, evita l’insuperbirsi,
perché è una caratteristica delle persone sagge, sapienti, perché agli umili
Dio si rivela. Scrive Marco l’asceta nel V sec. “Il principio del tuo profitto secondo Dio devi trarlo, o figlio, da
questo: considerare, senza mai dimenticare e con perenne memoria in
ininterrotta meditazione, tutte le divine dispensazioni e i benefici passati e
presenti del Dio amante degli uomini verso di te a salvezza della tua anima: e
non accada che, avviluppato dall’oblio del male o a motivo della noncuranza, tu
ti dimentichi dei suoi molti e grandi benefici e perciò trascorra il resto del
tuo tempo inutilmente e senza gratitudine. Questi ricordi incessanti, infatti,
sono come un pungolo che punge il cuore e lo spinge sempre alla confessione,
all’umiltà, al rendimento di grazie con anima contrita, a ogni zelo buono, a
rendere in contraccambio al Signore modi e costumi buoni e ogni virtù secondo
Dio, e a meditare sempre con puro sentire della coscienza la parola profetica:
che cosa renderò al Signore per tutto ciò che mi ha dato?” (La Filocalia).
“Nel sapere e nel ricordare in pratica che è sempre così-che
l’essere-di-Dio-con-noi non ci risparmia né di essere venduti, né di venir
ingiustamente imprigionati, ma sa di essere preservati dal peccato (Sap 10.13)-
in questo sta la sapienza e il “timore di Dio” di cui è ripieno Giuseppe”
(Rossi de Gasperis). È per questo che in 1Macc 2,53 si afferma che: “Giuseppe
nell’ora dell’oppressione osservò il precetto e divenne signore dell’Egitto”.
Se Giuseppe si fosse fissato su quello
che gli avevano fatto i fratelli, avrebbe avuto gli occhi appesantiti dal
rancore, da notti insonni, avrebbe covato il veleno della vendetta e non
avrebbe mai visto che il Signore in Egitto gli apriva una strada. Il
rancore e la collera sono sempre gravi impedimenti alla comprensione della
realtà. Massimo il Confessore dice: “Purifica
il tuo intelletto dalla collera e dal rancore e dai pensieri turpi: allora
potrai conoscere l’inabitazione del Signore”(Centurie sulla Carità).
Giuseppe si dimostra così sempre più un uomo saggio e giusto. Egli ha
imparato a rifiutare il male anche quando ne diventa vittima. Non tenta di
vendicarsi su altri della sofferenza che lo colpisce, ma sceglie di fermare il male su di sé invece di fornirgli
l’occasione di proliferare.
In questo senso la vicenda di Giuseppe diviene una grande
parabola non solo del cammino di Cristo, ma del cammino di ogni discepolo e
della Chiesa. Cercare gli applausi e le approvazioni non rientra nelle
dimensioni dell’amore vero. Questi sono luccichii dell’ingannatore. Secondo la
ragione del mondo è grande chi è il più forte, il più capace di farsi valere,
chi “picchia di più”. Ma l’amore vero sconfessa quest’ottica. Perciò il vero forte è il debole agli occhi del
mondo e il più felice è lo sconfitto dal mondo. E il perseguitato a causa
dell’amore è sempre una rivelazione dell’amore. (Ma facciamo attenzione l’odio
può essere anche scatenato dal nostro peccato, alcuni comportamenti possono
suscitare reazioni del mondo che non sono
a causa di Cristo, ma a causa della nostra riduzione ideologica della
fede e del nostro compromesso)
Si può lavorare per l’amore e riscuotere un certo
successo, ma nell’ottica spirituale tutto questo non significa ancora quella
missione maturata nell’amore che porta frutti che rimangono, perché è
impossibile saltare dal giovedì santo alla domenica mattina senza passare
attraverso il venerdì e l’attesa del sabato. Solo una missione impastata con il
lievito del venerdì e del sabato santo genera la risurrezione. La parabola di Giuseppe ci fa discernere la
via giusta da percorrere, facendoci scartare le false scorciatoie della ricerca
dell’immediato che soddisfa ma non salva.
Dicevamo che se il
Signore scende con lui in prigione, questo significa che Giuseppe si tira dietro la sua benedizione. In
carcere il comandante delle guardie del carcere è in effti colpito dalla
persona di Giuseppe e dalla sua saggezza e non esita ad affidargli compiti di
responsabilità, dimostrando in questo una grande fiducia il lui. Nella sua vita
la logica dell’amore è stringente: è amato e perciò viene escluso, ma viene
sempre amato da Dio attraverso l’amore di un altro.
In carcere ha finalmente fine anche la sua
"discesa agli inferi". In che modo? Entrano
misteriosamente in scena sue prigionieri il coppiere e il panettiere del re
d’Egitto. Tante volte la storia del bene passa per circostanze misteriose e
imprevedibili. La vita scorre attraverso le relazioni, gli incontri. È difficile e rischioso racchiudere la vita
in schemi precostituiti. Ed è proprio
grazie ai sogni iei due suoi compagni di sventura da lui interpretati che li sconvolgono
in due modi diversi che in seguito acquisterà la libertà!
Si può osservare qui un
cambiamento importante nel modo di presentare gli eventi. Dato che Dio era sceso con Giuseppe nella prigione, si rivela pienamente che solo attraverso
lui è data “la chiave dei sogni” a Giuseppe, la chiave che gli aprirà tutte le
porte in Egitto. Se i primi sogni potevano essere presi come dei sogni
umani, è chiaro che qui è Dio ad averli ispirati al coppiere e al panettiere. Giuseppe
non temerà di affermare: "Non è forse Dio che ha in suo potere le interpretazioni?"
coniugando allo stesso tempo l’umiltà del servo di Dio (non è nei miei poteri!)
e la sicurezza dell’interprete-profeta che si fa intermediario fra Dio e gli
uomini.
I due compagni avevano
sognato ma non avevano capito. L’uomo
religioso non va in cerca di chissà cosa per “spiegare”, va subito alla fonte: è
Dio solo che può dare le interpretazioni. È da sottolineare nella storia di
Giuseppe un equilibrio straordinario tra
divino e umano, dove la
compenetrazione vicendevole è davvero spirituale, dunque libera, dove non c’è totalitarismo divinizzante né un
unilateralismo umanizzante. Giuseppe non usa formule in cui l’appello a Dio
sia diretto e costante, non parla neanche nella forma degli oracoli dei
profeti, ma usa il modo sapienziale. L’uomo radicato in Dio, seguendo la
propria vocazione, attiva tutte le sue risorse, tutte le sue capacità.
La sapienza di Giuseppe è l’ultimo frutto della fede, ed
è qualità delle persone che , accolto il dono di Dio, educate alla sua Parola,
sono “esperti , in pratica, della vita e della morte, della gioia e del dolore,
dell’amore, dell’amicizia, della pace e della guerra, della ricchezza e della
povertà, del successo e dell’insuccesso,…capaci di interpretare rettamente, di
muoversi prudentemente e di impartire un insegnamento valido a proposito di chi
sia l’uomo e la donna, di come si conduca una famiglia e si educhino i figli,
di come si viva e si faccia rispettare nella società, si conducano gli affari e
si gestisca il denaro, ecc…” (R. de Gasperis).
Il
coppiere aveva fatto la promessa di fare del bene a Giuseppe quando fosse
uscito di prigione. Ma Giuseppe non può
beneficiare immediatamente di questo successo perché il coppiere come
preannunciato da Giuseppe, una volta ristabilito nelle sue funzioni, “dimentica
Giuseppe” lasciandolo
nel buio della prigione ma questo sarà per lui una grande opportunità.
Quando si è nella
necessità, si desidera tanto ciò di cui si ha bisogno e ci si concentra
fortemente su colui che ce lo può dare. Una volta ricevuto ciò che si desidera,
dopo i primi momenti di entusiasmo, ci si scorda subito di colui che ce l’ha
procurato, e più tardi ci si dimentica anche della cosa ottenuta. Noi uomini siamo capaci realmente di giudicare e di
ricordare chi è meritevole riguardo a qualcosa? Sembrerebbe proprio di no,
la nostra “memoria” in questo è molto labile….
D’altra parte il
discorso dei meriti e dei ringraziamenti, cioè di essere visibilmente desiderosi
d’esser riconosciuti come operatori del bene è un aspetto davanti al quale gli
autori spirituali cercano in tutti i modi di preservarci. È un atteggiamento di
maturità spirituale quello del fare
del bene di nascosto, proprio per aiutarsi a non cadere nella
tentazione e a non mescolare il bene con il male, l’egoismo all’amore.
Altrimenti ci si convince pian piano che realmente facciamo il bene, che si è
onesti, buoni, e se non si è
riconosciuti come tali e ringraziati, ci si offende e ci si rattrista. C’è
tutta una dimensione della tristezza (e ira talvolta che l’accompagna!)
strettamente collegata a questa superbia spirituale, ovvero dell’essere
convinti nel profondo di operare il bene, di essere buoni, e di non essere
riconosciuti come tali e premiati per il bene fatto. (Cfr Mt 6,1-3).
La nostra tensione deve
essere rivolta solo verso il Signore. Nella parusia si manifesterà la verità:
in quel momento resisterà solo ciò che
avrà preso parte al mistero pasquale. Per questo motivo il bene dimenticato non è realmente
dimenticato, ma vive di una realtà divina. Il bene dimenticato è quel tessuto organico forte che rende la storia
un organismo vivente del Cristo universale che, nella luce dello Spirito
santo, si rivelerà come nuova Gerusalemme. Le sofferenze nascoste dell’amore
crocifisso nei luoghi più sperduti e dimenticati sono le perle preziose
incastonate nelle pietre della Gerusalemme del cielo che un giorno saranno
manifestate a tutti.
L’amore che opera il bene e che non viene riconosciuto
non ha bisogno di essere visibile agli occhi del mondo, perché è già appagato nella speranza che non delude, perché è già passato
dalla morte alla vita in Cristo risorto. Il
bene dimenticato è un bene vero! In quell’ultimo giorno di sorpresa
assoluta si vedrà che le persone operanti il bene e dimenticate erano quel
tessuto organico che, dietro le quinte di un mondo spensierato e accecato da
non vedere che sprofondava nelle crepe
del tempo, salvavano dal precipizio definitivo anche coloro che li affliggevano
con il disprezzo e il rifiuto del loro bene.
E la persona che
compie il bene di nascosto è contraddistinta
da una grande umiltà. Essa matura
la convinzione che è stato
Dio a compiere quel bene, e che lei si è solo aperta al volere di Dio,
l’unico che possiede il bene e che lo può realizzare. Per questo chi si trova
nel buio della dimenticanza può ripetersi nel cuore: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi
per il frutto delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io
invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15)
Oggi non è facile
comprendere questa verità sommersi come siamo da una cultura dei mass-media in
cui una cosa è buona se è riconosciuta, apprezzata, se riceve consenso e
applauso, spettacolarità. Non per nulla le vocazioni contemplative, anche nella
stessa Chiesa, non sono per lo più apprezzate e riconosciute nel loro valore.
10.
L’ascesa del sapiente Giuseppe
Gn 41,1-16.25-42,46-57
Ancora una volta due sogni, quelli di Faraone,
modificheranno radicalmente il corso della storia. Giuseppe nonostante
la schiera dei sapienti d’Egitto incapaci di interpretazione dei due sogni,
ovvero ai quali manca la chiave del mistero del vero Dio, è stato ripescato
dalla prigione al fine di darne lui la spiegazione. Tornano i sogni come realtà attraverso la quale egli si renderà grande,
più dei sapienti e dei dotti della grande cultura egiziana. E’ stato
chiamato al cospetto del faraone proprio attraverso le relazioni, gli incontri,
l’esperienza che si aveva di lui, dal momento che del vero sapiente la gente si
passa parola. “La soglia della sua casa è
consumata” (Sir 6,36).
La sua storia lo ha reso anche
un uomo abile, capace della più grande
modestia come di uno spirito d’iniziativa fuori dal comune.
Giuseppe comincia il suo
discorso affermando che lui non è indispensabile. Che è Dio a dare
l’interpretazione dei sogni e che il faraone avrebbe potuto benissimo cavarsela
da solo: è Dio dunque che darà la risposta
(41,16)! Giuseppe
davanti al faraone, in tutto il colloquio fino alla sua conclusione, mai dà a
vedere di possedere qualche merito o dote particolare relativa
all’interpretazione dei sogni. Ovvero non
sfrutta la situazione per il proprio tornaconto. Anzi, con il suo stile, ormai parco,
essenziale, fa chiaramente capire al faraone che è Dio solo Colui che dona la
conoscenza. In Giuseppe non c’è un
doppio gioco, né ambiguità di fini.
Anzi proprio nel momento solenne della sua piena vittoria sulle ingiustizie
subite, nel momento in cui arriva ad avere potere sull’Egitto, è un luminoso
esempio di umiltà. Una volta che il faraone ha
raccontato i suoi sogni, Giuseppe, con una sicurezza tutt’altro che comune, non
solo li interpreterà, ma detterà
letteralmente a Faraone quello che deve fare se vuole salvare il suo paese.
Discernimento e progettazione fanno parte dell’uomo spirituale.
L’umiltà è una virtù che nella vita spirituale garantisce
il giusto sapore di tutte le altre virtù. Essa
fa sì che si garantisca che le virtù non divengano motivi di autocompiacimento,
ma rimangano tali. Senza umiltà, nessuna crescita spirituale è una vera
crescita. Essa è un atteggiamento che fa sì che la persona distolga lo sguardo
da sé e lo orienti all’Altro. È riconoscere Dio come “Il Signore della mia vita”. L’umiltà, sgombra il terreno delle
paure, custodisce una relazione aperta affinché l’altro rimanga veramente il
primo. Ad una tale persona la vita si rivela e svela i suoi misteri. Non ci
deve meravigliare allora il fatto che Dio si riveli agli umili e si nasconda
agli occhi dei superbi. Agli umili la sapienza fa da compagna nella vita. Ma
siccome sono umili, non si fanno vedere, bisogna andarli a cercare. E l’umiltà è la sola porta di ingresso alla
sapienza.
Il Faraone, chiaramente
affascinato da questo giovane straniero appena uscito di prigione, lo stabilisce
secondo sul suo regno, gli conferisce tutte le insegne della sua alta carica, lo
riconosce come un intermediario della
divinità, lo sposa alla figlia di un sacerdote che porta, guarda caso, lo
stesso nome del suo primo padrone, Potifar, e soprattutto gli dà un nuovo nome,
Zafnat-Paneach, che gli esegeti di oggi interpretano come "Dio ha parlato e dà la vita". Giuseppe rivivrà questo momento come
quello in cui una figura paterna che lo predilige e lo
riveste di nuovo un abito onorifico. Il narratore indica a questo punto l’età di
Giuseppe, trent’anni, come è d’uso per i re alla loro incoronazione.
C’è un passaggio
sostanziale nel racconto di Giuseppe che non ci deve sfuggire. La porta dell’umiltà è l’umiliazione: e
l’umiltà è la porta di accesso alla sapienza. Si giunge all’umiltà
attraverso la kenosis. Non si diventa
umili se non per la grazia, per l’amore dello Spirito santo che fa maturare le
nostre umiliazioni. Davanti a Giuseppe si erano chiude tutte le strade, il suo
vestito imbevuto dell’amore del padre gli era stato tolto e inzuppato di
sangue, i pascoli di suo padre erano lontani, i mercanti gli aveva strapapto la
libertà e lo avevano comprato e portato in una terra straniera, in un’altra
cultura, lingua e religione. La luce si era chiusa su di lui: prima la
cisterna, poi la prigione, poi la dimenticanza di lui. C’è forse un qualche
nesso tra i sogni del faraone e la vita di Giuseppe. Anche lui ha vissuto i
suoi anni di beatitudine nella casa del padre. Ma i suoi anni di abbondanza
sono passati e sono giunti gli anni magri, di prova, di crisi. Ma questi anni
lo hanno purificato e maturato per affrontare una nuova tappa della sua vita.
Ora la sapienza spirituale è riconoscere il
nesso tra l’aspetto fenomenologico della vita, tra la storia e le sue
articolazioni quotidiane e la storia di salvezza di ciascuno. E questa
salvezza consiste nella rivelazione che Dio ci fa del suo amore.
La lettura della nostra
storia deve essere spirituale. Ma queste realtà non sono più scontate. Non è
facile trovare un padre spirituale che senza fanatismi, senza moralismi o
psicologismi, possa parlare con le
persone dischiudendo loro lo sguardo su ciò che sono e su ciò che capita loro
nella vita in chiave di salvezza,
in chiave di maturazione con Dio e con
gli altri, e dunque con sé. Al massimo oggi si ricorre a qualche scuola di
spiritualità, a una sua teorizzazione che a stento diventa vita. È difficile leggere la nostra stessa
storia, troppo occupati come siamo dall’idea di come dovrebbe essere, di come
gli altri, la Chiesa, noi stessi dovremmo essere. Così la vita concreta ci
sfugge di mano senza che neppure ce ne accorgiamo.
Giuseppe matura sino
alla convinzione che è Dio che
attraverso tutte le vicende dona la conoscenza, perché è lui che porta a
termine gli eventi con la sua provvidenza. Giuseppe
è uomo di sapienza perché amante della provvidenza. Ha letto i sogni del faraone perché Dio
glieli ha fatti comprendere quale mezzo attraverso il quale si compiva la sua
vocazione datagli dal padre di cercare i fratelli.
La nostra presunta sapienza si risolve il più
delle volte invece in curiosità libresca che è tipica dei principianti ed è
dispersiva.
A noi toccherebbe accedere alla conoscenza di ciò che riguarda la nostra
vocazione. È precisamente questo ciò che Dio ci farà conoscere. La confusione tra conoscenza e
informazione ha fatto smarrire la sapienza. Quando l’uomo accoglie
veramente la vocazione, dunque la propria verità, e orienta tutte le sue forze a
questa vocazione, senza disperdersi in ciò che la gente dice e vorrebbe, certo
Dio gli comunica come compiere la sua vocazione, realizzando se stesso insieme
agli altri, trovandosi con gli altri perché ha trovato se stesso. In genere
proviamo tanta fatica nel leggere i segni dei tempi. L’asina di Balaam ci
ricorda la nostra cecità. La cultura degli ultimi secoli ci ha forse reso
difficile usare la nostra intelligenza e la nostra mente in tutte le sue
dimensioni. Scienza e filosofia
dischiudono solo un ristretto orizzonte che non è quello sapienziale. Un
tipo di mentalità così è incapace di dare risposte profonde di senso. Il suo
compito è di preparare i dati, di raccogliere il materiale, ma trovare la chiave della comprensione
globale, dischiudere la visione è compito dello Spirito e può essere compreso
solo attraverso l’intelletto spirituale che ragiona con umiltà e carità, cioè
con una grande cura dell’attenzione all’altro. L’intelligenza spirituale non si contrappone alla ragione analitica, ma
la integra; non ne ignora né i procedimenti né i risultati, ma li inserisce
nella comprensione globale dell’insieme tipica dell’intelligenza spirituale,
che rivela la vita come organismo vivo e i fenomeni come episodi di questo
organismo. Tale comprensione è possibile alla persona che matura la sua vita
all’interno della relazione fondante con il Signore. Giuseppe ha parlato poco
di Dio nella sua storia, ma nei momenti cruciali e con una lapidaria chiarezza
ha sempre messo in evidenza che per lui il Signore è il primo e l’unico.
La questione dei
sogni non va presa alla leggera: se
la persona è sul cammino del bene ha veramente occhi limpidi con i quali può leggere, con un cuore
sapiente, la storia. Ciò
che ci impedisce di comprendere quello che sta succedendo è il cuore impuro,
la possessione, l’attaccamento alle nostre cose, i propri schemi. Quando invece
uno ha il cuore limpido e, come Giuseppe, la trasparenza di un fanciullo,
allora sa interpretare, vedere, prevenire, comprendere come sarà la storia e a
prepararne la salvezza. Solo un cuore
integro può leggere la storia, dal
momento che per leggerla bisogna essere maturi nella contemplazione, cioè
interiormente liberi, purificati e abili nella riflessione spirituale
sull’esperienza, sul vissuto e sull’insegnamento trasmesso dagli altri.
Giuseppe è divenuto una valida guida spirituale ma questo a prezzo di silenzio,
dimenticanza, prigione, buio, solitudine.
Per una mentalità
mondana qui potrebbe chiudersi il discorso e la storia: finalmente Giuseppe ha
avuto la sua rivincita. Dall’umiliazione all’esaltazione. La parabola sembra conclusa felicemente. Ma dal momento che la storia di Giuseppe è una parabola attraverso la
quale Dio svela il disegno di sé come Creatore e Padre, degli uomini come suoi
figli e fratelli tra loro, del creato come ambito in cui si compie il disegno
del Padre, il racconto non può finire qui. Farlo significherebbe soddisfare
le elementari esigenze psicologiche dei personaggi, o una voglia di giustizia
molto superficiale. C’è invece un’altra parte del racconto, quella finale, dove
il disegno di Dio Padre si compie come prefigurazione di ciò che in pienezza si
è realizzato nel suo Figlio prediletto, l’unigenito Gesù Cristo.
Giuseppe
spiega i sogni al faraone, Venezia, Basilica san Marco
11.
I fratelli scendono in Egitto
Gn 42,1-4
Sono ormai trascorsi ventanni dalla scomparsa di
Giuseppe dalla casa di Giacobbe. Ormai Giuseppe ha 37 anni. La carestia preannunciata da Giuseppe in
Egitto imperversa su tutta la terra (42,57). Ora Giacobbe seppe che in Egitto c’era il grano… (Gen.42,1). La carestia
tocca anche il paese di Canaan, cosicché Giacobbe deve inviare i suoi figli in
Egitto a cercare il grano, però, tiene con sé Beniamino. Lui è l'unico altro
figlio di Rachele, la moglie amata da Giacobbe su cui ha riversato tutto il suo
amore un tempo destinato a Giuseppe. Giacobbe ha già perso Giuseppe, è chiaro
che non vuole perdere anche Beniamino: probabilmente diffida degli altri figli.
È una carestia che obbliga i
fratelli di Giuseppe a compiere un viaggio verso l’Egitto per approvvigionarsi di
che sopravvivere. I fratelli hanno
creduto un tempo di poter dominare a loro piacimento la storia, ma Dio interviene per “aggiustare il tiro”.
Questo significa che Dio ha un piano prestabilito
del destino degli uomini? No, Giuseppe ha incontrato tutte queste difficoltà a causa dei
suoi fratelli, non a causa di Dio! Ma guardandosi indietro, potrà un giorno
dire: Se voi
avevate ordito del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene
(50,20).
“I fratelli di
Giuseppe, dieci” appaiono passivi,
rassegnati, tanto che deve essere il vecchio padre a smuovere la situazione:
“Perché
vi guardate l’un l’altro?”. Molto attivi e inventivi quando si trattava
di tramare il male, adesso, i fratelli non hanno nessuna reazione mentre la
sopravvivenza della famiglia richiederebbe di agire. Hanno perso in certo qual
modo la voglia di vivere, dopo aver fatto scelte di morte? Ma la frase di Giacobbe è carica di sottintesi.
Essa si ricollega con l’ordine dato a Giuseppe
di andare a cercare lo shalom dei
fratelli. Ora i fratelli a loro insaputa dovranno andare a loro volta a
cercare Giuseppe compiendo il suo stesso
cammino.
La carestia, che fa da sfondo a questo racconto, funge
un po’ da metafora della fame di fratellanza che attanaglia
confusamente la famiglia di Giacobbe. Il vecchio padre manda i suoi figli a cercare
grano come una volta era stato mandato Giuseppe a cercare i fratelli, ma cercare il pane in realtà significa cercare
il fratello, dal momento che il cibo e il fratello “morto” cominciano a
coincidere sempre di più, cercare il grano, cioè cercare di che vivere, il
realtà significa cercare l’assente.
Certo è la fame che li spinge, essa è la parte fisica più immediata dove
il ricordo della morte è più immediato.
E sarà la fame che creerà nei fratelli la disposizione che li porterà a
ricercare il fratello. Se la fragilità dell’uomo con i suoi desideri di autosalvezza
diventa la “carne” nel senso paolino, cioè quell’epicentro falso, vuoto, di
passionalità che si ribella a Dio, allora i
fratelli dovranno comprendere che non è soddisfacendo le necessità della carne,
che in questo caso si fanno sentire attraverso la corporeità affamata, che si
ricorda della morte facendo scatenare la fame egoista di avere di più che ci
salva. I fratelli dovranno arrivare a scoprire che si vive dell’amore e
per amore.
La storia biblica non
mette in contrapposizione il grano e la fede, la giustizia e l’amore di Dio, ma attraverso un’esigenza corporea molto
immediata porterà alla scoperta della giusta gerarchia di queste realtà,
cioè che solo all’interno dell’amore il
grano diventa vero grano, cioè il fratello. Ecco di nuovo il nesso con
Cristo che è pane vivo e vero: “chi
mangia questo pane”, quello vero, nutre la propria filiazione, accoglie la
propria partecipazione nel Figlio all’amore del Padre. Anzi, diventa
consanguineo a lui, si fa figlio ed è introdotto alla conoscenza del Padre”. Il pane senza amore rimane semplicemente
solo grano, una cosa per cui si può arrivare anche a combattere, uccidere,
morire. Rimane un cibo che nutre comunque per morire. Nell’amore, il grano non è più materia
che nutre il corpo e che comunque non libera dalla morte, ma acquista il volto
personale dell’incontro. Nel grano ci si incontra e si partecipa all’amore
di Dio Padre e Creatore. Perciò diventa un pane che nutre per la vita eterna,
poiché tutto ciò che viene assunto nell’amore passa dalla morte alla vita.
Dunque i fratelli devono andare in un paese straniero per
cercare il pane. Nella Bibbia un viaggio in un paese straniero indica molto
di più di una normale spostamento geografico. E’ lo sradicamento dalla propria
terra, è accettare di diventare stranieri e bisognosi è pertanto indice di un’estrema
povertà e precarietà. Significa mettersi in balia di sconosciuti.
Nella nostra vita spesso sperimentiamo questa situazione di
miseria spirituale, come se fossimo sfasati. E’ il primo campanello d’allarme
di un disagio “sostanziale”. Sentiamo vacillare ogni sicurezza umana. E’ allora
che si aprono dinanzi a noi scenari drammatici, capaci di mettere tutto in
discussione. Senza appoggi, diventiamo “stranieri” in questo mondo in cerca di
“grano”.
I fratelli devono “scendere”;
e “scendere” e “salire” sono verbi chiave nella scrittura. Non si può mai
discendere verso un luogo santo né salire ad un luogo vergognoso. Se si
discende è per andare in “una fossa”. Sarà per i fratelli dunque uno “scendere” che li porterà a constatare
il loro peccato e a constatarne le conseguenze. Quando i fratelli hanno
eliminato Giuseppe, hanno agito da peccatori. Il peccato nella bibbia è la
morte dell’uomo. Ora la fame, la morte,
li spinge a cercare la vita. Ma in Egitto
comprenderanno che non di solo pane vive l’uomo (Dt 8,3).
La
vacche grasse e magre-Basilica san Marco-Venezia
12.
Il primo incontro
Gn 42,5-17
Sono bastati quattro capitoli
per raccontare le sofferenze e i successi di Giuseppe, ne servono almeno il
doppio per raccontare la storia della riconciliazione con i fratelli. Quando si
è andati così vicino a un omicidio, quando si è escluso, venduto, tradito,
esiliato un fratello, mentito a un padre per anni, il perdono facile è immaginabile?
E quando, come Giuseppe, si è sopportata la fame, la sete, la nudità, la vergogna,
la schiavitù, l’oblio, l’oscurità di una cisterna o di una prigione, il perdono
è ancora possibile? E se possibile quali strade percorrere? E perché scegliere
di perdonare? E dove ritrovare il punto di forza per una convergenza, per una
ritrovata unità, per la riconciliazione? Sono
domande difficili che esigono una elaborazione di risposte non indifferente né
tantomeno immediata.
Dunque i fratelli,
dietro l’insistenza di Giacobbe, sono scesi in Egitto per comprare di che
vivere. Arrivati è Giuseppe ad accoglierli, lui li riconosce ma essi no. Ormai è
passato del tempo, lui si è “egizianizzato”. I fratelli arrivano davanti a lui
e si prostrano (lett. “narici a terra”). I fratelli si dichiarano servi di Giuseppe. Si
comincia così in maniera quasi letterale ad avverare il sogno dei covoni ma
loro non lo sanno, perché loro non riescono a riconoscere Giuseppe. A Giuseppe torna la memoria dei sogni, però connessa
all’accecamento dei fratelli che non lo riconoscono, e i sogno che aveva fatto erano “per loro”. Il che significa che la sua missione è ritrovare i fratelli attorno a
sé, non tanto il loro prostrarsi davanti a lui.
L'incapacità di
riconoscere Giuseppe è simbolicamente l'impossibilità
per costoro di accettarlo come fratello. Essi lo hanno voluto morto e per loro è morto e quindi, quando se lo
ritrovano davanti vivo, non riescono a riconoscerlo.
Giuseppe dunque li riconosce. Ma è troppo presto rivelarsi affinché egli
dipani la difficile situazione. Li ama ancora, ma è troppo ferito, deve
difendersene, troppe sono le domande sospese e non sa neppure quale sia stata
la sorte di suo padre e del suo fratello minore, Beniamino. Forse, per
l'invidia hanno ucciso anche lui? Giuseppe aspetta forse anche che i fratelli
lo riconoscano da soli, ma se questa è la sua attesa la sua speranza è
amaramente delusa.
Quale l’atteggiamento
che egli decide di assumere? Esso in un primo momenti ci sconcerta: “Parlò duramente e disse: «Di dove
siete venuti?». Risposero: «Dal paese di Canaan per comperare viveri». Giuseppe
riconobbe dunque i fratelli, mentre essi non lo riconobbero.Si ricordò allora
Giuseppe dei sogni che aveva avuti a loro riguardo e disse loro: «Voi siete spie! Voi siete venuti a
vedere i punti scoperti del paese» (42,7-9). Le parole di Giuseppe sono dunque dure; egli sembra riprendere le
cose laddove erano rimaste in 37,4-11, quando ogni parola di pace era
impossibile tra loro. Egli inventa l’ipotesi di accusa, del tutto plausibile,
che siano delle spie. Insiste sull’accusa del loro essere venuti per vedere “la nudità”
(=i punti deboli e strategici) del paese. Giuseppe
cerca di aiutarli a far memoria della sua nudità quando fu gettato nella buca.
Dal momento che i
fratelli all’inizio del racconto consideravano
Giuseppe una sorta di spia del padre, adesso, accusati a loro volte dal fratello “spione” di essere spie, devono
passare tutta l’angoscia, la freddezza e la morte di chi fraintende l’amore con
il male, il fratello con la spia, l’amore di predilezione con la gelosia e
l’invidia. Sotto la spia bisogna riscoprire il fratello, sotto il fratello
occorre arrivare a vedere il padre, oppure sotto il grano è necessario scoprire
il fratello e sotto il fratello morto bisogna scoprire il grano che fa vivere.
I fratelli davanti a questa accusa sono costretti a rivelarsi e a dire chi
sono. Sono pieni di paura, perché sono davanti ad uomo potente e straniero,
che non conoscono, che parla una lingua diversa dalla loro. Sanno che la loro
sorte è nelle sue mani. Ma come fare a
dimostrare che non è vero? La situazione è molto simile all’accusa della moglie
di Potifar dalla quale Giuseppe non ha potuto difendersi. Una spia non è
forse per definizione qualcuno di diffidente, abile nello sfruttare le
apparenze per nascondersi e trarre gli altri in inganno? Ora non è proprio un gioco del genere che i fratelli
hanno un tempo giocato nei confronti di Giuseppe e del padre?
Essi rispondono dicendo chi sono, ma dicendo stranamente più
di quello che dovrebbero dire. Affermano: noi siamo figli di un solo padre; eravamo
dodici, adesso un fratello non c'è più, l'altro è rimasto con il padre… No! Noi
non siamo spie! Non dicono di
essere fratelli! Di fronte al fratello “morto” essi sono morti al loro
essere fratelli! “Non siamo spie, perché siamo figli di un solo uomo!” Possibile
che dieci fratelli siano tutti spie? E poi non si vede bene perché mai l'essere
figli di un solo uomo sia in contraddizione con il fatto di essere spie. Loro
probabilmente stanno cercando di portare la cosa su un piano familiare non
nazionale? Però il loro parlare non è pertinente e soprattutto che c'entra il
fatto che un fratello non c'è più e che c'entra il fatto che l'altro fratello è
rimasto in Canaan? Perché mai questo
dovrebbe essere una prova della loro onestà? La loro risposta non è
pertinente nei confronti dell'accusa di Giuseppe, ma è perfettamente pertinente, invece, nella misura in cui si capisce
che, quando uno si porta dietro il peso del peccato, quando poi si trova in
difficoltà e ha paura, in qualche modo cerca di confessarlo, in qualche modo il
peccato ritorna su, in qualche modo si rivela, anche se uno non vuole.
E questi cominciano a rivelare che un fratello non c'è più! Il “morto” è il
vero protagonista, l’assente è il vero presente della storia.
Così l’accusa di
Giuseppe ha già loro strappato
qualcosa della loro verità. Inoltre accennando diverse volte ad “un fratello che non
c’è più” e spiegando che “il piccolo sta a casa con il padre” fanno sì che
si riproponga alla memoria quello che si era tentato di rimuovere: sia il
delitto che l’invidia per la predilezione.
L’insistenza delle accuse è per loro l’inizio della
catarsi:
di fronte a questa accusa, devono
definirsi, conoscersi. E non ci si conosce da soli, neanche ragionando
e pensando tanto su se stessi. Ci si
conosce solo a partire dall’altro: tu
es ergo sum. Bisogna passare,
attraverso il tu, il noi. Per far questo, bisogna riconoscere la loro verità
nei confronti di Giuseppe loro fratello. E
per arrivare a riconoscere la verità su Giuseppe occorre tornare nella
memoria, dove si trova l’amore di Giacobbe per il figlio prediletto. Solo
ammettendo l’amore di predilezione del padre, i fratelli potranno dire al
signore egiziano chi sono. Fino a quel momento dicono solo una mezza
verità. E non solo la affermano, ma la vivono, perché vivono una vita a metà.
I fratelli cominciano a porsi la domanda
fondamentale nella vita spirituale: quella sulla propria identità. Hanno detto il vero dicendo di
essere figli dello stesso padre, ma ciò, e Giuseppe lo sa bene, non è da loro
compreso in tutta la sua profondità e implicazioni. Bisogna che passino da una comprensione sociologica, economica e di
sangue ad una intesa spirituale, che poi è quella della vita e per la vita.
Giuseppe al termine
dell’interrogatorio li fa mettere in
prigione (lett. “li giuseppizzò”)
per tre giorni. Incarcerati in modo arbitrario,
violento ed ingiusto, inizia per i dieci
il cammino di presa di coscienza che Giuseppe fa fare loro e che comincia con il mettere i fratelli in
una situazione di difficoltà; non tanto per vendicarsi e per ripagarli con
la loro stessa moneta, ma perché è
necessario che il cammino di peccato che questi fratelli hanno percorso sia
ripercorso a ritroso, sia recuperato. Per trasformare il male in bene bisogna
passare inevitabilmente attraverso la presa di coscienza della gravità del
proprio peccato. Questo
accade perché Giuseppe decide di
recuperare questi fratelli, lui che è ancora fratello, mentre loro non sono più
fratelli né di lui né tantomeno tra loro.
Ma, in qualche
maniera, è un percorso di
purificazione per lo stesso
Giuseppe, che si trova a dover
affrontare ora i suoi stessi sentimenti, le sue emozioni, i suoi ricordi. I
sentimenti immediati lo porterebbero ad abbracciare i fratelli e a piangere. Ma
deve condurre una certa ascesi di
queste emozioni, in mezzo alle quali potrebbero essere mescolati anche
sentimenti di durezza, affinché
l’incontro tra loro avvenga per l’unica causa vera possibile: l’amore
dell’unico padre che permetterà loro di scoprirsi fratelli e dunque di potersi
perdonare ed amare.
13.
“Certo su di noi grava la colpa
nei riguardi di nostro fratello”
Gn 42,18-38
Giuseppe ha lasciato
i fratelli in prigione, poi, opera un cambiamento di decisione, che li
sconcerta ancora di più. Infatti prima aveva detto: uno di voi andrà a prendere
l'altro fratello e voi rimanete qui. Poi li lascia in prigione e poi dice
ancora: andate via tutti, uno solo di voi rimane qui! Essi capiscono sempre di
meno e sempre più vivono il fatto di essere in balia di questo uomo che,
oltretutto, sembra uno che cambia idea continuamente, mezzo matto. Vai a capire
questo cosa fa e pensa!
La condizione per la loro credibilità che porterà alla
liberazione del fratello rimasto prigioniero sarà il condurre in Egitto il
fratello più piccolo.
Tuttavia Giuseppe si premura di far loro consegnare il grano necessario “per la fame delle loro case”. Ma di che
fame si tratta ora?
Perché questa strategia adottata da Giuseppe? Essa non verte solo
sulla veridicità delle parole, ma va più in profondità: vuole constatare la relazione dei dieci tra loro e con Beniamino e
con il padre Giacobbe. Che cosa stabilirà la verità della parola dei
fratelli? Nient’altro che la fratellanza che dimostreranno nel portare a
Giuseppe il “fratellino”. Lo faranno in tre modi: da un lato la venuta di Beniamino (“vostro fratellino”)
dimostrerà che non gli hanno fatto subire ciò che un tempo inflissero a
Giuseppe, dall’altra parte tornando in Egitto i nove dimostreranno che tengono veramente al
fratello Simeone che Giuseppe tratterrà come ostaggio (“vostro
fratello, un unico”) non lasciandolo in schiavitù come abbandonarono Giuseppe
vent’anni prima. Se questo accadrà, inoltre, significherà che sono stati capaci di parlare con il loro
padre Giacobbe del problema che lacera il gruppo dei fratelli, cioè
della preferenza di Giacobbe per i figli di Rachele; vorrà dire che sono stati in
grado di spingere il padre a riporre in loro la fiducia nonostante tutto.
Giuseppe
per dare credito e verità al suo discorso ai fratelli parla del suo timore Dio: «Fate questo
e avrete salva la vita; io temo Dio!”.
Egli svela in questo modo una dimensione della
vicenda finora assente. Il suo timore
di Dio è qui connesso direttamente al suo desiderio di vita per i suoi fratelli,
poiché suggerisce che le istruzioni date
loro sono dettate dal rispetto di Colui che vuole la vita.
La benevolenza di
Giuseppe sembra tuttavia dimostrare un lato temibile e rischioso. Trattenendo
uno dei fratelli e rimandando gli altri nove a casa, senza un “unico”, Giuseppe costringe i fratelli a tornare dal padre nelle stesse condizioni in cui vi erano
tornati dopo la sua scomparsa. E l’assenza di un fratello al ritorno
sveglierà finalmente il ricordo dell’altro scomparso? In questa situazione non sono
forse costretti a rivivere un altro momento del dramma passato, affrontando di
nuovo il dolore del padre?
Qui risulta chiara un’antinomia che una mente non purificata
riesce a stento a vedere come un’unica realtà dell’amore, cioè la bontà e
l’esigenza di giustizia e verità. Quando
si ravviva la memoria del male per fare la verità sulla sventura da esso
generata, si fornisce un’opportunità alla vita, la quale ha tutto da perdere
dal diniego del male e da una menzogna ostinata. Riaprire una ferita può
rivelarsi salutare, se lo si fa nella speranza, chirurgica se così si può dire,
di ripulirla dal pus che genera cancrena. Questo è il modo migliore per
opporsi al male e privarlo della sua infettività.
Questo essere
completamente in balia di questo potente d’Egitto dovrebbe ricordare ai
fratelli quando Giuseppe era totalmente in loro balia, gettato in fondo alla
cisterna e poi addirittura venduto come se fosse un oggetto. I fratelli infatti cominciano
a dirsi la colpa che grava su di loro: “E allora si dissero l'un l'altro: certo su di noi grava la colpa nei riguardi di nostro fratello, perché
abbiamo visto la sua angoscia quando ci supplicava e non lo abbiamo ascoltato,
per questo ci è venuta addosso questa angoscia!”. Il sangue del
fratello assente pesa ancora loro addosso dopo tanti anni se quello che sta
avvenendo viene da loro percepito come una punizione producendo un’angoscia che adesso ricorda loro l'angoscia di
Giuseppe e ciò dimostra che hanno
coscienza di quanto hanno fatto subire alla loro vittima..
Il narratore qui
riporta fatti non raccontati prima ma che Giuseppe non ignora. L’ascoltatore
viene informato proprio dai carnefici, adesso pentiti, di quello che
percepiscono come vera colpa: non si
tratta innanzitutto di aver aggredito un fratello, ma di avergli negato la
fratellanza, l’aiuto necessario.
Essi non si rendono conto che si confessano proprio alla presenza di
Giuseppe, che comprende perfettamente quello che dicono. Per la prima volta parlano di Giuseppe
come “nostro fratello”. Giuseppe sta cominciando a ottenere i primi risultati, perché sta cominciando a far emergere la
coscienza della colpa in questi suoi fratelli.
Contemporaneamente si
prende cura di loro, perché gli dà il grano e consente quindi a loro di tornare
in patria e di dare vita alle loro
famiglie e quindi al padre Giacobbe. Nel
grano donato e nel denaro trovato da loro restituito da Giuseppe ai fratelli
c’è una grande immagine del perdono: gli
viene restituito quanto hanno dato come “per-dono”. Nel profondo del suo cuore, Giuseppe ha forse già
perdonato, nel momento in cui ascolta i rimpianti espressi dai suoi fratelli, ma
vuole ancora consolidare questa nuova consapevolezza che vede nascere nei suoi
fratelli.
Tuttavia il denaro nascosto
nelle borse può significare anche altro: non
è forse una notifica da parte di Giuseppe ai fratelli del fatto che hanno sempre
nei suoi confronti un debito nascosto e che quindi non possono
considerarsi in regola davanti a lui? Un debito che nessuna trattativa finanziaria può estinguere!
Ma questo denaro restituito di nascosto costituisce
un grande rischio per Giuseppe! Se l’attrattiva del denaro prevale a scapito del senso della
fratellanza, non vorranno forse tenersi i soldi abbandonando il fratello?
Nell’idea di Giuseppe, venduto, i fratelli potrebbero essere capaci anche di
questo.
L’episodio riporta
infine le lacrime nascoste di Giuseppe. Cosa significano? Forse ci parlano
della tensione interiore vissuta da Giuseppe che attende di essere riconosciuto
ma non accade, e che tuttavia sa che è troppo presto per svelarsi. Non è poi che
presentandoci un Giuseppe che piange il narratore ci voglia rassicurare sulla
natura positiva delle sue intenzioni?
14.
Per superare il motivo del grano
Gn 42,29-38
I nove fratelli fanno ritorno in
patria, alla casa del padre. Durante il viaggio assistiamo all’episodio, che si
ripeterà ancora una seconda volta, del ritrovamento del denaro versato per
l’acquisto del grano. Si spaventano ancora di più, perché quello là, mezzo
matto, gli aveva detto: voi siete spie! Adesso avrà l'occasione per dire: voi siete anche ladri! Non capiscono e
hanno paura! Ma ladri di che cosa in realtà?
“Allora si sentirono mancare il
cuore e tremarono, dicendosi l'un l'altro: «Che è mai questo che Dio ci ha fatto?”: i fratelli iniziano a collegare gli avvenimenti a Dio. Ed è interessante
che riescono a farlo dopo che hanno riconosciuto il loro peccato: “Su di noi grava la colpa….”.
Devono comunque tornare
da Giacobbe ritrovandosi nella stessa situazione dei tempi di Giuseppe, perché
ancora una volta tornando dal padre c'è
un fratello in meno. Un tempo fecero dire: un leone l’ha sbranato! Adesso che
non c'è Simeone se l'è sbranato un altro leone, cioè il potente, il folle
d'Egitto. Tornano senza uno e questo
tornare senza uno è causato da quell'altro uno che condiziona tutto.
Per giustificare la
cosa riportano (cercano di addolcirle) le parole del signore d’Egitto: “l'uomo, signore del
paese, ci ha risposto: In questo modo io saprò se voi siete sinceri: lasciate
qui con me uno dei vostri fratelli, prendete il grano necessario alle vostre
case e andate. Poi conducetemi il vostro fratello più giovane; così saprò che
non siete spie, ma che siete sinceri; io vi renderò vostro fratello e voi
potrete percorrere il paese in lungo e in largo».
Giacobbe, davanti a
questa prospettiva dice: no! “Mentre
vuotavano i sacchi, ciascuno si accorse di avere la sua borsa di denaro nel
proprio sacco. Quando essi e il loro padre videro le borse di denaro, furono
presi dal timore. E il padre loro Giacobbe disse: «Voi mi avete privato dei
figli! Giuseppe non c'è più, Simeone non c'è più e Beniamino me lo volete
prendere. Su di me tutto questo ricade!” (35-36).
L’effetto del racconto e del ritrovamento del denaro fatto
dai fratelli ha un risultato devastante per Giacobbe. Egli li accusa
esplicitamente di “essere vittima” dei propri figli. Questa reazione rivela con chiarezza il modo in cui
Giacobbe capisce la situazione presente e le sue implicazioni nascoste.
Partendo da questi fatti egli ordina le proprie riflessioni suggerendone appena
dei legami di causa ed effetto. Il
denaro è ricomparso e Simone non c’è. Hanno forse comprato del grano pagandolo
col fratello? E se questo denaro spiegasse anche la scomparsa dell’altro
assente Giuseppe? In queste condizioni quale altro colpo stanno macchinando
chiedendogli Beniamino? Se mentono oggi a proposito di Simeone, come un tempo
forse per Giuseppe, di che cosa sono ancora capaci?
Per portare il
“fratellino” in Egitto i fratelli devono separarlo dal padre e quindi affrontare Giacobbe su una questione
capitale in quanto è quella che ha causato la crisi familiare e intralciato la
fratellanza: cioè la preferenza per i figli di Rachele.Ma Giacobbe
non vuole mandare Beniamino, perché è convinto che Giuseppe sia morto e
allora, avendo perso Giuseppe, non vuole perdere anche l'unico altro figlio di
Rachele. E attenzione non teme per ciò
che potrebbe capitare in Egitto, ma bensì “sulla strada per la quale andrete”, mostrando che teme più i propri figli che il sedicente signore
d’Egitto.
Così dopo esser stati messi a confronto con
la propria verità in Egitto, i fratelli sono brutalmente messi di fronte alla
verità dal padre
che li accusa del male subito e che si pone, insieme ai due figli scomparsi,
come vittima innocente delle loro macchinazioni
In questo modo la verità progredisce. Finalmente Giacobbe
ha potuto esprimere dopo tanti anni di silenzio il suo modo di vivere il dramma
familiare; finalmente i figli hanno potuto sentirlo e misurare, ascoltando le
sue parole, i danni tuttora presenti del loro odio passato. I figli comprendono che non hanno solo
fatto soffrire Giuseppe, ma anche il padre! Viene chiaramente detto che
la prima persona ad essere messa in
gioco è il padre. Solo ora comprendono che in gioco vi è la vita del padre.
“voi mi avete
privato dei figli”. C’è
dunque questo difficile rapporto tra figli e fratelli. Siamo tutti figli di
uno stesso Padre ma difficilmente siamo fratelli.
Allora c'è ancora una
volta Ruben che come capo dei
fratelli dice: “mi
faccio garante dei due fratelli” aggiungendo la facoltà per Giacobbe
di far ricadere, qualora succedesse
loro qualcosa, la colpa sui suoi due figli. Fuor di dubbio la
buona intenzione di costui, eppure il contenuto della proposta è stravagante,
fuori luogo. Spontaneamente per lui
la vendetta potrebbe sostituire la consolazione. Ma in che modo la
morte di due nipoti potrebbe portare conforto al nonno per la perdita di due
figli? E soprattutto che idea ha Ruben
di Giacobbe per pensare che questo tipo di rappresaglia potrebbe calmare la
sofferenza del padre? E che rapporto
rivela con i suoi due figli? Lette con attenzione le parole di Ruben dicono
molto: tradiscono un senso di colpa.
Quel che Ruben propone non è altro che
un’autopunizione: se priva il proprio padre dei suoi figli, la pagherà
in quanto padre venendo privato dei suoi
Ma Beniamino non
parte, e Simeone rimane laggiù, loro
rimangono lì e aspettano di morire, perché, quando il grano finisce, non
resta che morire. La paura di perdere ha
l’ultima parola: essa attanaglia Giacobbe spingendo tutta la famiglia in un
vicolo cieco. La situazione appare bloccata e drammatica.
Il test
immaginato da Giuseppe non mette alla prova solo la capacità di fratellanza dei
fratelli, ma mette alla prova anche l’atteggiamento paterno di Giacobbe. Un confronto dagli
esiti in certi e rischiosissimi, ma che è l’unica strada per far progredire la
verità tra padre e figli, pur obbligando
tutti a toccare con mano gli effetti disastrosi della loro menzogna e delle
loro paure. Il cammino è ancora lungo, poiché occorre che dei segni di
questo cambiamento riescano a vincere una sfiducia vicendevole più che
giustificata.
Così risulta che Giuseppe,
che è vivo ma creduto morto, sta guidando il gioco, perché è lui che ha tenuto
lì Simeone, è lui che ha chiesto che gli riportino Beniamino! E' lui, dunque, che tira le file del gioco,
condizionando tutto, perché è creduto morto. Ma Giacobbe non manda Beniamino, allora non riesce neanche a riavere Simeone.
Questo fatto che Giuseppe è morto
impedisce di fatto la liberazione di Simeone.
Questo essere contemporaneamente vivo e morto
di Giuseppe è ciò che condiziona tutto quanto e, d'altra parte, questo suo
essere contemporaneamente vivo e morto è determinato dal fatto che i fratelli
hanno commesso il loro peccato e non lo hanno ancora confessato. Giuseppe è contemporaneamente vivo e morto,
perché i fratelli hanno mentito, dicendo che è morto! Non hanno
saputo confessare il fatto di averlo venduto e allora questo peccato non
confessato dei fratelli, adesso fa' sì che Giuseppe sia contemporaneamente vivo
e morto e che di fatto tutta la storia venga bloccata.
15.
Ridare fiducia
Gn 43,1-15
Alla fine l’istinto
di sopravvivenza prende il sopravvento. Solo davanti alla morte Giacobbe cede e
a malincuore accondiscende alla richiesta accettando di lasciar andare anche Beniamino.
Ma per arrivare a
questa svolta è stata necessaria una
parola, un dialogo tra Giuda e il padre Giacobbe. È Giuda che finalmente
dice: “se non ti ricondurrò il ragazzo io sarò
colpevole contro di te”.
Giungiamo così ad una svolta fondamentale di tutta la
vicenda.
Infatti non si tratta più solo del
fratello, ma di qualcosa contro il padre: “Sarò colpevole – dice Giuda – contro di te, padre”. È un
grande passo ma tuttavia non basta ancora, perché Giuda sta dicendo in fondo
questo a motivo della fame (cfr il figliol prodigo…).
Giuda si assume la
responsabilità a farsi “lui stesso
pegno”. E il suo modo di
designare Beniamino è notevole. Non parla né di “tuo figlio” né di
“nostro fratello”, ma “del ragazzo”, situandolo
come persona che non appartiene né al padre né ai fratelli. Nessuno può
rivendicare l’altro come proprietà.
La vita di tutti dipende infatti da questo
distacco dal figlio minore da parte di Giacobbe. Tentare di trattenere la vita per paura
della morte significa condannarla alla morte. Israele dunque
accetti il rischio di perdere tutto, di morire (42,38) affinché tutti ritrovino
una opportunità di vita.
In modo indiretto Giuda suggerisce a Giacobbe la via della vera paternità. Un padre degno di essere tale non soffoca uno dei figli tenendolo
prigioniero delle proprie carenze affettive, qualunque sia la legittimità delle
sue motivazioni. Un vero padre si fida
della parola dei propri figli e della loro capacità di costruire una
fratellanza, o comunque, non li
rinchiude irrimediabilmente nei loro passati errori. Infine un vero padre si preoccupa della vita di ciascuno
anche quando questo significa lasciare che ciascuno prenda la propria strada. Insomma Giuda onora suo padre
rivolgendosi a lui da uomo a uomo, distante e vicino nello stesso tempo; gli
indica chiaramente la sua
responsabilità. Ma non per questo si sottrae alla propria. Infatti si
impegna a riportare indietro suo fratello, facendosi garante del compito che
gli spetta: dimostrarsi fratello. Facendo così Giuda inverte l’atteggiamento di Caino poiché si propone personalmente
come “custode del proprio fratello”.
Giacobbe acconsente. È un grande passo in avanti da
parte di tutti per il bene di tutti.
15.
Il secondo incontro
Gn 43,15-34
I fratelli partono
con Benaimino verso l’Egitto con ricchi doni per il signore egiziano e una
doppia riserva di denaro. La vicenda non
si è bloccata, ma ha trovato una continuità che permetterà alla coscienza di
tutti di evolvere. Quanta importanza ha la storia per ciascuno e per la
famiglia! La pazienza e la sapienza si acquisiscono dentro una storia seppur
faticosa e contraddittoria.
Al loro arrivo in Egitto, la cosa che temono maggiormente è di vedersi infliggere da Giuseppe il terribile
destino riservato ai ladri: sono passibili di condanna alla schiavitù. Vengono
condotti dal maggiordomo nella casa del signore d’Egitto: “quegli uomini si spaventarono, perché venivano
condotti in casa di Giuseppe, e dissero: «A causa del denaro, rimesso nei
nostri sacchi l'altra volta, ci si vuol condurre là: per assalirci, piombarci
addosso e prenderci come schiavi con i nostri asini” (43,18). Che cosa rivelano queste fantasticherie se
non che il senso di colpa è tuttora
presente e che, al di là della
situazione immediata, l’antico fatto di Giuseppe continua a roderli dal di
dentro?
Ma invece di essere fatti
schiavi i fratelli sono invitati a pranzo in casa del governatore, onorati come
ospiti di riguardo. La cosa li deve sbalordire non poco. Il maggiordomo, sentendo le giustificazioni
circa il denaro ritrovato nelle borse, li rassicura con parole strane: “è il vostro Dio e il
Dio di vostro padre che vi ha dato un
tesoro nelle vostre bisacce”. Cos’è questo tesoro? Non è
forse la fratellanza che i fratelli stanno faticosamente ritrovando?
Nel frattempo Simeone è liberato dalla detenzione e riconsegnato al gruppo dei
fratelli. E questo è segno che la loro innocenza è stata riconosciuta. In
realtà è la fraternità che a poco a poco si va finalmente ricostituendo, la sua
liberazione è preannuncio di un prossima riconsegna: quella di Giuseppe ai suoi
fratelli.
Arriviamo all’ora del pranzo che
si svolge nella sala del palazzo del signore d’Egitto. Sarà finalmente l’occasione per Giuseppe di “trovare i suoi fratelli”
passando oltre l’altro pasto dal quale era stato violentemente escluso?
Con l’arrivo di Giuseppe il gruppo
dei fratelli dopo vent’anni anni è riunito al completo per la prima volta. Essi si prostrano e si premurano subito di
offrire all’ospite illustre i doni del padre il che richiama la strategia dei doni
che Giacobbe aveva fatto avere in abbondanza ad Esaù per ingraziarselo prima
del loro incontro. Questo esordio è
suggestivo in quanto fin dal principio, riporta
in primo piano due elementi all’inizio della storia: il regalo prezioso offerto da Giacobbe a Giuseppe e la prostrazione dei fratelli. I loro primi gesti riattivano così due
avvenimenti che avevano acceso il loro odio e la loro gelosia contro Giuseppe:
il dono della tunica e i sogni.
Giuseppe chiede: “è questo il vostro
fratello piccolo che avete detto?”. Giuseppe tace, lasciando lo
spazio per una risposta dei fratelli che invece non viene. Egli è sopraffatto dall'emozione questa volta
bastandogli vedere suo fratello
Beniamino. Si nasconde in una
stanza chiusa a piangere. Ma non cede! Egli certo piange, si commuove, perdona, ma non può ancora farsi riconoscere perché
essi ragionano ancora partendo da un motivo sbagliato, quello della necessità,
mentre l’amore ragiona sul motivo della libera adesione. Solo quando si
comincerà a capire che in gioco è l’amore e il dolore del padre, la storia non
può prendere una piega decisiva.
Per
Giuseppe rimangono ancora aperte tante
domande senza risposta: perché i fratelli hanno tardato tanto a tornare in
Egitto? Avevano forse dimenticato Simeone? Non c’è allora forse il rischio che
eliminino anche Beniamino quando l’ultimatum suo non lo proteggerà più? E cosa
potrebbe succedere ancora sulla strada del ritorno?
Giuseppe ha in mano il destino dei suoi fratelli
come un tempo i suoi fratelli avevano fatto col suo. Potrebbe
risolvere la tensione in un battibaleno, ma non lo fa. Quando viviamo difficoltà, sofferenze,
tensioni, si è tentati di aggiustare le cose il più presto possibile, in genere
sistemando tutto con verniciature superficiali. Giuseppe ha invece il coraggio, la sapienza, di una pedagogia esigente,
apparente dura, ma che sola è capace di operare i presupposti per un reale
cambiamento. Non si ricompone un’unità, una famiglia, una compagine
sociale, una famiglia religiosa lavorando solo sulla dimensione
socio-psicologica, etica, del pentimento reciproco, del riconoscimento del male
fatto reciprocamente. Questo non basta: occorre ritrovare un punto di coesione forte
e solido che possieda l’energia di riattivare autentiche relazioni dettate
dall’amore. Il motivo della riconciliazione può diventare uno solo: l’amore del padre.
Non possiamo ritrovarci realmente fratelli se non scopriamo che siamo figli di
un unico Padre e che in gioco è appunto il suo amore per ciascuno. Ci vuole perciò un altro grande e
difficile passo: l’accoglienza e la
comprensione del “di più” dell’amore del padre per Giuseppe, il prediletto.
Se attraverso Giuseppe non si arriverà a questa scoperta, non potrà accadere
niente tra di loro.
Lì, durante il banchetto,
cominciano a succedere cose strane: leggendo
attentamente non potrà sfuggirci un aspetto importante: Giuseppe manda continuamente dei segnali che
dovrebbero consentire ai fratelli di riconoscerlo.
Ci sono in primo
luogo i diversi gruppi dei commensali.
Da un lato gli egiziani che non possono mangiare insieme ad altri che non sono
della loro razza. Dall’altro il padrone di casa che mangia da solo (come mai?),
e dall’altro lato il gruppo dei fratelli. Questo
isolamento di Giuseppe da entrambi i due gruppi non dovrebbe insospettirli,
non dovrebbe far riaffiorare la memoria del pasto preso senza di lui? E del
fatto che il signore possa non essere un egiziano?
In secondo luogo i
fratelli sono messi esattamente secondo
l’ordine di anzianità. Questo ordine
dovrebbe far risaltare la mancanza di “uno”. E inoltre come può un estraneo conoscere
quest’ordine?
In terzo luogo, il
padrone fa portare del suo cibo alla
loro tavola. Non è segno di condivisione e dunque di comunione?
E come mai a Beniamino viene portato cinque volte più
degli altri? Che cosa sta succedendo? Come mai questa preferenza che
dovrebbe far riemergere il ricordo di altre preferenze? Che ne sarà di lui
sulla via del ritorno? È questo un punto chiave che bisognerà verificare.
Ma i loro occhi “sono incapaci di riconoscerlo” (Lc 24): chiusi a questi segnali
sempre più espliciti i fratelli si accontentano di bere con colui che sembrano
aver cancellato dalla loro mente, bevono fino all’ebbrezza (per dimenticare?).
Ma perché i fratelli
di Giuseppe fanno tanta fatica a riconoscerlo?
Non è forse la stessa ragione per
la quale i discepoli non hanno riconosciuto il Risorto? Gesù era accanto ai discepoli, ma essi non lo
vedevano. Erano ciechi fin tanto che Lui, il risorto, non si è manifestato loro
e ha posto la relazione con Lui non più sulla carne e il sangue, ma su altro… I
sensi ormai non ce la fanno più a riconoscere uno che è morto, e che ora è il
Vivente. E’ necessario acquisirne altri occhi
(cfr. 2Cor.5,16). Analogicamente dei fratelli di Giuseppe si può dire lo
stesso. Dopo che era stato venduto per i
fratelli era come morto, pertanto irriconoscibile. E’ lui che deve farsi
riconoscere vivo, come il fratello, come “Giuseppe”, e a svelare il senso di
tutta la storia, impostando la loro relazione non più sul sangue ma sull’amore
che tutti accomuna quello del loro padre Giacobbe.
16.
La coppa di Giuseppe
Gn 44,1-13
Nel cap. 44 troviamo narrata
la vicenda del ritrovamento della coppa di Giuseppe. Tale coppa preziosa era utilizzata
nell’uso egiziano come strumento di veggenza. Dunque Giuseppe che è un emigrato
che ha assorbito la cultura nella quale
si è trovato a vivere ne fa uso. Giuseppe
tuttavia non offusca mai il primo
del suo cuore, che è il Dio di suo padre, e non lascia mai ombra di sospetto
di qualsiasi confusione sincretista, tentazione quanto mai frequente in simili
circostanze. Qui potremmo approfondire tutto il tema dell’inculturazione della
fede, dell’assunzione di valori di altre culture…. Sarebbe anche utile
percorrere tutto il tema della diaspora
che da fenomeno di individui isolati arriva ad essere emigrazione di un popolo
intero. La storia di Giuseppe apre a interrogativi non indifferenti, legati
anche a quella che sarà l’esperienza
dell’esilio: la patria è legata alla
terra o è un principio della vocazione di un popolo che ritrova la sua vera patria nella missione che gli è stata
affidata? Nella storia di Israele (e della Chiesa) tale problematica ha sempre
trovato diversi equilibri.
Ma veniamo
al testo. I fratelli tirano finalmente un gran sospiro di sollievo! Non c'è più
di che avere paura. Ma nel momento in cui la tensione si abbassa, nel momento
in cui non sono più sulla difensiva, e perciò si è più vulnerabili, è ancora Giuseppe
che dà l'ultima mazzata! Mentre infatti loro sono tranquilli, perché finalmente
è andata, e sono in viaggio di ritorno, egli li fa inseguire, bloccare da
quello stesso suo vice che li aveva rassicurati poco prima e che adesso invece
è diventato una belva. Ancora una volta questo sconcerta i fratelli che vengono
accusati di aver rubato la coppa preziosa di Giuseppe. Infatti al momento della
partenza dei fratelli dall’Egitto con il grano acquistato questa preziosa coppa
era stata messa di nascosto nel sacco di Beniamino insieme anche a tutto il
denaro come avvenne la prima volta che è stato rimesso nei sacchi di ciascuno
(il debito dunque è rimasto intatto!).
Il maggiordomo della
casa raggiunto il gruppo rivolge un’accusa
molto generica: “rendere male per bene”: dietro le righe “ciò che state facendo volge in male lo shalom da Giuseppe sperato”. Questa
conclusione rende esattamente come Giuseppe vede quello che è successo, non in
superficie, ma in quel luogo più profondo in cui si tratta del suo desiderio di
fratellanza. L’accusa non parla di
furto e il tono allusivo sembra calibrato per essere capito da persone che
hanno commesso volontariamente un misfatto e che sono quindi perfettamente al
corrente di ciò di cui si sta parlando.
La risposta dei
fratelli all’accusa del maggiordomo è lapidaria: “Perché il mio signore dice queste cose? Lungi
dai tuoi servi il fare una tale cosa! Ecco, il denaro che abbiamo trovato alla
bocca dei nostri sacchi te lo abbiamo riportato dal paese di Canaan e come
potremmo rubare argento od oro dalla casa del tuo padrone? Quello dei tuoi servi, presso il quale si troverà, sarà messo a morte e
anche noi diventeremo schiavi del mio signore”.
Il solo fatto di volersi ribadire onesti a
tutti i costi nasconde talvolta un disagio profondo; si tratta, lo abbiamo visto, della traccia
di una colpevolezza nascosta, endemica, che risale ad una colpa un giorno
rimossa dal soggetto, colpevolezza che
un’altra accusa viene a risvegliare, soprattutto se quest’ultima è falsa.
Allora, la forza che il soggetto
sviluppa per difendere la propria innocenza, reale riguardo alla falsa accusa,
permette di misurare la forza impiegata un giorno per negare e rimuovere
quest’altra colpa che inconsciamente teme sempre di veder risalire in
superficie.
Come un nuovo Giuseppe, l’altro figlio di
Rachele è destinato alla morte dai fratelli, mentre coloro che erano già
riconosciuti colpevoli di diniego di fratellanza nei confronti del fratello
subiranno la sorte che è stata sua a causa loro: la schiavitù in egitto. Perciò
tutti verranno castigati, come se tutti fossero responsabili della colpa, segno
che un’oscura coscienza di colpa collettiva sta operando in quello che dicono i
fratelli. La strategia “serpentina” di Giuseppe sta portando frutti di verità!
Il
maggiordomo riprendendo le parole opererà
una nuova distinzione: il
colpevole verrà separato dai dieci e reso schiavo, separato dalla partenza
degli altri riconosciuti innocenti. È una soluzione che mira a rompere lo spirito di solidarietà che aveva
animato la prima loro reazione: accetteranno
questa rottura per salvare se stessi?
Isolando i fratelli in questo modo dal
fratello prediletto più piccolo, Giuseppe vuole vedere se coglieranno
l’occasione per consegnarlo e andare via liberi senza di lui, come avrebbero
fatto prima.
I fratelli lo consegneranno o no a motivo del furto, o
invece considereranno la questione come un fatto di tutti?
Si
intravvede la strategia di Giuseppe: i fratelli sono tornati in Egitto per
liberare il fratello Simeone, nei confronti del quale non avevano nessun motivo
di odio oppure perché la fame li ha costretti? Sullo sfondo
rimane altresì evidente l’invio di un nuovo
segnale dato in vista del riconoscimento di Giuseppe: ma i fratelli rimangono ancora
ciechi.
Lo scandalo e la colpa del
fatto ricadono così sul più giovane. Sono sempre loro, i piccoli, a pagare di più, anche per le colpe di
altri. Di questo finalmente i fratelli se ne accorgeranno, loro
che avevano usato violenza sul fratello minore? “I
piccoli” sono veramente e finalmente il luogo del giudizio di Dio. Sembra che
la storia non riservi loro nessuna rivincita, perché sono impotenti. Ma giuge
il tempo in cui le sorti si rovesciano: “Ha
rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili” dirà Maria. Giuseppe è stato veramente e in tutti i
sensi il più piccolo, perché
su di lui si sono riversate tante ingiustizie. Ora è lui il piccolo,
divenuto il più grande (cfr. il sogno dei covoni) a giudicare e a ricordare
perennemente che il criterio di giudizio divino è proprio a partire dall’essere
ultimi. Come disse Gesù: il bambino è il più grande, il servo è il capo, il
Cristo crocifisso è il giudice… Non si
può più distaccare la coppa del re dal mistero del “più piccolo” , come la
gloria di Cristo dalla sua croce-umiliazione, la sua Signoria dall’essere
schiavo e servo di tutti, venuto per dare la vita in riscatto di tutti
(Mt.20,20-28).
Così sui figli di Giacobbe sta per cadere un terribile castigo, non solo per il
delitto commesso dai fratelli nei confronti di Giuseppe (la colpa antica), ma
una punizione in cui sono i piccoli e gli innocenti a farne le spese.
Comprendiamo
la tragicità della vita immersa nelle tenebre e nell’ombra della morte, in
tutta la sua gravità. Questo percorso dentro il peccato viene fatto
compiere da Giuseppe ai suoi fratelli perché insieme con loro si possa godere
la salvezza. E’ un viaggio dentro “il mistero dell’iniquità”
per prendere atto che tutti sono dentro
il peccato e ne pagano le conseguenze
(cfr Rom.3,22-26) e che Dio,
mentre sembra assente o crudele, alla fine trasforma in bene, per mezzo del suo
Figlio, tutto quello che era solo fonte di dolore e di morte. Dice infatti San
Paolo: colui che non conobbe peccato Dio
lo trattò da peccato perché noi potessimo essere liberati (2Cor.5,21).
Soffermiamoci
un istante sul valore simbolico della coppa scelta da Giuseppe come estrema
possibilità di riconciliazione e fratellanza. In quella coppa rubata vi è rappresentata tutta la storia di Giuseppe,
di violenza e di odio ingiustificato nei suoi confronti, della sua vita posta in
balia di altri. D’altra parte le parole di Giuseppe in carcere rivolte al
coppiere erano state: “Rubato, sono stato rubato dalla terra degli
ebrei” (40,15). I fratelli non gli hanno rubato denaro o oro nella sua
casa, ma la sua identità, la sua verità, di lui che ai loro occhi non era altro
che il signore egiziano. Gli hanno rubato la sua “casa”, quella di suo padre,
gli hanno rubato la fratellanza.
Ma
Giuseppe ha intuito che in questo agitarsi di avvenimenti che lo coinvolgono,
Dio lo ha scelto, liberandolo a più riprese dalla morte, per essere il
salvatore della sua famiglia e di molte altre genti. Nella coppa, allora segno di amarezza, è contenuto un presagio di
salvezza e di gioia. In essa si mescola la sofferenza/violenza con l’annuncio
della risurrezione/vita.
Anche la
coppa di Gesù, il calice del suo sangue,
è il segno della morte violenta (scatenata dagli uomini e dalle potenze del
male) che si conclude con la sua vittoria sulla morte, l’annientamento dei
nemici e la riconciliazione delle moltitudini disperse. Questa coppa di dolore
diviene calice eucaristico annuncio della sua morte e risurrezione nell’attesa
del suo ritorno glorioso alla fine dei tempi per giudicare gli uomini e i loro
oppressori. Alla
coppa del re, che non si può rubare, si
può solo partecipare. Solo il Re, il Signore può ammettere a gustarne il
contenuto e a condividerne il mistero in essa rappresentato.
17.
Eccoci schiavi del mio signore
Gn 44,7-17
I dieci si trovano davanti ad una scelta
drammatica: che cosa faranno con colui che rischia di essere ridotto in
schiavitù? Hanno l’occasione di
sbarazzarsi di lui e con la coscienza a posto, poiché è stato colto in
fragrante colpa.
Così Giuseppe intende mettere alla prova la solidarietà
fraterna in vista della guarigione da questo crimine: se questi uomini non sono autentici fratelli coglieranno l’occasione
per rispondere che, ad eccezione di Beniamino, sono tutti innocenti.
Ma la sua accusa volontariamente generica intende mettere
in luce, ben oltre il semplice furto della coppa, la colpa collettiva di cui la
coppa è solo il simbolo: quella del rifiuto della fratellanza e dell’amore del
padre.
In questo gioco
Giuseppe rischia molto. Se i fratelli
negano la loro solidarietà a Beniamino sarà costretto per sempre a fare il
lutto della fratellanza tra loro. Ma
avviene finalmente la svolta fondamentale: i fratelli non abbandonano
Beniamino alla sua sorte, ma tornano tutti indietro per affrontare di nuovo il
signore egiziano: “Allora essi si stracciarono le vesti,
ricaricarono ciascuno il proprio asino e tornarono in città. Giuda e i suoi
fratelli vennero nella casa di Giuseppe, che si trovava ancora là, e si
gettarono a terra davanti a lui” (44,13-14). In questo momento drammatico i fratelli finalmente non si ritrovano complici,
ma diventano solidali e davanti alla prospettiva che Beniamino debba
pagare, loro dicono: allora no! Paghiamo tutti insieme! La complicità è
diventata solidarietà! “Giuda disse: «Che diremo al mio signore? Come parlare? Come
giustificarci? Dio ha scoperto la colpa
dei tuoi servi... Eccoci schiavi
del mio signore, noi e colui che è
stato trovato in possesso della coppa” (v.16).
Giuda dunque legge
quel che accade come una giusta punizione da parte di Dio: Qual è infatti il
crimine di tutti confessato da Giuda? Senza dubbio, il crimine perpetrato
contro Giuseppe. Ma il crimine dei fratelli ha anche un’altra vittima,
Giacobbe, immerso nella disperazione dell’assenza del figlio. La colpa di cui lui sta parlando non è
quella del furto della coppa, ma, sullo sfondo, quella di aver rubato/venduto
il fratello.
Il fatto che Giuda
dica che è Dio che ha portato alla luce il crimine dice molto dell’evoluzione della sua coscienza morale.
Attribuendo a Dio quello che in realtà è opera di Giuseppe, riconosce implicitamente che Dio sta
dalla parte del suo interlocutore (per noi al fine di sostenere il suo
desiderio di fratellanza la cui realizzazione deve passare anche dal difficile
riconoscimento del crimine commesso). Giuda pensa che tanto colui a cui sta
dicendo questa frase non possa saper nulla di quello che è avvenuto: lui parla
a Giuseppe di quello che hanno fatto a Giuseppe, convinto che tanto non possa
capire. E invece Giuseppe capisce ed era
lì che li voleva portare.
Ma la sapienza di
Giuseppe li vuole portare ancor più in profondità nel loro percorso di
purificazione. La risposta di Giuseppe
alla proposta di Giuda è il cambiamento di sanzione solo per il colpevole: non
più la morte ma la schiavitù. Ancora una volta egli fa ripercorrere la sua
vicenda, mandando così un ulteriore
messaggio. Ma facendo così rimanda
la palla a Giuda mettendo sul tavolo due questioni: l’innocenza di Beniamino e
il padre Giacobbe. In altre parole: la
soluzione proposta da Giuda viene rifiutata perché non tiene conto di questi
due elementi. Se rimane
aperta una strada verso la fratellanza, questa non deve avvenire a prezzo
dell’ingiustizia nei confronti di uno dei fratelli. Quindi che il
colpevole sia punito e gli altri siano liberi di ripartire. In realtà Giuda
dovrebbe sapere che è vero il contrario! L’unico innocente invece rischia di
pagare per tutti loro.
Il
discorso di Giuda continua, e l’argomento centrale sarà finalmente proprio il
padre e il figlio minore: “E
noi avevamo risposto al mio signore: Abbiamo un padre vecchio e un figlio
ancor giovane natogli in vecchiaia, suo fratello è morto ed egli è rimasto
il solo dei figli di sua madre e suo padre
lo ama. Tu avevi detto ai tuoi
servi: Conducetelo qui da me, perché lo possa vedere con i miei occhi. Noi
avevamo risposto al mio signore: Il giovinetto non può abbandonare suo padre: se lascerà suo padre, questi morirà. Ma tu avevi soggiunto ai tuoi servi: Se il vostro
fratello minore non verrà qui con voi, non potrete più venire alla mia
presenza. Quando dunque eravamo ritornati dal tuo servo, mio padre, gli riferimmo le parole del mio
signore. E nostro padre disse:
Tornate ad acquistare per noi un po' di viveri. E noi rispondemmo: Non possiamo
ritornare laggiù: se c'è con noi il nostro fratello minore, andremo;
altrimenti, non possiamo essere ammessi alla presenza di quell'uomo senza avere
con noi il nostro fratello minore. Allora il tuo servo, mio padre, ci disse: Voi
sapete che due figli mi aveva procreato mia moglie. Uno partì da me e dissi:
certo è stato sbranato! Da allora non l'ho più visto. Se ora mi porterete via
anche questo e gli capitasse una disgrazia, voi fareste scendere con dolore la
mia canizie nella tomba. Ora, quando io arriverò dal tuo servo, mio padre, e il giovinetto non sarà con noi, mentre la vita dell'uno è legata alla vita
dell'altro, appena egli avrà visto che il giovinetto non è con noi, morirà
e i tuoi servi avranno fatto scendere con dolore negli inferi la canizie del
tuo servo, nostro padre. Ma il tuo
servo si è reso garante del giovinetto presso mio padre: Se non te lo
ricondurrò, sarò colpevole verso mio
padre per tutta la vita. Ora, lascia
che il tuo servo rimanga invece del giovinetto come schiavo del mio signore e
il giovinetto torni lassù con i suoi fratelli! Perché, come potrei tornare da
mio padre senz'avere con me il giovinetto? Ch'io non veda il male che
colpirebbe mio padre!».
Dunque Giuda giunge
all’ammissione che l'amore del padre per
Beniamino è troppo grande, la vita dell'uno è legata alla vita dell'altro.
Questo Giuda non lo può dire di se stesso e infatti può dire tranquillamente: tieni me, ma rimanda Beniamino! Perché,
se Beniamino non torna, nostro padre muore. Se invece non torno io, nostro
padre continua a vivere. Dunque,
Giuda sta dicendo: Beniamino è amato più di me! Beniamino è amato più di tutti
noi fratelli messi insieme. Ebbene,
proprio a motivo di questo, Giuda dice: prendi me! In questo Giuda non
diventa anch’egli profezia di Cristo? Giuda dimostra di accettare il padre con
la sua predilezione, che all’inizio lo aveva infiammato d’odio verso tutti.
Giuseppe constata che
Giuda ha rinunciato alla gelosia nei
confronti del fratello più amato, poiché non solo acconsente alla realtà della
famiglia, ma giunge fino a sacrificarsi al posto del fratello per proteggere la
relazione preferenziale dalla quale dipende la vita del vecchio padre e per
salvaguardare la libertà di un fratello. Finalmente Giuseppe sente
parlare del padre, di quel che i parenti hanno pensato della sua scomparsa,
capisce il motivo del ritardo del secondo viaggio dettato dalla resistenza di
Giacobbe a lasciare Beniamino.
L'amore del padre che, ai tempi di Giuseppe, era stata
proprio la causa della decisione di uccidere Giuseppe, che era stato il motivo
per quella decisione, adesso quello stesso amore di preferenza diventa invece
il motivo per offrire la propria vita. L'amore
di preferenza del padre era stato il motivo per uccidere, adesso diventa il
motivo per consegnare la propria vita e morire al posto del fratello amato. Non
si tratta più di uccidere il fratello amato dal padre, ma di morire al suo
posto. E proprio a motivo del fatto che il padre lo ama di più!
La gelosia è completamente
riassorbita ed è diventata amore fraterno ed è diventata anche amore filiale,
perché è l'amore fraterno nei confronti di Beniamino, ma è soprattutto l'amore
filiale nei confronti del padre. Giuda, per amore del padre, accetta di
morire e per amore di un padre che ama Beniamino più di tutti gli altri; accetta di morire per amore di un padre che
ama un altro più di lui. Siamo realmente giunti a un capovolgimento della situazione: dalla logica
del peccato che afferma mors tua vita mea
finalmente siamo giunti a qualcuno che trova la forza di affermare il
contrario: mors mea vita tua!
Il discorso di Giuda è il compimento del cammino che Giuseppe voleva far fare loro. Voleva farli ritornare ad essere fratelli, perché voleva che
tornassero ad essere figli ed ora questo è avvenuto. Il peccato è stato
completamente riassorbito, perché quello
che era motivo di peccato, adesso è diventato motivo dell'amore più grande, che
è dare la vita per gli amici. La conversione ora è totale: chi ha
ucciso è diventato capace di morire per gli altri.
La vocazione dell’uomo si
compirà se torneremo davanti al volto del nostro Padre tenendo conto l’uno
dell’altro. Non si può tornare al Padre senza i fratelli. Anche secondo 1Gv
4,7 dove ci si dischiude il nesso tra l’amore e la conoscenza, non possiamo proclamare il credo nel nostro Dio se non in questa
coscienza radicale di sentirci fratelli tra noi uomini: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri,
perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non
ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore”. Noi professiamo un unico
Dio Padre. Dunque tutti siamo creati dallo stesso amore dello stesso Padre come
fratelli. In questo contesto non è
possibile nessun vero discorso religioso nessuna interpretazione della fede
cristiana che non assuma come suo punto centrale la realtà dell’amore del Padre
vissuta da figli e d fratelli. Ciò
significa creare, agire, progettare qualsiasi cosa solo a partire dall’amore
del Padre ed esclusivamente all’interno di questa realtà.
Ricercare i fratelli significa percorrere le
strade del mondo con la logica pasquale fino al punto in cui ci si comprende e ci si sente parte di questa umanità che è come una catena: alzi un anello, e questo anello si porta dietro tutti
gli altri perché tutti sono legati insieme. È sentire che qualsiasi persona, in
qualsiasi situazione si trovi, è mio fratello. Tutto questo non può tradursi in semplice imperativo etico, perché
la nostra volontà etica non è in grado di realizzare tale imperativo e di
convertirlo in prassi. È
l’amore del Padre in noi che opera e che ci abilita a sentire l’altro come fratello
perché suo figlio e ci rende disponibili a morire per lui.
Questo non si può
fare con una lettura facilona e buonista del “l’importante è volersi bene” che
lascia spesso le cose come stanno, affossando le relazioni. Non significa che
tutti stiamo davanti al Padre mano nella mano col sorriso vicendevole. Significa piuttosto scendere negli abissi
della pasqua a causa del dolore dell’assenza o del rifiuto dei fratelli. Bisogna
evitare un certo infantilismo psicologico e sociologico e sapere che è solo in Cristo, in cui tutto sussiste,
che io posso trovare l’altro come fratello. Ci sono cose dell’altro che
mi disturbano, mi fanno arrabbiare, non mi vanno. Ma è in Cristo che l’amore
del Padre lo ha raggiunto. Ed è in
Cristo, nel Figlio prediletto, che anch’io per lo Spirito santo grido Abbà
insieme a quell’altro che non mi va. Perché è Cristo che lo ha assunto come
figlio del Padre e fratello suo, e dunque anche mio finché non si arrivi “allo stato di uomo perfetto, nella misura
che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4,13).
Noi siamo tutti uniti,
ma nella storia dobbiamo ancora rivelare pienamente questa verità. È per questo che dobbiamo vivere da figli e
da fratelli in una storia dove appare come non lo siamo mai perfettamente.
È questa la nostra crocifissione, ossia la nostra partecipazione alla passione
di Cristo, alla sua offerta compiuta una volta per tutte.
18.
Dio mi ha mandato qui
per assicurare a voi la vita
Gn 45,1-15
Il peccato è stato
completamente riassorbito e dunque Giuseppe
può finalmente manifestarsi. I fratelli possono finalmente riconoscerlo,
perché avendo finalmente riconosciuto il padre si possono riconoscere come
fratelli: questo ricrea la famiglia, la comunità.
La scena narrata si
svolge a porte chiuse (il cenacolo?):
solo il gruppo dei dodici fratelli è radunato insieme. Ciò che avviene riguarda
la loro vita, storia ed esperienza. Ad estranei risulterebbe difficilmente
comprensibile.
La reazione è
prevedibile:
i fratelli indietreggiano spaventati,
ma Giuseppe li prega di avvicinarsi per
fermare questa ritirata spontanea. Inizia il suo discorso tentando di
rassicurarli, spiegando a sua volta quel che gli è successo, dandone a sua
volta la sua lettura come i fratelli ormai hanno avuto il coraggio di fare la
loro (45,4). È un momento in cui la
commozione è al culmine, in cui la
gioia si mischia all’incredulità e al terrore!
Giuseppe, in tutta questa vicenda ha le lacrime agli occhi (Gen.42,24; 43,30; 45,2). I suoi pianti che durano a lungo risuonano in tutto la città! Giuseppe è l’uomo del dolore, che prelude alla nuova creazione. Le lacrime sono segno del dolore e della gioia. Sgorgano da colui a cui si fa del male o da colui dal quale riceviamo il bene. I fratelli, accecati dall’odio non si rendevano conto di quello che stavano facendo. Sono le lacrime di Gesù dinanzi alla tomba di Lazzaro e dinanzi a Gerusalemme che non sa comprendere il tempo in cui era stata visitata da Dio e dal suo Messia (Lc.13,34; 19,41). Si può piangere abbracciandosi per un dolore e una gioia. Si è feriti, vulnerabili, ma si è nella sicurezza dell'abbraccio.
Il discorso di Giuseppe si articola in due parti: la prima nella quale egli rilegge il passato, la seconda è un messaggio per il padre Giacobbe e riguarda il futuro della sua famiglia.
Giuseppe anzitutto invita i suoi a non affliggersi, a non cedere alla collera contro se stessi (45,5): della sua avventura ne parla come di un “invio” una missione datagli dal padre da portare a termine e che finalmente è giunta a compimento. Una parola di shalom può dopo tanti anni finalmente ritornare al padre. Da sottolineare che nelle sue parole Giuseppe si astiene da qualsiasi giudizio morale sull’azione compiuta dai fratelli.
È il momento in cui Dio fa la sua ricomparsa, come attore principale di tutta questa storia. Giuseppe si fa testimone della presenza di Dio che non ha cessato di guidare la vita di tutti e dodici i fratelli. Tutto il pasticciare della vita umana – pasticciare che mai viene di per sé benedetto – non impedisce, però a Dio di essere provvidenza, di presentare lo stesso all'uomo una possibilità di vita nuova, di svolta, di conversione, di un cambiamento in bene. Mai la storia è solo opera umana, sia che l'uomo riesca nel suo essere immagine dell'Altissimo, sia che fallisca. Il grande orgoglio è proprio l'illusione di essere i soli conduttori della storia e delle storie. Dio, da Giuseppe, viene proclamato come colui che si inserisce nella storia degli uomini per cambiarla. Dio è Colui che trasforma la storia di morte in storia di vita. “Dio che è Colui che mi ha mandato qui prima di voi, perché io potessi farvi vivere e se voi avevate pensato il male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire al bene per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso!” Il Dio della vita entra dentro la storia di morte degli uomini per trasformarla. Il cammino della vita procede, ma ogni tanto bisogna fermarsi per capire questa frase del salmista: «La pietra che i costruttori hanno scartata, è diventata pietra angolare, è questa è l’opera meravigliosa del Signore» (Sal 118,22-23). Ecco il compimento dei sogni di Giuseppe; il compimento dei sogni non è la prostrazione, ma è che finalmente Giuseppe entra nel suo ruolo di figlio e, da fratello, consente anche ai fratelli di entrare pienamente nella loro verità di fratelli e di figli capaci di lasciarsi amare come il padre vuole amare e come Dio vuole amarci.
La via dell’amore passa anche attraverso il male che si subisce e che
purtroppo si fa. Ma c’è ancora di più:
il male che i fratelli hanno fatto si converte in bene. Il male alla fine rivela la sua
inconsistenza. Se facciamo una lettura puramente umana, vengono in risalto
tanti difetti, tante mancanze, tanto male, ma dal punto di vista dell’amore di
Dio, che non ha forme prestabilite per rivelarsi, la storia narra il bene e
insegna come leggerne i lati oscuri, le tragedie, il male. Giuseppe nella sapienza acquisita sa leggere la storia in questo modo.
La storia è una continua pasqua
dell’amore, di un nascosto ma reale rapporto divino-umano.
Nella seconda parte del discorso Giuseppe manda i
fratelli a riferire al padre suo “tutta la gloria che io ho in Egitto” (Gen.45,13). L’esclusivismo
di Giuseppe può urtare. Ma esso riflette bene la situazione di partenza, ovvero
il legame privilegiato tra Giacobbe e Giuseppe, legame che Giuda e i fratelli
hanno accettato. E il fatto che
il padre si trovi all’orizzonte suggerisce che i fratelli si possono ritrovare
proprio perché a riunirli è la comune preoccupazione per colui il cui amore, un
tempo li aveva divisi.
Questo è l’invito di
Giuseppe ai suoi fratelli, e tale è
l’invito di Gesù risorto ai discepoli, a essere testimoni del suo ritrovamento
e a raccontare gli avvenimenti, leggendo in essi il ruolo conduttore di Dio.
Dice Gesù nella sua preghiera sacerdotale che la gloria divina è l’amore del
Padre verso il Figlio che lui è stato mandato a far conoscere, un amore di
predilezione che risplende e abita anche
nel gruppo dei fratelli di Gesù, così che il mondo, vedendola, possa credere
(cfr.Gv.17,5.21). Quando Gesù risorto si dà a conoscere, si manifesta come il Figlio che è morto perché noi potessimo
per lui avere la vita e diventare figli. Chi ha fatto esperienza di tale
amore, non può più tacere: ne è già testimone, “martire”.
.
Tutto questo è possibile perché Giuseppe ha
perdonato! Non c'era cammino possibile
per i fratelli, per convertirsi e non c'era cammino possibile perché la
famiglia potesse ritornare ad essere tale, se
non perché c'è stato qualcuno che ha subito l'ingiustizia, la violenza,
qualcuno che è stato vittima e che invece di rispondere al male con il male, ha
risposto al male con il bene, ha perdonato. Poiché Giuseppe ha
perdonato, ha potuto aiutare i fratelli a fare il cammino della figliolanza e
della fratellanza. E poiché Giuseppe ha perdonato, la famiglia è tornata ad
essere famiglia. Il perdono di Dio si
incarna nel perdono di un uomo. Dio può perdonare perché Giuseppe ha
perdonato. Allora, cambiano le prospettive: il male è cambiato in bene e i
sogni di Giuseppe si avverano, ma non come pensavano i fratelli. Perché
effettivamente i fratelli si prostrano davanti a Giuseppe, ma non è per
l'umiliazione, quanto perché l'hanno ritrovato.
E questo è paradigma per la vita. Il senso
che il testo rivela e che è significativo per le nostre famiglie e comunità è
che, perché le famiglie siano tali,
perché possano restare unite e perché possano eventualmente ricomporsi dopo la
frattura, bisogna che ci sia sempre qualcuno che perdona! Bisogna che
ci sia qualcuno che rinuncia alle proprie rivendicazioni per far prevalere il
bene dell'altro e il bene comune. Bisogna
che ci sia qualcuno che cede, ma non per debolezza, quanto perché portatore
di una forza d’amore più grande. Bisogna che il più forte, quello cioè
che è capace di amare di più, perché quella è la vera forza, accetti di morire per dare vita: “se il chicco
di frumento…”
Alla fine del discorso: «Giuseppe si gettò al collo di Beniamino e pianse stringendoli a sé. Anche Beniamino piangeva stretto al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pianse stringendoli a sé. Dopo i suoi fratelli si misero a conversare con lui» (Genesi 45,14 – 15). Abbracciandoli Giuseppe colma la distanza che li separava malgrado un primo riavvicinamento. Finalmente è resa possibile una parola non più ammalata: “si misero a conversare con lui”.
Che giudizio dare alle parole e ai gesti di Giuseppe? Si evidenzia quasi una fretta di un desiderio da realizzare al più presto: far vivere i suoi nonostante la morte che dilaga, operare un “salvataggio” che può ora concretizzare per tutta la sua famiglia riunendola attorno a sé. Ecco probabilmente il desiderio, l’impazienza che anima Giuseppe: permettere alla vita di trionfare sulla morte. La posizione “dominante” di Giuseppe non è quella del potere dominatore temuta dai fratelli, ma quella del suo desiderio più forte di tutti di radunare attorno a sé la sua famiglia per offrire in dono la vita.
Dei fratelli non viene riportata alcuna parola se non un “lasciarsi abbracciare” da parte di Giuseppe. Rimane un punto oscuro. Giuseppe ha avuto troppa fretta. La reazione atterrita dei fratelli non sembra aver permesso loro di dire la propria parola sugli eventi o di trovare un posto diverso da quello assegnato loro da Giuseppe nella sua fretta di rivedere il padre e di salvare i suoi dalla fame. Perciò se si tratta senza ombra di dubbio di uno scioglimento lieto per Giuseppe, non è detto che sia lo stesso per tutti. E’ un nodo che dovrà essere sciolto a tempo debito dopo la morte e il funerale di Giacobbe.
19.
L’abbraccio del padre che ritrova
i suoi figli fratelli
Giuseppe nel suo
discorso ha talmente insistito su “suo
padre” e sull’ardente desiderio che nutre di vederlo sano e salvo vicino a sé,
che i suoi fratelli possono legittimamente chiedersi se il suo nuovo
atteggiamento non sia comandato solo da questo desiderio, e che loro siano
importanti solo nella misura in cui fungono da intermediari. Sembra che Giuseppe chiede ora un
contributo per ristabilire una relazione da loro un tempo odiata. La sua
proposta sembra quasi un’imposizione che tolga loro la possibilità di cercare
altre soluzioni.
Giuseppe si premura
di dare il necessario per il loro
ritorno: carri provviste vestiti (a Beniamino 5 e trecento monete d’argento
agli altri uno!). Il fatto che li rimandi al padre con una tunica nuova
potrebbe essere significativo del fatto che per Giuseppe la faccenda è chiusa. Ha reso il bene al male subito. Il
testo ebraico parla di «vesti di ricambio» per poter ripartire verso un futuro nuovo, devono tutti
cambiarsi! È Giuseppe che offre loro il cambiamento. E tutti insieme e
opportunamente vestiti ripartono per andare a prendere il padre. Gli strappi
sono riparati. I legami familiari possono rinnovarsi, ritessersi.
Quando i fratelli annunciano
al padre la buona notizia, Giacobbe
rimane si sasso, non crede a ciò che sente: “Ma il suo cuore rimase freddo, perché non
poteva credere loro” (v. 26). Ai
suoi occhi la notizia può essere solo una nuova menzogna dei figli, e questa reazione mostra fino a che punto
la diffidenza è radicata in lui, e quindi quanto gli sia costato affidare loro
Beniamino. Ma è anche il segno di quanto l’anziano padre si sia rinchiuso
nel suo dolore da non essere pronto a ricevere una buona notizia.
Solo alla vista dei ricchi doni dati da Giuseppe,
Giacobbe ritrova vita letteralmente: “allora
lo spirito del loro padre Giacobbe si rianimò” (v.27). E’ quindi proprio Giuseppe a
permettere ai fratelli di ritrovare la
fiducia del padre al quale hanno mentito tanto a lungo, e a consentire al padre di uscire dal suo
interminabile lutto.
Anche Dio stesso, a Bersabea,
dove Dio impedì ad Isacco di scendere in Egitto per una carestia (26,23.33), incoraggia il viaggio in Egitto che
Giuseppe ha predisposto per il padre e la sua famiglia (cfr 46,1-7). Questo
dice una sintonia tra Dio e Giuseppe e
viceversa.
Nel viaggio di ritorno è Giuda, lui che all’inizio fu
l’ideatore della separazione tra i due, che
si premura di preparare l’incontro con l’anziano padre. Anche Giuseppe si
mette in cammino per andare loro incontro.
L’incontro è silenzioso e per questo straziante: “allora Giuseppe fece attaccare il suo carro e salì in Gosen
incontro a Israele, suo padre. Appena se
lo vide davanti, gli si gettò al collo e pianse a lungo stretto al suo collo.
Israele disse a Giuseppe: «Posso anche morire, questa volta, dopo aver visto la
tua faccia, perché sei ancora vivo»” (46,29-30).
Per la quarta volta Giuseppe
scoppia a piangere, ora al collo di suo padre, e le sue lacrime durano “a lungo”. Anche per Giacobbe certamente il momento è forte, riaprendo tutta una
serie di domande. E se non sembra
potersi impedire di parlare ancora di morte, è per dire tutta la sua gioia nel
rivedere suo figlio in vita. Ma la sua dichiarazione sorprende: lui che
davanti ai suoi figli ha spesso collegato la sua prossima morte alla scomparsa
di Giuseppe poi alla partenza di Beniamino, adesso sembra dire a Giuseppe che è proprio la sua scomparsa ad
averlo mantenuto in vita e che, ora che si è realizzata la sua
speranza, può finalmente morire contento.
Indubbiamente per Giuseppe le cose finiscono come
sembra aver sperato: il suo desiderio si è compiuto: Giuseppe fece risiedere suo padre e i suoi fratelli
e diede loro una proprietà nel paese d'Egitto, nella parte migliore del paese,
nel territorio di Ramses, come aveva comandato il faraone. Giuseppe diede il
sostentamento al padre, ai fratelli e a tutta la famiglia di suo padre,
fornendo pane secondo il numero dei bambini (47,11-12).
L’unica realtà che non si è frantumata lungo
la storia di Giuseppe, che non si è smarrita, anche se è stata dimenticata,
smarrita, non capita, è l’amore di Giacobbe per Giuseppe. Un amore che ha
persistito. Giacobbe alla fine, sul letto di morte, con i figli radunati
attorno, potrà finalmente impartire
la sua benedizione, perché vedrà il suo amore coscientemente assunto dai figli
come amore di fratelli. Più matura l’amore di figli più è maturo l’amore dei
fratelli e più è realizzato in pienezza l’amore del padre. Questo
significa che in realtà esiste un valore che sta al fondo di tutti i desideri,
di tutti gli sforzi, di tutta l’attività dell’uomo che è l’amore del Padre,
l’amore con cui egli crea ogni uomo. L’uomo
può vivere svincolato da questo amore, può viver anche negandolo, ma non può
distruggerlo, perché è un valore che resuscita sempre, è una realtà che agisce
sul principio pasquale.
La storia di
Giuseppe, proprio dentro questa visione teologica, ci dice che ogni valore è tale se scaturisce da
questo unico valore fondante che è l’amore del Padre vissuto da figli che si
scoprono fratelli. Ogni
valore è tale se aiuta le persone ad aderire liberamente all’organismo della
fratellanza di tutti gli uomini. Tutto
ciò che non giova alla libera adesione, alla fratellanza, alla comunicazione
sempre più universale, a riscoprire l’unicità dell’amore che ci crea tutti
e che dunque si compie nel riconoscersi l’uno
l’altro non è un valore, è una illusione, un inganno, una specie di
idolatria culturale. Dal momento che oggi i grandi valori umanistici della
nostra società sono ormai isolati dalla sfera spirituale di fede nella quale
sono nati, si rischia di comprenderli in una maniera infantile, oppure ridotta
ad una delle ideologie di moda che scaricano ben presto le loro energie (es.
tolleranza, solidarietà, giustizia….).
Ma fermiamoci sulla benedizione che Giacobbe dà ai due
figli senza i quali questa storia non si sarebbe conclusa in questo modo: Giuda e Giuseppe.
Giacobbe si sofferma anzitutto
su Giuda che egli pone a capo del gruppo dei fratelli: “Giuda, te loderanno i tuoi fratelli; la tua
mano sarà sulla nuca dei tuoi nemici; davanti a te si prostreranno i figli di
tuo padre”.(49,8). Queste parole probabilmente sorprendono. I fratelli che da ora non dovranno prostrarsi davanti a
Giuseppe ma a Giuda: “Il bastone non si allontanerà da Giuda né lo scettro dai suoi
piedi” (49,10). Perché questa benedizione su di lui? Il v. 9 invece
evoca un cambiamento in Giuda che da
leone qual’era ha ora rinunciato alla
violenza: “un
giovane leone è Giuda: dalla preda, figlio mio, sei tornato; si è sdraiato, si
è accovacciato come un leone e come una leonessa; chi oserà farlo alzare?”.
Giacobbe assegna il potere a colui
che ha imparato a dominare la propria violenza per metterne la forza a servizio
della vita.
Giuseppe invece riceve una pluribenedizione
particolare: “Per il Dio di tuo padre - egli ti aiuti!
e per il Dio onnipotente - egli ti benedica!
Con benedizioni del cielo dall'alto,
benedizioni dell'abisso nel
profondo, benedizioni delle mammelle
e del grembo. Le benedizioni di tuo
padre sono superiori alle benedizioni
dei monti antichi, alle attrattive dei colli eterni. Vengano sul capo di
Giuseppe e sulla testa del principe tra
i suoi fratelli! (Gn 49,25-26). Qui
Giacobbe fa eco al ruolo preciso svolto
da Giuseppe quale “principe dei suoi
fratelli”. È lui che ha reso
possibile la benedizione su tutti. Questa benedizione è resa ancor più
precisa dalle altre parole: “Lo hanno esasperato
e colpito, lo hanno perseguitato i tiratori di frecce. Ma è rimasto intatto il
suo arco e le sue braccia si muovon veloci per le mani del Potente di Giacobbe,
per il nome del Pastore, Pietra d'Israele” (49:23-24).
Sono parole che evocano il modo con cui Giuseppe ha
fronteggiato l’aggressività altrui, la violenza che lo aveva riempito di
amarezza. Nella prova ha saputo dominare
la propria aggressività, il suo arco, costante a fedele a se stesso come un
corso d’acqua che non delude perché le sue acque non vengono mai meno. Nella sua solidità si è dimostrato “pastore
di Israele” lui che ha saputo guidare la famiglia verso la vita trovando il
cammino della fratellanza e sistemando i suoi dove poteva sfamarli.
Così al momento di morire,
Giacobbe sottolinea e benedice giustamente in particolare l’azione di questi
suoi due figli.
20.
Alla morte di
Giacobbe
Gn 50,15-21
La salma di Giacobbe viene
riportata a Canaan e sepolta nella tomba di famiglia a Macpela (vv 12-13). Ma
rimane aperto un discorso essenziale.
Il rivelarsi di Giuseppe ai
fratelli in Egitto come accennato aveva
lasciato in sospeso un importante problema: abbiamo visto come mentre i fratelli ascoltavano Giuseppe in
un silenzio atterrito, questi imponeva di fatto la propria lettura degli
avvenimenti: negava la loro colpa senza aprire uno spazio in cui anch’essi
potessero esprimere la loro interpretazione del passato. La precipitazione
di Giuseppe non ha lasciato loro questo spazio fondamentale di poter dire la
loro. Ora se è l’amore del padre ad aver saldato il gruppo dei fratelli, cosa succederà ora che Giacobbe è morto e
sepolto?
Perché questo passaggio è
altrettanto fondamentale? Per il fatto che “il perdono è molto più di un proscioglimento e un’assoluzione. È
mutua guarigione dell’offensore e dell’offeso” (Beauchamp).
I fratelli di Giuseppe ora si preoccupano: «E se Giuseppe cambiasse idea?!? Se ritirasse il
suo perdono e si vendicasse su di noi?». Allora gli mandano un messaggio per dirgli: « Tuo
padre, prima della sua morte ha dato quest’ordine: "Così direte a Giuseppe:
Deh! Perdona il delitto dei tuoi fratelli e il loro peccato, perché ti hanno
fatto del male!”. Or dunque, perdona il delitto dei servi del Dio di tuo padre!»…Poi
andarono i suoi fratelli stessi… E si gettarono a terra davanti a lui e dissero:
« Eccoci tuoi schiavi! »…(50: 17-18). I sensi di colpa hanno perciò tormentato
ancora i dieci fratelli, rinnovando la paura
di poter essere rifiutati. Il male
fatto a Giuseppe torna a galla, precisamente la colpa da lui occultata a fin di
bene nella fretta che aveva di ritrovare il padre e di salvare i suoi. Non affrontata come tale la colpevolezza
dei fratelli è rimasta intatta e dopo la scomparsa di Giacobbe, riaffiora come
il fantasma di un ricordo rimosso. Il senso di colpa, scrive Gérard
Mendel, non significa altro che la paura
di perdere l’amore e quindi la protezione della persona amata» Per aver
«paura di perdere l’amore», bisogna che ci sia amore! È proprio la colpa dei fratelli che risvegliatasi, viene proiettata su
di lui come desiderio di vendetta.
Dunque
da ben diciassette anni i fratelli hanno
vissuto riparati dal padre, non sapendo se il perdono di Giuseppe era
motivato solo dal desiderio di risparmiare Giacobbe, rovesciamento questo dell’inizio della storia in cui era Giuseppe a
godere della protezione del padre.
Ma
questa volta la paura non li paralizza:
fin dal secondo soggiorno in Egitto hanno imparato ad affrontare le loro
apprensioni, a esorcizzarle parlandone con chi di dovere. Tuttavia una parte di timore sussiste se si servono di un intermediario.
Implorano il perdono, rinforzando la richiesta con un presunto ordine del padre sicuramente mai dato. In questo
modo cercano di trincerarsi ancora
nell’autorità paterna. Il messaggio è in poche parole: “Tuo padre, proprio il tuo, ti
manda a dire per il suo Dio che noi siamo tuoi fratelli, malgrado la colpa
commessa contro di te”.
Nonostante
l’astuzia vi è il fatto che ora i
fratelli possono finalmente confessare
chiaramente a Giuseppe la loro colpa, senza scusanti di nessun
genere: “E adesso perdona, te ne preghiamo, la rivolta dei servi del Dio di tuo
padre”.
Una
tale iniziativa lascia sconcertato Giuseppe. Se questi si mette a piangere
ancora una volta (la quinta!) non è per il fatto di sentire parole che innescano
una nuova scarica emotiva quanto il
fatto che siano i fratelli a dirle. Probabilmente comprende il suo errore,
il suo voler occultare la colpa, non concedendo fino in fondo quella
fratellanza da lui e da loro cercata che si costruisce sulla vicendevole verità.
“E i suoi fratelli andarono e si gettarono a terra davanti a lui e dissero: «Eccoci tuoi schiavi!”.L’analogia tra le situazioni è lampante, le parole del racconto lo sottolineano: i fratelli si rimettono, di fronte a Giuseppe, nella posizione precisa in cui si trovavano di fronte al signore egiziano. Tutto si svolge come se per loro il castigo fosse stato solo sospeso temporaneamente fino alla morte del padre.
La reazione di Giuseppe segna finalmente la tappa conclusiva. Qualsiasi sia la motivazione dei fratelli quando si recano timorosi da Giuseppe, dopo la morte di Giacobbe loro padre, è una risposta di amore e di umiltà che ricevono: « Non temete ! Se voi avevate ordito del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: salvare la vita ad un popolo numeroso. Or dunque non temete, io provvederò al sostentamento per voi e per i vostri bambini ». Così li consolò e fece loro coraggio. (50,20-21).
Giuseppe risponde chiaramente al loro desiderio di perdono. Lo fa definendo chiaramente la colpa dei fratelli riprendendo le loro stesse parole: un “male” che ha causato “sventura”. Mentre i fratelli si offrono come schiavi per ripagare il loro crimine, dopo essersi detti “servi del Dio di tuo padre” propongono implicitamente al loro fratello il posto di Dio, poiché diventeranno per lui quello che sono per Dio.
Affrettandosi a rispondere che non è al posto di quest’ultimo, Giuseppe ricusa altrettanto implicitamente la punizione di cui parlano: rifiuta di fare di loro i suoi servi, i suoi schiavi. L’ultima parola rivolta da Giuseppe ai suoi fratelli che prostrati si offrono come schiavi ha anch’essa la forma di domanda: “Sono forse al posto di Dio, io?”. Giuseppe nega infatti qualsiasi desiderio di dominio. È così che li proscioglie concretamente. Tutti sono servi del Dio del loro padre (Gesù dirà: “non chiamate nessuno padre….”, e proporrà una fraternità in cui il capo è servo e non padrone dei fratelli).
Tutto il discorso si conclude con una promessa apparentemente banale di approvvigionamento per tutti loro e le loro famiglie: in verità con questo egli fa intendere che è lui a volersi porre a servizio dei suoi. Lui è il “servo di Dio” che “fa vivere un popolo numeroso”. Dio si è servito di un male per trarne un bene più grande. Se male e sventura ci sono stati, non hanno però impedito a Dio di lavorarli dall’interno per far loro partorire un bene: la vita in abbondanza. Questo ultimo riferimento al pane sta a significare che tutto è stato veramente detto e fatto. Che anche la terrà e il suo uso è divenuta benedizione per tutti.
La parola “detta sul loro cuore” da Giuseppe ai fratelli indica il termine del processo di guarigione della parola a cui i pettegolezzi suoi e l’odio corrispondente dei fratelli avevano impedito di servire a costruire lo shalom tra loro. Dopo che i fratelli hanno detto la loro verità e portato Giuseppe ad esprimere la propria, la parola è finalmente in grado di toccare il cuore, segno di una fiducia ormai possibile, preludio allo shalom che il narratore si limita a evocare con poche parole: “Giuseppe dimorò in Egitto, lui e la casa di suo padre”.
21.
Conclusione
L’epilogo del racconto di Giuseppe costituisce uno scioglimento assai
adeguato poiché l’agire di Dio e l’azione congiunta di tutti i personaggi ha permesso di far partorire un bene dal
male compiuto, rivoltando la sapienza distorta del serpente che dal bene
era riuscito a far partorire un male. Il
dono del bene e della vita è il risultato congiunto di tutti questi attori:
grazie a Dio che ha benedetto Giuseppe l’eletto scendendo con lui nella fossa,
grazie a Giuseppe che ha saputo farsi gioco del serpente in modo da sconfiggere
la sua logica distruttiva privandolo delle sue armi che sono l’invidia e la
menzogna, grazie ai fratelli che hanno rinunciato al loro odio e alla loro
gelosia che avevano seminato solo morte e sventura, grazie a Giacobbe che ha acconsentito
a diventare padre lasciando andare Beniamino e fidandosi dei figli, grazie
ancora ai fratelli che hanno agito d’astuzia con le armi del serpente per
portare Giuseppe alla riconciliazione compiuta e per cooperare con lui alla
benedizione.
Per il lettore della genesi l’ultimo incontro tra Giuseppe e i fratelli costituisce l’epilogo di tutto il libro. Non solo i fratelli rivisitano insieme gli ultimi problemi rimasti in sospeso dal momento del loro ritrovarsi sino alla morte del padre che li univa e li separava al tempo stesso, ma risolvendo così il loro conflitto, nel loro modo obliquo di dire le cose come se il lato tagliente della verità rischiasse di riaprire le antiche ferite, mettono fine ad antiche liti familiari. Queste risalgono e hanno avuto il via ancora all’epoca di Abramo e Sara e ancor prima con Caino e Abele. Seguendo le vie dell’invidia, l’essere umano fallisce nella sua vocazione essenziale e si compie a immagine dell’animale e non di Dio checché ne abbia detto il serpente menzognero.
È a questi antichi conflitti che i fratelli pongono ora fine con quella giustezza che consiste nel fare il vero anche rispettando limiti e difetti dell’altro. Ma fino a quando questa fraternità potrà reggere? La storia biblica ci ripresenterà continuamente conflitti all’interno del popolo ma tra il popolo eletto e gli altri popoli. Un’attesa di riconciliazione tra “i due” rimane dunque aperta. Attesa che si compie in colui che farà “dei due un popolo solo” in una fraternità che pone il suo fondamento sull’amore del Padre che ha a cuore il bene di tutti i suoi figli da darci il suo prediletto nelle nostre mani purché il nostro cuore si convincesse di questo.
Infatti invitando Abramo a
lasciare il suo paese, la casa di suo padre, Dio gli aveva chiesto di liberarsi dai suoi legami per ricevere, nella
rinuncia al dominio portatore di morte, la benedizione offerta da Dio
all’umanità sin dal suo inizio (1,28), ma di cui gli umani si sono privati
ascoltando il serpente della bramosia. Fin dall’inizio la benedizione è
destinata a tutti i popoli che possono riceverla nella misura in cui, benedicendo
l’eletto, anch’essi girano le spalle all’invidia e alla gelosia, a condizione
certo che questi si astenga dal confiscare la benedizione per il proprio
profitto. Attraverso questo meccanismo, Dio
fa in modo che, se la vita e la benedizione vengono proposte ampiamente, queste
possano svilupparsi pienamente solo laddove ciascuno consente ad articolare la
sua esistenza volendo il bene dell’altro, imparando a morire per lui.
In questo gioco Dio rimane al suo posto di dispensatore della benedizione, rinunciando a un qualsiasi controllo sulla salvezza nella misura in cui invita gli umani a strutturare, con il loro agire libero, le sue condizioni di opportunità. Confida così interamente in loro, nell’eletto e negli altri, scegliendo di affidarsi a loro e al gioco delle mediazioni umane. Assumendo questo rischio Dio stesso manifesta il suo rifiuto di giocare il gioco del dominio e della concorrenza, frutto dell’invidia. Questo è il cammino di vita abbozzato da Dio tramite l’elezione che giungerà al suo culmine nell’invio del Figlio prediletto: dietro alla apparente preferenza accordata all’eletto, si nasconde in realtà il suo amore per tutti in un infinito rispetto della libertà di ognuno, ma anche la sua segreta speranza di vedere gli uomini realizzare insieme il suo desiderio di vita. L’incapacità di guardare a Giuseppe amichevolmente si ripercuote anche su Cristo, il Figlio prediletto del Padre (Mt 3,17). Cristo rivelazione dell’amore del Padre, è anch’egli odiato e alla fine condannato proprio per il fatto di essere il Figlio prediletto del Padre. In Gv 15,25 si dice: “Mi hanno odiato senza ragione”. L’amore gratuito, proprio di Dio, suscita irragionevolmente l’odio. Ma perché suscita odio? Siccome l’amore gratuito cerca di avvolgere ogni cosa esistente che promana da lui e di vincere il male, ecco il male reagire violentemente; in tal modo esso si evidenzia. Così inevitabilmente Cristo suscita l’amore e l’odio negli uomini. Rivela il loro cuore! È segno di contraddizione che svela la verità dei cuori!
Ma perché Dio permette tutto questo male che gli uni fanno agli altri? Perché sembra non
intervenire lasciando che le cose si dipanino dentro il gioco delle ambigue
libertà umane? Nel racconto vediamo come
coloro che soffrono agiscono da cattivi, forse loro malgrado e quanto facciano
soffrire gli altri credendo di cercare il proprio bene: Ma se un uomo
diventa cattivo a causa di una sventura o di una difficoltà esistenziale che lo
colpisce, intervenire solo per condannarlo non significa forse commettere
un’ingiustizia? A monte infatti sarebbe pazzesco e ingiusto punire qualcuno che
cerca, seppur in modo maldestro, di disfarsi del male da cui si sente oppresso.
A valle significherebbe aggiungere del male alla sventura, nella misura in cui
colui che viene punito troverà sempre la sentenza ingiusta ed eccessiva, a
causa di quel che stava vivendo e in cui, ancor più infelice, rischia di
impantanarsi nella propria cattiveria. Del resto per Dio sarebbe un fallimento
non poter salvare un “cattivo”! A cosa servirebbe una salvezza che servisse a
salvare solo presunti innocenti? Allora quale altra via prendere? Come intralciare e far fallire il male e
la morte senza distruggere coloro che li diffondono, dalla sventura alla cattiveria,
e dalla cattiveria alla sventura?
Il Dio della storia di
Giuseppe, sceglie la via di visitare la
violenza e il male, sembra scegliere
di starsene con discrezione accanto alla vittima, in modo tale che possa
escogitare una via di riconciliazione capace di trasformare l’energia della
violenza e della cattiveria in dinamismo di vita e di pace. E tutto questo
cosa è se non profezia della fantasia amorosa di Dio che chiederà al Figlio
l’unico vero innocente di farsi lui stesso carico di tutto il male del mondo, assorbirlo in lui stesso sulla croce, restituendolo non in male ma in bene?
In lui la parola di shalom tra Dio e
l’uomo e tra fratello e fratello è detta perfettamente ed eternamente in Cristo
Gesù. È
come se l’amore vincesse il male attraverso l’odio che gli si scatena contro,
ma che esso riesce ad assorbire senza contraccambiarlo. E in tal maniera ne
esce vincitore perché è stato capace di assorbire la morte, di lasciarsene
penetrare. In tal modo la morte non è solo vinta, ma è sterminato il suo potere
(Ap 1,18). Con Paolo è possibile dire: “Dov’è
o morte il tuo pungiglione?”. Io e
il mio fratello stiamo talmente a cuore a Dio Padre che egli non ha risparmiato
per me e per il mio fratello il suo unico Figlio il prediletto! In questo modo ciascuno è stato raggiunto dall’amore
del Padre che desiderava, e per la gelosia del quale ha alzato la mano sul
fratello per denudarlo dell’amore di cui è stato rivestito.
Nella vita spirituale
è illusorio allora pensare che amando si
possa automaticamente suscitare l’amore. È idealismo! Questo accade se le
persone sono già purificate nel cuore. Prima o dopo l’amore è frainteso e si
verifica il suo martirio, come avviene per Cristo. Ciò riguarda anche l’ambito della Chiesa. È utopico pensare che abbracciando “il
mondo” questi automaticamente si converta, senza tragedia. Amare il mondo
può significare scatenare l’odio del mondo verso la Chiesa. Guardando alla
storia della santità constatiamo che la
Chiesa trasforma il mondo assumendo e assorbendo la reazione peccatrice del
mondo, allo stesso modo di Cristo, di cui essa è il corpo (Col 1,24). Il
peccato è deicida e quando più la Chiesa vive autenticamente di Cristo più il
mondo non la sopporta. Ma è qui che si rivela la forza pentecostale della
Chiesa: “sanguis martyrum semen
christianorum” (Tertulliano).
APPENDICE
Salmo 133 (132)
Se volessimo trascrivere questo canto della
fraternità dell'Israele di Dio in chiave cristiana potremmo usare le parole di
Gesù nel testamento dell'ultima sera della sua vita: «Da questo tutti
conosceranno che siete miei discepoli, dall'amore che avrete a vicenda»
(Giovanni 13,35). Il tema del salmo è commentato attraverso una duplice
simbologia. Innanzitutto l'olio profumato usato nella consacrazione dei sacerdoti
(Aronne, il fondatore del sacerdozio ebraico): esso penetra nel corpo e nelle
vesti santificando e trasformando la creatura. C'è poi il simbolo della rugiada
dell'Ermon, il monte settentrionale della Palestina (2760 metri): un'immagine
di freschezza in un mondo assolato e bruciato. Con un'iperbole s'immagina che
questa rugiada sia come un'inondazione che dal nord della Palestina scende al
sud a bagnare anche l'arida Gerusalemme. L 'amore fraterno è, quindi, fonte di
santità e di vita in un mondo dissacrato e morto.
«Allora David intonò questo lamento: - O monti di Gelboe non più rugiada
ne pioggia su di voi, ne campi di primizie, perché qui fu avvilito lo scudo
degli eroi... - Saul e Gionata, amabili e gentili, ne in vita ne in morte furon
divisi; erano più veloci delle aquile, più forti dei leoni... - Gionata, per la
tua morte sento dolore; l'angoscia mi stringe per te, fratello mio Gionata! la
tua amicizia era per me preziosa più che amore di donna» (2Samuele 1,17-26).
1 Quanto è bello e quanto soave
che i fratelli dimorino insieme:
2 E come olio prezioso sul capo,
sulla barba del grande Aronne.
E vi scende sul collo e le vesti !
3 È così la rugiada dell'Ermon
che fluisce ai monti di Sion:
là è l' eterna sua benedizione !
Il Signore ha là stabilito,
ogni bene evita nei secoli.
Trinità indivisibile e santa,
confessarti e cantarti vogliamo:
sei il principio del nostro amore,
della nostra concordia il fine.
IL SANGUE NON CONTA
Il sangue non conta niente da solo. La linea del
sangue può essere una trincea di oscuri istinti, di interessi a volte mortali.
Solo l'amicizia ha il divino potere di superare il sangue, il censo, la classe,
la razza, e fare che due esseri veramente si amino, confortati dalla stima
dell'uno per l'altro, accettando tutti e due la rinuncia a prevalere, e a
espropriarsi l'uno per l'altro. (E ho scritto che anche la chiesa, se vuole
essere vera, non può essere che una chiesa di amici. Così la città, se vuole
essere umana. Invece...). Invece desolate selve di sassi sono le case.
Attendiamo di emigrare da pianeta a pianeta, ma siamo ancora più soli, e sempre
più freddo ha il cuore... Tempi grami viviamo. Tempi senza amicizia. Mondo
senza fanciulli. Siamo tutti dentro a un sistema nel quale l'uomo non conta più
nulla. È il sistema più disumano e ateo che si possa immaginare. Per questo
crescono le solitudini, e le desolazioni, e la disperazione. Oh, i giovani!
Come sono eroici quei giovani che riescono ancora a coltivare delle amicizie. I
molti che soccombono non si contano più. Queste non sono città! Sono termitai,
deserti cintati di cemento e da invisibili (ma non sempre invisibili) cavalli
di frisia.
Preghiera
Dio, amico dei fanciulli e degli umili,
tu vuoi che ogni uomo ti sia amico !
Dio, unica fonte di comunione dei cuori,
rendici capaci di rinnovare
l'amicizia con tutte le creature,
e rinsalda la nostra fraternità
perché tutti ritrovino la gioia di vivere.
Amen.