• 22 Giu

    LEGGERE SPIRITUALMENTE
    L’ITINERARIO DEL PROPRIO CAMMINO

     

    di p. attilio franco fabris

     

    E’ un’avventura affascinante il cercare di scoprire Dio nella propria vita.

    Gli uomini di Dio di tutte le epoche e di tutte le religioni ci dicono che questo è possibile.

    C’è chi cerca Dio nel silenzio e nella solitudine del deserto, chi nel rumore della città, chi in mezzo agli uomini… Dove non importa. L’importante è cercarlo. La fede biblica ci indica nella storia una direzione privilegiata, un “luogo teologico”, per scoprire Dio nella propria esistenza. Dio è presente in ogni istante della tua vita, dall’inizio alla fine, nei momenti decisivi e in quelli quotidiani e apparentemente banali, nelle gioie, nelle prove e malattie. Lo sarà anche al momento della conclusione del tuo itinerario terreno.

    Un mistico induista racconta la sua esperienza: Una volta, lungo tutta una giornata, percepii l’immagine delle infinite meraviglie di Dio presenti nella creazione. Allora pregai così: Padre, quando ero cieco non trovavo una sola porta che mi introducesse a te. Ora tu hai medicato i miei occhi e io scopro porte da ogni lato: nel cuore dei fiori, nelle voci dell’amicizia, nel ricordo delle esperienze liete. Ogni impulso della mia preghiera mi apre una nuova porta di accesso al tempio immenso della tua presenza (Paramahansa yogananda). Questa porta per te è la tua storia.

    Una lettura diversa

    Quando parlo di imparare a leggere spiritualmente il cammino della tua vita, intendo l’arte di saper leggere qualsiasi avvenimento in un senso che sia capace di andare “oltre” le apparenze, gli aspetti fenomenici.

    Si tratta di sviluppare un atteggiamento mentale al fine di penetrare ed interpretare il mistero della vita tua e di ciò che ti circonda.

    Questo comporta una disposizione fondamentale: la tua collaborazione attenta con le continue ispirazioni della grazia. Questa disposizione porta ad un atteggiamento contemplativo di fronte alla vita, ad una preghiera continua fatta di ascolto dell’esistenza.

    Significa percepire nella tua vita la presenza continua del Dio della vita: “In lui noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28).

     

    Se questo non è un gioco o una illusione allora significa  che il cammino della vita ti nasconde un segreto in chiave: una chiave che deve essere decifrata. Come una scrittura nascosta, così gli avvenimenti di ogni giorno ti parlano attraverso i loro simboli, i solo segni, e ti rimandono al di là: Questo “al di là” lo decifreremo perfettamente quando ci saremo, ma già ora puoi imparare a decifrarlo leggendo spiritualmente il tuo itinerario.

    La tua storia la puoi leggere attraverso mille lenti e mille angolature. Ci sono molte chiavi di interpretazione… sarà utile uno sguardo a come l’uomo biblico legge la sua vita.

    La sapienza dell’uomo biblico

    L’uomo biblico è essenzialmente un uomo che ha imparato a leggere spiritualmente gli avvenimenti. Crede profondamente ed è convinto che in ogni avvenimento vi sia una manifestazione, una rivelazione di Dio.

    Egli legge la storia del suo popolo e quella sua personale in riferimento costante a Dio: quando perde una guerra… è a causa dell’infedeltà; quando vince una guerra… è Dio che lo ha salvato (cfr 2 Cr 20,1s). La malattia, la pioggia, la siccità… tutto diviene occasione di dialogo tra Dio e il suo popolo. Così Giobbe interpreta spiritualmente il dolore (1,21; 2,10); Davide perseguitato vedrà in questo una permissione di Dio (“ Sam 16,5ss). I salmi sono tutti una continua lettura spirituale (cfr Sal 78; 105…).

    Per la scrittura l’uomo che è in grado, per la sua fede, di leggere spiritualmente la storia diventa sapiente (es. Sir 44; Ebr 11): ovvero è divenuto uno che sa vedere la verità, che sà dare il sapore il senso a ciò che vive.

    Gesù riceve questa tradizione sapienziale e la fa propria. Egli legge ogni avvenimento, da quelli più semplici e ordinari a quelli più tragici, spiritualmente. Al termine della Passione egli dirà: “Tutto è compiuto”; Gesù  legge la sua sofferenza “in chiave” – la volontà di Dio – tutto ha obbedito ad un progetto di amore.

    Comprendi allora l’amaro rimprovero “ai sapienti scribi e farisei” fatto da Gesù. Essi si sono rivelati incapaci di leggere in modo spirituale la sua missione, il tempo favorevole. Si sono fermati alla superficie, hanno adottato chiavi di lettura più facili e comode: “Hanno occhi e non vedono, orecchie e non odono” “Sapete riconoscere l’aspetto della terra e del cielo; come mai non riconoscete questo tempo?”.

    Come leggere spiritualmente?

    L’atteggiamento fondamentale non è la pretesa magica di obbligare Dio  a manifestarsi con un messaggio fatto a propria immagine e secondo i propri desideri.

    Si tratta invece di alimentare continuamente in te un umile atteggiamento di fede, capace di riconoscere e scoprire, giorno dopo giorno, quel messaggio recondito “posto al-di-là” che tanti semplici, con la loro sapienza hanno saputo leggere. Vivi nella certezza che la tua vita è nelle mani di Dio. Non si tratta di sentirti protettoe al sicuro, la vita del credente attraversa tutte le prove come quella di chi non crede, si tratta invece di cogliere la verità del tuo proprio esistere, quel filo conduttore che connette tutti gli avvenimenti della tua vita, dando loro un senso preciso. Se Dio è Dio allora non esiste più l’assurdo, il destino, ma tutto assume senso e significato… Ciò ti porta a non aver più paura della vita, a non essere più assalito dalla preoccupazione di programmare eprevedere, calcolare e controllare, ti libera dall’apprensione di difenderti da chissà quale nemico o rischio o imprevisto. La certezza che la tua vita è nelle manbi di Dio fa sì che tu possa liberarti da queste piccole o grandi schiavitù. In fondo  significa liberarsi da quella insicurezza nascosta che a volte, per reazione, ti fa sentire troppo importante, come se tutto dipendesse da te.

    Vi è una metodologia per far ciò:

    Il primo metodo è certamente l’ascolto della Parola, ricevuta e meditata con spirito di fede. Essa è l’alimento atto a sviluppare in te la capacità di acquisire uno sguardo, una mentalità di fede. La lectio divina ti rende familiare con la storia del popolo eletto, con Gesù, la Chiesa. Con essa tu confronti il tuo cammino umano e di fede.

    In questo senso la parola ti offre una risposta, una chiave di lettura, a ciò che stai vivendo. L’incontro giornaliero, fedele e perseverante con essa diviene indispensabile per conservare una mappa del tuo itinerario. Quanto è bello ripensare a quel pellegrino russo che nel suo peregrinare accanto al pan secco conserva con cura la Parola di Dio: “Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione pellegrino della specie più misera, errante di luogo in luogo. I miei beni terrestri sono una bisaccia sul dorso con un po’ di pan secco e, nella tasca interna del camiciotto, la Sacra Bibbia. Null’altro”.

    Un secondo metodo scaturisce anch’esso da un dato di fede. Gesù risorto ti ha assicurato la sua presenza sino alla fine del mondo (Mt 28,16), ti ha consegnato l’avvertenza di riconoscerlo negli ultimi, nei poveri nei semplici e bisognosi. In questi egli è costantemente alla porta della nostra vita e bussa per essere riconosciuto (Ap 3,20).

    Impari a leggere spiritualmente il tuo cammino quando consideri la tua esistenza come una continua serie di opportunità per scoprire la presenza nascosta del risorto. Egli è l’ortolano, il pellegrino, lo sconosciuto sulla riva del lago. Ogni giorno, ogni situazione, ogni persona si può trasformare in occasione di incontro col mistero del Signore risorto. Fai l’esperienza che nella vita di ogni giorno c’è il passaggio nascosto di Cristo: della sua salvezza che ti giunge attraverso mille mediazioni.

    Un terzo metodo. Leggi l’esistenza nella chiave della croce, del mistero pasquale. Come un continuo e incessante passaggio, esodo, dalla vita alla morte, dalla schiavitù alla liberazione, dalla terra al regno. Nell’attesa del passaggio definitivo. Saper discernere in tutte le situazioni di fallimento, povertà, peccato, morte l’invito del Dio liberatore a fare anche tu il tuo pesah, il salto della fede nel Dio fedele.

    Conclusione

    Leggere spiritualmente la vita è un’arte. Si impara a vivere in sintonia con Dio. Diviene un modo per pregare incessantemente. In ogni istante ti è offerta una nuova possibilità. Imparerai a fermarti saggiamente per domandare al Signore: Che cosa mi stai dicendo ora? Cosa vuoi da me in questo momento? Perché tutto ti parla.

    E’ questa la beatitudine: “Beati coloro che ascoltano la parola e la mettono in pratica” (Lc 11,27-28).

    Questo camminare in sintonia con Dio, nell’ascolto alla parola, sulla terra si trasforma in una risposta, un canto gioioso, canto di pellegrini che conservano nel cuore l’ansia felice dell’arrivo: Noi cantiamo quaggiù le lodi di Dio come un giorno le canteremo in cielo. Ma quaggiù le cantiamo trepidanti, in cielo le canteremo sicuri. Quaggiù nell’esilio, lassù nella patria. Canatate o fratelli, come canatano i viaggiatori, i pellegrini: cantate e camminate! Avanti sempre, procedendo nel bene. Fate progressi nella fede e nelle buone opere. Cantate e camminate. Canate con le voci, cantate con i cuori, cantate con la condotta della vita (Agostino, Ex.Ps).

  • 21 Giu

    “DEVI METTERTI IN CAMMINO OGGI… NON DOMANI”

     

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    La storia è il luogo in cui sei chiamato deciderti: davanti a te sono poste le due vie: la vita e la morte, ovvero l’obbedienza e la disobbedienza ai comandi di Dio. E tempus fugit era scritto spesso sulle meridiane o orologi di conventi e monasteri.

    Ricorda che il cammino della tua storia è il luogo in cui Dio si manifesta, è il luogo in cui egli vuole incontrarsi con te. Anche Gesù con te si fa viandante e pellegrino come sulla strada verso Emmaus.  Questo cammino è l’unica l’opportunità che ti è data per vivere l’obbedienza della fede e la sequela. Questo cammino accolto nella sua realtà di gioia, e sofferenza, di conflitti, di progressi e regressi, di fatiche ed entusiasmi…

    Questa storia (non un’altra), questa stessa storia, diviene la tua storia di salvezza, non tanto in virtù di quanto accade o di ciò che riesci a realizzare, ma in quanto in essa Dio ti chiama continuamente a essere in comunione con lui per la realizzazione del suo Regno che è la tua meta finale, la Città Santa verso la quale stai camminando come pellegrino.

    Abbi la certezza che, per grazia di Dio, sulla strada del regno sei già sin d’ora e la stai percorrendo nella misura in cui i comandi del Signore sono il tuo sentiero, la tua vita e il tuo cammino.

    Questa tua storia è il Kairòs, il tempo propizio per la tua conversione, è un tempo di grazia. Tempo che dà senso e valore a Kronos che senza kairòs sarebbe tempo vuoto, destinato al nulla, alla morte: “Ecco ora il momento favorevole (kairòs) ecco ora il giorno della salvezza” (2 Cor 6,2).  Questo è un giorno che non si ripeterà mai più.

    Ogni giorno è un oggi che ti si apre dinanzi, completamente nuovo, aperto alla tua libertà, al tuo cammino interiore. Un oggi che deve essere accolto così come è, come ti si presenta; e non rifiutarlo perché ti si presenta diversamente da ciò che ti saresti aspettato che fosse. Se non accetti questo reale punto di partenza ricorda che in te non si attuerà nessun cammino perché continuerai a sognare la vita invece di viverla.

    Accogliere il presente significa accogliere il reale e rifiutare l’inesistente. A Dio puoi arrivare solo attraverso questa realtà e non un’altra immaginaria. Solo questo atteggiamento di accoglienza e accettazione ti permetterà di poter cambiare qualcosa nel futuro della tua vita.

    Ricorda perciò un buon criterio di discernimento per la tua vita spirituale: tutto ciò che ti allontana e distoglie dal quotidiano ti distoglie e ti allontana dal cammino verso Dio.

    Se prendi seriamente atto di questo allora capirai che dovrai:

    1. saper cogliere l’oggi di Dio, quest’oggi. Impara ad essere perciò duttile, semplice, contemplativo verso tutto ciò che ti è dato in questo momento.  Fai obbedienza alla parola che “oggi” risuona sul tuo cammino nel deserto verso la terra promessa: “Oggi, se udite la voce del Signore, non indurite i vostri cuori” ( (Sl 95,7).

    Ricorda che l’oggi si è fatto breve: “Esortatevi piuttosto a vicenda ogni giorno, finché dura quest’oggi, perché nessuno di voi si indurisca sedotto dal peccato” (Ebr 3,13).

    E’ il Signore che nella sua misericordia ti offre un nuovo oggi: “Egli fissa di nuovo un giorno, oggi, dicendo a Davide dopo tanto tempo: Oggi se udite la sua voce..” (Ebr 4,7).

    Cosa comporta cogliere l’oggi di Dio? Significa imparare a discernere, giudicare il tempo, gettando la maschera ipocrita di chi sa giudicare il tempo ma non il proprio tempo (Cf Lc 12,56).

    2. saper accogliere il tempo come l’oggi dell’incontro di Gesù con te, con la tua realtà di peccato, limite e mancanza. Per te Gesù ripete, come un giorno a Zaccheo: “Scendi subito, oggi devo fermarmi a casa tua… Oggi la salvezza è entrata in questa casa” (Lc 19,9). Ogni giorno fai esperienza della tua realtà di peccatore, che ti blocca e ti arresta ai bordi della strada (cf il cieco di Gerico), e ogni giorno hai bisogno di incontrare Gesù che passa, stende la mano e tichiama, affinché tu possa riprendere il cammino dietro lui.

    3. saper vivere la tua esperienza di vita di cristiana, di discepolo, come un continuo oggi, un continuo peregrinare: l’oggi dell’ascolto della Parola, l’oggi della conversione, l’oggi dell’accoglienza della grazia.

    E’ sempre oggi. Il passato non c’è più: ne puoi fare solo memoria, il futuro non esiste, è affidato alla speranza. A te rimane solo il presente e la preghiera: “Per tutto ciò che è stato grazie, per tutto ciò che sarà sì”.

    Potrai forse chiederti come allora rapportarti con il tuo passato e il tuo futuro se tutto si gioca sull’oggi.

    Verso il tuo passato conserva una “grata memoria”. Non è facile rimpossessarsi del proprio passato: equivale a guardarlo nei suoi aspetti positivi e negativi, di gioia e di dolore: “Si deve desiderare che tutto ciò che è avvenuto sia avvenuto, e null’altro. Non perché ciò che è avvenuto è un bene a nostro modo di vedere, ma perché Dio lo ha permesso e perché l’obbedienza degli eventi  a Dio è in sé un bene assoluto” (S.Weil, Attesa di Dio). Un guardare senza giudicare, con amore e riconoscenza, nella capacità di “lasciare andare”. Si tratta di un guardare privo dell’avidità di possedere, trattenere gioie o rimpianti; in una sinfonia non posso trattenere una nota all’infinito, rovinerebbe tutto il brano.

    Farai grata memoria in modo particolare degli interventi di Dio nel tuo cammino già percorso: “Se il Signore non fosse stato con noi, lo dica Israele, se il Signore non fosse stato con noi…” (Sl); “Ricordati di tutto il cammino che il Signore Dio tuo ti ha fatto fare in questi quarant’anni nel deserto per metterti alla prova” (Dt 8,2).

    Il tuo cammino passato riletto alla luce del “memoriale” diviene occasione di una Lectio divina in cui lo Spirito ti illumina per scoprire in quali molteplici modi la grazia sovrabbondante di Dio si è riversata su di te.

    Il passato, collegandosi direttamente con l’oggi in una linea di continuità che ispira fiducia e speranza (Si è forse accorciato il braccio del Signore?”), si trasforma in luogo di rivelazione di Dio. Attraverso questa memoria puoi trarre energie per la tua crescita. Scriveva Teresa di L.: “Mi trovo a un’epoca dalla mia esistenza in cui posso gettare uno sguardo sul passato: l’anima mia si è maturata nel crogiolo delle prove esteriori ed interiori; adesso come il fiore fortificato dall’acquazzone rialzo la testa e vedo che in me si realizzano le parole del salmo 22: Il Signore è il mio pastore, nulla mi mancherà”.

    Apriti al tuo futuro come occasione che ti è data di crescita di avanzamento: “L’uomo non può realmente esistere se non ha un punto fisso nel futuro verso cui volgersi. Il suo presente, nella sua interezza, riceve forma da questa meta prefissa; vi si dirige, come la limatura di ferro viene attratta da una calamita. Se l’uomo perde il suo futuro, la vita stessa si dissolve nella sua struttura” (V. Frankl).

    Ogni incontro con Dio ti apre orizzonti nuovi, egli ti pone dinanzi una promessa che deve essere accolta nella fede. Egli ti offre anche una missione da compiere.

    Ogni meta su questa terra non si rivela che una sosta per un ulteriore cammino. Un arrivo è sempre un nuovo punto di partenza. Devo lasciare per trovare, perdere per salvare: “Non abbiamo quaggiù una città stabile ma cerchiamo quella futura” (Ebr 13,14). Sei viandante e straniero proteso alla meta e alla patria: “I cristiani risiedono ognuno nella propria patria, ma come stranieri ospitati… ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria è per loro una terra straniera” (A Diogneto). I padri del deserto parleranno della virtù della xenetheia.

    Il futuro cristiano si alimenta della virtù della speranza. Egli è certo che Dio gli verrà sempre incontro facendo “nuove tutte le cose”, aprendo strade non ancora percorse, facendo nascere ciò che non è ancora. Vivi nella certezza che tutta la creazione è continuamente attratta verso il futuro della glorificazione nel Risorto quando Dio sarà tutto in tutti.

    Il Tempo accolto come dono

    Il tuo cammino, il tuo tempo, è nelle mani di Dio. Lui l’ha voluto nell’istante della creazione, nel primo istante del tuo concepimento. E’ lui che te lo dona istante per istante. Ricorda che il tempo non ti appartiene.

    Dì col salmista: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” (Sl 90,12).

    E’ solo accogliendo e vivendo il tempo che ti è dato come dono che si impara la vera sapienza.

    Questo atteggiamento sapienziale diviene criterio di discernimento: impari a distinguere le varie realtà, le ultime dalle penultime, le essenziali dalle emarginali. Impari a porre in giusta scala i valori presenti nella tua vita.

    Chi infatti vive alienato dalla coscienza della propria temporalità non giungerà mai ad una lettura sapienziale della sua vita.

    Accogliendo il tempo come dono imparerai soprattutto a non essere più né suo schiavo né  suo idolatra: anche il tempo sarà ridimensionato e collocato nella sua giusta prospettiva.

  • 20 Giu

    HO INCIAMPATO SUL MIO CAMMINO…

     

    di p. attilio franco fabris

     

    Nel cammino spirituale incontri ostacoli imprevisti, non voluti né desiderati.

    Il normale cammino spesso, anzi sempre, è disseminato di sassi, buche e rovi con i quali ogni giorno è messa a prova la tua perseveranza e fiducia per continuare. “Nel suo cammino quaggiù la nostra vita non può sottrarsi alla prova… dal momento che il nostro progresso si realizza attraverso la prova; nessuno conosce se stesso senza essere stato messo alla prova, può essere coronato senza aver vinto, può vincere senza aver combattuto” (Agostino, Enarr. Ps).

    Le prove sono “notti” di angoscia e di disperazione in cui tutto sembra incerto, inutile, offuscato, inconsistente, vuoto. E’ facile cadere nel nulla e per questo è importante cadere ai piedi del Crocifisso disceso nella sua passione in questi inferi, identificarsi col Cristo agonizzante sulla croce “senza conforto”. Le prove sono il crogiolo della purificazione di noi stessi, esperienza di deserto e di pura fede.

    Ogni giorno devi fare i conti con tante realtà che tu stesso ti trovo a dover gestire senza che tu le abbia scelte; si tratta di quelle alterità che ti abitano e che sono estranee al tuo volere e al tuo desiderio: sono l’alterità dell’inconscio, l’alterità di una affettività avida e di una sessualità mai pienamente integrata, l’alterità della tua aggressività mai totalmente vinta, l’alterità della tua sete di potere e di prestigio… per giungere poi all’alterità del peccato, del momento di crisi, della malattia e della morte.

    Mentre cammini non avrai mai finito di fare i conti con queste tue alterità.

    Esse tuttavia, lo insegnano tutti i maestri spirituali, possono svolgere, se accolte e lette in modo giusto, un ruolo essenziale nel cammino spirituale: fanno sì che venga smantellata quell’”immagine di sé” o del “sé immaginario” che ci abita, che è essenzialmente diversa da ciò che realmente siamo e che è il più grosso ostacolo ad un autentico cammino spirituale..

    Le prove, fanno appello alla tua libertà, e ti provocano all’alternativa di rifiutare e finalmente di accettare di essere diverso da ciò che pensi di essere, diverso da quello che gli altri si aspettano da te o dicono di te, nell’accettare di rinunciare a ciò che non hai e non puoi avere: Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo (Ap 3,17).

    Ovvero l’autentico cammino spirituale ti porta a ritrovare te stesso nella verità di Dio che ti precede: una verità alla quale si accede e ci si consegna.

    Alcune prove fanno parte del cammino di tutti, certamente ne esistono tante altre.

    L’esperienza del peccato

    Una via che ti può permettere di accedere alla verità di te è il peccato, che se vissuto in un’ottica di fede può trasformarsi in felix culpa.

    Il peccato ti fa fare esperienza di una lacerazione, di una frattura in te stesso… Ti rendi conto di aver intrapreso una strada sbagliata per ricercare la vita, l’ assoluto, la felicità di cui sente sete  nel profondo di te stesso.

    L’esperienza di peccato ti rimanda così un’immagine povera, limitata, carente di te stesso, ma è quella vera: Allora rietrò in se stesso e disse: quanti salariati in casa di mio Padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame (Lc 15,17).

    La salvezza passa per questa strada, essa non ti nasconde a te stesso. Anzi il sentirsi realmente peccatori è la base per poter fare esperienza dell’essere salvati (cfr il pubblicano al tempio, la prostituta in casa del fariseo, la samaritana, il buon ladrone…). Ti rende possibile alzare lo sguardo e attendere che sia l’Altro, che ti ama e conosce al di là di tutte le nostre pretese immagini, a rialzarti e a farti continuare il cammino. Fai la felice esperienza di essere accolto e amato proprio nel momento in cui sperimenti l’inaccettabile che è in te. Ti ritroviamo non condannato ad una perfezione impossibile ma salvato da un amore che ti precede.

    La crisi

    E’ fare esperienza del naufragio nel proprio cammino. Tutto appare perduto irrimediabilmente. “Istintivamente, come avviene per i naufraghi, uno si guarda attorno alla ricerca di un qualcosa a cui aggrapparsi, e quell’occhiata tragica e ansiosa, assolutamente sincera perché è in gioco la vita stessa, farà sì che uno cominci a mettere ordine nel caos della propria vita. Le sole idee genuine sono quelle che germogliano nella testa del naufrago. Tutto il resto è retorica, posa e farsa. Chi non si sentirà almeno una volta davvero perduto è irrecuperabile, perché non ritroverà mai se stesso, e non potrà sollevarsi per fronteggiare la propria realtà” (Ortega Gasset, La rivolta delle masse).

    E’ una fase di destrutturazione di sé, e della propria immagine. Le proprie certezze crollano: ci si sente mancare la terra da sotto i piedi. Tutto appare inutile e falso. Devi rinunciare alla pretesa di condurre la tua vita secondo te, a modo tuo, sotto il tuo controllo.

    Essa è strada maestra di purificazione.  Essenzialmente dall’illusione religiosa stessa. Si intraprende infatti un cammino che va dal mio Dio a Dio. E’ morte di un Dio visto al specchio. Soltanto che morto questo Dio non rimane più niente. A cosa agganciare la propria vita? Scegliere il ripiegamento? La crisi mette in causa la mia pretesa di condurre la vita secondo me, a modo mio, sotto il mio controllo.

    Essa apre alla necessità dell’autenticità. Riconduce la vita alla sua autenticità di esistenza umana. E’ esperienza dello scendere nell’abisso dello scheol. Ma questo abisso è il luogo dell’evangelo in “presa diretta”: è il varco attraverso il quale può entrare il risorto.

    Chi passa per questo fuoco sa che non può più far finta di niente, che continuare a vivere come prima, a camminare come prima e sulle strade di prima, sarebbe mentire a se stessi, anche se rimane forte la tentazione di farlo, di tornare indietro agganciandosi di speratamente a qualche certezza crollata che si cerca in tutti i modi di rianimare inutilmente. Non ci si accontenta più di ripetere e ripetersi, si sa’ che in questo cammino di purificazione occorre andare fino in fondo. Vincendo l’angoscia di una soluzione immediata.

    Occorre stare attenti: “a causa di quel che ha di prova, della crocifissione che vi avviene, si può esser tentati di respingere questa esperienza, in cui la fede è come bruciata al fuoco d’una esigenza implacabile di verità, senza che si sia padroni di quel che ne uscirà. Si può respingerla da sé, rifiutarla in altri, farsi sordi a tutto ciò che potrebbe venirne fuori. E sarebbe, naturalmente in nome della fede, per mantenerla, difenderla, confortarla presso i deboli, farla parlare alto e forte… Ma la rigidezza di questa fede così sicura di se stessa, la sua intolleranza, la sua durezza verso coloro che sono nella prova del fuoco, danno da pensare alla segreta paura che l’abita. Credo di vedere o capire, qui o là, una sicurezza di questa specie; temo che prepari solo duri risvegli”.(Billet).

    La malattia

    Tutta la scrittura ci presenta la malattia come fase difficile, pericolosa per la fede (cf Giobbe). Essa può tramutarsi in sasso d’inciampo, in scandalo sul cammino. La sofferenza va sempre in senso contrario alle nostre aspettative, essa sembra bloccare l’itinerario della vita. E’ una vera prova perché né prevista né programmata. E’ una strada che non si vuole e che si ignora. Ma vi ci siamo costretti, come Simone di Cirene è costretto a a portare la croce sulla via del Calvario.

    La malattia è un’esperienza, non solo di dolore fisico ma soprattutto di sofferenza interiore spirituale (non è mai solo sofferenza fisica!), talmente profonda e sconvolgente che spesso risulta difficile da integrare: la rivendicazione, il rimpianto, il ripiegamento, la ribellione sono risposte comuni… ma sono sforzo inutile e indefinito di restauro, di provocazione paranoica di  un’immagine di noi stessi che non è più. Ci si sente forse inconsciamente colpevoli di non corrispondere all’immagine che avevamo di noi stessi. Essa domanda a noi un atteggiamento di accettazione della vita, di una volontà di “rimanere” nonostante il grigiore e l’impotenza.

    Tuttavia questa esperienza può rimandarci a quella parte di noi stessi che era nascosta dall’immagine. Il nostro lato nascosto, il più vero, viene svelato dalla lacerazione provocata dal dolore.

    Questa lacerazione può permettere di recuperare la vera immagine di se stesso nella propria totalità: essa può trasformarsi in ritrovamento felice.

    In mezzo al mutare delle immagini con le quali ci identificavamo ci viene rivelato, provocatoriamente ma provvidenzialmente, il luogo della permanenza della nostra vera identità e luogo in cui ci è reso possbile l’incontro con Dio. “Quando sentirò che vengo meno e me stesso, assolutamente passivo nelle mani delle grandi forze sconosciute che mi hanno formato, in tutte queste ore oscure dammi, mio Dio, di comprendere che sei tu che scosti dolorosamente le fibre del mio essere per poter penetrare fino al midollo della mia sostanza, per trasportarmi in te” (Theillard del Ch.).

    La malattia non è pausa nel cammino: “La sofferenza non è più qualcosa di accidentale, un ulteriore peso fastidioso che s’aggiunge sulle nostre spalle: ma si trasforma in via” (Yves de Montcheuil). “”Lontano dal lavoro che è l’oppio dell’ansia nascosta dell’esistenza d’oggi, lontano dal moto quotidiano e dalla salute spiegabile per se stessa; si procede verso qualcosa che è solo un passaggio e non una meta stabile, verso il dolore, l’impotenza, la disposizione su di noi da parte di un estraneo sconosciuto” (K. Ranher).

    La morte

    Negli schemi di itinerari spirituali passati, preoccupati della dimensione ontologica dell’uomo, si è tralasciata l’esigenza di inserire il termine dell’itinerario dell’esistenza umana terrena che è la morte. In un certo senso la vita spirituale veniva ad essere identificata non col naturale e logico sviluppo della persona destinata a far esperienza della morte, ma con una vita solamente interiore che raggiunta la pienezza e la perfezione non avere più nulla da attendere. Forse si potrebbe parlare di una “de-escatologizzazione” della vita spirituale.

    Ma è importante alla luce di una comprensione dell’uomo come “viator”, anzi è indispensabile che la vita spirituale si confronti con la morte, con quella “fine” tragica del suo cammino umano e spirituale.

    La morte, come l’anzianità, fa parte reale, concreta di ciascuno di noi. E queste realtà sono chiamate ad essere interpellate dall’esperienza di fede, e devono essere integrate e rientrare nel cammino spirituale.

    La vecchiaia, la morte… si presentano come logorio, peggioramento, degradazione del processo biologico e psicologico. Questo aspetto negativo è reale: il cammino della crescita umana e cristiana subisce una lenta flessione e infine una violenta rottura. La pienezza, quindi, era provvisoria, instabile, relativa, non era ancora in possesso dell’uomo. La pienezza vera è al di là, non è normale continuazione del processo regolare: giunge più tardi per puro dono di Dio che sottopone a un cambiamento radicale di qualità tutte le antecedenti realizzazioni dell’uomo” (F.R.Salvador).

    E’ la linea logica dell’esperienza battesimale. La morte fisica è esperienza ultima e radicale del proprio battesimo. E’ il coronamento ultimo, anche se ripugnante e doloroso, dell’itinerario spirituale che attende solo da Dio il raggiungimento della meta, la massima realizzazione della nostra crescita. e conformazione a Cristo

    La morte si presenta quale punto di convergenza di tutta l’esistenza, punto di chiusura in cui le coordinate di tempo e spazio si annullano per aprirsi immediatamente all’infinito e all’eterno di Dio, in una esplosione di vita. “Proprio per penetrare definitivamente in noi, Dio deve, in qualche modo, scavare dentro di noi e crearsi un vuoto che diventerà il suo posto. Per poterci assimilare, Egli deve rimaneggiare, rifondere, spezzare le molecole del nostro essere. La morte ha il compito di praticare, fin nel più intimo di noi stessi, il varco necessario. Ciò che per natura era vuoto, la cuna, ritorno alla pluralità, può diventare, in ogni esistenza umana, pienezza e unità in Dio” (Theillard de Ch., Ambiente divino).

    Comprendiamo l’importanza ascetica data al memento mori. Il ricordo costante della morte fa sì la quotidianità della mia esistenza assuma il carattere di grandezza, densità, pienezza, senza le quali mi ridurrei a “fiacco, esangue, osceno, capace solo di digerire” (Sartre).

    SCHEDE

    Nel mio cammino ho incontrato ed incontro innumerevoli ostacoli e difficoltà.

    Come vivo la mia esperienza di peccatore? Avverto il peccato come inciampo o forse con indifferenza In che senso esso è per me inciampo?

    Vi possono essere stati o esserci momenti di crisi. Se sì: come mi pongo di fronte ad essi? Quali sentimenti suscitano in me? Che incidenza hanno sul mio cammino? Che lettura do ad essi? Che insegnamenti di vita ne ho ricavato?

    Di fronte all’esperienza della malattia e al pensiero della morte che cosa avverto in me? Quali sentimenti? Come vivo l’esperienza della mia fragilità di essere umano destinato alla morte? Il pensiero della morte che ruolo riveste nella mia vita, che portata ha?

    Lettura

    Un momento inevitabile

    C’è durante la traversata del tempo, durante l’esistenza di ogni uomo normale, un momento inevitabile e direi quasi desiderabile. Sì, è il momento di una scoperta abbastanza sgradevole: io non sono che questo, l’uomo non è che questo, e la terra e la vita. E’ la manifestazione dei limiti, della precarietà dei mezzi, della relatività dei valori, delle ferite forse inconfessabili, del peccato del mondo, della terribile tragicommedia della storia profana o sacra e dell’incarnazione di questa “vocazione”, la mia, che decisamente non si realizzerà affatto come sta scritto nei libri… E’ un intorpidimento, una sclerosi, un indurimento dell’essere, un pessimismo oppure un impeto di collera che isola, trincera o divide: la disperazione di quelli che sono o si credono imbrogliati… Occorrerebbe prima di rendersi conto della “normalità” di un’esperienza del genere. Il fanciullo che eravamo, l’adolescente dei grandi sogni, il giovane che si realizzava sono diventati poco a poco quest’uomo, questo adulto. Allora avviene come una nuova nascita, fisiologica, psichica o anche spirituale. Tutto quello che era stato conosciuto e accettato o creduto in una maniera speculativa, teorica, diventa problema vitale che tormenta la carne e il cuore: la mia famiglia, il mio lavoro, la mia fede, l’attaccamento alla mia chiesa e, per un religioso, questi voti pronunciati nell’entusiasmo dei vent’anni che ora prendono il loro vero volto, il loro vero valore. Eppure quel momento non è tragico; oserei dire anzi che può essere un’ora benedetta poiché l’uomo diventa finalmente se stesso, quest’essere dalle dimensioni infinite e così limitate, questo pellegrino dell’assoluto in cammino sulla terra, alle prese con il relativo, con il resto, con le apparenze dorate della vita. Egli arriva cioè al punto in cui la speranza teologale deve assumere tutta la sua portata, spiegare le sue ali in tutta la loro larghezza per sperimentare a fondo l’universale povertà. Questo non significa affatto che l’uomo diventi distaccato, indifferente, relativista, ma la prova a cui viene sottoposto è un’offerta: “Accetterai che il tuo cuore si riposi solo entrando nella sala del banchetto?”. (A. Lassus, I nomadi di Dio, Torino 1976, pagg. 71ss.)

     

  • 19 Giu

    L’ITINERARIO di PAOLO della CROCE

     

    a cura di p. attilio franco fabris

    cfr E. Zoffoli, San Paolo della Croce, pp. 174-238

     

    Paolo della Croce , inserendosi in una tradizione che fa riferimento al Taulero, alla scuola Carmelitana e a Francesco di Sales, propone nella sua direzione spirituale un cammino che potremmo definire, in analogia all’opera giovannicruciana, la Salita al Monte Calvario. Esso si attua in diverse fasi, che vanno però considerate come interagenti e simultaneamente elevantisi, a mo’ dispirale, verso la meta: questa è la conformità al puro patire d’amore del Crocifisso in obbedienza al Padre. Una meta certamente ardua, essa “da le vertigini” ad osservarla con occhi puramente umani tanto essa è azzardata ed esigente. Questo cammino è reso possibile solo se già alla partenza si è corredati da purità d’intenzione, dal desiderio di amare, dalla discrezione e dal fiducioso abbandono alle mani di Dio, il “divino artefice” di questo avanzare.

    Esso si articola in tre grandi fasi: la morte mistica, la divina rinascita, la vita nuova.

    Ci lasciamo accompagnare dalle sue stesse espressioni.

    LA MORTE MISTICA

    Questa prima fase è interiore, determinata soprattutto da uno sforzo ascetico personale progressivo, discreto sotto la sguardo prudente della propria guida spirrituale.  Essa tende ad eliminare tutto ciò che nell’uomo – in seguito al peccato originale e ai peccati personali – contrasta con il piano di Dio che ne vuole la più alta santità attraverso una partecipazione alla Passione.

    “Eliminare” significa “riprovare il peccato” con la penitenza, e quindi correggersi, emendarsi vale a dire “morire a se stessi” in tutto ciò che di non-autentico – quindi di falso, ridicolo, umiliante – ciascuno scopre in sé ma alla luce sempre di Dio.

    Da notare come Paolo insiste che ciò che deve presidiare questa fase deve essere sempre l’energia della grazia (la caritas).

    Sono tre le tappe attraverso cui l’anima giunge a questa morte mistica in sé.

    A. Morire al mondo esterno

    Significa  liberarsi dall’affetto disordinato verso i beni sensibili. Si tratta di rinunciare alle ricchezze, agli affetti disordinati, ai comodi e ai piaceri della vita in vista di beni più grandi: L’amor di Dio è geloso: un granello di affetto non ordinato delle creature basta a rovinar tutto… stia attentissima di non lasciare attaccare il suo spirito a cosa veruna creata, e procuri sempre più di staccarsi da tutti e da tutto, compiacendosi solamente di far la volontà di Dio in un nudo penare senza cercare conforto da nessuno.

    Paolo insiste anche sul coltivare per arrivare a ciò la solitudine interna ed esterna, che simbolo di nascondimento, distacco e riserbo, aiuta a morire a tutto ciò che non è Dio:  sola, sola: Dio e non più. Oh sacro deserto! Oh divina solitudine, in cui l’anima, astratta da tutto il temporale, si perde tutta nell’eterno infinito Bene… L’anima ricordi che mai abbastanza troncherà.

    B. Morire a se stessi

    Non basta morire al mondo esterno, anche perché se non ben inteso potrebbe suggerire la diabolica illusione di autonomia e autosufficienza, allontando di molto da Dio. Paolo della Croce perciò fa comprendere l’urgenza di interiorizzare il processo di morte, fino a raggiungere la regione più occulta e gelosa della persona umana e colpire la vera radice di ogni male che allontana da Dio.   Il cammino qui si fa in discesa, al centro di sé stessi: la cognizione di se stesso, delle proprie miserie, del proprio essere nulla, nulla potere, nulla sapere, è il fondamento su cui innalzare si deve la fabbrica delle virtù e della nostra perfezione…

    Ma sempre e solo sotto lo sguardo di Dio, se ciò non fosse lo spirito sarebbe indotto alla disperazione: sia fedele principalmente nel rinnegamento di sé, nel proprio disprezzo, nello starsene in un continuo annichilamento avanti a Dio. Sei quella che non sei! disse Dio ad un’anima grande, ed io sono colui che sono! Ego sum! Oh che nobile esercizio è mai questo di annichilirsi davanti a Dio in pura fede, senza immagini.

    C. Morire a tutto il divino

    Dio viene colto come propria e unica Origine, è lui la Meta più desiderata verso la quale dirigersi. E per raggiungerla l’anima deve giungere a rinunziare anche a quel divino che, per quanto in sé degno e sublime, non è però lo stesso Dio colto secondo lo spirito e la verità. Qui s.Paolo fa riferimento alle consolazioni, alle grazie e gioie spirituali che potrebbero attirare l’anima bloccandola però alle sole consolazioni di Dio, evitandole la tensione verso il Dio delle consolazioni: perciò Dio ai suoi servi legge due lezioni al giorno: d’afflizione e di ristoro. In altri termini  non rimiri né si attacchi ai doni per non perdere di vista mai il sovrano Donatore.

    A ciò si arriva tramite progressive purificazioni: il “nascosto tesoro” delle aridità, delle notti del senso e dello spirito: Quando, quando saremo morti a tutto per vivere solo al nostro Dio?… Oh morte preziosa, più desiderabile della vita! Morte che ci rendi divini, perché tutti trasformati in Dio per amore! Orsù, aspiriamo a questa morte a tutto il creato! Ma per morire vi bisogna patire molti dolori: chi puol mai esprimere i dolori che patiscono quei che muiono della morte corporale? Basta dire che sono tanti e sì grandi che fanno licenziare l’anima dal corpo. Così, in certo qual modo di dire, succede ai servi di Dio che muiono a tutte le consolazioni. Oh che desolazioni biosgna patire! Che aridità! Che malinconia! Che oscurità di mente! Che timore d’inganni! Che affanni per gli abbandonamenti, che pare alla’anima abbia perso Dio! Tutte queste sono disposizioni e mezzi per morire a tutte le creature e vivere solo a Dio e per Iddio…

    All’anima in questa fase di prova e purificazione si richiede fiducia, abbandono, perseveranza, umiltà e silenzio. Questa fase di segreta crocifissione interiore è già una prima partecipazione al mistero pasquale di Cristo. Essa infatti ha senso solo alla sua luce, allora l’anima può godere di stare sulla croce ma con Gesù Cristo.

    LA MISTICA RINASCITA

    Dato che la “morte mistica” non è mai definitiva né la “nuova vita” è mai perfetta, la “mistica rinascita” rappresenta una fase che si ripete, a mo’ di spirale, a livelli sempre più alti, secondo che l’azione della Grazia si fa più profonda e l’anima vi aderisce con docilità sempre più incondizionata.

    A. Il Verbo nell’anima e l’anima nel verbo

    Solo se il Verbo nasce, è possibile alla creatura una rinascita in lui e per lui. La nostra filiazione divina è resa possibile solo nel Figlio. Il Verbo rinasce infinite volte nell’anima allo scopo di parteciparla alla sua filiazione: Stia ben chiusa nel suo interno con profondissima cognizione dell’orribile suo nulla, ché in tal forma si celebrerà nel suo spirito la divina natività del Verbo divino umanato nel silenzio della notte della santa fede e del santo amore. Alla rinascita del Verbo, e siamo nella mistica giovannea della mutua reciprocità, nell’anima corrisponde un’effettiva rinascita dell’anima nel Verbo: Ogni volta che l’anima si raccoglie tutta in Dio, nel tempio interno del suo spirito, rinasce a nuova vita d’amore nel divin Verbo Cristo Gesù… celebri il santo Natale nell’interno del suo cuore dove il dolce Gesù nascerà spiritualmente e lei rinascerà a nuova vita d’amore in esso.

    B. L’anima rinasce “dentro di sé in Dio”

    Quale il luogo dove si svolge la mistica rinascita? La risposta del santo è chiara: Voi sapete per fede che Dio è tutto in voi e voi tutta in Dio, e più siete in Dio che in voi stessa. Se Dio dunque è nell’anima dove il Padre genera il Verbo,  e se l’anima è in Dio, dove essa è rigenerata, ne consegue che “luogo” è sia l’anima per Dio che Dio per l’anima: Oh fortunata l’anima che, ben purgata da’ vizi, astratta da ogni cosa creata e in un profondo annichilamento, se ne sta nella santa divina solitudine con profondo raccogliemento  interiore, poiché in tal deserto riposa in sinu Patris e rinasce ogni momento nel divin Verbo a nuova vita di santo amore, a vita divina.

    L’incontro con Dio e l’anima è il risultato della libera iniziativa di Dio che si dona, e della docilità e disponibilità dell’uomo che lo riceve in pura fede esso progredendo assume i caratteri di una compenetrazione: Dio in voi e voi in Dio… Dio si ciba dirò così, che non ho termini, Dio si ciba del vostro spirito e il vostro spirito si ciba dello spirito di Dio… Dio tutta vi penetra e voi tutta in Dio. L’anima allora si lascerà “incenerire” dal fuoco d’amore, si “scioglierà” come un granello di cera per la “gloria del Sommo Bene Iddio”.

    Così l’anima viene da lui paragonata al “romitorio” dove Dio si ritira, il suo “monastero”, è la “stalletta interiore”, un “giardino” da tenersi pulito netto e ornato di virtù. Ma è soprattutto il “tempio interiore” dove bisogna adorare l’Altissimo in spirito e verità.

    C.”In pura fede e santo amore”

    La mistica rinascita comporta non solo l’eliminazione di ciò che ostacola la perfezione della vita divina, bensì anche il cominciare a “parteciparla” in pura fede e santo amore. E’ questa una fase che configura alla vita del Risorto.

    Occorre “pura fede” perché in questo nostro tempo non si dà altra partecipazione alla luce del verbo che nelle tenebre della fede ove Iddio tiene il suo trono in una luce inacessibile. Per accedere a Dio bisogna che l’anima entri in questa nube oscura della non conoscenza: bisogna umiliarsi, annichilirsi ed abissarsi nello stesso nulla, spogliandosi affatto di tutte le immagini delle creature, e poi, in pura fede, abissarsi tutta in Dio, ed ivi riposarsi nel suo seno divino, ma senza nessuna immaginativa, perché Dio non cade sotto immagini, perché è uno spirito puirissimo e semplicissimo, abisso senza fondo d’infinite perfezioni!  Oh fede oscura, guida sicura del santo amore! Oh qual dolcezza la tua certezza mi reca al cuore.

    Il dinamismo per perseverare in questa fede oscura è dato dall’amore frutto dello Spirito, missione invisibile del Verbo.  E’ la caritas dunque che, come partecipazione dello Spirito del Figlio, realizza in grado eminente la “mistica divina natività” nel seno del Padre: Con sentimenti di totale annientamento e spogliamenbto si butti con ogni fiducia in quell’abisso d’ogni bene, e lasci la cura a quell’infinita bontà di fare la sua divina operazione nell’anima sua, cioè di trapassarla coi raggi della sua divina luce, di trasformarla tutta in sé per amore, di farla vivere del suo divinissimo Spirito, di farla vivere vita d’amore, vita divina, vita santa.

    LA VITA NUOVA

    La nuova vita inizia dal primo istante in cui l’anima, cedendo alla Grazia che la previene, muore a se stessa e rinasce nel Cristo. Vita che si evolve nella misura in cui la morte si fa più totale, per cui anche la rinascita avviene ad un livello sempre più alto di conformazione al Risorto.

    Quando Paolo della Croce allude ad una vita nuova allude ad una vita talmente esuberante nell’amore che, raggiunti livelli sempre più alti, rende partecipi della stessa opera stupenda del divino amore che è la Passione. Vertice dunque del cammino non è una vita nuova che vede l’anima finalmente unita a Dio, ma il vertice si apre ad una com-passione con il Cristo che continua a soffrire  nelle sue membra. L’anima porta a compimento ciò che manca ai patimenti di Cristo. S. Paolo della Croce addita una meta ancora più “vertiginosa” che s. Giovanni della Croce nella sua Salita al Monte Carmelo.

    A. Dialogo con Dio

    La nuova vita trova il suo normale e diretto orientamento nel dialogo con Dio che si attua nella preghiera  liturgica e in quella personale: in questa l’anima farà attenzione, dopo gli sforzi dell’iniziazione a secondare gl’impulsi dello Spirito santo e a lasciarsi guidare come vuole sua Divina Maestà.

    L’oggetto privilegiato per giungere a questa contemplazione è Dio Uno-Trino raggiunto attraverso la Passione quale sua rivelazione più estasiante, via sicura e porta che conduce all’intima unione con Dio.

    Paolo della Croce, per dua diretta esperienza mistica, non tralascia di sottolineare costantemente che la “via” è l’Uomo Cristo Gesù, Mediatore universale. Egli è certo che non si puole passare alla contemplazione della Divinità infinitissima ed immensissima, senza entrare per la porta dell’Umanità divinissima del Salvatore. E l’Umanità del Salvatore non contemplata nella sua gloria e potenza, ma nella umiliazione e sofferenza della Passione, perchè questa è l’opera più grande e stupenda del divino amore.

    Ora questa contemplazione dell’opera stupenda del divino amore non può lasciare indifferente l’anima: sarà una contemplazione dolorosa e amorosa nello stesso tempo.

    Qui si inserisce un ulteriore passaggio. L’anima che contempla l’Amore crocifisso viene spinta dallo Spirito a conformarsi partecipandovi attivamente a tale amore, il che significa donarsi agli altri fino a realizzare la misura indicata dal “comandamento nuovo”, ovvero fino ad amare il prossimo non solo “come se stessi”, bensì “come il Cristo” è giunto ad amarlo. Si supera ogni modo umano di intendere l’amore.

    Si condivide la sua passione che, in lui unico Giusto, assume il carattere di riparazione per gli altri. Sarà una com-passione animata dallo stesso amore del Figlio – e di Maria – per il Padre e i fratelli; amore che, raggiunta la perfezione, come procura la pena più crudele per l’offesa di Dio, così rende sensibili in modo terribilmente angoscioso alla sorte infelice del mondo. E’ questa la vetta della Salita al Calvario in cui si trova il purissimo patire senza conforto né dal Cielo né dalla terra… Sento che siete spogliata d’ogni sollievo e ne ringrazio Dio benedetto, perché ora vi assomigliate più allo Sposo divino, abbandonato da ogni conforto mentre stava moribondo in croce; ma in tale abbandono fece il gran sacrificio e lo perfezionò con l’ultime parole che disse, e furono: Padre, nelle vostre mani raccomando il mio spirito. E ciò detto spirò l’anima sua santissima nelle mani dell’eterno Padre, e compì l’opera dell’umana redenzione. Così fate voi.

    Si tratta di una “morte mistica” diversa dalla prima di carattere ascetico: si tratta di una morte riparatrice aperta al mondo. Si  fanno propri i patimenti di Cristo.

    Questa unione trasformante non segna il termine del cammino, ma è un nuovo avvio ad una serie di pene interne ed esterne, destinate a conferire il massimo contenuto a quella vita nuova d’amore che in conformità al crocifisso, avanza verso la desolazione del puro patire senza conforto. E’ la sequela perfetta.

    Paolo della Croce propone un cammino spirituale estremamente esigente compiuto ai piedi della croce, che ha per meta lo stesso Calvario di Cristo. Se si tiene indelebilmente scritta nel cuore la santissima vita, passione e morte del dolcissimo Gesù, sacrificato sul Calvario per la redenzione del mondo, non può non orientare il pellegrino verso questa sublime esperienza. E’ questo il fare Memoria Passionis

  • 18 Giu

    “Stabat”
    Gv 19,25-27


    di p. R. Cantalamessa

     

    Maria la “pura agnella”

    Come Cristo nel Getsemani e sulla croce così Maria ha bevuto anch’essa il calice della passione. Era accanto a Cristo in quelle ore di tormento: ha visto tutto, ha udito tutto… Sue sono le parole di Geremia: “O voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore” (Lam 1,12).

    Sotto la croce sono menzionate quattro donne. Tutte sono raccolte ai piedi del patibolo. Maria non era dunque sola, tuttavia ella è lì come “sua madre”: è una situazione totalmente diversa dalle altre donne. E’ il dolore della madre che si vede strappare l’unico figlio. Come ha vissuto Maria quelle ore di agonia accanto al Figlio?

    Di Maria non ci sono riferiti grida o lamenti, come quelli delle donne che accompagnano il corteo dei condannati (Lc 23,27). La presenza di Maria sotto la croce è avvolta da un profondissimo silenzio: le parole non bastano più, ora sono superflue.

    Maria fu tentata in quel momento nella fede? Lo fu come Gesù stesso fu tentato nel deserto. Una tentazione profondissima e dolorosissima perché aveva come motivo proprio il Figlio depositario di tutte le promesse.

    In quelle ore vede Gesù che non fa nulla. Liberando se stesso libererebbe anche lei da quel straziante dolore: ma non lo fa. Ma Maria non grida come tutti gli altri: “Scendi dalla croce; salva te stesso e me”! oppure: “Hai salvato gli altri, perché non salvi te stesso figlio mio?”. Non si sarà affacciato questo pensiero al suo cuore di madre?

    In quelle ore Maria sta accanto all’Agnello, come “pura agnella” (autore del III sec). Si unisce al sacrificio di Cristo, nella fede si abbandona alla volontà del Padre seppur così incomprensibile: “Anche la beata Vergine ha avanzato nel cammino della fede e gha conservato fedelmente la sua unione con il Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette ritta, soffrì profondamente col suo Figlio unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei stessa generata” (LG 58).

    Capiamo allora come Maria non sta “presso la croce” di Gesù solo in senso fisico, ma soprattutto in senso spirituale..

    Era unita alla croce di Cristo. Soffriva nel suo cuore quello che il Figlio soffriva nella sua carne. Si realizzano in profondità le parole profetiche del vecchio Simeone: “Una spada trapasserà la tua anima e renderà manifesti i pensieri di molti cuori” (Lc 2,35). Anche il cuore di Maria viene trafitto e svelato dal mistero della croce!

    Se a Cana Gesù dice: “Che c’è tra me e te, o donna, non è giunta ancora la mia ora” (Gv 2,4), sul Calvario l’”ora” è giunta, e lì c’è la Madre: tra loro un’intimissima comunione di sguardo, di fede, di amore, di sofferenza. Gesù è consolato dalla presenza della Madre e su di lei fissa lo sguardo per trovare forza. Quale mistero in quegli occhi che si incrociano?

    Sul calvario Gesù e Maria divengono una cosa sola: portano insieme il peso del dolore e del peccato del mondo. Gesù direttamente in quanto vittima di espiazione per i peccati di tutto il mondo, Maria indirettamente per la duplice unione, carnale e spirituale, con il Figlio.

    Insieme adorano la volontà misteriosa del Padre: Maria segue Gesù nella sua offerta: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 22,46).

    A lei viene chiesto un passo difficile: quello di perdonare. E’ Gesù che la invita a questo quando dice: “Padre perdonali, non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Capì in quel momento che il Padre le chiedeva di fare la medesima cosa. E la fece: perdonò gli uccisori del Figlio.

    Stare presso la croce di Gesù

    Maria è figura e specchio della Chiesa e di ogni anima credente.

    Nella “notizia” della sua presenza ai piedi della croce è contenuta una “parenesi”. Quello che avvenne quel giorno indica quello che deve avvenire ogni giorno: bisogna stare accanto a Maria presso la croce di Gesù, come ci stette il discepolo che egli amava.

    Facciamo attenzione a due aspetti della frase:

    primo: bisogna stare “accanto alla croce”

    secondo: “di Gesù”.

    Anzitutto ci viene detto che la cosa più importante da fare non è stare presso la croce “in genere”, ma stare presso la croce di Gesù. Non basta perciò stare presso la croce, cioè nella sofferenza, magari in modo eroico e silenzioso. L’aspetto decisivo è stare presso la croce “di Gesù”: perché ciò che conta e salva è la sua croce.

    E’ qui tutta la forza e fecondità della Chiesa e di ogni credente.

    Ciò significa entrare in un modo diverso di guardare la vita, il mondo, la gioia, il dolore, la sofferenza. La croce invita ad una conversione perché indica una strada che apparentemente è stoltezza e debolezza mentre in Dio essa è sapienza e forza.

    Qual è il segno e la prova che si crede realmente nella croce di Cristo, che “la parola della croce” non è, appunto, solo una parola, cioè un principio astratto, una bella teologia o ideologia, ma che è veramente croce? Il segno e la prova è prendere la propria croce e andare dietro a Gesù (Mc 8,34).

    È fare della propria vita “un sacrificio vivente”, accettando e ricercando la croce come partecipazione al mistero pasquale.

    La nostra partecipazione alla passione di Cristo non è ovviamente da porsi sullo stesso piano di quella stessa del Signore. Ma di accogliere il fatto che la fede va unita alla opere altrimenti è morta (Gc 2,14s).

    La fede stessa passando attraverso la croce viene sempre più purificata e autenticata.

    La nostra croce in se stessa non è salvezza, né potenza né sapienza: per se stessa è pura opera umana, o addirittura castigo. Ma diviene potenza  e sapienza di Dio in quanto ci unisce alla croce di Cristo non in modo intellettuale, spiritualistico o intimistico: ma in modo “carnale”. Entro “nello spessore della croce” con tutto me stesso.

     

  • 17 Giu

    ANCHE A TE UNA SPADA TRAFIGGERA’ L’ANIMA
    Lc 2,22-32

     

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Quaranta giorni dopo la nascita Maria e Giuseppe presentano Gesù al tempio.

    Il rito è semplicissimo e Luca vi dedica solo un versetto al posto dei venti dedicati a quello del Battista.

    Il testo può essere diviso in tre parti:

    1.       Rito, citazione della Legge (vv 21-24)

    2.       Simeone e il suo duplice oracolo (vv 25-35)

    3.       Anna profetessa (vv 36-38).

    Fusione di due riti

    Secondo il libro del Levitico quaranta giorni dopo la nascita deve aver luogo il rito della purificazione della madre (cfr. Lv 12,6-8). Tuttavia Luca si riferisce pure ad un altro rito, il rito del riscatto del primogenito che affonda le sue radici già nell’esodo. In questo caso è il padre che deve osservare il precetto (cfr. Es 13,1-2).

    Il nostro evangelista opera così una fusione dei due riti: Quando venne il tempo della loro purificazione, secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore (2,22).

    Interessante notare come venga offerta una coppia di colombe; era questa l’offerta dei poveri.

    ¤ Nel brano evangelico tuttavia l’accento non è posto sui riti in quanto tali, quanto piuttosto sulla presentazione al Tempio di Gesù stesso. Da notare che presentare può avere anche il significato di offrire in sacrificio. In tale prospettiva la presentazione è prefigurazione di quella donazione totale di Gesù al Padre che si compirà sulla croce. E Maria si unisce a questo sacrificio di offerta al Padre.

     

    ¤ In controluce scopriamo nel brano il riferimento, tipico in Luca, alla vicenda del grande profeta Samuele. Anch’egli fu “presentato” dalla madre Anna al tempio di Silo per essere offerto a JHWH (cfr. 1 Sam 1,22-28).

    L’episodio del ritrovamento di Gesù nel Tempio metterà successivamente in luce che Gesù, come Samuele, è votato interamente al “Padre suo”.

    ¤ Luca suggerisce pure un altro tema di grande respiro biblico: egli vede nella presentazione di Gesù il concretizzarsi di quell’ingresso di JHWH nel suo Tempio già preannunciato dalla predicazione profetica: … entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate, l’angelo dell’alleanza che voi sospirate, ecco viene, dice il Signore degli eserciti (Ml 3,1).

    Un duplice oracolo

    Nella seconda parte del brano entra in scena la veneranda figura di Simeone. E’ orami molto vecchio ed è un testimone di quell’attesa fiduciosa che alimentava la fede di Israele.

    Egli attendeva la consolazione ovvero l’adempimento delle promesse, l’inaugurazione dei tempi messianici.

    Come già Elisabetta, con la grazia dello Spirito Santo che lo riempie, riconosce nel Figlio di Maria l’Atteso: il Messia sospirato.

    ¤ La rivelazione ora non avviene nella grotta o in una casa, ma nel tempio, nel luogo centrale della fede di Israele e della presenza di Dio. I destinatari sono ancora gli anawim, i poveri del signore che attendevano nella preghiera e nel digiuno il compiersi della promessa.

    ¤ Simeone può dunque ora benedire Dio pronunciando parole colme di gioia, riconoscenza e abbandono: Ora lascia o Signore che il tuo servo vada in pace… i miei occhi hanno visto la tua salvezza (vv 29-32).

    ¤ Simeone pronunzia un duplice oracolo: uno su Gesù e uno su sua madre.

    Anzitutto in quell’inerme bambino Simeone vede la rovina e la risurrezione di molti in Israele (v. 33). La prima profezia è un oracolo di “divisione” perché l’avvento di Gesù opera un discernimento nella storia divenendo segno di contraddizione.

    ¤ Ma veniamo al secondo oracolo, quello su Maria.

    La contraddizione unirà la madre al Figlio nel medesimo destino: anche a te…

    La tradizione ha letto in molti modi questo passo evangelico; ad esempio come un annuncio di morte violenta, di sofferenza. Origene vede in quella spada trafiggente il dubbio, altri la lotta contro l’ “antico serpente”. In ogni caso è un testo che sta alla base della devozione a Maria Addolorata trafitta dal dolore sotto la croce del Figlio suo: Stabat Mater dolorosa juxta crucem lacrimosa… Cuius animam gementem contristatam et dolentem pertransivit gladius.

    Maria: la Figlia trafitta di Sion

    Il secondo oracolo riecheggia il “canto della spada” di Ez. 14,17: Se io mandassi la spada contro quel paese e dicessi: Spada percorri quel paese…

    La madre del messia è la prima ad essere colpita. Ella è nel cuore della battaglia pro o contro Gesù. E’ la “Figlia di Sion” divisa, lacerata nel più profondo (cfr. Is 8,14; 28,16; Lc 20,17).

    Ella si situa al centro della divisione dei cuori. La spada annunziata da Cristo trafiggerà anzitutto lei come madre e come discepola.

    La ferita nel cuore di Maria produce una nascita nuova: Maria è la madre del nuovo Israele nato da quella contraddizione  che è la croce (Cfr. Gv 19,26).  Madre della Chiesa ella è madre nella fede, mediante la sua sofferenza causata dal suo amore per il Figlio.

    Deve “perdere il Figlio per ritrovarlo”.

    La Legge della spada di cristo è la legge del perdere per trovare, del distacco che lentamente Gesù insegnerà a sua madre (cfr. 2,33.34; 2,50; 18,34; Mc 3,21.31.35; Gv 2,4).

    Proprio grazie a questo pellegrinaggio nella fede, messa alla prova Maria diviene figura della Chiesa.

    Ella è modello di ogni discepolo di Gesù, in quanto la contraddizione che ella subì nel suo intimo prefigura il destino di tutti coloro che come Lei accolgono la Parola che è spada  a doppio taglio nel loro cuore (cfr. Lc 8,21;21,16).

  • 16 Giu

    Videro il Bambino e sua Madre
    Lc 2,1-7


    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Accostiamoci in punta di piedi al mistero dell’amore di Dio, rivelatosi nell’Incarnazione del verbo nel seno della Vergine Madre.

    Noi professiamo la fede in questo mistero nel Credo: Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della vergine Maria e si è fatto uomo.

     

    Maria, con il suo appellativo più proprio di “vergine”, appare qui, nel cuore della fede cristiana, inscindibilmente unita al mistero di suo Figlio. Ella appartiene così, in modo tutto proprio, alla storia della salvezza.

    Le coordinate lucane

    Il testo evangelico nel quale più chiaramente appare l’unione inscindibile di Maria con Cristo è il cosiddetto “vangelo dell’infanzia” narrato da Luca nei primi capitoli del suo vangelo.

    L’Incarnazione del verbo per essere veramente tale deve poter iscriversi in quelle coordinate proprie dell’esistenza di ogni uomo: quelle dello spazio e del tempo.

    Ed  è appunto la premura di Luca nel raccontare l’incarnazione.

    ¤ La coordinata dello spazio è data da Betlemme, la “Casa del Pane”, un villaggio famoso per la storia biblica per aver dato i natali al grande re Davide, e che, secondo l’oracolo profetico di Michea doveva dare i natali anche al nuovo Davide, il Re-messia: E tu Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore di Israele (5,1).

    E’ per questo che Luca chiama Betlemme con l’appellativo riservato generalmente alla città santa di Gerusalemme, Città di Davide.

    Betlemme, il piccolo villaggio a sud di 7 chilometri da Gerusalemme, è destinata a divenire in qualche modo il centro del mondo, dello spazio, luogo di congiunzione tra il mondo di Dio e quello dell’uomo.

    L’insignificante mangiatoia, in Cui Maria avvolge in fasce il Figlio, è il centro dell’universo (cfr. L’icona della Natività)., luogo in cui riposa nascosta la gloria vivente di Dio, trono del nuovo Davide. Sono ancora le scelte estrose di Dio.

    ¤ La seconda coordinata è data dal Tempo. Un tempo ben preciso, scandito da nomi e fatti storici. Luca ci parla di un primo censimento, ci informa su un certo governatore Quirino e dell’imperatore Cesare Augusto. Nomi e fatti che la storia profana conosce.

    La storia del Dio incarnato si innesta silenziosamente nella storia dell’umanità, per trasformarla ed innalzarla, per inserirla nella salvezza che Dio vuole donare all’uomo.

    Così lo spazio e il tempo,  circoscrivono il “fatto dell’evento” impedendogli di sfuggire nel mitico, nell’ideologia.

    Diede alla luce il suo Figlio…

    La nascita di Gesù avviene di notte. “Questa notte che sboccia senza fretta è il giorno dell’Altissimo… il primo giorno del mondo redento” (Sertillanges).

    Secondo la tradizione giudaica tutti i grandi eventi accadono di notte: la notte della creazione, della chiamata di Abramo; dell’esodo, della nascita del Messia.

    Questa notte è dunque giunta e avvolge di luce il mondo.

    ¤ Inserirei a questo punto un’ulteriore coordinata che fa sì che l’incarnazione sia veramente tale. Dio per farsi uomo ha bisogno di un grembo concreto, di una madre, ha bisogno della protezione e dell’educazione di un padre, di una famiglia che lo accolga, lo aiuti a crescere.

    Il Figlio di Dio si è fatto realmente “simile agli uomini” (Fil 2), è Figlio dell’Uomo.

    Questa piccola famiglia inizia così la sua storia, così simile alla storie delle nostre famiglie.

    ¤ In quella notte Maria e Giuseppe non trovano alcun riparo, il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. Egli viene non accolto iniziando l’apprendistato del rifiuto che culminerà nella sua morte in croce fuori delle mura della città.

    A quella piccola famiglia non rimane che accontentarsi di una delle tante grotte sparse nei dintorni, destinate al ricovero degli animali.

    ¤ La nascita di Gesù è descritta da Luca con la più grande semplicità. Maria si trova sola, al contrario di Elisabetta circondata dai parenti. Accanto a questa semplicità, Maria vive l’esperienza della solitudine e della più grande povertà.

    ¤ In questa pericope Luca sottolinea ogni dettaglio. Come non pensare ad esempio a quelle fasce con cui Maria avvolge il neonato, non sono forse una discreta prefigurazione di quelle fasce intrise di sangue che avvolgeranno un venerdì il corpo martoriato di quello stesso neonato divenuto adulto?

    L’iconografia orientale ha saputo esprimere tale concetto in forma pittorica: la grotta diviene la tomba immersa nelle tenebre, il bimbo è avvolto da fasce mortuarie. Il mistero dell’incarnazione fa riferimento inscindibile con il mistero pasquale di morte e risurrezione.

    ¤ Il mistero che si compie in quella notte è avvolto in un clima di grande silenzio: è il clima del mistero, dell’adorazione e della contemplazione.

    Il silenzio sarà rotto solo dall’inno angelico, annuncio al mondo della pace messianica donata in cristo a tutti gli uomini “amati da Dio”.

    Il silenzio di Maria

    Luca ama descrivere i sentimenti, l’intimo dei suoi personaggi. In questo brano con un breve ma significativo passaggio, ci dona di scoprire l’intimo della Madre del Figlio dell’Altissimo. Maria in tutto il brano evangelico non parla. Il suo silenzio è fatto di ascolto, di accoglienza, di docilità: Maria da parte sua serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore (v. 19; 2,51).

    ¤ Richiamando la parabola del seminatore, Maria rappresenta chi ha ascoltato la Parola e la conserva in un cuore onesto e buono (Lc 8,15).

    Più che “conservava” sarebbe meglio tradurre letteralmente dal greco con metteva insieme, cioè collegava i fatti, le parole, le vicende, scorgendovi un disegno un significato più profondo ovvero l’azione divina.

    Maria diviene così immagine del sapiente, di colui che, andando al di là del velo delle cose, dell’apparenza, cerca di penetrare in un silenzio meditativo, nei segreti di dio.

    Tale penetrazione equivale a scoprire la salvezza che Egli va offrendo giorno per giorno.

    Una collisione per un abbraccio

    Terminiamo con una citazione del filosofo S. Kierkegaard: I due mondi da sempre separati, il divino e l’umano, sono entrati in collisione in Cristo. Una collisione non per una esplosione, ma per un abbraccio.

    E’ questo l’abbraccio espresso in modo così intenso e vibrante nell’icona della tenerezza. Il volto del Bambino e della Madre, le quattro mani, sono fusi insieme in un silenzioso abbraccio, in un dialogo fatto non di parole ma di un amore che si dona sino in fondo, un amore aperto a chi accoglie l’invito ad entrare in quel medesimo abbraccio (Maria ci guarda).

    L’abbraccio è la sintesi perfetta del mistero dell’Incarnazione: Dio facendosi uomo, non si impone, non violenta la libertà, non costringe ad entrare in comunione con lui; egli si fa piccolo per invitare, domandare, implorare da noi il lasciarci da lui abbracciare e amare.

    Solo così nella libertà del suo sì, l’uomo può ritrovare, secondo l’espressione di Evagrio l’”immagine che Dio aveva nel crearlo”.

  • 15 Giu

    LA VISITAZIONE
    Lc 1,39-56

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Dopo i due dittici delle annunciazioni, Luca riferisce la visita che Maria compie alla parente Elisabetta.

    E’ un racconto gioioso permeato da una atmosfera di preghiera.

    Il vangelo sottolinea anzitutto la fretta di Maria nel recarsi da Elisabetta: è questo il segno della sua totale disponibilità e della  sua incrollabile fede.

    I genitori di Giovanni Battista abitavano, secondo la tradizione a est di Gerusalemme, a sei chilometri un villaggio chiamato ‘Ein Karim posto sulla montagna.

    Nazaret distava circa 150 chilometri: un viaggio a quei tempi lunghissimo e faticoso, circa tre giorni di marcia.

    L’incontro fra le due madri “impossibili” è denso di calore umano e spirituale. Da questo incontro sgorga la gioia e la preghiera.

    Maria porta in sé il grande segreto. Un segreto che ha cambiato radicalmente la sua vita, è un segreto meraviglioso e nello stesso tempo quasi temibile, inenarrabile, agli occhi degli uomini incredibile ed incomprensibile. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto e debole…

    Maria come ogni madre sente il bisogno di annunciare ciò che porta in sé, la sua maternità è fonte di gioia ma nello stesso tempo di travaglio ed interrogativi. Maria si trova infatti sola a portare il peso del mistero.

    Ella lo comunica all’umile e dimenticata Elisabetta, la sterile già al sesto mese di gravidanza.

    Entriamo con discrezione nel testo.

    Appena Elisabetta  ebbe udito il saluto di Maria, il bambino dentro di lei ebbe un fremito ed essa fu colmata di Spirito santo.

    Letteralmente Giovanni fece le capriole (cfr. Gn 25,22): è la gioia  messianica perché Dio è venuto a visitare il suo popolo (v. 68). Giovanni esprime la sua gioia profetica non a parole ma con tutto il essere.

    La preghiera di Elisabetta

    vv. 42-45

    E’ anche in un certo modo la preghiera del piccolo Giovanni pieno di Spirito profetico. Egli inizia a profetare ancor prima di vedere la luce.

    Elisabetta risponde al saluto di Maria. Ora un saluto ha lo scopo di dare all’altro una sua identità che viene da chi saluta.

    Ora la preghiera di Elisabetta si apre con una benedizione entrata poi nell’Ave Maria: Benedetta tu fra le donne…SI tratta di una proclamazione solenne nella quale è riconosciuta l’azione di Dio (cfr. Gdc 5,24; 13,18; Dt 28,4).

    Elisabetta riconosce in Maria la madre del mio Signore (cfr. 2Sam 6,9): Maria è proclamata madre del Figlio di Dio risorto. Ella è per grazia capace di riconoscere il mistero di Maria e la presenza in lei – nuova arca dell’alleanza – del Signore.

    v.45

    Beata te… E’ una beatitudine. Maria è la credente per eccellenza, a differenza dell’incredulo Zaccaria. La maternità fisica (v 42) e la maternità spirituale (v 45) sono qui, come pure in Lc 8,21 e 11,27-28, inscindibilmente unite.

    Per Luca non esiste contraddizione tra colei che ti ha portato nel grembo e ti ha allattato e colei che ha creduto alla parola di Dio.

    La preghiera di Maria

    E’ un testo antologico, nel quale scopriamo come la preghiera deve trovare la sua fonte nella Scrittura. Lo stile è quello dei salmi.

    Luca attribuisce tale preghiera a Maria in quanto “Figlia di Sion”, che riassume in sé tutti i valori spirituali del popolo eletto.

    Il filo conduttore è l’amore di Dio per la povertà-umiltà, l’amore di Dio per gli anawim. Maria si colloca nella loro schiera.

    Nel Magnificat intravediamo in controluce un’altra preghiera, nata dal cuore di una donna che non poteva avere figli: è il cantico di Anna (1 Sam 2), ma scopriamo pure riferimenti nei libri profetici (Ml 3,12; Ab 3.18)..

    Potremmo dividerlo in due strofe con due protagonisti: Maria e Israele.

    Ogni strofa è conclusa dal memoriale dell’amore di Dio:

    v. 50: la sua misericordia di generazione in generazione su quelli che lo temono.

    V. 54b-55: ricordandosi della sua misericordia come aveva promesso ai nostri padri a favore di Abramo e della sua discendenza per sempre.

    La prima strofa contrappone Maria umile all’onnipotenza di Dio.

    La seconda strofa, parlando di Israele, allinea una serie di parallelismi antitetici:

    forza di Dio / orgogliosi

    potenti / umili

    affamati / ricchi.

    Scopriamo altri preziosi elementi: il Magnificat è invito a scoprire il Dio della gioia e del riso (Gn 18,12-13; Pr 8,30-31; Gb 40,29). Il rapporto con Dio deve essere gioioso, giocoso. Il gioco è visione opposta all’economia del mondo, è contemplazione, speranza e gioia.

    Dio in qualche modo gioca con Maria, come con tutti coloro che a lui si abbandonano.

    L’uomo trova così la gioia nel dare, nella contemplazione, nell’essere lode vivente con tutto il suo essere: Oh Signore, io sarò la tua musica (J. Donne).

    Agli occhi degli uomini Dio compie sempre scelte estrose. E’ la logica di tutta la storia della salvezza, sino ad arrivare al suo culmine che è la croce.

    Il Magnificat è il canto della speranza. Maria guarda la storia partendo, non guardando al mondo così com’è, dalla speranza riposta in Dio.  Esso si colloca così nella linea delle beatitudini.

    Nella sofferenza Maria con tutti i poveri del regno attende nella speranza il ritorno di Dio e la trasformazione dei cieli e della terra. In Lei questa venuta è già iniziata, ed è per questo che ella può celebrarla e cantarla già al presente. Ella infatti ha già sperimentato la salvezza in Dio “mio salvatore”: Maria è la prima tra i salvati.

    In tal senso Maria parte dalla sua esperienza personale per guardare la realtà che la circonda (Non si può conoscere il Dio del Vangelo se uno non fa esperienza della salvezza sua personale, C.M.Martini).

    Nel Magnificat c’è la certezza che Dio ribalterà le sorti di questa “sgemba storia umana” (G: Ravasi).

    In questo senso Il cristiano è un uomo che aspetta (H. Newmann).

    v.56

    Si fa riferimento a 2Sam 6,11. Elisabetta è benedetta e gioiosa per la presenza dell’Arca dell’Alleanza.

    Veramente Dio è ora presente in mezzo al suo popolo che è venuto a salvare.

    Linee di riflessione

    – Dio viene a visitare il suo popolo. E’ lui a prendere l’iniziativa. La salvezza promana sempre dall’amore di Dio che sempre ci precede. Maria è lo strumento attraverso il quale Dio entra nella storia e si fa incontro al suo popolo.

    – La visita di Dio è evangelo, fonte di gioia. Maria è portatrice della grazia e della gioia.

    – Dall’incontro con Dio, dal riconoscere le sue opere sgorga il ringraziamento e la preghiera di lode.

    – Dio si rende prossimo, vicino al suo popolo in modo concreto e fattibile. Maria è segno di questa concretezza d’amore di Dio.

    Dall’enciclica Redemptoris mater, 36

    Nella visitazione la fede di Maria acquista una nuova consapevolezza ed una nuova espressione. Le parole usate da Maria costituiscono una ispirata professione di questa fede, nella quale la risposta alla parola della rivelazione si esprime con un’elevazione religiosa e poetica di tutto il suo essere verso Dio.

    In queste sublimi parole traspare la personale esperienza di Maria, l’estasi del suo cuore. Splende in esse un raggio del mistero di Dio, la gloria della sua ineffabile santità, l’eterno amore che, come un dono irrevocabile, entra nella storia dell’uomo

    Da CdA, 777

    Maria non si ripiega su se stessa, ma va a far visita a Elisabetta sua parente. La prima evangelizzata diventa la prima evangelizzatrice: proclama le meraviglie del Signore, con la presenza gioiosa e santificante, il cantico di lode e il servizio.

  • 14 Giu

    Lode alla donna forte
    Lectio di Giuditta 8,1-35 (passim)

     

    di p. Attilio Franco Fabris

    La città di Betulia è assediata dall’esercito di Oloferne generale delle truppe assire. Gli abitanti sono angosciati perché sono all’estremo e prevedono ormai imminente la catastrofe, non c’è più acqua! L’angoscia percorre le strade e i cuori di tutti e fa prendere decisioni insensate. La fede vacilla e si giunge a voler mettere alla prova Dio stesso. Solo una donna rimane ferma e sicura di sé; la sua vita poggia tutta nel Signore salda roccia che mai vacilla.

    Anche oggi esistono nella Chiesa e nel mondo tante “Betulie”: ovvero situazioni in cui ci si sente assediati, finiti e rischiamo di fare a nostra volta scelte sbagliate dettate dalla paura. Occorre una saldezza e un coraggio che il nostro cuore da solo non può darsi.

    Domandiamo lo Spirito di fortezza e di sapienza per i tanti assediati di oggi e invochiamo nuovi profeti che sappiamo intraprendere vie nuove di salvezza che la nostra cecità non riesce a vedere:

    Io so, o Padre, che mi stai vicino: con tutto lo slancio del mio essere ti supplico di accordarmi il tuo Spirito santo. Grazie a lui, sarò liberato dalla mia fragilità. Il tuo Spirito mi farà amare Te con tutta la mia vita: egli è la radice di ogni vero amore. Se tu non vegli su di me, io sono una creatura perduta! Ti supplico, Padre amato: riversa nel mio cuore lo Spirito santo, perché la sua presenza mi ristori e mi riscaldi con l’Amore. Allora potrò con fermezza rischiare la mia vita su di te, amarti con tutto il cuore, con la mia anima, con il mio respiro e con tutte le mie forze” (s. Tommaso Moro, scritta nella Torre di Londra pochi mesi prima della sua esecuzione capitale 1535).

    Lectio

    Difficile è datare storicamente il nostro autore e definire il genere letterario a cui appartiene il libro da lui composto. I dati cronologici presentati nel testo sono inconciliabili con quelli della storia: nel personaggio nemico di Israele che è il re Nabucodosor re degli assiri il nostro autore vuole concentrare simbolicamente tutto ciò che sempre rischia di distruggere l’opera di Dio e la fede del suo popolo.

    Per ben sette capitoli il nostro autore si dilunga a narrare la drammatica situazione in cui il popolo di Betulia (città inesistente!) si trova a dover far fronte. L’assedio dell’esercito nemico diviene giorno per giorno sempre più insostenibile. La penuria d’acqua in città ha ridotto i suoi abitanti allo stremo e in questa situazione disperata hanno costretto i capi ad un ultimatum di cinque giorni rivolto a Dio stesso: o egli interverrà donando l’acqua oppure si consegneranno tutti al nemico (7,30-31). Tale prova a cui i capi, stretti dalle proteste del popolo, vogliono sottomettere Dio, fissandogli un termine per essere liberati è naturalmente una pretesa assurda dettata da una mancanza di autentica fede.

    È in questo momento così teso che entra all’improvviso in scena una donna: Giuditta (il nome significa “giudea”). Dal nostro testo ci viene presentata come un’autentica figlia d’Israele, alla pari di altre grandi donne che l’hanno preceduta e che hanno operato salvezza per il loro popolo quali  sono state Giaele e Debora (Giudici 5). La genealogia di Giuditta – la più lunga riservata ad una donna nella bibbia – risale fino al patriarca Giacobbe-Israele (v.1). Suo marito, grande proprietario terriero morto per un’insolazione durante la mietitura, era della sua stessa tribù (v 2-3). Un tale matrimonio denota una stretta osservanza della Legge tipica del post esilio (cf Tb 5,11). Giuditta dunque è rimasta vedova repentinamente e in giovane età e senza discendenza di figli: la sua maternità si eserciterà nei confronti dell’intero popolo di Israele. Nei vv. 4-8 Giuditta viene presentata come donna dedita ad una saggia amministrazione dell’eredità del marito, la sua vita di fede è intensa, fatta di ritiro, penitenza, digiuno e preghiera. In pochi tratti è dipinta magistralmente nel ritratto ideale della donna israelita che unisce fascino e spiritualità, ricchezza e bellezza, benessere e fede.

    Giuditta, viene a conoscenza della decisione dei capi della sua città e con un’autorevolezza inusuale per una donna, li convoca a casa sua per discutere la stolta decisione che hanno preso. Le sue parole, dettate dalla sua “sapienza” (v.29) e dai toni che possiamo rintracciare nei testi profetici, sono anzitutto di rimprovero e ammonizione: “Ora, chi siete voi che avete tentato Dio in mezzo ai figli degli uomini? Certo, voi volete mettere alla prova il Signore onnipotente, ma non comprenderete mai nulla” (vv. 12-13). Essi sono caduti nell’insipienza di voler tentare Dio, quasi sfidandolo, mettendolo alla prova affinché operi nei termini e nei modi da loro prestabiliti: l’uomo di fede al contrario deve confidare senza condizioni nel Dio che salva: “Voi non vogliate ipotecare i disegni del Signore, nostro Dio, perché Dio non è come un uomo cui si possano fare delle minacce, o un figlio d’uomo sul quale si possano esercitare delle pressioni” (v. 16).

    Le sua parole vogliono riconfermare e ribadire ai capi e al popolo il primato del Signore che dona la sua salvezza nella sua liberalità e non secondo “ultimatum” dell’uomo dettati dalla sfiducia: “Se non vorrà aiutarci in questi cinque giorni, egli ha pieno potere di difenderci i giorni che vuole” (v.15).

    Giuditta nel suo discorso fa leva anche sul tema della responsabilità della gente di Betulia nei confronti di tutto il rimanente popolo di Israele: la loro resa o la loro resistenza avrà una ricaduta su tutti: “Perché se noi saremo presi, resterà presa anche tutta la Giudea e sarà saccheggiato il nostro santuario e Dio chiederà ragione di quella profanazione al nostro sangue” (v. 21)  Le scelte operate dall’uomo non sono mai senza conseguenze né per sé né per gli altri.

    Quello che il popolo di Betulia sta vivendo è una grande e dolorosa prova ma è necessario leggere tale situazione alla luce della parola per non cadere nella disperazione: le prove a cui si va incontro non sono che una purificazione da accogliere umilmente: “Ringraziamo il Signore nostro Dio che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri” (v. 25). Giuditta rinvia dunque alla memoria dei patriarchi (v.27); tutti costoro infatti sono stati provati da Dio rimanendo fedeli. Così sul loro esempio, tutti sono invitati alla fiducia sostenendo la prova purificatrice permessa da Dio: “È a scopo di correzione che il Signore castiga quelli che gli sono vicini” (v. 27; cfr Dt 8,2-5).

    Una cosa è certa: se Israele si manterrà fedele all’alleanza Dio non potrà non intervenire a salvare il suo popolo donandogli ancora salvezza e colpendo l’oppressore.

    La reazione dei capi al discorso della donna è enigmatica. Il capo politico della città che è Ozia reagisce in modo ambiguo: anzitutto scarica la colpa della decisione sul popolo (v. 30) poi dice di affidarsi alle preghiere e alla saggezza di Giuditta (v.32) ma non si comprende se queste parole sono dette con convinzione oppure con ironia. Da parte dei capi c’è ancora la pretesa che la salvezza giunga da Dio nel modo da loro già prestabilito (v.31).

    A questo punto Giuditta trova il coraggio di staccarsi da queste esitazioni e compromessi che denotano solo calcoli umani. Per ben otto volte (nei cc. 8-16)  ripeterà l’espressione: “per mano mia il Signore visiterà Israele” indicando che attraverso di lei Dio donerà la salvezza al suo popolo. L’espressione ha un senso profondo: la “mano” di Mosè, nel libro dell’esodo, è lo strumento che Dio usa per agire (“visiterà”) nella storia (Es 9,22-23;…). Ora Dio usa la mano di una donna per ripetere le gesta gloriose di un nuovo esodo. Sappiamo dal proseguo del racconto che Giuditta “uscirà” (v.33) dalla città per entrare nell’accampamento nemico. Con uno stratagemma tutto femminile sedurrà il generale Oloferne, e al momento propizio, nella notte, gli mozzerà il capo con una spada. Le truppe senza più comandante si disperderanno e la città di Betulia e tutto Israele ritroverà la sua libertà.

    Questo piano d’azione non è rivelato da Giuditta a nessuno, è un segreto! Il che sta ad indicare che ella vi vede una collaborazione col nascosto disegno divino. Ai capi della città domanda solo fiducia.

    Meditatio

    L’istituzione, nel brano biblico commentato, fa una ben magra figura. I tre capi di Betulia  sono disposti a tradire il fondamento della fede israelita quando sono messi di fronte a scelte difficili e rischiose per la loro posizione: tra assalitore e assaliti essi cercano in ogni modo di salvare se stessi e la situazione a scapito dei valori più sacri. Per far fronte al malumore e all’insoddisfazione dei più l’istituzione corre sull’onda del “political correct” che non scontenta nessuno mancando tuttavia allo scomodo servizio alla verità.

    Certamente non è facile la situazione dei capi di Betulia che li porta ad una decisione inaccettabile e che non esitano a scaricare sul popolo (v. 30). D’altra parte il popolo è disorientato, in preda al terrore dell’imminente assalto dei nemici. Ma quel che vale la pena sottolineare è che qui si assiste all’ennesimo palleggio delle responsabilità in cui man forte e ultima parola l’ottiene la paura e più precisamente la paura di perdere. Quell’ultimatum posto a Dio non è certo atto di fede ma estremo e disperato tentativo di rimandare il problema al fine di mantenere lo “status quo” il più a lungo possibile a costo di piegarvi addirittura il Signore.

    La parola, mediata da Giuditta è quella che sempre i profeti hanno annunciato ad Israele quando si è trovato in situazioni simili: un invito alla fiducia, alla speranza, “facendo memoria” delle liberazioni-esodi operate ripetutamente da Dio: “attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui” (v. 17).

    Giuditta appare donna determinata, sicura, anticonformista, autorevole, saggia. Ha del “carisma” si direbbe oggi! Pur vedova e senza figli non è una donna che si è lasciata trascinare nel rimpianto e nel dolore a causa della sua triste situazione, non ci appare ripiegata nella sofferenza come sarebbe naturale attendersi da chi improvvisamente si trova a dover far fronte alle improvvise “disgrazie” della vita. Si direbbe in termini psicologici che abbia attraversato brillantemente la fase dell’elaborazione del suo lutto riaprendosi alla vita e a nuovi valori. Punto di forza è sicuramente il suo agganciarsi ad una fede autentica in cui essa trova una sicurezza e un’audacia inusuali: Giuditta è donna di preghiera e di penitenza, e dotata nel medesimo tempo anche di un forte senso pratico (vv 7-8) che saprà dimostrare anche in questa situazione. Dimostra in effetti di aver mantenuto un sano rapporto con la realtà che la circonda, il suo sguardo e il suo cuore abbracciano la sorte del popolo di Betulia  e anche di tutto Israele (v. 24), e in questo “prendersi a cuore” il suo popolo essa vive una nuova maternità e sponsalità più allargata e spirituale. Per questo suo “figlio” e “sposo” sarà disposta a mettere a repentaglio la sua stessa vita perché se ne sente responsabile a differenza dei capi.

    Il suo discorso assume i toni forti della profezia e in questa libertà di “spirito” Giuditta non teme di criticare aspramente la decisione presa dall’istituzione definendola stolta ed insensata e andando coraggiosamente, unica fra tutti perché unica “saggia” (v. 29) controcorrente.

    Dobbiamo riconoscere la grande valenza che assume all’interno della rivelazione biblica il racconto di Giuditta: il nostro autore non teme di affidare ad una donna un ruolo così determinante e inusuale. D’altra parte il genio femminile è legato all’intuizione, è attento ai profondi risvolti della realtà e della vita, sa cogliere una diversa verità nella realtà che il più delle volte ci sfugge ed è dotato di un senso pratico immediato che a volte all’uomo manca. La donna, fatta per accogliere e donare la vita, è più portata al dono di sé, al coraggio di perdersi per il bene dell’altro. L’uomo, che simbolicamente raffigura l’istituzione e la legge, è più portato alla prudenza, al calcolo, alle attente valutazioni, nelle situazioni complesse rischia di perdersi nei suoi interminabili ragionamenti. Giuditta non si pone a far calcoli elaborando strategie di autodifesa ma si pone totalmente in gioco con quello che è ed ha; più disarmata di Davide perché senza fionda e di Giuda Maccabeo perché senza armate ella ritenendo con certezza che Dio può operare salvezza e giustizia anche attraverso di lei si rende disponibile usando l’unica “arma” che possiede ovvero la sua femminilità unita alla fede (v.33).

    L’incontro tra istituzione e profezia nella scrittura e nella storia appare quasi sempre conflittuale.  Questa tensione irrimediabile assume tuttavia un valore pedagogico per entrambe. Le spinte sono  diverse: l’istituzione è conservatrice per natura e compito, la profezia è tensione in avanti, al nuovo anche a costo di veder distrutto quel che si è faticosamente realizzato. La profezia, con il suo “occhio spirituale” vede già realizzato quel che l’occhio “carnale” non vede ancora o ritiene impossibile. Una sana dialettica tra entrambe queste tensioni è necessaria ad un discernimento corretto e prudente dinanzi ai problemi a cui occorre dare risposta.

    L’incontro tra Giuditta e i capi non si risolve apparentemete in conflitto, ma a ben vedere sembra che ben volentieri i capi vedano la responsabilità della situazione ricadere finalmente su altri (v.35). E’ questo un altro infelice modo di risolvere la tensione tra istituzione e carisma! Solo alla fine – come d’altronde quasi sempre avviene – l’istituzione riconoscerà l’opera di Dio: “Appena furono entrati in casa sua, tutti insieme le rivolsero parole di benedizione ed esclamarono al suo indirizzo: «Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu magnifico vanto d’Israele, tu splendido onore della nostra gente. Tutto questo hai compiuto con la tua mano, egregie cose hai operato per Israele, di esse Dio si è compiaciuto. Sii sempre benedetta dall’onnipotente Signore». Tutto il popolo soggiunse: «Amen!»” (15,9-10).

    Come non ribadire a questo punto che nella rivelazione biblica Dio si compiace sempre di scegliere strumenti umanamente inadeguati perché poveri e deboli. Qui sta la sapienza divina che fa risplendere la sua potenza nella debolezza dell’essere umano, in questo caso di una donna (cf 1Cor 1,27). In Giuditta appare la forza dirompente della profezia nei confronti dell’istituzione (sia israelita come assira!) che vorrebbe preservare o allargare il proprio potere (i capi attraverso uno stolto ultimatum a Dio, Nabucodonosor attraverso le sue strategie politiche e militari). La donna debole esce vincitrice dal confronto con entrambe queste logiche ristrette. Ella infatti si pone su un altro livello e su un orizzonte più vasto ovvero quello della fede nel Dio sposo fedele e liberatore del suo popolo. Per l’uomo e la donna carismatici vi è sempre un’alternativa alla soluzione dei problemi dettata dalle visioni spesso difensive dell’istituzione. A quest’ultima l’umiltà di riconoscere umilmente l’indicazione coraggiosa del profeta, anche se apparentemente e umanamente stolta e debole. Al profeta l’umiltà del dialogo e il coraggio della parola scomoda unita all’obbedienza allo Spirito vagliato nel discernimento attento della comunità e dei suoi responsabili.

     

    Oratio

     

    Difficile giocarsi la vita per il bene altrui, prendersi a cuore concretamente l’altro, avere una parola forte e coraggiosa, affidarsi unicamente nella forza che proviene dall’alto. Più facile rifugiarsi nella sicurezza del già stabilito, nel culto della legge che rassicura la coscienza e premunisce dal rischio di giocarsi la libertà su strade nuove e rischiose. Giuditta è la “donna forte”: audace nella parola, energica nell’iniziativa, capace di rischio. Dio si è servito proprio “della sua mano per visitare il suo popolo”. E Giuditta generosamente gliel’ha offerta.

    Chiediamo al Signore la grazia di renderci disponibili alla sua opera con al stessa generosità. Sono tante le situazioni problematiche e umanamente insolubili nel mondo, nella Chiesa, nelle comunità da cui ci sembra d’esser inevitabilmente schiacciati. Ma Dio vuole ancora farci compiere nuovi esodi e per far questo ha bisogno di profeti che indichino strade nuove e siano strumenti nuovi.

    Con forza Teresa d’Avila ribadiva che Dio nella sua sapienza può scegliere modi e mezzi dinanzi ai quali il “mondo” sarebbe portato a scuotere la testa perplesso fosse anche la debolezza sapiente della donna: “Signore dell’anima mia, tu, quando pellegrinavi quaggiù, non aborrivi le donne, anzi le favorivi con benevolenza e in loro trovavi tanto amore e maggior fede che negli uomini. Tra loro vi era anche la tua santissima Madre. Perché, allora, non dovremmo riuscire a fare qualcosa di valido per te in pubblico? Perché non dovremmo osare di dire apertamente alcune verità che piangiamo in segreto? Perché tu non dovresti esaudirci quando ti rivolgiamo una giusta richiesta? Tu sei giudice giusto e non fai come i giudici del mondo, tutti uomini, per i quali non esiste virtù di donna che non ritengono sospetta. O mio Re, dovrà pur venire il giorno in cui tutti  vengano riconosciuti solo per quel che valgono!” (Cammino di perfezione).

     

     

     

     

  • 13 Giu

    LA SEQUELA E L’IMITAZIONE Dl CRISTO

    « Seguire » nei testi biblici neotestamentari è usato in diverse accezioni. Esprime il rapporto differenziato sorto tra Gesù Cristo e gli uomini che si unirono a lui, e si riferisce sia a coloro che, nel tempo del ministero pubblico, lo seguirono più o meno costantemente, sia a coloro che credettero in lui per la predicazione degli Apostoli dopo la Pentecoste e sia alla schiera innumerevole di coloro che vivono nella definitiva e piena unione con lui in Dio (cf. Gv 13, 36b).

    Il Bacht, che ha studiato la cristologia delle fonti pacomiane afferma che nel retroterra di tale cristologia c’è il motivo dell’imitazione e della sequela del Cristo. Nella lettera 5ª di Pacomio leggiamo: « lavoriamo, portando i pesi gli uni degli altri (cf. Gal 6, 1), come Cristo ha preso le nostre infermità (cf. Mt 8,17) sul suo corpo, e non si è sottratto. Se Cristo è nostro maestro, noi siamo i suoi imitatori e portiamo il suo obbrobrio ». Diventate monaco non significa altro per Pacomio che essere un perfetto discepolo di Cristo. Come ogni credente, il monaco non conosce altra legge che questa: « seguire in ogni cosa il Signore ».

    Il tema della sequela e quello dell’imitazione non combaciano esattamente, soprattutto sul piano del vocabolario. Il primo implica un cammino esteriore, un linguaggio fatto di gesti e di decisioni, che esprimono chiaramente che uno cammina sulle orme di Gesù e che si aggrega pubblicamente al gruppo dei suoi discepoli. Il secondo richiama lo sforzo morale e mistico per riprodurre i tratti di Gesù, modello-esempio a cui dopo il battesimo lo Spirito Santo non cessa di far comunicare il credente. Di fatto però, nelle antiche fonti monastiche, ambedue i temi si corrispondono e complementano a vicenda.

     

    1.   Crocifissi con Cristo

    All’origine della vita monastica c’è la chiamata a una sequela esplicita e generosa del Cristo nel suo annientamento e nella sua passione. Nella spiritualità dell’antico monachesimo il tema della sequela-partecipazione alla vita di Cristo e, in particolare, di Cristo crocifisso, è centrale. Per i monaci il cammino che conduce alla Vita è quello angusto della Croce. Tutta l’intera vita del monaco viene considerata, in sostanza, come una comunione con Cristo nella sofferenza per raggiungere poi la comunione con lui nella vita: « la loro rinuncia non è altro che l’impronta della croce e della morte in se stessi », afferma Cassiano. La vita dei monaci è considerata una vita di « crocifissi ». Di Pacomio si dice che « sempre portava nella sua carne la croce di Cristo ». Da parte sua, Basilio asserisce che i monaci « portano nel corpo la morte di Gesù e, prendendo la propria croce, seguono Dio ». E nelle Regole ampie afferma che « la regola del cristianesimo consiste nell’imitazione di Cristo, nella misura (en to métro) dell’incarnazione ». La misura e la regola del cristianesimo è che ci si conformi pienamente all’incarnazione, cioè al mistero del Verbo per noi umiliato e fatto ubbidiente fino alla morte; che si diventi, in altre parole, così perfetti imitatori del Cristo da continuarne in noi il suo mistero personale.

    Il desiderio di donarsi a Cristo si realizza nella ubbidienza e nella rinuncia di di sé. Ideale dei monaci era vivere non più secondo i propri desideri ed egoismi, ma secondo la volontà di Dio. Nei Detti dei padri del deserto, leggiamo che Iperecchio diceva: « la gloria del monaco è la ubbidienza. Chi la possiede sarà esaudito da Dio, e con franchezza starà di fronte al Crocifisso, perché il Signore crocifisso si fece ubbidiente fino alla morte ». Da parte sua, Cassiano afferma: « Così come colui che è crocifisso non ha più la possibilità di muovere le sue membra e di voltarsi verso dove vuole, così noi dobbiamo regolare la nostra volontà ed i nostri desideri non più secondo ciò che ci piace, ma secondo la legge del Signore, lì dove essa ci ha collocati ».

    L’atteggiamento di rinuncia accresceva nei santi monaci il desiderio dei sacrifici, dei dolori e delle afflizioni. Essi infatti credevano che quanto più erano crocifissi con Cristo, tanto più sperimentavano la realtà dell’amore di Dio che, come dicevamo prima, era il grande scopo della vita del monaco. I monaci credevano che questo amore, che Cristo mostrò intensamente nella sua passione essi potevano sperimentarlo più profondamente quando soffrivano con lui. Volendo i monaci prendere su di sé la croce di Cristo e con essa abbracciare la realtà del suo amore, si sentivano più fortemente spinti a soffrire con lui (com-patire). Essi non volevano lasciare solo il Cristo nelle sue sofferenze. Quando nel giorno di Pasqua, Pacomio preparò per il suo maestro Palamone alcune erbe condite con olio,  « questi dandosi colpi sulla fronte disse piangendo: “il Signore è stato crocifisso, ed io mangio cibi conditi con olio?” », e rifiutò il cibo offertogli.

    2.   Partecipanti in tutto alla sorte di Cristo

    Come rileva la Mortari (Vita e detti dei padri del deserto, Città Nuova, Roma 1975), nella spiritualità dei padri del deserto non c’è solo la scelta primaria e globale di essere conformi al Cristo nella sua sofferenza, e la convinzione che tale conformità si possa realizzare in grado massimo in una vita di sacrificio e di rinuncia; c’è anche una corrispondenza puntuale di contesti – talora evidente, tal ‘altra più sottile – tra gli episodi evangelici e gli episodi della vita degli anziani asceti. Non a caso riguardo ai fratelli che chiedono se c’è salvezza in base alle loro opere, il santo asceta Pambone ripete il gesto compiuto una volta da Gesù, scrivendo in terra le loro azioni, come il Signore fece con i farisei, che gli avevano condotto la donna colta in adulterio. Del padre Daniele si dice che passò incolume attraverso dei barbari, come il Signore quando volevano ucciderlo, ma non era ancora giunta la sua ora (cf. Lc 4, 30). Come il Cristo « fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo » (Mt 4,1), così il monaco che si ritira nel deserto sa che sarà tormentato da un combattimento diretto e serrato con le potenze maligne… C’è quindi la consapevolezza che la sequela del Cristo conduce ad una intima partecipazione alla sorte stessa del Signore.

    La partecipazione del monaco al dolore di Cristo Gesù si riallaccia al tema del lutto per i propri peccati, causa della morte in croce di Cristo: « il monaco – dice Poemen – deve avere sempre in sé il lutto per i suoi peccati. E san Giovanni Crisostomo rimprovera il monaco dissipato dicendo: « Tu ridi senza misura, e sei comunque un monaco? Tu che sei un crocifisso, uno che è in lutto? Dove hai visto che Cristo abbia fatto simile cosa? ». Questa spiritualità del lutto ha però nei padri del deserto una dimensione per così dire pasquale: questo lutto viene detto dai padri Charmopoiós, cioè operatore di gioia. Per esprimere la compresenza – che sfugge ai canoni razionali – della « Tristezza secondo Dio » (cf. 2 Cor 7, 10) e della gioia spirituale, i padri hanno coniato un termine intraducibile, la Charmolúpe. Giovanni Climaco scrive: « Chi cammina continuamente nel lutto secondo Dio, non cessa di far festa ogni giorno ». A scanso di equivoci, bisogna mettere in luce tutti gli elementi che integrano i diversi temi della spiritualità dell’antico monachesimo, troppo spesso giudicata unilateralmente.

    Come dicevamo all’inizio, la sequela di Cristo è alimentata dalla certezza che attraverso la partecipazione alla croce di Gesù, il monaco ha parte anche alla Sua vita divina. La lotta, la fatica e le difficoltà sono il cammino naturale che conduce alla vita. « La croce è il principio della nostra vita », afferma Orsiesi, e poi aggiunge: « Dobbiamo sapere che senza le tribolazioni e le angosce, nessuno otterrà la vittoria».

    Se in questo mondo sono possibili la pace e la gioia, si tratta sempre solo della pace e della gioia che derivano dalla speranza del Regno futuro e che ora sono raggiungibili soltanto attraverso l’accettazione della croce e della fatica. In fondo a questa concezione della vita ascetica c’è una certa relazione di opposizione tra il mondo attuale e il mondo futuro, che i monaci vedono come contrapposizione tra mondo o vita mondana e vita nuova in Cristo Gesù: allearsi con il mondo è un impedimento a compiere un autentica scelta per Cristo: « Rinunciare mondo dice Orsiesi – perché, perfetti, possiamo seguire Gesù perfetto ».

    3.   La “vita apostolica”

    I primi monaci erano convinti che il loro genere di vita non era in sostanza qualcosa di singolare. Come dicevamo prima, essi cercavano di seguire le orme della lunga schiera di coloro che li avevano preceduti nella sequela del Cristo. La sequela di Gesù è vissuta dal monaco« secondo il modello e l’esempio di coloro che lo hanno preceduto in questo cammino ». In un modo del tutto particolare, i monaci sono i seguaci dei martiri, i quali nella sequela di Cristo sofferente hanno raggiunto il massimo di partecipazione dando la loro vita per Cristo.

    Il monaco trova già nell ‘AT i suoi predecessori e modelli, specie nei profeti e in altri santi personaggi che offrirono la loro vita per la causa di Dio, secondo quando leggiamo nella lettera agli Ebrei: « Altri subirono scherni e flagelli, catene e prigione. Furono lapidati, torturati, segati, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati…, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra » (Eb 11, 36-38). Questo brano neotestamentario è citato frequentemente dalle antiche fonti monastiche: da Teodoreto, Basilio, Cassiano ed altri.

    Ma i veri e più immediati modelli biblici del monaco sono soprattutto gli Apostoli. Come gli Apostoli lasciarono tutto e seguirono Cristo partecipando pienamente anche della sua croce, così pure i monaci, seguendo il loro esempio, rinunciano al mondo per diventare perfetti discepoli di Cristo. Già nella vocazione del padre degli eremiti, Antonio, esercita un forte influsso il pensiero di « come gli Apostoli lasciassero la loro casa per seguire il Salvatore ». Il proposito di conformare la propria vita a quella degli Apostoli diventa così un punto di riferimento della spiritualità monastica, soprattutto di quella cenobitica.

    Le vite copte di Pacomio raccontano che, allorquando i fratelli, desolati per la morte del loro padre, vennero da Tabennesi a far visita ad Antonio malato, questi avrebbe detto di Pacomio: « Aver riunito le anime attorno a sé, allo scopo di offrirle pure al Signore, è un fatto che dimostra ch’egli è superiore a noi e che ch’egli ha seguìto è la via apostolica, voglio dire la congregazione ». Queste parole, che fanno eco al complesso del dossier pacomiano, sono assai ricche di significato. Teodoro, uno dei primi discepoli di Pacomio, parlerà della vita cenobitica come « vita apostolica ». L’espressione “vita apostolica”, che nella storia della spiritualità cristiana e più in concreto della vita religiosa assumerà una varietà di significati non esprime altro in fondo che il desiderio di « vivere alla maniera degli Apostoli ». È chiaro in questo caso il riferimento alla vita condotta dal gruppo apostolico alla sequela di Gesù e alla vita della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme.

    Concludendo, diremo molto succintamente che il cristocentrismo della spiritualità dell’antico monachesimo si riallaccia a una serie di tematiche il cui asse è costituito dal motivo centrale dell’imitazione e sequela del Cristo sofferente: l’intera vita monastica viene considerata come una comunione con Cristo nella sofferenza per raggiungere poi la comunione con lui nella sua vita divina.

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