• 26 Ago

     

    Rinnegare se stessi

     

    Matta el Meskin, Comunione nell’Amore,  curata dalla Comunità di Bose ( pagg. 127-140 ), Edizioni Qiqajon 1986 – Magnago VC

    Il monachesimo è la via della vera e autentica morte al mondo, cioè a se stessi.  Perciò la comunità monastica nella quale vive è per il monaco l’arena in cui si sottopone alla morte a se stesso. Se un monaco si sottopone a questa morte in tutta verità e sincerità verso Dio, e ogni giorno incomincia a vivere in Cristo, le porte dell’Amore divino si spalancano davanti a lui. Quando l’amore divino s’accende nel suo cuore, allora finalmente la vita in comunità diventa per il monaco un nuovo mondo di amore in cui fa traboccare la sua gioia. Perciò, sia che siate giovani, sia che siate anziani nella vita monastica, riflettete bene: se la comunità monastica è diventata per voi un luogo di amore, allora avete segretamente raggiunto lo scopo della vostra chiamata e la nuova vita. “Il nostro unico compito è amare Dio e trovare la nostra gioia in quest’amore“.  Ma se ancora giudicate e inciampate di fronte  agli ordini  delle  vostre guide, agli errori dell’anziano e ai peccati del giovane, allora dovete esaminare ancora la vostra vocazione e ridiventare monaci da capo.

    La vera morte al mondo è crocifiggere se stessi: è una morte interiore che non dipende dal digiuno, da precetti o da tanti atti di culto. Dipende piuttosto, prima che da tutte queste cose, accanto ad esse ed oltre ad esse, dal rinnegamento di se stessi, dalla compiacenza a rinunciare a se stessi e dall’abbandono pronto, spontaneo e senza esitazione della propria volontà.  Questa era la via seguita dai Padri nell’istruire i novizi. Dalla vita di Samuele il confessore sappiamo che il padre spirituale gli insegnò a dire: “Sì”, “Volentieri” e “Ho peccato”, tutte espressioni piene di significato. Alcuni Padri avevano l’abitudine di dare ai loro discepoli ordini assurdi, di insegnar loro a non obiettare o discutere, per quanto gli ordini potessero sembrare loro sbagliati: la morte a se stessi infatti è più importante del successo in un qualsiasi compito.

    Se sei un giovane monaco e ti rallegri nella tua vocazione, nella tua comunità e nella tua nuova vita, sappi che tutti gli elementi che contribuiscono alla morte a se stessi e al rinnegamento di sé, tutti gli elementi che aiutano la graduale distruzione della volontà propria e delle passioni – come il sopportare l’ingiustizia, le offese e lo scherno, la noncuranza nei confronti dei tuoi desideri, il disprezzo delle tue idee, delle tue opinioni e delle tue necessità primarie, il sopportare le sofferenze e le malattie che incontri nella vita – proprio questi elementi accendono l’amore divino e ne alimentano il fuoco. Le porte dell’amore divino sono spalancate per il monaco che vuole morire a se stesso e non conoscere più la propria volontà, perché al di là della morte a se stessi nasce la forza dell’amore, perché il Signore si rivela solo nei cuori di coloro che si sono abbandonati a lui totalmente e completamente. “Se uno vuol essere mio discepolo non conosca se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34).

    Il monaco che cerca il volto di Dio deve ricordare che il dio dell’uomo naturale è il suo proprio io; quest’uomo è pronto a sacrificare il fratello, la famiglia e Dio stesso per soddisfare le proprie passioni e i propri desideri.  Di conseguenza quando si intraprende la vita monastica inizia una lotta senza riserve tra il proprio io e Cristo. Prima di essere una guerra aperta, visibile o tangibile, essa è qualcosa di non definibile e spaventoso, qualcosa che spesso uno percepisce solo dopo aver commesso delle gravi colpe nei confronti di Cristo. Allora ci si rende conto che il proprio io è realmente impegnato in una guerra con Cristo, cerca di annientarne la presenza e di sbarazzarsi completamente della sua persona.

    Il monaco deve soprattutto comprendere che il vero culto reso a Cristo significa morte a se stessi, perché vi può essere obbedienza a Cristo solo nella rinuncia alla volontà propria; gli si può rendere onore e gloria solo in un rifiuto categorico di ogni onore e gloria nei confronti del proprio io; vi può essere un’autentica lode a Cristo solo nel ripudio di ogni vanagloria e autoesaltazione. Il vero amore di Cristo può stare solo là dove c’è l’odio di se stessi, cioè l’odio della volontà propria e di tutti i piaceri, le comodità, le abitudini e le gioie dell’ingannevole schiavitù di questo mondo.

    Allora è chiaro che il culto reso a Cristo consiste nel rinnegamento di sé e nel non conoscersi dall’inizio alla fine. Questa morte è totale, non parziale, ed è reale, non apparente; esiste infatti una morte parziale che inganna e una morte esteriore che è falsa.

    Il monaco deve esaminare con attenzione il processo di morte del proprio io, perché l’io è pieno di tranelli e inganni e usa molti stratagemmi disorientanti per far sì che la morte si presenti come illusione o come forma esterna: in tal modo esso riesce a prendersi gioco sia del monaco che di Cristo e a vivere e venire esaltato al posto di quest’ultimo. Il monaco deve sempre stare in guardia contro il culto di se stesso che in realtà è il rinnegamento e il non conoscere Cristo, qualunque sia poi il posto che occupano nella sua vita la chiesa, la croce, il vangelo, le preghiere, le prostrazioni, le lacrime e il battersi il petto!

    L’io è davvero morto quando accetta la propria morte apertamente e segretamente. Questa condizione è chiaramente percepita da tutti. Ognuno infatti si rende conto che un monaco il cui io è morto non ha alcuna volontà propria, ha abbandonato ogni polemica, ostinazione, spirito di contraddizione, ogni tranello, inganno, astuzia, ogni ambiguità, mormorazione, collera; non chiede più il rispetto preteso per paura di perdere la propria dignità, perché tutto è buono, tutto gli reca beneficio e ogni situazione e ogni cosa operano per il suo bene e la sua edificazione.  Tutto questo diventa naturalmente trasparente e chiaramente visibile, senza ricercatezza, né ostentazione o parole. Il modo stesso in cui un tal monaco lavora basta di per sé a proclamare la divina verità che egli sta avanzando saldamente e sicuramente lungo la via della morte a se stesso.

    D’altra parte, se l’io rifiuta di sperimentare segretamente la morte, esso comincia a fare qualche passo sulla strada dell’auto-rinnegamento, così da sembrare morto a se stesso, anche se in realtà non lo è. Qui la strada del falso monachesimo si divide in tre sentieri, ciascuno dei quali è un labirinto senza uscita.

    1.   Il primo falso sentiero è quello che potremmo chiamare il grande inganno. In questo stato l’io, apparentemente morto, è tanto astuto e sleale da trarre in inganno il suo “padrone” nel compimento meticoloso di ogni rito e dovere di culto e nell’incitarlo a sforzi straordinari, a un ascetismo severo e ad altre fatiche sia in pubblico che in privato. Tuttavia, dato che non è morto, gli è impossibile prestare culto a Cristo senza qualche riconoscimento umano. Così escogita tutti i mezzi possibili per rendere note le sue imprese e i suoi sforzi, al fine di attirarsi rispetto, onore, lode e affetto da parte degli altri. Quando li ottiene è soddisfatto e moltiplica i suoi sforzi, le sue regole ascetiche e le pratiche. Ma se gli vien meno questa ricompensa, perde vigore nei suoi sforzi e tentativi e le sue attività e i suoi atti di culto diminuiscono considerevolmente.

    Questo sentiero ingannevole è estremamente pericoloso; l’anima infatti è completamente asservita, crede di rendere culto a Dio, mentre in realtà sta rendendo culto al proprio io.

    Abbiamo chiamato questo sentiero “il grande inganno”, proprio perché chi lo percorre vive la vita intera nell’illusione di rendere culto a Dio, illusione creata dall’inganno del proprio io. Può accorgersi del proprio stato solo se prende atto delle tante specie di peccati segreti che commette contro Cristo: questi non possono in alcun modo essere l’opera di un uomo veramente morto a  se stesso e che vive nell’amore divino, formando un solo spirito con Cristo.

    2.   Il secondo falso sentiero può essere chiamato l’inganno esplicito.  Qui l’io non può convincere il suo “padrone” a fare grandi sforzi e così accetta di salvare soltanto le apparenze, accontentandosi solo dei compiti esteriori, ma non facendo alcuno sforzo per impegnarsi nel culto e nella lotta nascosta o negli sforzi spirituali segreti.  Questo tipo di io è manifesto alla persona interessata, in altre parole: questa conosce se stessa, vede in se stessa, è consapevole delle proprie infamie e accondiscende all’inganno di fronte agli altri.  Qui  l’io inganna solo gli altri, convincendoli di essere pio e morto al mondo, ma non inganna il suo “padrone”. Questo è il motivo per cui l’abbiamo chiamato il sentiero dell’inganno esplicito, mentre abbiamo chiamato il primo “il grande inganno”, dato che in quel sentiero l’io inganna anche il suo “padrone”.

    In entrambe queste situazioni troviamo che lo scopo dell’io che rifiuta di morire per volontà propria è quello di venir onorato, glorificato e lodato per gli atti di culto e le preghiere che compie. Questo è uno sfacciato culto di se stessi e un’usurpazione del diritto esclusivo di Cristo alla gloria e all’onore.

    3.   Il terzo falso sentiero possiamo chiamarlo errore manifesto. Qui l’io non può convincere l’individuo a intraprendere una qualsiasi attività o a fare qualche sforzo per rendere culto a chicchessia, perché l’io preferisce apertamente e chiaramente rifiutare il culto, lo sforzo spirituale e la preghiera. In questo caso l’io non chiede onore, gloria o lode con un ingannevole culto e nello stesso tempo non accorda alcun onore, gloria o lode agli altri; giunge al punto di negare il bisogno dell’adorazione stessa e rifiuta il dovere che abbiamo di faticare nel cammino spirituale, derubando così Dio di tutti i diritti che l’uomo è tenuto a riconoscergli.  Qui il rifiuto dell’amore di Cristo e la rinuncia ai nostri obblighi di rendergli culto e amarlo sono diretti e aperti. L’io qui è smascherato davanti a se stesso e a tutti nel suo errore e indossa la persona e le azioni del maligno.

    “Le vostre parole sono state dure contro di me – dice il Signore –. Ora voi dite: «Come abbiamo parlato contro di te?».  Avete detto:  «È inutile servire il Signore. Che vantaggio abbiamo ricevuto per aver custodito il suo incarico e aver camminato come in lutto davanti al Signore degli eserciti? D’ora innanzi giudichiamo beati i superbi; prosperano quelli che compiono il male e anche quando mettono Dio alla prova restano impuniti». Allora parlarono tra di loro i timorati di Dio; il Signore fece attenzione e  li ascoltò e un libro di memorie fu scritto davanti a lui per quelli che lo temono e onorano il suo nome. Essi saranno miei – dice il Signore degli eserciti – mia speciale proprietà nel giorno che io preparo, e io farò grazia ad essi come un uomo fa grazia al figlio che lo serve. Allora ancora una volta potrete distinguere tra il giusto e l’empio, tra chi serve Dio e chi non lo serve” (Mal 3, 13-18).

    Nella vocazione monastica non c’è quindi possibilità di scelta tra il morire o il non morire a noi stessi: infatti o c’è la morte a se stessi, oppure c’è il fallimento completo nella vita monastica, che terminerà con la condanna e l’inimicizia da parte di Dio.  O moriamo a noi stessi e allora perseveriamo con Cristo e viviamo con lui nello spirito giorno per giorno, ora per ora, momento per momento, mentre il suo amore arde in noi finché raggiungiamo il cielo;  oppure non moriamo a noi stessi, preferiamo essere indulgenti con il nostro io, onorarlo, lodarlo, glorificarlo e fargli festa, e allora indirizziamo ogni nostro culto, ascetismo e preghiera a onore dell’io, facendo cosi allontanare per sempre il vero Cristo dall’anima.  Verrà allora il giorno in cui il monaco si renderà conto di aver invano faticato nella sua vita a onore di un falso Cristo, che in realtà non era altro che il proprio io, che adorava e al quale rendeva culto.

    L’autentico monachesimo è la pratica della morte radicale a se stessi, cercando di spezzare tutte le strade che conducono al proprio io, così che non possa mai più risorgere e rivivere.

    Se la morte a se stessi fosse un processo il cui compimento dipendesse unicamente dalla volontà personale e dalle capacità umane, sarebbe impossibile da realizzare, perché l’io è più forte della ragione e della volontà e le pone a suo servizio. Inoltre l’io coincide con l’uomo stesso quando questi lascia via libera agli istinti naturali.

    Ma la morte a se stessi nella vita con Cristo è un processo compensativo: come prima cosa riceviamo in anticipo la forza di morire a noi stessi, prima che ci sia chiesto di intraprendere un atto di volontà. Questa forza è la forza della croce, cioè della morte volontaria a se stessi.  È una grande forza mistica, che Cristo personalmente sperimentò per primo e ci trasmise come un libero dono di grazia. Così per essa noi sappiamo con Cristo morire al mondo e il mondo può morire a noi stessi. Questa forza di Cristo, cioè la grazia della croce, non ci è trasmessa da sola, priva del pegno della gloria: ci è dato infatti di pregustare la vita eterna, e questo è il più delizioso dono di Cristo. Perciò la morte a se stessi e al mondo a causa dell’amore di Cristo ha sempre bisogno di questi due elementi di supporto: la forza della croce, per far morire l’io facilmente, e la pregustazione della vita eterna che è pegno della risurrezione, per consolarci nel faticoso processo della morte dell’io. La morte a se stessi è perciò diventata facile e dolce, nonostante la sua difficoltà e asprezza, per coloro che senza paura intraprendono la via della rinuncia radicale a se stessi e alla propria volontà a causa e per amore di Cristo. Può questa verità incoraggiarci a subire senza timore la morte a noi stessi?

    Nessuno pensi che il processo della morte dell’io sia complesso, ricco di misteri o gradi differenti. Non può essere! È estremamente semplice, non è altro che la determinazione della persona di affidare l’intera sua vita in ogni particolare, il passato insieme al presente e al futuro, senza esitazione nelle mani di Cristo, rinunciando così per sempre ai propri desideri, come un bambino affida con amore al padre quanto di più caro possiede, sicuro di ricevere in cambio qualcosa ancora migliore. Consegniamo a Cristo il nostro “io” impuro e mondano e la nostra volontà stupida e folle e al loro posto riceviamo l’Io stesso e la vita di Cristo, mentre egli ci trasporta sulle ali della sua santa volontà.

    Come sono dunque beati quelli che sono morti a se stessi! Chi infatti è morto a se stesso non teme di perdere proprio più nulla nella sua vita, perché ha già perso tutto: l’io è, per così dire, tutto ciò che appartiene all’uomo sulla terra. Costui non teme più nemmeno la morte perché le si è sottoposto deliberatamente, invece di doverglisi sottoporre – prima o poi – contro la propria volontà.

    L’io che non è morto chiede sempre di essere innalzato al di sopra degli altri, specialmente delle guide e di chi ha degli incarichi, cercando di stupire gli altri con la simulata condiscendenza nei confronti dei deboli, per accattivarsi la loro simpatia e la ammirazione della gente ed essere così elevato sopra gli altri. Si serve anche della carità, dell’offerta di doni, della cortesia, dell’adulazione e della difesa degli oppressi in modo da distinguersi dagli altri e apparire diverso dalle ingiuste, negligenti, vili e stupide guide: l’io le dipinge di fronte agli altri con queste tinte, in modo da apparire più virtuoso di loro.

    Ricordatevi di tutto questo e siate vigilanti su voi stessi. Esaminate scrupolosamente i motivi dei vostri straordinari digiuni, preghiere, veglie, dei molti e importanti gesti di servizio, della vostra straordinaria umiltà o della volontà di offrire voi stessi totalmente. Fate bene attenzione che tutto ciò sia solo a causa del vero e fedele amore di Cristo e non abbia come scopo la gratificazione personale, l’essere onorati e rispettati dalla gente.

    L’io che non è morto cerca sempre di evitare le occupazioni e le situazioni che potrebbero rivelare la sua debolezza. Si trattiene perciò dall’accostarsi a tali compiti ricorrendo a scuse svariate, come la mancanza di esperienza, l’inadeguatezza dei fratelli o la malattia. Può anche arrivare a chiedere un tempo di solitudine e di silenzio per evitare quelle situazioni e non lasciar trasparire i propri difetti.

     

    Guardatevi dunque dal seguire il vostro io e dal nascondere le sue imperfezioni, per non perdere l’occasione di purificare le vostre infermità, anche se sono all’inizio; chi infatti svela le sue debolezze fin dal loro nascere acquista al loro posto la vera umiltà e toglie per sempre di mezzo l’orgoglio. Chi invece nasconde i propri difetti, vivrà con essi per sempre. Meglio perciò subire la vergogna in questa vita che non nell’altra, davanti agli angeli e ai santi!

    L’io che non è morto non può sopportare di essere disprezzato, insultato, giudicato indegno o sminuito.  Se lasciate ancora spazio a sentimenti di astio o di amarezza, in relazione al modo in cui siete trattati da un padre, da un fratello, da un superiore o da un inferiore, voi venerate ancora voi stessi e l’amore di Cristo non è ancora penetrato nel vostro cuore.  L’uomo infatti il cui io è stato crocifisso con Cristo  ed  è morto, non solo è contento di sopportare sdegno, insulto, scherno o ingiustizia, ma addirittura li desidera ardentemente.

    L’io che non è morto non può sopportare di ricevere ordini o direttive da uno che gli è inferiore per cultura, età o stato;  questo infatti gli sembra un attentato ai suoi diritti, alle sue capacità, al suo rango.  L’uomo il cui io è morto, invece, si considera all’ultimo posto, senza alcun diritto, né capacità, né posizione sociale.

    L’io che non è realmente morto a se stesso trova da un lato molto facile scegliere per sé l’ultimo posto, ma, d’altro lato, non può sopportare che altri gli assegnino un posto appena inferiore a quello che lui considera come la sua giusta posizione.

    Questo io vive palesemente in modo conforme a un falso vangelo: per lui infatti l’adempimento del comandamento sta nel servire i propri interessi e non nell’obbedienza ai comandamenti di Cristo.

    Ricordate sempre che chi sceglie l’ultimo posto è provato con il fuoco e che, secondo le parole di Isacco il Siro, “colui che umilia se stesso per essere onorato dagli uomini, Dio lo smaschererà”.

    Il segno invece che l’io è morto è il suo amore e il suo desiderio per l’ultimo posto: egli non lo ricerca, per timore di vanagloria, ma aspetta che gli venga assegnato dagli altri!

    Se l’io che non è morto non è onorato dai membri della comunità, o è disprezzato da essi, allora odia pregare con loro e non può sopportare di stare in mezzo a loro o di cantare inni insieme e cerca sempre di evitare, per quanto possibile, queste situazioni. Ciò rivela che le sue preghiere e i suoi inni riguardano il suo onore e non quello di Dio o l’amore di Cristo. Si vede così quanto può essere falso il culto a Dio!

    Quanto invece all’io che è morto, per lui la comunità è un luogo di amore, vita, gioia e lode a causa della presenza del Signore. L’anima che ama i fratelli ha attraversato la morte ed è giunta alla vita, perché il Signore è sempre presente in mezzo alla comunità.

    Un monaco può non riuscire a mettere radicalmente a morte il proprio io e  così essere incapace di trovare la via stretta. Per una tal persona, quanto più aumenta la sua conoscenza, tanto più ardua diventa la sua salvezza; quanto più si addentra nei segreti della virtù, sia per quel che legge che per quel che ascolta, tanto più diventa incapace di praticarla, poiché il suo io, che non è stato spezzato, lo inganna appagandolo con la conoscenza, quasi questa potesse sostituire le sue opere. Ciò accade perché l’io sa bene che il compimento delle vere opere ha come sicura conseguenza la sua morte ed egli non vuole morire! L’io inganna il monaco e lo illude, facendogli credere di possedere tutte le virtù dei santi di cui legge la vita e di non aver bisogno di sforzarsi o di compiere alcunché, perché è già perfetto. Non appena sente parlare di qualche virtù o opera buona pensa di possederne anche di migliori, perché l’io fa suo tutto ciò di cui sente parlare e lo rivendica per sé.  Quest’uomo si inebria dell’amore di sé, loda se stesso di fronte agli altri e ne provoca gli elogi. Secondo lui, nessuno è alla sua altezza e ognuno ha capacità inferiori alle sue. Se possiede un difetto evidente, lo imputa agli altri o alle circostanze; se ne possiede uno di nascosto, lo tiene segreto anche al proprio padre spirituale. Se commette un errore senza essere visto, insiste che gli altri sono i colpevoli e se è colto sul fatto tira fuori un sacco di scuse per provare la sua innocenza. Per lui, i suoi peccati sono leggeri, mentre gli sbagli degli altri sono crimini imperdonabili. Esprime rammarico solo per evitare critiche e chiede scusa solo per conservare la propria posizione. A poco a poco il pentimento diventa per lui una debolezza e lo scusarsi una vergogna.

    Se non volete essere così, cercate fin dal primo momento della vostra vita monastica di mettere in atto, sperimentare e praticare solo ciò che è fonte di virtù e non le opere o gli scritti degli altri. Imparate come esporre con semplicità il vostro io a tutto ciò che può metterlo sotto il potere della croce, perché questa è la morte volontaria, in modo da intraprendere la via della virtù attraverso la porta della croce e non attraverso quella della ragione. Cercate anche di mettere in pratica quel che predicate e di parlare solo di ciò che avete sperimentato, non di quello che avete letto o di cui avete sentito parlare; come dice Paolo, “Noi ci vantiamo indebitamente di fatiche altrui” (2Cor 10,15); “Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi” (2Cor 3,5); “Perché nessuno mi giudichi di più di quello che vede o sente da me” (2Cor 12,6); “Perché non colui che si raccomanda da sé viene approvato, ma colui che il Signore raccomanda” (2Cor 10,18).

    È possibile anche che un monaco perda la capacità di mettere a morte il suo io quando è ormai a metà strada, dopo aver assaggiato e preso parte ai doni di Dio. Ma la brama di conoscenza si impadronisce di lui ed egli desidera diventare uno studioso dei misteri dello Spirito, cercando la gloria mondana e abbandonando il confortevole seno di Dio e quella semplicità che introdusse i pescatori di Galilea al libero dono della sapienza dello Spirito. Tale monaco si smarrisce dalla via della salvezza dopo essersene mostrato degno e questo lo rende costantemente nostalgico del passato e lo fa sentire di giorno in giorno sempre più smarrito e disorientato. Egli non ha però la forza di tornare sui propri passi, perché il suo io si è ora insuperbito a causa delle conoscenze raggiunte e la via stretta è in realtà diventata per lui gravosa e ripugnante. Le opere di penitenza di un tempo diventano per lui amare e aspre perché l’io si è gonfiato a causa del sapere. Così, pensando che tornare sui propri passi è così difficile da sembrare impossibile, s’inoltra di giorno in giorno lungo vie sempre più perverse e scivolose. Il problema di un io siffatto è che si vergogna sempre di se stesso. Accetta facilmente la lode, ma poi la rivomita, quando si ricorda della propria debolezza e dell’umiltà di un tempo. Ama l’onore, ma non vi trova alcun conforto. Le cattedre dell’insegnamento sono estremamente allettanti, ma sedersi su di esse è immediatamente motivo di pena, a causa dell’amaro rimorso per il passato di umiltà. L’io si rende conto che la volontà propria mette radici e che questo costituisce un insulto alla volontà di Dio, ma la dolcezza del frutto della disobbedienza e la bellezza dell’albero della ribellione non lasciano vedere le loro conseguenze. E così l’io assapora lo smarrirsi lontano da Dio, fino a quando, alla fine, si desta unicamente per constatare di essere completamente fuori strada, lontano dall’albero della vita e anche dall’albero della conoscenza.

    Se dunque volete restare al sicuro fino alla fine sulla strada della morte a voi stessi, seguite la via stretta del pentimento, fino al giorno della morte. Non siate sedotti dal sapere, che vi rende sicuri di voi stessi. Al contrario aggrappatevi alla semplicità, che conduce alla profonda sapienza dello spirito. Fate della confessione delle colpe la vostra occupazione redditizia, e non muovete nemmeno un passo sulla via del sapere spronati dal desiderio della gloria mondana, se non volete precipitare, ancora giovani, nell’abisso.

    Esiste un tipo di io che non è morto a se stesso il quale, quando la conoscenza legittima gli risulta troppo difficile da portare, arso com’è dalla fama mondana a basso prezzo, dà via libera al suo padrone, inducendolo insistentemente a diventare un ladro al servizio del proprio io, rubando per lui non oro o argento, ma i detti, le azioni e i pensieri dei Padri, prendendoli dai loro libri o dalle loro labbra e attribuendoli a se stesso, così da essere lodato per cose che non gli appartengono. Si illude di dar gloria a Dio. “Ma se per la mia menzogna la verità di Dio risplende per sua gloria, perché dunque sono ancora giudicato come peccatore? […]. Come alcuni […] ci calunniano dicendo che noi [così] affermiamo” (Rm 3,7-8). Questo io rende infelice il suo padrone, poiché, senza che egli se ne renda conto, lo opprime con molti peccati e iniquità che non sono meno gravi di quelli commessi da un delinquente comune, mentre appare agli altri un ministro della virtù e un rappresentante della rettitudine.

    Vigilate dunque e siate ben attenti alla mortificazione del vostro io. Condannatelo prima che vi condanni.  Privatelo di quanto gli appartiene, così che non possa usurpare ciò che appartiene agli altri. Poiché se queste cose sono insopportabili e riprovevoli per una coscienza libera, quanto più lo sono per Dio!

    Esiste un tipo di io tirannico, astuto e ingannatore che domina e rende schiavo il suo padrone allo stesso modo in cui un ipnotizzatore rende schiavo chi è in suo potere. Lo sprona con continui incitamenti ad avere visioni e sogni durante il sonno, tutti frutto delle macchinazioni dell’io, in complicità con le sue passioni e le sue aspirazioni. Essi sembrano tutti facilmente applicabili agli eventi quotidiani, e armoniosamente connessi, quasi fossero reali. L’individuo si sveglia solo per credere di essere diventato un santo durante la notte! Comincia a dire in giro le sue visioni e i suoi sogni altamente significativi e tutti sono stupefatti da questo io, lo lodano e lo glorificano come se fosse un santo dotato di doni di illuminazione, rivelazione e profezia. Egli così si illude ancor di più, convinto com’è che sia tutto vero, mentre in realtà è tutto opera di autosuggestione per mezzo di concetti mentali e fantasie imposti all’animo debole dall’ambizioso io. Questi costringe la mente a rappresentare, nel sonno o nel dormiveglia, con logica sorprendente, ciò che egli desidera, o ciò che teme, a tal punto che l’io sembra possedere una natura superiore a quella delle altre persone e soddisfà così la sua ambizione. Quando l’io non riesce a tenere sotto controllo il suo padrone, così da soddisfare le sue brame con opere, parole e capacità pratiche, lo costringe a usare concetti mentali in sogni o visioni di estrema chiarezza, così da compiere ciò che non è riuscito a fare nella realtà tramite le capacità e risorse pratiche e così che l’io sia glorificato in ogni modo e a ogni costo.

    Siate dunque attenti e vigilanti fin dall’inizio. State in guardia contro gli ingannevoli trucchi dell’io e le sue ambizioni e speranze, perché se riesce a sfuggire alla morte nonostante la vostra vigilanza, in realtà comincerà a vivere nelle visioni e nei sogni, comandando a tutti i talenti dell’anima e della mente di lavorare per la sua definitiva lode e glorificazione quale io soprannaturale. Solo un rifiuto totale sia delle visioni che dei sogni può impedirgli di procedere su questa strada; tuttavia, per assicurare il vostro progredire lungo la stretta via della salvezza, è possibile che visioni e sogni siano concessi a quelli la cui statura spirituale è elevata e la cui salvezza non corre pericolo.

    L’io che non è morto odia ed evita la confessione, perché la confessione lo condanna e lo espone. Ma l’io che è morto o è disposto a morire, trova conforto nella confessione e la ricerca con gioia, superando ogni ostacolo, perché nella confessione viene purificato e purificato nuovamente, fino a diventare candido.

    L’io che non è stato messo a morte, se decide di non morire, nasconde i propri difetti nella confessione. Comincia allora a diventare aggressivo nei confronti della confessione e del suo confessore, accusandolo di ignoranza, trascuratezza o parzialità e fa di questi pretesti una barriera definitiva che gli impedisce di esporre i propri difetti.

    L’io che non è stato messo a morte e che ha deciso di non morire non trova vantaggio nelle parole o nei consigli del padre spirituale, anche se questi fosse lì a consigliarlo ogni giorno e ogni ora. Le sue parole diventano per lui un peso insopportabile. Ma l’io che è morto, o che è pronto a morire, a una sola parola del padre spirituale si lancia lungo la via della vita eterna e corre senza stancarsi; le parole di rimprovero gli sono dolci come il miele.

    * * *

    Coraggio, fratelli!  Ecco, lo Sposo – che amiamo ma non possiamo vedere – viene come un ladro nel mezzo della notte per sorprenderci. Vegliamo dunque per poterlo ricevere e beato colui che Egli troverà vigilante.

  • 19 Ago

    Figli del Padre

    sintesi a cura di p. Attilio Fabris

    La prova, il cammino nel deserto,  e la decisione della conversione hanno preparato il terreno ad una ulteriore fase che è quella della nascita di un uomo nuovo. Si tratta dunque di un lavoro (una sinergia) che giunge fino alla radici della totalità del nostro essere. Un cammino scevro da illusioni create da una falsa immagine di Dio e di esperienza spirituale. E’ invece esperienza di quell’ ”amore folle” con il quale Dio non cessa di cercare l’uomo. Sarà esperienza che il verso protagonista del nostro cammino spirituale è  lo Spirito che ci è stato dato in dono.

    “Fa’, o Padre, che io ricerchi te, salvami dall’errore, e nel cercarti, fa’ che non trovi niente al tuo posto. Se non desidero altri che te, fa’ che ti trovi, o Padre. Se vi è in me alcun desiderio superfluo, tu stesso mondami e fammi capace di vederti” (s. Agostino Soliloqui, 1,1.6).

    La ristrutturazione della totalità del nostro essere verrà a toccare perciò tutti i nostri dinamismi che vengono purificati e trasformati: è un cambiamento radicale di cuore-mente-volontà. Il cammino spirituale dovrebbe portare l’uomo a scoprirsi figlio di un Padre che è nei cieli. E’ scoperta di se stessi, della propria dignità, della propria vocazione esistenziale.

    Se scopro Dio come Padre allora ricevo ogni cosa come un dono. Sono libero dal bisogno di “conquistare” Dio con la mia presunta santità. Di guadagnarmi con le mie mani. Scopro che mio primo compito non è la mia perfezione, ma il saper ringraziare e godere dei doni di Dio: arrivare a dire con gioia: Abbà, Papà!

    Paura e inerzia

     Certo oggi non è facile parlare di padre. La nostra cultura ha reso ambigua la sua immagine (il padre-padrone) per cui si corre da una ricerca affannata di una società senza padre a fenomeni di dipendenza, di identificazione con un leader e con il gruppo. La nostra esperienza di Dio potrebbe essere disturbata da questa atmosfera: si vive un rapporto fatto di paura e timore oppure ci si accontenta di proseguire trascinati dagli altri senza la capacità di prendere una nostra decisione personale e creativa.

    Un padre che fa festa

     Gesù ci assicura che Dio fa festa per il peccatore pentito, non la fa per i 99 giusti che non hanno bisogno di conversione. Perché fa festa? Perché il peccatore gli dà occasione di manifestare pienamente il suo essere padre: un Padre di misericordia (come fa pronunciare la formula di assoluzione).

    Di conseguenza che dinanzi a Dio riconosce con umiltà il suo essere peccatore fa esperienza di essere figlio perché sempre amato e accolto dalle braccia misericordiose del Padre. Solo il figlio può sentire il dolore di aver offeso il padre. Chi si ritiene senza colpa non ha bisogno di perdono né di un padre che lo accolga. Si costruisce una sua perfezione senza capire che tutto quel che ha lo ha ricevuto in dono.

    Prendiamo coscienza che non si sentiamo mai abbastanza figli, e che nei confronti di Dio Padre, lo percepiamo come padrone, un datore di lavoro e di ricompense: Siamo un po’ tutti come il figlio maggiore della parabola. Viviamo sì in casa del padre ma più come schiavi che come figli.. Ne deriva che non ci sentiamo così poi tanto peccatori: siamo dei buoni osservanti che hanno sempre obbedito ma senza gioia.

    Il Dio che è Padre ci converte dalla paura e dalla presunzione, non ci chiede di essere perfetti, né ci consente di sentirci tali, ma ci invita alla sua festa per condividere con noi anche la sua gioia.

    “Con tutte le forze”

     A Dio che ci ha donato ogni cosa, anche lo stesso desiderio di cercarlo. Siamo chiamati nella libertà a rispondere. La nostra decisione se è autentica deve incidere sulla nostra vita e cambiarla. Nessuno può amare Dio se non lo vuole con tutte le proprie forze.

    Ciò comporta il coraggio di fare delle scelte: non basta una scelta fatta una volta per tutte. Occorre rinnovare tale scelta ogni giorno, qui e ora. Esiste sempre il rischio dell’inerzia e del riflusso (ci si accontenta di ripetersi), cessa ogni cammino e ogni tipo di crescita: tutto a un certo momento viene a noia. Il credente è un viandante: se si ferma o perde il gusto del cammino, la sua fede è in pericolo. Si deve avere il coraggio di fare un tipo preciso di scelte: o scegliamo Dio o noi stessi. Fare esperienza di Dio significa ispirare la nostra esistenza secondo precisi criteri. Quali?

    Decisioni coerenti

             Non basta essere convinti che è bene fare; bisogna operare concretamente. E’ impossibile credere davvero in ciò che non si vive quotidianamente, perché i valori che si sono professati restano vivi nella misura in cui trovano espressione in atteggiamenti corrispondenti. Se desidero incontrare Dio devo pormi in uno stile di vita coerente: e questo a partire dalle piccole scelte quotidiane.

    Decisioni significative

             Decisioni forti, portate fino in fondo.

    Si tratta di:

             – Scelte umane: non deve essere frutto solo di un atto di volontà. Sono scelte ragionate e desiderate (anche quelle piccole). Chi vive questo, vive nella libertà: può permettersi di fare anche il “tappabuchi” senza sentirsi umiliato. Ha scoperto che l’importanza dei suoi gesti non gli deriva dalla risonanza sociale che essi possono avere, ma unicamente dall’amore che ci mette dentro e dalla verità con cui liberamente si prefigge lo stesso scopo: cercare Dio in tutto.

              – Decisioni sofferte: rinunce che costano. Si rinuncia a qualcosa per qualcosa di più grande: il Signore. Attraverso queste scelte si entra nello spirito delle beatitudini. Sia arriva al punto che più le decisioni costano più ci si sente beati evangelicamente gustando una nuova conoscenza di Dio. Quel nesso misterioso tra sofferenza e amore fa sì che si ami maggiormente ciò per cui si è sofferto. Chi non “soffre” Dio non lo può né conoscere né amare. “Agire è scegliere, e per conseguenza decidere, tagliar corto e, pur adottando, rifiutare, respingere. Edificare è sacrificarsi; ma la decisione non è un colpo di forza interiore, cieco e arbitrario: è la persona tutta intera rivolta al suo avvenire, concentrata in un atto duo e ricco, che riassume la sua esperienza e integra in essa un’esperienza nuova. I rifiuti che l’accompagnano sono rifiuti reali, imbarazzanti e talvolta laceranti: non sono mutilazioni. Essi parlano di una pienezza esigente, e non di indigenza: perciò sono creativi” (P. Grieger).

             – Decisioni autotrascendenti: sono scelte di vita in cui l’unico obiettivo è il Signore. Il tesoro nel campo per cui tutto si vende. Si tratta di decisioni che vengono a purificare sempre più le nostre motivazioni, spesso tanto contaminate dal nostro egoismo. Questo è un cammino molto lungo.

  • 18 Ago

    Se tu squarciassi i cieli e scendessi!
    Necessità del far memoria delle opere di Dio!

     Is 63,7-19;64,1-11

    di p. Attilio Franco Fabris


     

     

    Messaggio centrale

     Raccolti in preghiera i deportati rileggono attraverso la mediazione profetica  la loro storia prendendo coscienza degli errori commessi: “Tu, Signore, sei adirato perché abbiamo peccato contro di te… Le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento… Ci hai messo in balia delle nostre iniquità” (vv. 4-6). Si tratta di  una amara constatazione che dovrebbe portare allo sconforto, allo scoraggiamento. Ma questo non avviene perché il profeta invita il popolo esiliato ad un nuovo atto di fiducia che si fonda unicamente sull’amore “paterno” che Dio sempre conserva per il suo popolo: “Tu però, Signore, continui ad essere nostro padre: noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani” (v.7).

    Il popolo di Israele si trova in esilio a Babilonia: da pochi anni Gerusalemme è stata rasa al suolo e nei deportati il ricordo dell’accaduto è ancora vivo e bruciante. Hanno ancora sotto gli occhi le terribili scene della devastazione da parte delle truppe di Nabucodonosor, nel luglio del 587 a.C.: le mura demolite, il palazzo reale dato alle fiamme, il tempio distrutto e depredato, morte e violenza lungo le vie della città (Ricordati, Signore, dei figli di Edom, che nel giorno di Gerusalemme, dicevano: «Distruggete, distruggete anche le sue fondamenta”  Sal 137,7).

    Difficile darsi una ragione a tutto quanto è accaduto, trovare una risposta a questa immane sciagura appare pressoché impossibile. La situazione appare ora irrimediabile perché ogni speranza preclusa: si è esiliati, lontani dalla patria migliaia di chilometri, tutto è endato perso, si è tornati schiavi come in Egitto.

    In questa situazione si innalza da parte del profeta la commovente preghiera (potremmo definirlo nel suo genere letterario un salmo di lamento). Possiamo suddividerlo grossomodo in tre parti, o meglio in tre filoni che continuamente si intersecano : la prima è il ricordo dei benefici e delle grazie del Signore che non è mai venuto meno all’alleanza con il suo popolo; la seconda è la presa di coscienza del peccato di Israele causato dalla dimenticanza dell’amore di Dio; la terza è invocazione pressante a Dio perché non abbandoni il suo popolo ma ritorni a fare grazia e a dare vita e speranza.

    Voglio ricordare i benefici del Signore, le glorie del Signore, quanto egli ha fatto per noi. Egli è grande in bontà per la casa di Israele. Egli ci trattò secondo il suo amore, secondo la grandezza della sua misericordia. 8 Disse: «Certo, essi sono il mio popolo, figli che non deluderanno» e fu per loro un salvatore 9 in tutte le angosce. Non un inviato né un angelo, ma egli stesso (lett. “il suo volto”) li ha salvati; con amore e  compassione egli li ha riscattati; li ha sollevati e portati su di sé, in tutti i giorni del passato.

    10 Ma essi si ribellarono e contristarono il suo santo spirito. Egli perciò divenne loro nemico e mosse loro guerra.

    11 Allora si ricordarono dei giorni antichi, di Mosè suo servo. Dov’è colui che fece uscire dall’acqua del Nilo il pastore del suo gregge? Dov’è colui che gli pose nell’intimo il suo santo spirito; 12 colui che fece camminare alla destra di Mosè il suo braccio glorioso, che divise le acque davanti a loro facendosi un nome eterno; 13 colui che li fece avanzare tra i flutti come un cavallo sulla steppa? Non inciamparono, 14 come armento che scende per la valle: lo spirito del Signore li guidava al riposo.  Così tu conducesti il tuo popolo, per farti un nome glorioso.

    Il primo invito insistente da parte del profeta, che d’altronde si ripeterà più volte lungo il testo, è quello di “fare memoria” dei benefici del Signore (v.7: “Voglio ricordare i benefici”; v.11 “si ricordarono dei giorni antichi”; v.4 “si ricordano delle tue vie”; v.8 “non ricordarti per sempre dell’iniquità”), e delle sue gesta salvifiche (“le glorie del Signore”). Tutto il discorso di speranza che il profeta pronuncia trae forza e fondamento unicamente da questo saper “far memoria”! Il verbo “ricordare” in ebraico implica infatti non solo un ricordarsi dei tempi andati, bensì contiene la certezza che ciò che è accaduto nel passato possa in qualche modo ripetersi, rinnovarsi (da cui il concetto di “memoriale”) a motivo della fedeltà di Dio a se stesso e alla sua promessa.

    Il “memoriale” fondante, di cui ogni israelita è chiamato a far perenne memoria (=la celebrazione della pasqua) permane l’esperienza salvifica della liberazione dalla schiavitù egiziana(vv. 12-14): il passaggio del Mar rosso occupa come paradigma fondamentale un posto rilevante nella fede biblica in quanto rappresenta ogni altra forma di tribolazione o pericolo che il popolo e il singolo credente debba attraversare.  

    E’ pressante perciò l’invito: “Ricordati… Non dimenticare!” (cfr Dt 8,11-14) perché ciò che fa esistere Israele è la “memoria” della sua particolare relazione con Dio. Ma il rischio della dimenticanza è sempre dietro l’angolo e con esso l’allontanamento dal Dio dell’alleanza, il che porta come conseguenza un consegnarsi alle forze disgregatrici e schiavizzanti dei nemici.

    Con amarezza il profeta riconosce che proprio questo è accaduto: Israele si è dimenticato della “bontà-hesed” (verbo tipico dell’alleanza: “il mio popolo” v. 8) di Dio nei suoi confronti. Israele ha “contristato il santo spirito”  – espressione rara nell’AT – che sta a significare una resistenza alla Parola, un non affidamento e fiducia accordata ad essa preferendo seguire propri progetti di autosufficienza.

    Ora è il tempo di tornare a “ricordare”: “Ricorda!”. Occorre riandare alla propria storia, ritrovarvi la presenza e l’azione di Dio per trarre da lì ragione e fondamento per una nuova speranza “contro ogni speranza”.

    Il popolo mentre ricorda già inizia a supplicare. Come può Dio non intervenire nuovamente se è “Salvatore” (v. 8; cfr Es 3,9) dei suoi “figli”? “Fu per loro un salvatore in tutte le angosce” (v.8s). Come può un padre dimenticare il suo figlio nonostante questi abbia mancato? (cfr Os 11; Is 1,2.4; Ger 31,9.20)

    15 Guarda dal cielo e osserva dalla tua dimora santa e gloriosa. Dove sono il tuo zelo e la tua potenza, il fremito della tua tenerezza e la tua misericordia? Non forzarti all’insensibilità 16 perché tu sei nostro padre, poiché Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi. Tu, Signore, tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. 17 Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità. 18 Perché gli empi hanno calpestato il tuo santuario, i nostri avversari hanno profanato il tuo luogo santo? 19 Siamo diventati come coloro su cui tu non hai mai dominato, sui quali il tuo nome non è stato mai invocato.

    La supplica rivolta a Dio è anzitutto di “guardare”: “Guarda dal cielo e osserva dalla tua dimora”.  Invocare lo sguardo equivale ad implorare l’attenzione, l’intervento, in questo caso si chiede a Dio di riprendere in mano la storia del suo popolo come fece al tempo del primo esodo: “Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto” (Es 3,7-8).[1]

    Israele domanda di poter nuovamente constatare la qualità di questo intervento connotato da una quaterna di qualità: lo zelo, ovvero il suo amore appassionato, la potenza, ovvero l’energia che sprigiona dal suo amore,  la sua tenerezza e le sue “viscere materne” ovvero la sua “misericordia” con cui Egli ama.  Che Dio si manifesti nuovamente nella drammatica situazione storica attuale perché sicuramente è questa la sua volontà ultima che deve vincere alla fin fine su un’ira transitoria che non è “da Dio”: “Non forzarti all’insensibilità”.

    Perché Dio dovrà far questo? “Perché tu sei nostro padre, poiché Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi. Tu, Signore, tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore” (v.16): è questa la profonda motivazione per cui Israele è certo dell’intervento divino a suo beneficio. Per la prima volta nell’AT qui JHWH viene chiamato con il raro appellativo di “padre”; in effetti per la fede ebraica “padre” dovrebbe essere solo Abramo e gli altri patriarchi: “guardate ad Abramo vostro padre” si diceva in Is 51,2. Ma occorre prendere atto che ora essi ora nulla possono: scesi nello scheol essi non hanno possibilità d’intervenire a beneficio del loro popolo, figlio nato dalle loro viscere. Ancor più come rivolgersi ai “padri-patriarchi” nella vergogna causata dal peccato e dalla situazione attuale? Essi avrebbero tutte le ragioni di vergognarsi dei loro figli degeneri: “Abramo non ci riconosce e Israele (=Giacobbe)  non si ricorda di noi” (Is 63,16). A questo punto a chi rivolgersi? E’ proprio in questo contesto che per la prima volta JHWH viene chiamato con timore con l’appellativo di “padre”, il che comporta ovviamente il doversi prender cura del figlio bisognoso (cfr Es 4,22s).

    Il popolo ha ancor bisogno di un redentore (= go’el). Nella cultura semitica era il titolo dato al parente più stretto tenuto in forza della legge alla responsabilità di riscattare un membro della famiglia che avesse perduto la libertà, o fosse stato fatto prigioniero, o fosse oberato da debiti insolvibili. Questo inderogabile dovere del “redentore” poteva essere adempiuto in due modi: raccogliendo la somma  richiesta per il riscatto, oppure consegnando se stesso o i suoi beni in sostituzione.  Ora la situazione di Israele esiliato e re so schiavo è disastrosa: quale “redentore” attendere ora che tutti hanno perso diritti e libertà? Non rimane che appellarsi a Dio supplicandolo di assumere lui stesso il compito di “redentore”. Solo lui può nuovamente riscattare (come fece in Egitto!) il suo popolo riconsegnandolo alla libertà.

    Dopo l’invocazione è la volta del lamento: “Perché Signore ci lasci vagare lontano dalle tue vie e permetti che il nostro cuore si indurisca?” (v.17). L’ “indurimento del cuore” (sclerocardia) è la radice di ogni peccato: esso sta a dire la resistenza della coscienza dell’uomo a piegarsi alla volontà di Dio. Qui il profeta sembra quasi incolpare Dio stesso di questa situazione: in effetti non sperimentiamo una radicale incapacità a compiere il bene che vorremmo mentre facciamo il male che non vorremmo? (cfr Paolo apostolo: Rm 7,14-24).  Non potrebbe Dio con un solo suo accenno risolvere questo male radicale che ci abita? E’ ancora indiretta supplica che corre su un nuovo registro!

    Se la “colpa”, chiamiamola così, è di Dio allora che egli “ritorni” (verbo della conversione!) sui suoi passi, alla sua fedeltà “per amore dei suoi servi” (non di certo per il merito di quest’ultimi).

    È importante l’argomento che Isaia usa per convincere Dio: non si rifà in primo luogo ad una ferma volontà di conversione da parte del popolo del tipo: abbiamo capito il nostro sbaglio e non lo rifaremo mai più, oppure “Adesso ci impegniamo, siamo migliorati e così non meritiamo più la tua punizione”. Isaia fa leva in primo luogo a Dio stesso e ai suoi sentimenti: “Tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma” (cfr Is 63,16; 64,7).

    L’intervento di Dio è necessario ed urgente, non si può procrastinare ancora a lungo: tutto sta cadendo nella desolazione e distruzione: Gerusalemme e il Tempio disfatti tra le fiamme e le rapine, Israele in esilio si sente abbandonato come tutti gli altri popoli: l’antica elezione sembra un ricordo lontano, un miraggio irraggiungibile: “Siamo diventati come coloro su cui tu non hai mai dominato, sui quali il tuo nome non è stato mai invocato” (v.19).  La salvezza riposa unicamente nella fedeltà di Dio al suo amore!

    Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti.
    64:1
    Come il fuoco incendia le stoppie e fa bollire l’acqua,
    così il fuoco distrugga i tuoi avversari,
    perché si conosca il tuo nome fra i tuoi nemici.
    Davanti a te tremavano i popoli,
    2 quando tu compivi cose terribili
    che non attendevamo,
    3 di cui non si udì parlare da tempi lontani.
    Orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te,
    abbia fatto tanto per chi confida in lui.
    4
    Tu vai incontro a quanti praticano la giustizia e si ricordano delle tue vie.
    Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo
    e siamo stati ribelli.
    5 Siamo divenuti tutti come una cosa impura
    e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia:
    tutti siamo avvizziti come foglie,
    le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.
    6
    Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si riscuoteva per stringersi a te;
    perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto,
    ci hai messo in balìa della nostra iniquità.
    7
    Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma,
    tutti noi siamo opera delle tue mani.
    8
    Signore, non adirarti troppo, non ricordarti per sempre dell’iniquità.
    Ecco, guarda: tutti siamo tuo popolo.
    9
    Le tue città sante sono un deserto, un deserto è diventata Sion,
    Gerusalemme una desolazione.
    10
    Il nostro tempio, santo e magnifico,
    dove i nostri padri ti hanno lodato, è divenuto preda del fuoco;
    tutte le nostre cose preziose sono distrutte.
    11
    Dopo tutto questo, resterai ancora insensibile,
    o Signore, tacerai e ci umilierai sino in fondo?

    L’intervento auspicato di Dio ricorda il Sal 17,10:Abbassò i cieli e discese, fosca caligine sotto i suoi piedi”. E Gdc 5,4-5:Signore, quando uscivi dal Seir, quando avanzavi dalla steppa di Edom, la terra tremò, i cieli si scossero, le nubi si sciolsero in acqua. Si stemperarono i monti davanti al Signore, Signore del Sinai, davanti al Signore, Dio d’Israele”. Isaia invoca una teofania simile se non più grande di quella del Sinai: che i cieli dimora di Dio si squarcino affinché la presenza e l’azione del Dio Altissimo si manifestino con evidenza, ciò provoca tremore e spavento, la gloria di Dio è manifestata come nell’esodo dal fuoco distruttore (è un’immagine classica per descrivere ogni teofania e la  salvezza di Israele e la distruzione dei nemici ne sono le conseguenze). “Orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te,  abbia fatto tanto per chi confida in lui” (v.3): solo Dio può operare questa salvezza perché nessun altro è “fuori di te” ! Questa fiducia è essenziale affinché JHWH possa operare nuovamente prodigi (cfr Is 30,8; Sof 3,8).[2]

    Ai vv. 4-6 torna di nuovo il lamento che presenta tuttavia un tratto nuovo. Al v. 17 si parlava di una insondabile volontà divina circa la triste situazione di Israele si trova, qui invece la riflessione cade sulla responsabilità dell’uomo: è il suo peccato che ha causato l’allontanamento di Dio e l’attuale situazione: “tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli”. L’infedeltà – la ribellione – all’alleanza è la causa di tutte le sventure. D’altronde di fronte alla santità di Dio l’uomo non può che costatare e riconoscere la sua radicale incapacità di una sua “giustizia”: “come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia” (v.5 cfr Rm 3,5; 3,20).

    A causa di questo stato “immondo” l’uomo avverte se stesso lontano da Dio: “tu avevi nascosto da noi il tuo volto” (v.6). Dio ha interrotto la sua relazione con il suo popolo abbandonandolo alla mercè della sua colpa! (cfr Ap 2,23).

    Ma dopo questa amara constatazione ancora una nuova svolta preannunciata da un “ma-wau”  (v.7) viene offerta all’ascoltatore della profezia. Il profeta richiama ancora, come punto fermo e di forza maggiore, la realtà della paternità di Dio nei confronti di Israele: malgrado tutti i peccati il popolo appartiene sempre al “suo” Dio e Creatore! Si usano infatti immagini plastiche come quelle dell’argilla e del vasaio (chiaro riferimento al racconto della prima creazione) per implorare da Dio quasi una nuova creazione per Israele.

    Infine il profeta richiama ancora l’attenzione di Dio sulla desolazione della terra promessa ad Abramo, sulla desolazione di Gerusalemme, sulla distruzione del Tempio: Dio non può rimanere insensibile dinanzi a tutto questo sfacelo che sembra testimoniare l’abbandono di Dio e dunque l’inaffidabilità della sua promessa! Dio non può stare in silenzio e non può rimanere insensibile! (cfr 63,15).

    Per la riflessione

     La storia dell’esilio è la storia di chiunque, come il figlio minore della parabola, intraprenda direzioni lontane dalla verità di Dio: alla fine non troverà che delusione, solitudine, vuoto, disorientamento, disperazione… E’ il castigo, ovvero le conseguenze che il peccato porta già con sé come suo salario:Perché il salario del peccato è la morte”  (Rm 6,23).

    In questa situazione è facile accusare Dio o cercare capri espiatori sui quali far ricadere la colpa.

    Il processo di redenzione passa attraverso un” far memoria” dell’opera di Dio in noi per ritrovare la certezza che sempre l’amore suo per la sua creatura “è forte come la morte e le sue vampe sono vampe di fuoco” (Ct 8,6). Dio non si rassegna mai, ma non può imporsi, non può sopraffare la nostra libertà ma Egli tuttavia rimane incontenibile nella sua passione per l’uomo che, sosteneva Edith Stein, è “infinitamente inverosimile” che egli possa uscirne sempre sconfitto.

    Preghiera conclusiva

     Come la peccatrice all’ombra del tuo vestito
    possa io rifugiarmi  e abitarvi per sempre.
    Come colei che nella sua paura
    trovò forza e guarigione,
    guariscimi dalla mie fughe per paura;
    che io un te trovi forza!
    Che dal tuo mantello mi lasci condurre
    fino al tuo corpo,
    perché possa cantarti meno indegnamente.
    Il tuo mantello, Signore, è continua medicina,
    la tua forza nascosta nella veste risiede.
    Basta un po’ di saliva dalle tue labbra
    e meraviglia di luce si opera nel fango.
    (Sant’Efrem il Siro, De Fide, 10)

    [1] Cfr nei vangeli i rimandi fatti circa lo sguardo di Gesù sulle in cui l’uomo si trova a causa della sua misera situazione: Mt 8,14; 9,9; 9,22; 14,14; 6,34; Lc 5,12; Gv 9,1; Gv 11,32;
    [2] San Paolo utilizzerà questo testo per descrivere la rivelazione salvifica operata da Cristo (cfr 1Cor 2,9).
  • 17 Ago

    Perdonerai settanta volte sette

    di p. Attilio Franco Fabris

    Buona parte delle offese che ci infliggiamo sono spesso causate da abituali difetti di carattere. Questi difetti fanno sì che la persona avverta in se stesso quasi la presenza di due personalità diverse. Nonostante tanti e tanti sforzi, le sconfitte sono sempre presenti. Allora come devo reagire di fronte a questi difetti sia nel caso che sia io l’offensore, come in quello in cui io ne sia la vittima?

    Dobbiamo notare il fatto che si tratta di comportamenti che nessuno approva quando è sereno, ci si accorge che dissentono con quei valori in cui si crede. La coscienza rimorde provocando un sentimento sgradevole quando si rientra in se stessi prendendo coscienza del proprio errore. Sino a quando questo succede è anche un bene!

    Non si tratta dei peccati più gravi. Quelli peggiori sono invece quei comportamenti che non provocano più rimorsi di coscienza, quelli che sono ormai “internalizzati”.

    Scrive un autore: Il peccato non è che il terminale logico di un processo semicosciente di piccole scelte e di grandi giustificazioni che, a lungo andare, finiscono col convertire in logica, in coerenza e, forse, anche in necessità, il male che si compirà più tardi. In questo mondo la grande forza del male risiede in questi processi misteriosi… grazie ai quali un giorno il male arriverà a sembrare plausibile o necessario… L’uomo non si consegna mai alla mostruosità fine a se stessa, ma ad una mostruosità che è il risultato finale di un processo sottile, grazie al quale ciò che è mostruoso viene spogliato del suo essere terribile, fino ad apparire logico e necessario (Gonzàles Faus, Este es el hombre).

    Allora non si tratta più di una “scappatella”, ma dello stabilirsi in noi in modo permanente e sempre più inconscio di un ordine di cose pienamente assimilato. Il vero peccatore non è colui che, dopo un eccesso d’ira, si sente un disastro nel suo intimo, ma colui che giustifica pienamente i propri eccessi e non riesce più ad allontanarli criticamente. (cfr. il marito violento che cerca argomenti per giustificare il suo modo di agire). I peccati così diventano “logici, coerenti, necessari, plausibili, privi di mostruosità”.

    Quanto è necessaria allora una efficace disciplina penitenziale al fine di aiutarci a non arrivare a quel punto. Non potremo forse giungere ad estirpare i nostri vizi, ma certamente potremo evitare che questi si convertano in qualcosa di “pienamente giustificato”, impossessandosi del nostro io più profondo. Bisogna disattivare pazientemente, mediante il pentimento e la confessione tutte le nostre “piccole scelte e le grandi giustificazioni”.

    E’ a questo punto che rientra l’ammonimento del Signore del chiedere perdono settanta volte sette: Allora Pietro si fece avanti e gli domandò: «Signore, quante volte, se il mio fratello peccherà contro di me, dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette (Mt 18,21-22).

    Il maggiore ostacolo al pentimento è pensare che non serve a nulla, dal momento che si tornerà di nuovo a peccare. Questo è il grande intralcio alla  vera disciplina penitenziale, la pietra di scandalo nella quale molti inciampano, abbandonando la lotta contro i propri difetti, lasciando che il male prenda sempre più radici in noi.

    Sul pianeta del piccolo principe, c’erano, come su tutti i pianeti erbe buone e erbe cattive. Di conseguenza dei semi buoni e dei semi cattivi. Ma i semi sono invisibili. Essi dormono nel segreto della terra fino a quando qualcuno di loro non si sogna di svegliarsi. Allora esso fa spuntare timidamente verso il sole un germoglio piccolo e verde, inoffensivo. Si tratta di un germoglio di ravanello o di rosa, si può allora lasciarlo crescere come vuole. Ma se si tratta di un pianta cattiva, bisogna strapparla subito, appena la si riconosce.

    Ora vi sono dei semi terribili sul pianeta del piccolo principe… sono i semi di baobab. Il suolo del pianeta ne era infestato. Ora di un baobab, se  si interviene troppo tardi, non è più possibile sbarazzarsene. Egli occuperà tutto il pianeta. Lo attraverserà con le sue radici. E se il pianeta è troppo piccolo, e se i baobab sono numerosi, alla fine sarà distrutto.

    “E’ una questione di disciplina – mi disse più tardi il piccolo principe. Quando ho terminato  le pulizie del mattino, bisogna accuratamente fare le pulizie del pianeta. Bisogna imporsi regolarmente di strappare i baobab e distinguerli dalle rose alle quali essi rassomigliano molto quando sono piccoli. E’ un lavoro noioso, ma molto facile” (A. De Saint-Exupery, Le petit prince, V).

    Anche l’effetto dei nostri peccati sugli altri è molto diverso quando li confessiamo e ci pentiamo. E’ molto più facile ottenere il perdono. Quanto invece diviene insopportabile e terribile convivere con persone che giustificano il loro atteggiamento sbagliato.

    Ma ritorniamo al brano evangelico citato: nel brano parallelo di Luca, a differenza di quello di Matteo, appare chiaramente che il perdonare “settanta volte sette” si riferisce all’offensore: Se il tuo fratello pecca, ammoniscilo e, se si pente, perdonalo; e se pecca contro di te sette volte al giorno e sette volte torna a dirti: “Mi pento”, devi perdonarlo (Lc 17,3-4). Le differenze con il testo di Matteo sono evidenti. Luca non parla di “settanta volte sette”, dice semplicemente “Sette volte”, ma aggiungendo “al giorno”. In modo diverso, mette ugualmente in risalto la ripetitività dell’offesa. Ma, soprattutto, l’elemento di novità è che il testo di Luca presuppone il pentimento e la richiesta di perdono da parte dell’offensore, il quale ritorna per dire: “Mi pento”.

    Allora perdonare non significa in alcun modo “dissimulare l’offesa ricevuta”, il “far finta di niente”. Col nostro “passar sopra” infatti contribuiremmo a rinsaldare la cattiva coscienza dell’offensore. Non sempre il nostro silenzio è sintomo di “carità” verso l’altro. Luca dice che dobbiamo “rimproverare” “correggere” il fratello. Soltanto quando costui si pente entra in gioco il nostro dovere di perdonare “sette volte”.

    Ora, in ogni famiglia, in ogni comunità, occorrerebbe avere il coraggio di affrontare le tensioni e le sofferenze. Le amarezze, i risentimenti se si accumulano, non trovando soluzione in una continua riconciliazione, alla fine raggiungono livelli di tossicità mortali per la vita di comunione. (cf. la necessità della correzione fraterna e della revisione di vita). Il consiglio della scrittura è molto esplicito: Se vi capitasse di adirarvi, cercate di non peccare; che non tramonti mai il sole sulla vostra ira (Ef 4,26-27).

    Madre Basilea Schlink, fondatrice di una famiglia religiosa che possiede il carisma della ricerca di una continua riconciliazione tra i suoi componenti, scrive nella regola: Riconciliati! Non essere mai inimicato con nessuno. Va’ da quella persona verso la quale nutri nel tuo cuore qualche risentimento, o lei contro di te, e lascia che sopraggiunga l’amore. Qui comincia il regno dei cieli. “Non tramonti il sole sopra la vostra ira”: se ci addormentassimo in questo stato forniremmo all’ira il modo di impadronirsi del nostro sonno, di infiltrarsi nelle zone profonde dell’inconscio, trasformando in simboli permanenti parole e azioni negative della giornata. Rimane valida la massima dell’ascetica più classica di “arrestare il male al suo inizio”.

    Doroteo di Gaza scrisse una pagine esemplare su questo tema: Un uomo accende un fuoco, un piccolissimo fuoco; è soltanto un carbone acceso. Esso raffigura la parola del fratello che ti offende… Se riesci a sopportarla, spegni il fuoco. Al contrario, se ti fermi a pensare: “Perché mi ha detto questo?”, come colui che ravviva la fiamma, getti sul fuoco dei ramoscelli verdi, legna bagnata che fa molto fumo, turbandoti… Il turbamento non è altro che l’afflusso di pensieri che eccitano ed esaltano il cuore, e questa esaltazione ti spinge a vendicarti dell’offensore… Se all’inizio del turbamento, appena appaiono il primo fumo e le prime scintille, ti fai avanti per accusare te stesso, prima che scatti la fiamma della collera, mantieni la pace. Al contrario, se una volta che è stata provocata la collera, non cerchi di calmarla e, anzi, insisti nell’accrescere il turbamento e l’esaltazione, è come se gettassi della legna sul fuoco per mantenerlo vivo finché tutto brucia” (Istruzioni, VIII, 89,91).  Gesù nel vangelo ammonisce: Mettiti d’accordo con il tuo avversario subito, mentre sei per via con lui, affinché l’avversario non ti consegni al giudice, il giudice al carceriere e tu sia gettato in prigione. In verità ti dico: non ne uscirai, finché non avrai pagato fino all’ultimo quadrante. (Mt 5,25-26).

    Fa’ la pace col tuo avversario prima che la situazione precipiti e ti sfugga di mano; riconciliati subito prima che tutti e due arriviate ad un punto da cui sarà poi difficile tornare indietro. L’immagine del carcere rappresenta una situazione, un luogo da cui è molto difficile poter fuggire. Ricerca la pace: quando si tratta di offese, la cosa importante non è sapere chi ha cominciato ad offendere per primo, ma chi dei due avrà il coraggio di fare il primo passo verso la riconciliazione.

    per la meditazione

    1. Esamino la mia vita nei miei rapporti con gli altri. Esistono comportamenti che desidererei non esistessero? Quali sono? Ne ho coscienza, o rischiano di divenire “plausibili e necessari”?
    2. Il maggiore ostacolo al pentimento è pensare che  non serve a nulla perché si tornerà di nuovo a peccare.
      Avverto in me questo tipo di ragionamento?
      Sono al contrario disposto ad una disciplina penitenziale che mi conduca ad avere sempre  coscienza di quegliaspetti che in me hanno ancora bisogno di conversione e purificazione?
    3. Riesco a riconoscere il mio sbaglio e a chiedere perdono, oppure mi ripugna fare questo? Perché?Lascio che la mia “ira” covi in me i suoi veleni o cerco immediatamente la strada del perdono e della riconciliazione?
    4. Ho il coraggio di dire al fratello il suo errore? Faccio finta di niente? ortante (anzitutto per me!) la correzione fraterna e la revisione di vita? Cosa potresti fare affinché nella tua comunità ci si aiuti in questa direzione?

     

     

  • 16 Ago

    Signore, insegnaci a perdonare

     d p. Attilio F. Fabris

    Il Padre nostro con la sua richiesta di perdono dei nostri debiti diviene una scuola di misericordia; lì sono invitato a prendere coscienza del mio peccato e del mio bisogno di perdono. Un dono questo che si salda strettamente con l’ingiunzione di perdonare ai nostri debitori. “Va’, e anche tu fa lo stesso” (Lc 10,37).

    Quali caratteristiche ha il perdono, la misericordia, del Padre? Esso non è né uno sconto, né un condono. Non è un lasciar perdere, un far finta di niente. Non è neppure un perdono gratificante concesso ad un bambino viziato.

    Dio prende sul serio il mio peccato. Realtà talmente tragica da dover esigere il sacrificio del Figlio prediletto. Il perdono del Padre che passa attraverso la croce del figlio fa sì che ci sia dato un cuore nuovo dall’effusione fatta dello Spirito. Un cuore a misura del suo stesso cuore; e quindi capace di perdonare come ne è capace lui.

    Ci trasforma così in strumenti di misericordia e riconciliazione.  Perdonare è quindi dono di Dio, e chi perdona fa esperienza dell’amore del Padre, nella misura in cui il suo perdono si rapporta a quello divino.

    PERDONO CREATORE

    Il perdono del Padre ci precede sempre, è perfettamente gratuito. Ancora: esso possiede una infinita capacità creativa, capace di rigenerare alla vita.  Il perdono è gesto gratuito, non legato alla richiesta dell’altro e neppure al suo pentimento. Non ci si interroga su chi deve fare “il primo passo”, non sta ad analizzare se vi siano segni o no di pentimento, non pone condizioni del tipo “Ti perdono se…”

    Il perdono è gesto umile. Esso non umilia mai. Vorremmo vedere l’altro battersi il petto riconoscendo il proprio peccato, e noi prenderemmo l’occasione per far pesare ancor più la sua colpa. Il perdono che procede dalla misericordia divina non ha queste caratteristiche, esso passa accanto all’altro con mitezza e discrezione

    Il perdono più che un atto è un atteggiamento di vita: E’ un modo di porsi di fronte all’altro e alla sua debolezza. E’ più uno stile di vita, uno sguardo di magnanimità e comprensione, incapace di scandalizzarsi della miseria dell’altro.

    Il perdono autentico è sincero; ovvero dice una volontà reale di accoglienza e comunione. Un desiderio di ricostruire ciò che è stato infranto. Che sia sincero non significa che non sia sofferto e faticoso.

    Non mette perciò in conto il passato poiché è rivolto maggiormente al futuro nuovo.  Il perdono è ancora un messaggio di stima e di fiducia, un dire all’altro la sua bontà oggettiva che mai può venir meno. Perdonare vuol dire perciò entrare nella convinzione che il fratello sia sempre migliore di quel che appare. Perdonare allora non è passar sopra, un far finta di niente. Al contrario è forza che provoca la scoperta e la rivelazione della propria identità.

    PERDONO REDENTORE

    Confessare il nostro peccato e riceverne il perdono genera in noi una disposizione alla misericordia. Si tratta di una misericordia concessa in maniera sovrabbondante, non si accontenta del concedere il minimo per ristabilire la relazione. E’ disponibile ad andare al di là, capace di perdonare settanta volte sette senza paura di passare per eroi  o per fessi.

    Si tratta di una misericordia che è amore che va al di là della “giustizia”. Un perdono concesso senza amore non è un vero perdono. Non c’è più solo la motivazione dell’utilità o dell’importanza del rapporto, ma quella più nobile e vera del sentirsi responsabili dell’altro. Per perdonare, occorre ricordarlo, non occorre essere in due.

    Un perdono gratuito sembra un atto ingenuo. Paolo VI quando si inginocchiò di fronte agli “uomini” delle brigate rosse sembrò compiere un atto patetico ed inutile visto poi il triste epilogo della vicenda. Ma fu un gesto profetico, come quello di Giovanni Paolo II quando andò a visitare il suo attentatore in carcere. Sono gesti profetici capaci di seminare nei solchi della nostra storia dei semi diversi da quelli della violenza e della legge del taglione. Sono semi del regno di Dio.

    PERDONARE DA PECCATORI

    C’è ancora un aspetto da sottolineare. Quando perdoniamo lo facciamo sempre da peccatori, mai da giusti. Non dobbiamo avere vuoti di memoria quando perdoniamo agli altri. Non dobbiamo porci ad un livello superiore sentendoci sempre più… giusti!

    Noi perdoniamo da peccatori riconoscendo che il perdono è più da condividere che da concedere: è attingere da un dono che proviene dall’Alto. Comprendiamo a questo punto che il perdono non solo da dare ma anche da chiedere. Onestà e trasparenza verso noi stessi.

     

     

     

  • 15 Ago

    SOLITUDINE E “SOLITARIETA’”

    A cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    Solitudine

     Per dire TU occorre prima saper dire IO.

    L’accettazione del “mistero” dell’altro consegue la scoperta e l’accettazione del mistero di noi stessi. (Cfr. il bambino e la madre).

    Occorre perciò se si vuole instaurare una vera relazione con l’altro discendere nel medesimo tempo alla propria intimità, alla relazione con noi stessi.

    Mi percepisco anzitutto unico e differente dagli altri e dalle cose: è il mistero della persona.

    Scrive san Gregorio di Nazianzio nel suo trattato “Della creazione dell’uomo”: L’immagine non è veramente immagine se non possiede tutti gli attributi  del suo modello… La caratteristica della divinità è di essere inafferrabile, anche questo l’immagine lo deve esprimere. Se l’essenza dell’immagine si potesse comprenderla mentre il suo modello sfugge ad ogni comprensione, una tale differenza la annullerebbe in quanto immagine. Ma noi non arriviamo a definire la natura della nostra dimensione spirituale, proprio a immagine del nostro creatore… significa dunque che noi portiamo l’impronta dell’ineffabile divinità nel mistero che è in noi”.

    La mia unicità, il mio mistero direbbe Gregorio, è anche l’unicità e il mistero di coloro che mi vivono accanto.

    Questa unicità genera un sentimento: l’uomo si coglie, allorché diviene cosciente di sé, essenzialmente unico e dunque solo.

    Il filosofo austriaco di discendenza ebreo Martin Buber (1875-1965), sostenitore della concezione dialogica nella relazione tra Dio e l’uomo, afferma: Ogni persona che viene a questo mondo costituisce qualcosa di nuovo, qualcosa che non è mai esistito prima. Ogni uomo deve sapere che non c’è mai stato nel mondo nessuno uguale a lui perché se ci fosse stato un altro uguale a lui, non sarebbe stato necessario che lui nascesse. Ogni uomo è un essere nuovo nel mondo, chiamato a realizzare la sua particolarità.

     Duns Scoto, filosofo e teologo inglese (1266-1308), francescano che concepì la metafisica come scienza rigorosa e deduttiva e sostenne la dimostrabilità razionale delle verità soprannaturali, dava anch’egli una definizione di persona: La persona è l’ultima solitudine dell’essere.

    Ovvero il nostro centro costituisce la nostra unicità, ovvero la nostra solitudine.

    SOLITARIETA’

     Viviamo in un contesto culturale che favorisce la superficialità.

    Tante volte non si ha il coraggio di affrontare il proprio mistero, la propria solitudine esistenziale. Chiudiamo gli occhi, affrettiamo il passo, fuggiamo da noi stessi… cerchiamo altrove la nostra “identità”, ci dissolviamo nel “gruppo”.

    Nella misura in cui viviamo nell’esteriorità tanto meno cogliamo il nostro essere “persona”.

    Dobbiamo perciò sempre fare i conti con i nemici della nostra interiorità: la paura, la  distrazione, la dispersione, la superficialità…

    Chi fugge da se stesso non si incontra né tanto meno incontrerà e amerà gli altri…

    teniamo presente che “la misura con cui penetriamo nel cuore del nostro mistero è la stessa misura della nostra apertura verso i fratelli” (Larranaga).

    Altra attenzione: si può fuggire fuori di sé, o anche dentro di sé. In questo caso è il rinchiudersi nel proprio mondo impedendo a se stessi e agli altri di entrare in relazione.

    E. Fromm, psicanalista tedesco (1900-1980), dice: Sentirsi completamente isolato e solitario porta alla disgregazione mentale.

    La bibbia dice: Non è bene che l’uomo sia solo (Gn. 2)

    Se è proprio dell’essenza della persona il percepirsi solitudine, fa parte altresì della sua stessa essenza essere in relazione.

    E’ l’isolamento che è negativo, che porta con sé tristezza, angoscia, visione negativa della realtà. Essa se esiste, può avere molteplici cause interne ed esterne.

    Quando fuggiamo da noi stessi e dagli altri siamo così vuoti, insoddisfatti, qualcosa ci manca: iniziamo a vacillare. Non sappiamo più perché esistiamo (è il “vuoto esistenziale” di cui parla ad es. V. Frankl).

    UN’ESISTENZA DA VIVERE

     L’uomo si vede “gettato” in un mondo incomprensibile (cfr Haidegger). La paura lo può assalire: lo spettro della morte ci sta costantemente alle spalle. La mancanza di senso provoca angoscia.

    Occorre un senso, un significato: la sofferenza e la paura della morte si superano solo con questo.

    Per noi questo senso, questa ragione: è la relazione con una Persona, anzi Tre, Dio.

    Ci siamo lasciati attrarre da quel “quaerere Deum” che ha caratterizzato la vita di tanti prima di noi.

    Ci siamo lasciati attrarre dall’invito evangelico a seguire Gesù… Ci siamo avventurati.

    Dio è divenuto Rupe su cui porre saldamente il mistero del nostro essere perché non vacilli nel vuoto.

    Rimane evidente che per la nostra esistenza è indispensabile che Dio rimanga sempre interlocutore, compagno vivo: Di te ha sete l’anima mia come terra deserta, arida senza acqua.

    Questa “solitudine” mi è stata data con la vita. L’esistenza mi è stata data, donata, non l’ho richiesta io. Posso disprezzarla, disperderla o addirittura distruggerla. (Giobbe dirà: Maledetto il giorno in cui nacqui, maledetta quella notte nella quale si disse: E’’ stato concepito un uomo”); oppure benedirla (Il salmista dirà: Benedici il Signore anima mia quanto è in me benedica il suo santo nome).

    Non ho scelto la vita, come non ho scelto la sofferenza e la morte. Mi ci trovo indipendentemente dalla mia volontà.

    Tocca a me però assumermi la responsabilità di questa mia vita, perché non mi è stata data bell’e fatta e rifinita. La vita la devo vivere, deve essere vissuta da me: solo per l’uomo la vita allora è problema non per l’animale dotato di istinti.

    Pur nel mondo limitato percepiamo guardando gli spazi infiniti che il nostro essere è infinito: cogliamo lo “sprazzo di divinità” che è in noi.

    Grandi, infinite aspirazioni unite a grandi pesanti e inevitabili limiti.

    E’ l’assurdo dell’esistenza umana che fa sì però che l’uomo si collochi in cammino, in progressione in ricerca inesausta, insieme ai suoi fratelli.

    Con uno sguardo all’infinito del Creatore fatto debole carne come la mia mi è dato di poter dare risposta all’enigma dell’esistenza umana. E’ questo è grazia.

     

  • 14 Ago

    Fece sua la condizione di servo

    Lectio di Fil 2,5-11

    di p. Attilio Franco Fabris


    3 Fratelli, non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria,
    ma ciascuno di voi, con tutta umiltà,
    consideri gli altri superiori a se stesso,
    4 non cercate ciascuno le proprie cose,
    ma quelle degli altri.
    5Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
    6egli, pur essendo nella condizione di Dio,
    non ritenne un privilegio
    l’essere come Dio,
    7ma svuotò se stesso
    assumendo una condizione di servo,
    diventando simile agli uomini.
    Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
    8umiliò se stesso
    facendosi obbediente fino alla morte
    e a una morte di croce.

     

    Rabbi Sclomo diceva: “Se vuoi sollevare un uomo dalla melma e dal fango, non credere di poter restare in alto e accontentarti di stendere una mano soccorrevole. Devi scendere giù tutto, nella melma e nel fango. Allora afferralo con forti mani e riconduci lui a te alla luce”” (da “I racconti dei Chassidim). È una breve parabola che illustra bene il significato del mistero dell’Incarnazione e di che cosa essa comporta per Dio stesso. Gesù “è sceso giù tutto nella melma e nel fango della nostra storia” per “afferrarci con mani forti” e ricondurci alla luce.
    Non si è limitato di “fare” qualcosa, stando “nell’alto” della sua gloria per ottenerci la salvezza necessaria, ha scelto invece inaspettatamente una strada “in tremenda discesa”: si è fatto uno di noi, per darci non solo qualcosa di sé ma tutto se stesso “sino alla fine” (Gv 13,1).
    Noi talvolta nel nostro servizio agli altri siamo sempre preoccupati anzitutto di “dare o dire qualcosa” al bisognoso, al povero, al disperato. Non nego che questo sia importante. Ma non è l’atteggiamento prioritario con cui ci dobbiamo porre al servizio del fratello: ci si chiede anzitutto l’umiltà di “essere poveri come Cristo assumendo la sua condizione di servo”. Parafrasando potremmo usare le parole della Lettera agli Ebrei: Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu o Padre non hai voluto che io facessi chissà quali opere per donare la salvezza ai miei fratelli. Mi hai chiesto solo e sempre che offrissi senza riserve, anche a costo della vita, tutto me stesso fino alla fine. come (cfr 10,5)

    LECTIO

     Ci vogliamo soffermare nella nostra lectio alla sola prima parte dell’inno cristologico che anche la Liturgia delle Ore ci propone ai primi vespri della domenica.  L’inno, lo sappiamo, traccia in modo mirabile il “cammino” compiuto da Gesù: dalla gloria che gli compete da sempre in quanto Dio, accetta di scendere, di abbassarsi, fino ad annientarsi sino nella morte di croce. Per questa obbedienza il Padre gli riconosce la gloria e gli consegna la signoria  su tutto l’universo.  Il testo, probabilmente ripreso da Paolo da un inno liturgico già esistente nelle comunità cristiane è antichissimo e dunque di grande importanza teologica e catechetica. Esso celebra la centralità del mistero cristiano: dall’incarnazione, alla morte fino alla glorificazione di Gesù in una densissima completezza teologica

    L’apostolo desidera fortemente che nella giovane comunità di Filippi regnino pace, carità, unanimità (v.2) e l’inno viene inserito da Paolo proprio con questo intento preciso. Esattamente nel passaggio in cui esorta la comunità alla concordia, alla stima e all’umile servizio reciproco: “Fratelli, non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso”(v.3; cfr 1,27). Tutto ciò che potrebbe turbare l’unità, in primo luogo la “vanagloria” che è porre se stessi al centro, va allontanato decisamente. Infatti in ogni comunità era ed è sempre presente la tentazione di fare anche il bene con il desiderio, più o meno conscio, di emergere, di mostrarsi, di apparire, d’essere riconosciuti ed applauditi.

    A questa tentazione occorre reagire, dice Paolo, perseguendo una virtù fondamentale forse oggi passata un po’ di moda: l’“umiltà” (v.3)! In greco Paolo adopera la parola: “tapeinofrosýne”. È la sapienza di chi si considera… “tapino”!  E’ la stessa parola che Maria usa nel Magnificat riguardo a se stessa: «Il Signore ha guardato alla mia condizione tapina». Paolo intende l’umiltà come disponibilità a cercare non il proprio interesse ma il bene dell’altro, la capacità di porsi davanti all’altro come servi gli uni degli altri. È la forza di “perdere se stessi” preferendo il bene dell’altro al proprio: “non cercate ciascuno le proprie cose, ma quelle degli altri” (v.4). Ci sono infatti due posizioni contraddittorie: c’è la ricerca del proprio interesse e c’è, invece, la ricerca dell’interesse, del bene, dell’altro. Paolo, con una forte radicalità, non distingue tra interessi propri  legittimi o illegittimi, ma distingue tra due ambiti: l’ambito del proprio io e l’ambito degli altri. Il cristiano deve uscire dal proprio ambito ed entrare nell’ambito dei fratelli, mettendosi al loro servizio.

    Dopo aver esortato all’umiltà che scaturisce dalla disponibilità a farsi piccoli, ovvero servi gli uni verso gli altri, l’apostolo Paolo per rafforzare l’esortazione e darvi solido fondamento presenta il luminoso esempio dello stesso Cristo Gesù: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (v.5).

    In luogo del termine “sentimento” forse una traduzione migliore potrebbe essere: “abbiate la stessa mentalità che fu in Cristo Gesù”. Questo cosa significa? Che il cristiano, nel cammino di conformazione sempre più piena a Cristo, apprende a ragionare, pensare, sentire, come il suo Maestro (cfr Ebr 12,2). E’ possibile fare nostri i sentimenti di Cristo, il suo modo di pensare, non in primo luogo per un impegno moralistico e  filantropico, ma perché i cristiani sanno di essere, in forza del loro battesimo “una sola cosa” con lui,  tralci innestati alla vite e dunque capaci di portare frutti giusti (cfr Gv 15,5). Da questa unione oggettiva, sacramentale,  deriva il fatto che è possibile fare nostri i suoi stessi sentimenti.

    Ma quali sono i sentimenti, la “mentalità” di Cristo? Quale il suo modo di guardare al senso della vita, alla relazione con Dio e gli altri?

    La prima parte dell’inno prende in considerazione la gloria che da sempre compete a Cristo in quanto Dio: “Pur essendo nella condizione di Dio” (v. 6). La parola usata per “condizione” è “morphé” che in sé esprime di solito l’aspetto esteriore che riflette totalmente l’identità profonda dell’essere. Ovvero: Cristo da tutta l’eternità partecipa in sé stesso della stessa gloria divina del Padre suo. Ebbene, nel momento dell’incarnazione, egli rinunciò esteriormente a questa gloria che gli spettava di diritto al fine di condividere totalmente la nostra limitata umanità. Egli scelse perciò l’ordinaria “condizione (morphé) servile” (v.7). Il testo specifica che in tal senso “non ritenne un privilegio essere come Dio” (v.6). Si tratta di una frase un po’ difficile da rendere bene in italiano (la parola greca usata è “arpaghmon” ed è rarissima).  Possiamo cercare di intenderla in senso passivo come equivalente di “arpàgmafurto”, nel significato di una “cosa rubata” che si “tiene stretta gelosamente a sé” come appunto fa il ladro con la sua refurtiva. Ricordiamo il celebre “Arpagone” protagonista della commedia di Moliere che incorreggibile taccagno non teme di usare anche i propri figli per i suoi interessi, la sua filosofia di vita è: tutto per me e niente per gli altri. Cristo non è certamente un “Arpagone”! Non ebbe timore di abbandonare il tesoro preziosissimo (arpàgmon) e lo splendore della sua gloria divina per farsi povero come noi senza ricavare nulla per sé.  Non la reclamò mai per sé. Paradossalmente essa fu totalmente eclissata durante la sua vita terrena e soprattutto nella sua passione e morte.

    L’inno sottolinea questo spogliamento totale del Figlio di Dio usando una forte forma verbale: “svuotò se stesso” (v.7). Il verbo greco è più incisivo dell’italiano “umiliare”;  è il verbo “ekènosen-svuotare”. Nella Volgata latina la traduzione è “exinanivit”, ossia “rese se stesso inutile, vuoto, senza incidenza”. È un’espressione scandalosa affermare che il Figlio di Dio possa “svuotare se stesso”! Eppure è questo il cuore del mistero dell’agape divina: per amore della vita dell’uomo Dio accetta di rinunciare alla propria vita, di svuotarsi della sua vita, per riempire con la sua la nostra morte.

    È sorprendente che nell’inno non si parli immediatamente del suo diventare uomo, ma si affermi in primo luogo che Cristo accetti per sé anzitutto la condizione di “schiavo” (v.7a). Gesù sceglie di vivere in questo mondo facendo sua un’umanità banale, comune, quotidiana: “diventando simile agli uomini” (v.7b). E si tratta di una “somiglianza” oggettiva, autentica, non apparente come sostenevano alcuni eretici gnostici dei primi secoli del cristianesimo scandalizzati da un Dio che potesse sporcasi con la nostra carne. Ed una “somiglianza” così perfetta da non poter  che essere riconosciuto esteriormente se non come uomo come tutti noi: “dall’aspetto riconosciuto come uomo” (v.7c).

    L’espressione “svuotare se stesso” acquista ora tutta la sua valenza: essa comporta il farsi “schiavo”, “simile (o uguale) agli uomini“. In questo modo da parte dell’uomo Gesù il mondo di Dio è interamente abbandonato, e la povertà, il fango, del nostro mondo terreno è definitivamente raggiunto e perciò salvato.

    Come se questo non avesse bastato, l’itinerario di abbassamento di Gesù non aveva raggiunto il suo fondo. All’umiliazione dell’incarnazione, Cristo ne assomma un’altra ancor più sconcertante e scandalosa: quello di accettare liberamente per sé, lui che è Dio, la morte, e non una morte qualsiasi ma quella maledetta della “croce” (v.8; cfr Dt 21,23). La parabola della discesa dalla gloria celeste qui raggiunge il punto “nadir”. Gesù sprofonda nel tessuto dell’esistenza umana segnata dalla sua drammatica contingenza accogliendone anche non solo il dramma della morte, ma di una morte violenza, provocata, voluta da altri, in totale obbedienza da schiavo.

    È questa la via attraverso la quale Dio ha voluto raggiungerci per stenderci la mano. Non ha scelto la via del miracolo, del cambiamento di strutture di peccato e sistemi sbagliati, ha percorso la strada, come ad Emmaus, del farsi compagno di cammino condividendo la nostra fatica, incertezza, dolore speranza. Ma proprio attraverso questa scelta ha potuto stenderci amichevolmente e in tutta libertà una mano trafitta unicamente dall’amore.

    MEDITATIO

     Paolo ci invita ad avere nelle nostre comunità uno stesso sentire (cfr Fil 2,2). Ma questo comune modo di sentire e di pensare a chi deve appartenere? Supponiamo di essere tutti radunati in assemblea e di pensarla ognuno in un modo diverso. Quando alla fine si deve decidere dobbiamo giungere a pensarla tutti allo stesso modo, ma di chi assumiamo il modo di pensare, il criterio di verità sarà sempre e solo della maggioranza in uno stile… democratico? Paolo ci ricorda che il modo univoco di pensare dei cristiani non è il modo di pensare di questo o di quell’altro, e neppure della maggioranza democratica fosse pure del consiglio pastorale o del capitolo provinciale, ma deve essere quello corrispondente ai “sentimenti” di Cristo. Dove “sentimento” è far nostro il suo modo di essere nel mondo, di vivere la relazione col Padre e tutti noi, soprattutto di come intendere la via, ricalcata sulla sua, attraverso la quale annunciare la salvezza dell’evangelo.

    Ma quali sono i “sentimenti di Cristo”, le vie da lui percorse? Li potremmo riassumere in una parola: il dono gratuito di un amore incondizionato e a fondo perduto che non si preoccupa di “dare semplicemente qualcosa” ma che si fa essenzialmente “dono di tutto se stesso per noi”.

    Leggendo i vangeli ci accorgiamo che Gesù non dà mai “qualcosa” per noi, ma sempre e solo dona tutto se stesso dall’inizio alla fine della sua esistenza: “Questo è il mio corpo dato per voi… questo è il mio sangue versato per voi”. Fugge quando la gente lo rincorre solo per ottenere qualcosa (cfr Gv 6,26ss). Non ritenne necessario divenire uomo potente e facoltoso capace di risolvere i problemi della povertà, della malattia, dell’ingiustizia, non si pensò neppure di presentarsi come il “deus ex machina” che all’ultimo istante con miracoli strabilianti potesse risolvere magicamente le contraddizioni della vita.

    Gesù scelse un’altra strada, contrapposta a quella propostagli dal nemico nei quaranta giorni nel deserto (cfr Mt 4,1ss). Accettò la strada “in discesa” del “servo di JHWH”, quella che l’avrebbe fatto percorrere una via marginalità, sconfitta, incomprensione, senza ruolo sociale, politico o religioso di prestigio, senza ricorso ad alcuna forma di potere. Scelse di nascere in un paesino sperduto, figlio di persone senza nome e senza storia. Scelse di vivere in un ambiente povero, senza mai comandare, mai governare, senza mai ottenere un titolo onorifico…neppure di “dottor o monsignore”! Scelse di camminare  sulle nostre stesse strade, di sentire la fame, la sete, la fatica, il dolore. Ha pianto e ha riso. Anche la sua morte avvenne tra due delinquenti, come all’inizio del suo ministero scelse di mettersi  tra la fila dei peccatori in attesa del battesimo. Dio, in Lui, decise di raggiungerci in questo modo sconcertante e scandaloso per l’uomo “religioso”, così apparentemente inutile. Scelse ovvero la strada del “condividere in tutto la nostra condizione umana” (dalla Liturgia), non temendo di “abbassarsi”… troppo sino a terra (humus-terra da cui “umiltà”) e di sporcarsi le mani con essa. Solo così Dio poteva farsi povero e dunque capace di stare vicino al povero e al peccatore, al malato e al bambino, alla prostituta e al fariseo.  Riusciremo mai a stupirci, magari, auguriamocelo! a scandalizzarci di queste scelte estrose di Dio? Sarebbe una grande grazia!

    Accogliere questa unicità della rivelazione cristiana esige accettare che da parte di Dio vi sia la libertà di un suo radicale limitarsi ad un’esistenza umana nel suo concreto agire e patire storico, accettandone le casualità e i limiti, la provvisorietà e frammentarietà. Significa stupirci del fatto che Egli scelga di “abbassarsi-svuotarsi” fino al massimo limite per caricarsi anche del nostro peccato come agnello sacrificale perfetto fino ad accettare liberamente la morte maledetta di croce.  Più in basso di così Dio non poteva scendere… “Discese agli inferi” professa ancora il credo apostolico, affermando la sua condivisione totale anche del nostro discendere nel nulla spaventoso della morte.

    Ma tutto questo perché? La verità è semplicissima, essenziale e rivelatrice del cuore di Dio: Egli in Gesù, “come colui che serve”, scese nel nostro fango, “negli inferi del nostro nulla” senza timore, per poter afferrare la nostra mano e trascinarci fuori da quell’abisso, per innalzarci con lui alla sua gloria e alla sua luce. In questo mettere se stesso all’ultimo posto sta il più profondo “sentimento”  di Cristo che “ha cercato fino in fondo le cose degli altri, ovvero la nostra vita.

    Il cristiano è chiamato a costruire la propria vita su questo parametro evangelico.  Non è facile! Comporta infatti un capovolgimento del modo di interpretare il nostro essere presenti nel mondo e del nostro agire. Istintivamente istituti, parrocchie, movimenti ecclesiale, la chiesa intera, tutti vorremmo avere anzitutto mezzi, risorse finanziarie, rilevanza sociale perché potessimo diffondere con maggior efficacia e incidenza il vangelo del regno, e risolvere tante situazioni di ingiustizia e povertà sempre più crescenti e talvolta intollerabili.

    Ma intuiamo alla luce della Parola che il modo con cui il nostro Maestro desidera che testimoniamo il suo amore all’uomo non è anzitutto questo.  Potremmo forse dare anche molto in termini di denaro, strutture e aiuti per far fronte a tante necessità. Ma tutto questo non potrebbe forse confondersi in generosa filantropia, ma niente di più. Offrire cose, servizi, strutture, può essere necessario non lo neghiamo di certo, talvolta è indispensabile; ma non può forse diventare se assolutizzato un percorso ambiguo e rischioso quando questi aspetti divengono prioritari e i più determinanti? Se ci fermassimo a questo livello la nostra testimonianza cristiana rischierebbe a mio parere di svaporare, di far svanire il suo autentico profumo che deve essere quello di Cristo (cfr 2Cor 2,15).  Non possiamo poi nascondere il fatto che talvolta operiamo sì in vista del bene degli altri, portando avanti magari con immani sacrifici di personale e di denaro grandi opere, ma forse non accorgendoci  che tutto ciò serve. Speriamolo almeno solo in parte, a nostro vantaggio fosse pure dell’istituto, della parrocchia, della congregazione? Si tratterebbe in tal caso di un nostro “arpagmon-tesoro” che non ci vogliamo lasciar strappar via. Ma san Paolo avverte che: “se anche dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, non servirebbe a nulla” (1Cor 12).

    Mi sembra che più procederemo dentro questa nostra storia più la nostra presenza risulterà meno incisiva, meno capace di approntare risorse, strutture per far fronte ai vari bisogni degli altri. Saremo poveri sotto tutti gli aspetti! Non avremo grandi mezzi, strutture, risorse! Un male? Umanamente questo apparirà certamente come una sconfitta, una limitazione di presenza e di servizio. Ma alla luce del cammino “in discesa” percorso da Cristo, forse proprio in questa situazione potremo dire la cosa più importante come fecero Pietro e Giovanni col paralitico della Porta Bella del Tempio: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (At 3,6).  Ci sarà evitato il rischio di porci in mezzo ai poveri come “ricchi” (fosse anche di virtù!) che dall’alto della loro generosità fanno orgogliosamente il bene. Impariamo ad accettare finora di saperci “abbassare e svuotare”. Lo Spirito di Gesù ci insegnerà così che la cosa più importante è dapprima imparare ad “essere con” più che il “fare per”. Impareremo i sentimenti del cuore di Cristo costituiti essenzialmente dalla sua capacità  di “com-patire” e di “con-dividere”.

    Questo passaggio non si opera semplicemente con programmi, documenti e sforzi di volontà. Occorre l’aiuto della grazia dello Spirito che ci conformi sempre più a Cristo. Questo esige un ascolto continuo, perseverante, mai interrotto della sua Parola antivirus per immunizzarci da percorsi che, anche se apparentemente buoni, in realtà ci potrebbero allontanare dal vangelo. L’atto sacramentale del Battesimo e dell’Eucarestia poi fondano ontologicamente la nostra comunione con Cristo Gesù, siamo innestati in lui e dunque non solo possiamo ma dobbiamo “pensarla” come lui.

    Mi piace qui portare una testimonianza concreta di cosa significhi tutto questo. Padre Damiano de Veuster morto nell’isola di Molokai ammalato di lebbra nel 1889, giunse in quell’isola “maledetta” abitata da lebbrosi solo “con il breviario e un piccolo crocifisso”. Le prime settimane visse all’aperto, dormendo sotto un albero e mangiando su una roccia piatta. E scelse subito di immergersi volontariamente in quel mondo in putrefazione. Capì, quasi per istinto di carità, che i malati non lo avrebbero mai accettato se egli avesse cominciato a preservarsi, a usare precauzioni, a evitare i contatti, a mostrare ripugnanza. Di poter essere contagiato non si preoccupava. Diceva “d’aver affidato la questione a Nostro Signore, alla Vergine e a san Giuseppe”. I superiori gli scrivevano sempre di badare al contagio, ma egli sapeva che era assolutamente inutile essersi recato a Molokai se restava un “haole”, un “bianco”, di quelli che per definizione si “rifiutavano di toccare”. Egli non agiva così solo per rispettare la sensibilità degli hawaiani e quella ancora più acuta dei malati. Egli fece questa scelta per far suoi anzitutto “i sentimenti di Cristo” che non temeva di toccare i lebbrosi. Se quel desiderato “contatto” era per gli hawaiani una questione culturale, per padre Damiano era una questione di fede.

    Si tratta certamente di una testimonianza estrema ed eroica, ma che, insieme a infinite altre, ci dice una cosa fondamentale: che la vera carità di Cristo non si presenta in primo luogo come organizzazione per far fronte e risolvere tutti i bisogni, ingiustizie, mali in termini di cose e strutture. Essa ci descrive che la prima carità deve prendere il volto della “con-divisione”, della “com-passione”, dell’abbassamento di Cristo. Paolo nella prima ai Corinti dirà : “Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (9,22), ovvero l’apostolo ricorda che la cosa essenziale è poter  stare accanto ai deboli come debole, povero come poveri, al fine di portane insieme il peso, la fatica, la sofferenza, la gioia, la speranza, accettando con umiltà e pace di non aver grandi gesti da fare e cose da dare. A volte basta un sorriso, una carezza. Costa meno che mettere solo la mano al portafoglio e rende di più. Certamente se poi ho la possibilità di estrarre anche qualcosa dal portafoglio ben venga, ma sarà espressione di un qualcosa che è venuto prima ed è più vero.  Scriveva a proposito don Primo Mazzolari : “Quando non si ha più niente da dare perché si è dato tutto, allora si diventa capaci di “veri doni”. Dare tutto: ecco la carità! Con niente puoi dare a chiunque, se vuoi bene a tutti. Se non hai roba, hai del cuore, e ognuno ne può prendere quanto vuole, perché il cuore cresce spendendosi e si arricchisce spogliandosi”.

    ORATIO

     Terminiamo la nostra lectio con una preghiera composta da madre Teresa di Calcutta. Come non ricordarla sempre “abbassata” sul malato, il moribondo? Si tratta di una preghiera sorprendente per lei che di bene concreto ne fece moltissimo: Teresa non chiede anzitutto al Signore la grazia di avere strumenti e risorse per soddisfare e cancellare gli infiniti bisogni propri e degli altri. Chiede soprattutto la forza di saper condividere col fratello la stessa fatica, lo stesso dolore, la stessa speranza. E’ il mistero dell’incarnazione, dell’abbassamento del Figlio di Dio, povertà apparente ma capace di arricchire l’altro del bene più profondo più vero ed eterno: l’amore.

    Signore, quando sono affamato, mandami qualcuno che ha bisogno di mangiare.
    Quando ho sete, mandami qualcuno che ha bisogno di acqua.
    Quando ho freddo, mandami qualcuno da riscaldare.
    Quando sono ferito, fammi incontrare qualcuno da consolare.
    Quando la mia croce diventa pesante, fammi condividere la croce di un altro.
    Quando sono povero, conducimi qualcuno che è nel bisogno.
    Quando non ho tempo, mandami qualcuno che io possa aiutare un istante.
    Quando sono umiliato, dammi qualcuno di cui debba fare l’elogio.
    Quando sono scoraggiato, mandami qualcuno da incoraggiare.
    Quando ho bisogno della comprensione degli altri, mandami qualcuno che abbia bisogno della mia.
    Quando ho bisogno che ci si prenda cura di me, inviami qualcuno di cui io mi debba curare.
    Quando non penso che a me stesso, volgi i miei pensieri verso gli altri
    ” .

  • 28 Giu

    SOTTO L’AZIONE DELLO SPIRITO

     

    a cura di p. attilio franco fabris

     

    Dello Spirito Santo manca nella Scrittura una raffigurazione appropriata. La teologia poi tende a sottolineare più le opere dello Spirito che la sua Persona, perduta o nascosta dietro ad alcune realtà teologiche come la grazia, la carità, i doni. Tutto ciò concorre a far sì che il credente non riesca ad avvicinarsi allo Spirito Santo come ad una Persona. In tal modo viene a mancare l’intimità con questo agente primario della vita cristiani. Ne consegue che la pietà trinitaria si disperde per mancanza di relazioni personali con lo Spirito Santo.

    Nelle fonti della rivelazione, lo Spirito Santo è l’inviato del Padre in nome di Cristo risuscitato, per portare a compimento la sua opera di redenzione. È quindi autore della santificazione, nella Chiesa intera ed in ciascuno dei credenti.

    Atanasio e Basilio, due grandi teologi della spiritualità monastica, sono i Padri che stabiliscono nel sec. IV la dottrina classica dello Spirito Santo. Per Basilio, lo Spirito Santo ha un ruolo fondamentale, ben distinto da quello del Verbo. Questi rivela il Padre, come sua immagine: lo Spirito ha una funzione interna al credente e lo illumina. Atanasio riconosce allo Spirito l’eguaglianza con il Padre, ma non ha altro da attribuirgli che non abbia già detto del Verbo e, in fondo, del Padre. In Basilio invece lo Spirito ha un ruolo ipostatico ben definito. È appunto in questo tempo che si presta un’attenzione tutta particolare alla natura e all’azione dello Spirito, diventate oggetto di controversia. Echi di queste controversie dottrinali li troviamo nella Storia Lausiaca, dove si dice di Melania e Rufino di Aquileia che « insieme operarono per persuadere ogni eretico che negava lo Spirito, e lo ricondussero in seno alla Chiesa ».

    Tra coloro che si trovano in modo particolare sotto l’influsso dell’azione dello Spirito divino, Ippolito di Roma, indica i martiri: « lo Spirito del Padre insegna ai martiri l’eloquenza consolandoli ed esortandoli a disprezzare la morte quaggiù, per affrettarsi a raggiungere i beni celesti…». L’opposizione tra il mondo ed i beni celesti, oggetto principale dell’insegnamento dello Spirito, suggerisce già il ruolo particolare che esso riveste nella spiritualità dell’antico monachesimo, che aveva fatto di questo tema un elemento centrale della sua esperienza spirituale.

    Gli studiosi hanno notato l’assenza di citazioni esplicite dello Spirito Santo in una parte considerevole della letteratura monastica antica. Nulla troviamo nella Vita di Antonio, eccetto la citazione di Rom 8,4 e un caso dubbioso. Tale silenzio lo si può attribuire al cristocentrismo antiariano di Atanasio. Relativamente poco ci offrono i Detti dei padri del deserto. Nulla di veramente significativo c’è in Evagrio. Due sole citazioni nella Storia Lausiaca di Palladio, e tre nell’ Inchiesta sui monaci in Egitto. Nelle fonti pacomiane invece i riferimenti espliciti Spirito sono più numerosi, così anche nelle lettere di Antonio e, misura minore, in quelle del suo discepolo Ammone. Possiamo quindi affermare che le fonti dell’antico monachesimo non ci forniscono molte notizie sulla parte che la presenza e l’azione dello Spirito Santo hanno avuto nella spiritualità dei primi monaci. Avendo conto tuttavia dei dati sparsi qua e là, possiamo ricavarne un quadro abbastanza completo, che cercheremo di descrivere nei suoi vari elementi nelle pagine che seguono.

    1.   Il monaco perfetto è un uomo “pieno” di Spirito Santo

    È questa la definizione che i Detti danno di padre Arsenio. Di un monaco egiziano che divenne amico di Arsenio, si dice che era « pieno del buon profumo dello Spirito Santo » (cf. 2 Cor 2, 15). Di padre Samuel si afferma che era un « uomo animato dallo Spirito di Dio ». Di Antonio, padre degli eremiti, si dice che diventò « pneumatoforo », cioè portatore dello Spirito. Questo titolo che si addice ad ogni battezzato, è particolarmente adatto a quelli nei quali appaiono particolari manifestazioni carismatiche dello Spirito. Anche il famoso Macario l ‘Egiziano era chiamato lo « pneumatoforo ». Nella prospettiva della storia della salvezza propria delle lettere di Antonio, la « pneumatoforia » caratterizza coloro che vivono sotto la legge dell’Alleanza, Mosè, il coro dei profeti ed i santi…

    Il monaco indegno però è privato dello Spirito. Di un fratello della Comunità pacomiana, caduto in peccato e più volte impenitente nonostante i continui richiami di Teodoro, si afferma che lo Spirito si ritirò da lui. Orsiesi, altro discepolo e successore di Pacomio, nelle sue esortazioni ai monaci dice tra l’altro:  « se (l’anima) è negligente, lo Spirito Santo si allontana; senza la sua luce scendono le tenebre... ». Lo Spirito si allontana da colui che osa giudicare il suo fratello, e la fornicazione ci rende « alieni allo Spirito Santo ». Più volte Pacomio esorta i suoi confratelli a non rattristare lo Spirito Santo di Dio che abita in noi (cf. Ef 4, 30).

    2.   La presenza e l’azione dello Spirito sono particolarmente intense in coloro
    che hanno un ruolo di guida o di governo: la “paternità spirituale”

    È lo Spirito Santo che rivela a Pacomio che deve essere il primo fondatore di un cenobio. Di lui si dice più volte che nella sua missione di governo della comunità era particolarmente assistito dallo « Spirito che risiedeva in lui ». La stessa cosa si afferma anche dei successori di Pacomio:  « Dio aveva suscitato nella sua congregazione un altro padre potente di nome Orsiesi, capace di prendersi cura delle vostre anime e dei vostri corpi, grazie allo Spirito di Dio che abita in lui ». Teodoro viene descritto come un uomo « ardente per lo Spirito Santo che abitava in lui »; lo stesso Spirito, si aggiunge. muoveva il cuore dei fratelli « attraverso la parola di Teodoro ».

    Antonio, dopo aver trascorso vent’anni in solitudine,  « venne fuori come da un santuario, iniziato nei misteri e divinamente colmato dallo spirito divino » (… divinitate divinitus plenus). Subito dopo, il suo biografo lo mostra consolando, riconciliando e insegnando. Antonio ha raggiunto il dono della paternità spirituale e accetta dei discepoli.

    È un dono che rende capace, chi lo possiede, di generare figli nello Spirito e di guidarli alla misura di perfezione loro propria. Hausherr ne dà una specie di definizione che corrisponde alle idee classiche della spiritualità orientale:  « Lo spirituale è colui al quale, grazie alla mortificazione delle passioni e alla apathia che ne risulta, la carità ha svelato la gnosi delle cose divine e la diacrasis delle cose umane, in modo che egli possa, senza pericolo per lui stesso, guidate con saggezza gli altri sulle vie di Dio » (Direction spirituelle en Orient autrefois, OCA 144Roma 1955).

    Si parla di paternità, nel senso di una relazione personale, secondo una doppia tradizione. La prima si rifà a s. Ignazio di Antiochia e costituisce la “paternità funzionale“; il vescovo è chiamato padre in funzione del suo sacerdozio. Egli battezza ed opera la filiazione divina per mezzo dei sacramenti. La seconda tradizione si rifà ai padri del deserto. La loro paternità non proviene da funzione alcuna sacerdotale: l’asceta del deserto è padre per elezione divina, per un carisma dello Spirito Santo, per il fatto di essere “theodidatta”, insegnato direttamente da Dio. Né l’età né la funzione esercitano qui alcun ruolo. È sintomatico che gli stessi vescovi cercassero aiuto e consiglio dai solitari del deserto che erano direttamente guidati dallo Spirito.

    La condizione essenziale per diventare “padre spirituale” è quella di essere prima di tutto spirituale (pneumatikós). Nei Detti dei padri del deserto più volte gli eremiti sono chiamati « uomini spirituali ». Non si può comunicare lo Spirito se non Lo si possiede previamente.

    La fecondità spirituale è in rapporto con la Croce. Il padre Longino trasmette la famosa sentenza degli spirituali: « Dà sangue e prendi Spirito ». Un padre spirituale non è un maestro che insegna, ma colui che genera ad immagine del Padre celeste. L’arte della paternità spirrtuale non si impara come una scienza nella scuola, ma è frutto di un carisma dello Spirito.

    3.   Lo Spirito Santo si esprime attraverso le parole della Scrittura e del Padre carismatico

    La Sacra Scrittura ha nella formazione spirituale dei primi monaci una grande importanza, su cui torneremo in seguito. Dottrina comune dei padri anacoreti e dei primi cenobiti è che lo Spirito Santo ci parla attraverso la parola rivelata. « Lo dice lo Spirito Santo », afferma l’anziano Poemen, citando la Scrittura; in modo simile, e a più riprese, si esprimono i discepoli di Pacomio.

    Nei Detti la parola degli anziani è per lo più menzionata accanto alla Scrittura. Alla base di tale accostamento c’è la convinzione profonda che si tratta di due realtà omogenee, frutto dell’unica e molteplice rivelazione dello Spirito. Riguardo al carisma straordinario della parola presente in Efrem Siro, gli apoftegmi dicono che « proveniva dallo Spirito Santo ciò che usciva dalle labbra di Efrem ». Evagrio Pontico nel suo Trattato pratico cita lo Spirito Santo soltanto alla fine, nel- l’epilogo, per affermare che tutto quanto ha scritto ha potuto farlo « per grazia dello Spirito ».

    4.   Lo Spirito Santo assiste il monaco nella lotta contro i demoni

    Si sa che la demonologia occupa nella Vita di Antonio un posto rilevante: la lotta con i demoni non finisce mai. Nel grande discorso dottrinale, che costituisce un vero programma della spiritualità antoniana, per ben due volte l’uomo di Dio ricorda ai suoi discepoli l’efficacia dello Spirito nella lotta contro le potenze del male: « La retta via e la fede nel Signore tramite Gesù Cristo e lo Spirito Santo sono un grande scudo contro di loro (i demoni) ».

    L’asceta perfetto riceve dallo Spirito Santo il dono di discernere gli spiriti, in modo da saper riconoscere i demoni malgrado le loro astuzie, anche quando si trasformano in angeli di luce.

    Pacomio afferma che il diavolo si allontana da colui con cui è in guerra, quando vede che in lui dimora lo Spirito Santo. La stessa dottrina la si ritrova nel suo discepolo Teodoro.

    5.   Lo Spirito Santo e la legge

    « L’ideale che Pacomio propone ai suoi discepoli è riassunto nella breve formula: vivere secondo la volontà di Dio. Per raggiungere questo scopo però non basta ubbidire alle leggi esteriori e alle regole scritte. Bisogna essere inoltre docili alla voce della coscienza e alle ispirazioni particolari dello Spirito » (P.Deseille, L’esprit du monachisme pachômien, Bellefontaine 1973). Secondo l’espressione di Teodoro, ognuno deve essere fedele alla santa vocazione della koinonia « secondo la misura delle sue forze e la spinta dello Spirito Santo ». Pacomio incoraggiava i suoi discepoli a seguire la voce interiore dello Spirito ed esigeva che i fratelli rispettassero la altrui personalità spirituale. Nel campo però delle ispirazioni interiori è indispensabile il ricorso al discernimento del padre spirituale; alcuni passaggi delle Vite ci mostrano Pacomio particolarmente attento a dissipare le possibili illusioni.

    6.   I frutti dello Spirito

    Lo Spiriro Santo illumina, ispira, salva, è fuoco che consuma. Quando lo Spirito scende nei cuori degli uomini, essi si rinnovano profondamente.

    Frutto dello Spirito sono le virtù. Un elenco di queste virtù elargite dallo Spirito, lo troviamo nella Vita copta di s. Pacomio: « la fede, il bene, il timore, la pietà, la purità, la giustizia, la longanimità, la bontà, la dolcezza, la temperanza, la gioia, la speranza e la perfetta carità ». Non si tratta dei tradizionali doni dello Spirito Santo, tratti da Is 11, 1-2, bensì di un elenco di virtù, sul tipo di quelli paolini. Il riferimento principale è Gal 5, 22. Il numero e l’ordine dei frutti dello Spirito elencati non coincidono: c’è stata probabilmente una integrazione con Is 11 e con 1 Cor 13, 13 (per le tre virtù teologali).

    Per Pacomio, scopo dello sforzo ascetico del monaco e della vigilanza sul suo cuore, è che « lo Spirito Santo abiti in lui » e che egli « diventi un tempio di Dio »; « che acquisti la perfezione dei frutti dello Spirito »; che raggiunga « l’unità dello spirito ». Così insegna anche Orsiesi: per acquistare i frutti dello Spirito bisogna convertirsi e purificarsi dalle imperfezioni, bisogna lottare. « Anche l’anima – leggiamo nei Dettisa di aver concepito lo Spirito Santo quando si placano le passioni che scorrono giù da lei; finché è impigliata in esse, come può vantarsi quasi fosse impassibile? Dà sangue e prendi Spirito », lotta cioè e giungerai al possesso delle virtù dello Spirito. ll monaco, prima di ricevere lo Spirito con i suoi doni, deve essere formato all ‘umiltà, all’abnegazione, all’oblio di sé, alla purezza di cuore, al sacrificio; deve imparare a dare a Dio il sangue dell’anima e del corpo. Quando avrà acquisito questa libertà totale, questa disponibilità, sarà maturo per ricevere i doni dello Spirito.

    L’inabitazione dello Spirito – che non è altro che il pieno sviluppo della grazia battesimale – è una vera deificazione dell’uomo, così la spiega Teodoro. Tale deificazione realizza anzitutto la trasformazione morale dell’uomo. L’uomo giunge allora alla piena maturità spirituale; in virtù dell’inabitazione dello Spirito Santo, egli possiede un istinto interiore, un tatto spirituale, che gli permette di discernere spontaneamente la volontà del Signore, e raggiunge così la « vera conoscenza » di Dio. Il monaco ottiene allora la « preghiera senza distrazione», perché il suo spirito è tutto quanto preso da Dio.

     

  • 24 Giu

    Spunterà un germoglio dal tronco reciso
    Una rinascita insperata: Is 11,1-10

     

    Messaggio centrale

    L’orizzonte descritto è segnato amaramente da un tronco ormai irrimediabilmente reciso. Eppure inatteso e insperato un piccolo germoglio per volontà divina vi spunta nuovamente. In esso è riposta ogni speranza di un futuro diverso: sarà un virgulto destinato a crescere e a produrre frutti di pace e di giustizia per il mondo intero.

    Davide, e tutto Israele con lui, ha ricevuto da JHWH la promessa di una discendenza che avrebbe portato nel regno pace e giustizia. La storia sembra smentire la promessa: essa ripresenta puntualmente una serie di governanti inetti o tirannici che usurpano il loro ruolo a vantaggio di interessi personali e tornaconti egoistici. Isaia è deluso del re Acaz che dal 721 regna su Giuda: egli non ripone la sua speranza in JHWH per cui il profeta intravede inevitabile nel futuro la catastrofe di tutto il popolo: Dio attraverso l’opera distruttrice degli Assiri, preannuncia il profeta, castigherà la casata di Davide.

    In Israele scaturisce così man mano per il ministero dei profeti la speranza di un re finalmente diverso che avrebbe adempiuto finalmente le promesse e le attese: si tratta di una speranza che conduce alla consapevolezza sempre maggiore che potrà solo Dio stesso portare a compimento tutte queste attese. In Ez. 34 ad esempio JHWH personalmente dice di voler riprendere in mano l’esercizio dell’autorità mandando una persona di totale sua fiducia togliendo di mano lo scettro a guide incapaci e corrotte: tale personaggio sarà un discendente di Davide secondo la promessa.Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore;  io, il Signore, sarò il loro Dio e Davide mio servo sarà principe in mezzo a loro: io, il Signore, ho parlato. Stringerò con esse un’alleanza di pace e farò sparire dal paese le bestie nocive, cosicché potranno dimorare tranquille anche nel deserto e riposare nelle selve” (Ez 34,23-25)

    Anche nel nostro brano Isaia annunzia l’arrivo di questo re-messia che porterà un’era di giustizia e di pace. La promessa fatta a Davide non può essere ritratta perché Dio non può venir meno alla sua parola. Nonostante il castigo comminato alla discendenza di Davide che sarà estirpata, una radice umile del suo tronco abbattuto sarà preservata; proprio da tale radice un nuovo germoglio verrà alla luce portatore di nuova speranza.

    1 Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,

    un virgulto germoglierà dalle sue radici.

    Viene affermata anzitutto la provenienza umile del re messia: spunterà nuovamente come Davide stesso “dal tronco di Iesse” (v.1).  Ora l’immagine del “germoglio” per descrivere il nuovo Re-Messia è presente anche in altri profeti: in Gr 23,5 ad esempio è detto: “Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra”. Anche il Servo sofferente nel terzo Isaia viene raffigurato come un germoglio: “crescerà come un virgulto… com una radice in terra arida” (Is 53,2). E ancora in Zc: “manderò il mio servo Germoglio… spunterà da se… ricostruirà il Tempio del Signore, riceverà la gloria, siederà da sovrano sul suo trono” (6,12s). La simbologia ricorrente del germoglio è ricca di significati: il germoglio è essenzialmente promessa di vita lì dove si vedrebbe solo sterilità e morte, nella sua piccolezza e umiltà possiede un’energia strepitosa. Dalla sua piccola e insignificante presenza fuoriescono rami, foglie e frutti. La gemma dice il miracolo della vita che vince ogni morte!

    Ora per Isaia la stirpe di Davide è stata castigata a causa della sua infedeltà: il suo tronco (l’albero genealogico) è stato reciso alla radice: Tutto sembra ormai distrutto! Ma proprio da questa radice Isaia promette lo spuntare di un nuovo germoglio completamente nuovo ed inatteso: questo virgulto sarà dono gratuito di Dio, frutto della sua grazia in quanto Israele (l’umanità) da se stesso è assolutamente incapace di farlo spuntare dal suo interno. Si tratta in certo qual modo di un nuovo principio operato dalla potenza vitale di Dio: ci sarà un nuovo Davide uomo “secondo il cuore di Dio

    Isaia riafferma la volontà salvifica da parte di Dio che non si arrende dinanzi al fallimento causato dal peccato dell’uomo: il castigo non può essere definitivo perché lui è il Dio della vita (Nm 27,16).  Questo germoglio dono di Dio è per la tradizione biblica vetero e neo testamentaria il Messia atteso.

    Nel v. 2 Isaia descrive l’azione e la concentrazione della “Ruach”  di Dio sul “virgulto”:

    2 Su di lui si poserà lo spirito del Signore,

    spirito di sapienza e di intelligenza,

    spirito di consiglio e di fortezza,

    spirito di conoscenza e di timore del Signore.

    Come lo Spirito all’inizio si posò su Davide (1Sam 16,13), così su questo secondo Davide scende in pienezza il dono di Dio affinché egli possa adempiere alla perfezione la sua missione. Lo “Spirito” viene invocato sul “Germoglio” dai quattro punti cardinali per quattro volte (=in pienezza): immagine che sta a significare come il dono di Dio vi si concentra interamente e stabilmente. E’ in certo qual modo una riedizione della creazione e della storia della salvezza: “Mandi lo Spirito, sono creati e rinnovi la faccia della terra” (Sal 104,30; cfr Nm 11,17; Gdc 3,10; 6,34; 11,29; 1Sam 11,6; “Sam 23,2; 2Re 2,9).

    I doni e gli effetti dello Spirito vengono descritti mediante tre coppie di concetti (il dono della pietà sarà aggiunto successivamente dai traduttori greci e latini per raggiungere il numero sette indicante ancora la pienezza). I doni elencati abbracciano tre diversi livelli dell’esistenza: intellettuale, governativo, religioso.

    Anzitutto è Spirito “di sapienza e intelligenza”: la sapienza darà la capacità di agire in modo adeguato alle circostanze cogliendone i profondi risvolti, mentre l’intelligenza offrirà al Re la chiara conoscenza della situazione.

    Lo Spirito porta anche il dono del “consiglio e della fortezza”: lo Spirito sarà perfetto “consigliere” del re indicandogli mete e mezzi appropriati, mentre il dono della fortezza farà sì che abbia il coraggio e la costanza nel portare a termine le decisioni prese.

    Infine lo Spirito è di “conoscenza e di timore del Signore”: la “conoscenza” del Signore è rapporto vivo e autentico con Dio riconosciuto, confessato attraverso le opere di amore e di giustizia. Il “timore” di Dio sta invece ad indicare la fiducia, l’obbedienza nel riconoscere Dio quale unico Signore.

    Nei vv.3-5 viene descritta l’attesa più profonda che la venuta del re Messia dovrà realizzare e finalmente instaurare dopo ripetuti fallimenti e tradimenti da parte della precedente dinastia davidica: è il compimento di un regno di giustizia autentica e dunque di pace (cfr Sal 72 e 101 rispettivamente ritratto del re perfetto e lo specchio del principe modello).

    3 Si compiacerà del timore del Signore.

    Non giudicherà secondo le apparenze

    e non prenderà decisioni per sentito dire;

    4 ma giudicherà con giustizia i miseri

    e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese.

    La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento;

    con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio.

    5 Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia,

    cintura dei suoi fianchi la fedeltà.

    Il “Re-Messia” sarà anzitutto il giusto giudice che difenderà il diritto di ciascuno distruggendo ogni forma di ingiustizia. Mentre i giudici umani dipendono da ciò che vedono e da ciò che viene loro esposto, il re promesso riceverà dalla Ruach di JHWH la capacità di vedere le cose come Dio stesso ovvero in profondità e non in apparenza, saprà leggere infatti nel cuore (2Sam 16,7). Il suo giudizio è perciò emesso in perfetta giustizia ed equità

    Una seconda caratteristica del nuovo Re sarà la sua incorruttibilità, in altre parole la sua ferma volontà di prendere le parti di chi non può far valere il proprio diritto: i poveri (Is 1,17).

    Gli sfruttatori e i violenti saranno di conseguenza distrutti dalla “verga” del giudizio emesso dalla sua bocca e “con il soffio delle sue labbra”. (Giovanni riprenderà tale immagine: “dalla bocca del Figlio dell’uomo uscirà una spada affilata a doppio taglio”: Ap 1,16).

    Anche la fascia  e la cintura, insegne regali assunte nel giorno dell’investitura, divengono qui simboli trasparenti della “giustizia e della fedeltà” del re Messia nell’adempiere alla sua missione.

    Con i vv.6-10 inizia la seconda parte del carme. Quali conseguenze emergeranno da un regno retto da tal sorta di Re-Messia?

    6 Il lupo dimorerà insieme con l’agnello,

    la pantera si sdraierà accanto al capretto;

    il vitello e il leoncello pascoleranno insieme

    e un fanciullo li guiderà.

    7 La vacca e l’orsa pascoleranno insieme;

    si sdraieranno insieme i loro piccoli.

    Il leone si ciberà di paglia, come il bue.

    8 Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide;

    il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi.

    Inizierà un tempo di pace universale! Questa pace si colloca a diversi livelli progressivi: anzitutto pace e armonia tra gli animali, poi tra animali e uomo, tra uomo e uomo, infine tra gli uomini e Dio. Il denominatore comune è il definitivo superamento di ogni stato di violenza, paura, diffidenza, ingiustizia.

    Le scene presentate sono un idillio di pace: in esse si prospetta la possibilità di un ritorno al paradiso perduto a causa del peccato, nel ripristino conseguente di quell’armonia originaria della creazione infranta. Nel regno del futuro re sarà cancellata la maledizione comminata all’uomo e alla creazione a causa del peccato (Gen 3,15). Si tratta di un nuovo ordine di rapporti in cui coppie antitetiche di animali selvatici e domestici si ritrovano in un’armonia inedita e durature (anche i loro piccoli… v. 7). Non ci saranno più “carnivori”! Anche il grande nemico il serpente, simbolo di ogni idolatria e peccato (Gn 3), ritrova una sua nuova collocazione all’interno della creazione rinnovata in cui l’uomo non dovrà temere alcuna conseguenza di male e di morte: “Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi” (v.8). Da notare come in tutto il “Libretto dell’Emmanuele” è sottolineata la presenza allusiva al “bambino”: è l’essere più debole ed indifeso che tuttavia “guida” la nuova creazione (Mt 21,16; Mc 10,14).

    9 Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno

    in tutto il mio santo monte,

    perché la saggezza del Signore riempirà il paese

    come le acque ricoprono il mare.

     

    Il centro di questa nuova creazione, di questo nuovo Eden sarà il monte di Sion, il “mio santo monte” (v. 9) ove Dio ritorna a dialogare familiarmente con l’uomo (Gn 3,8), luogo in cui l’uomo riscopre la vera “conoscenza“ di Dio da cui scaturisce “saggezza” di vita offerta a tutti gli uomini in una pienezza sconfinata tale da evocare la sterminata distesa del mare: “Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte” (v.9).

    Infine dalla pace con Dio scaturirà la pace fra tutti gli uomini. Cesserà ogni violenza e ogni lotta. Il debole non dovrà temere il forte: le lance saranno trasformate definitivamente in vomeri.

    Questa nuova armonia e questo ritorno alla pace paradisiaca trova la sua motivazione ultima nell’alleanza rinnovata tra Dio e gli uomini: la pace col creato e con i propri simili dipende dalla pace con Dio.

    10 In quel giorno

    la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli,

    le genti la cercheranno con ansia,

    la sua dimora sarà gloriosa.

     

    L’ultimo versetto che fa da chiusura e cerniera con quel che segue assume un’intonazione universale: la presenza e l’opera del germoglio-discendente di Jesse diventeranno benedizione per tutti i popoli, non solo per Israele. A lui tutte le genti guarderanno come unica e vera sorgente di speranza e di pace, perciò la “Radice di Jesse” la si “cercherà con ansia” e la sua dimora, Gerusalemme, diverrà punto di incontro e di attrazione per tutti i popoli.

    La promessa fatta attraverso le labbra di Isaia non si è realizzata nell’antica alleanza. Questo testo di Isaia è ripreso nel nuovo Testamento. Gesù a Cafarnao inaugurando il suo ministero presso i suoi concittadini di Nazaret citerà appunto Is 61,1-2: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato ad annunziare ai poveri il lieto messaggio” (Lc 4,18s). E’ lui il retto giudice che “vede nel cuore dell’uomo”, è lui che sta dalla parte dei poveri ed indifesi, ed è ancora lui che si presenterà come “Figlio dell’uomo” ovvero come giudice finale della storia ad emettere un giudizio secondo verità: “La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento; con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio.”.

    Vi è in Gesù la chiara consapevolezza di essere lui l’atteso Re-Messia sul quale si posa-rimanendo lo Spirito di Dio ed è ancora lui che con autorità annuncia la presenza del Regno: “Il Regno di Dio è in mezzo a voi”.

    Nella notte a Betlemme gli angeli annunzieranno ai poveri una buona notizia: “Pace in terra agli uomini che Dio ama” (Lc 2,14b). Con Gesù è dunque entrata la pace di Dio nel mondo, è stato inaugurato il regno promesso da Isaia. Perciò la fede cristiana riconosce nel germoglio di Davide profetizzato Gesù di Nazaret.

    Tuttavia tale compimento della promessa del regno non ha raggiunto la sua pienezza: siamo nell’economia del “già e non ancora” per cui la nostra profezia rimane un messaggio attuale capace di offrire orizzonti di speranza.

    Ora sperimentiamo sì la verità e la presenza del Regno di pace ma ancora in germe, nei piccoli segni che rimandono ad un al di là che attende ancora compimento. Tutto questo costituisce l’attesa-promessa neotestamentaria dei cieli e della terra nuova: “Ecco io creo cieli nuovi e terra nuova… si godrà e si gioirà per sempre” (Is 65,17-18: Ap 21,1.27; 2Pt 3,13). Si tratta dello stesso gemito paolino che si fa voce dell’anelito a quella nuova creazione liberata finalmente dal veleno della violenza e della morte: “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (cfr Rm 8 22-25).

    Per la riflessione

    La delusione attanaglia la nostra esperienza, siamo spesso scoraggiati perché senza speranza: tutte le attese e speranze sembrano disintegrarsi tra le mani dell’uomo di oggi. E’ difficile credere alla nascita di un nuovo mondo, di un inatteso “germoglio” capace di cambiare una storia che sembra precipitarsi nella voragine di una drammatica conclusione.

    Eppure la rivelazione biblica apre alla possibilità di una ripartenza, di una rinascita che rappresenti un ritorno al progetto iniziale del Creatore.

    La fede cristiana riconosce in Cristo questo “germoglio” donato all’umanità gratuitamente. La sua presenza e la sua azione, attraverso la continuità della sua comunità,  sta crescendo e sviluppandosi al di là di tutti i nostri meriti e capacità. In Lui il Regno di Dio è impiantato saldamente nella storia e ne possiamo già godere in pegno i frutti i di pace e di vittoria su ogni paura da cui scaturisce ogni sorta di male e di violenza.

    Preghiera conclusiva

    Quanto a me, Signore,
    tutta la mia fiducia è la mia fiducia in te:
    quella fiducia che non deluse nessuno;
    nessuno sperò nel Signore e rimase deluso.
    Io sono dunque certo che sarò eternamente felice,
    perché spero fermamente di esserlo
    e perché è da te, mio Dio, che lo spero:
    in te, Signore, ho sperato,
    non sarò mai deluso in eterno.
    Infine sono certo che posso sperare totalmente in te
    e non posso avere meno di ciò che avrò sperato da te.
    Spero che tu mi amerai sempre
    e che io ti amerò senza interruzione.
    E per portare in una parola
    la mia speranza il più avanti possibile,
    io spero te, te stesso da te stesso,
    mio Creatore e nel tempo e nell’eternità. Amen.

    Jean Guitton, filosofo

     

  • 23 Giu

    Stare presso la croce di Gesù: Maria nel mistero pasquale


    di p. R. Cantalamessa
    a cura di p. attilio franco fabris

     

    Maria è presente nei momenti centrali del mistero di Cristo: incarnazione, mistero pasquale, pentecoste.

    Cosa significa la croce? Per Giovanni è l”ora”: evento nel quale si rivela appieno la gloria di Cristo, la sua sovranità, e luogo dal quale Cristo dona lo Spirito. E’ il “tutto è compiuto”.  E’ già luogo in cui trionfa la vita e l’amore, e dunque di resurrezione. (in questo senso non è importante sapere di apparizioni o meno del Risorto alla madre).

    Presentandoci Maria ai piedi della croce, Giovanni pone Maria nel cuore del mistero pasquale. Ella non è presente solo alla sconfitta e alla morte del Figlio, bensì soprattutto alla sua glorificazione: “Abbiamo visto la sua gloria”.

    Maria la “pura agnella”

    Maria ha bevuto fino in fondo al calice della passione. Ella può dire: “ha bevuto dalla mano del signore il calice della sua ira, la coppa della vertigine: O voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore” (Lam). Le piaghe del Signore si sono impresse anche nel suo cuore!

    Maria è insieme ad un altro gruppo di donne. Non era sola. Tuttavia era lì come “sua madre” e questo cambia tutto, ponendo Maria in una situazione affatto diversa dalle altre.

    Ella accompagna il Figlio nella passione fa suoi i suoi sentimenti. Quando sente il Figlio pregare dicendo: “Padre perdonali….”, capisce che il Padre le chiede di fare la medesima cosa: anch’ella perdona.

    Maria ai piedi della croce non dice una sola parola, ella è puro silenzio.

    Se Maria potè essere tentata come lo fu Gesù nel deserto questo avvenne sotto la croce: il motivo era che lei credeva alle promesse. E la croce sembrava sconfessarle. Ma vede che Gesù non fa nulla. Liberando se stesso dalla croce libererebbe anche lei dal suo dolore straziante, ma non lo fa. Maria non grida come tutti: “scendi dalla croce, salva te stesso e me” “Hai salvato altri salva ora te stesso figlio mio e me”. Maria tace. Dice il concilio: “Maria acconsente amorosamente all’immolazione della vittima da lei generata”.

    Ella sta accanto all’Agnello come agnella a sua volta come dicono alcuni antichi testi: “la bella agnella”.

    Dice ancora il concilio: “Anche la beata vergine Maria ha avanzato nel cammino della fede e ha conservato fedelmente la sua unione con il Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette ritta, soffrì profondamente col suo Figlio unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei stessa generata”.

    Maria dunque non sta presso la croce del Figlio solo fisicamente, ma soprattutto spiritualmente.  Soffriva nel suo cuore quello che il Figlio soffriva nella sua carne: “Una spada ti trafiggerà l’anima”.

    A forza di fare attenzione a non mettere sullo stesso piano Maria e cristo una certa teologia corre il pericolo di vanificare l’incarnazione, dimenticando che Cristo si è fatto “in tutto simile a noi, fuorché nel peccato”. Non è certo peccato che un figlio morente in quelle condizioni, rifiutato da tutti, cerchi un rifugio nel cuore e negli occhi della madre che l’ha generato e che conosce bene la sua innocenza. La differenza infinita tra il Figlio e la madre non deve far dimenticare la somiglianza anch’essa infinita che c’è tra loro: questo sarebbe docetismo.

    Gesù non dice più: “che c’è tra me e te o donna? Non è ancora giunta la mia ora!”: ora c’è un’unione profondissima data dalla stessa sofferenza.

    Chi potrà penetrare il mistero di quello sguardo tra madre e Figlio, in un’ora simile? Erano divenuti una sola cosa con il dolore e il peccato del mondo: Gesù direttamente, Maria indirettamente per la sua unione carnale e spirituale.

    Quando Gesù dice: “Padre nelle tua mani affido la mia vita”, adorando profondamente la volontà del Padre e affidandosi completamente a lui, Maria comprende che deve seguire Cristo anche in questo passaggio: anche lei è chiamata ad adorare la volontà di Dio e a confidare totalmente in essa.

    Stare presso la croce di Gesù

    Maria che sta sotto la croce ci dice quale deve essere l’atteggiamento del credente quando viene a contatto con la sofferenza fisica, spirituale, psichica.

    Quello che avvenne in quel venerdì santo deve avvenire anche per noi ogni giorno: bisogna stare accanto a Maria presso la croce di Gesù, come ci stette il discepolo che egli amava.

    Ci sono due aspetti da rilevare nel testo di san Giovanni:
    primo: bisogna stare “accanto alla croce”
    secondo: bisogna stare accanto alla croce “di Gesù”.

    La prima cosa da fare non è stare presso la croce in genere, ma stare presso la croce di gesù. Non basta stare presso la croce, cioè nella sofferenza, starci anche in silenzio con rassegnazione. No! Questo forse sarebbe eroismo ma nulla più, non contiene nessun annuncio di speranza, di gioia, di vita, di salvezza.
    la cosa decisiva è stare presso la croce di Gesù.

    Ciò che conta non è la propria croce, questa non ci salva! La croce che ci salva è solo quella di gesù.

    Non è il soffrire che conta, ma il credere, ovvero l’unirsi a Cristo, il vivere con lui. La cosa fondamentale è credere stando nella sofferenza a Cristo. La fede che passa attraverso la sofferenza è la vera fede!

    La cosa più grande e importante per Maria che stava presso la croce non era il suo soffrire, ma il suo credere nonostante tutto, l’unirsi alla sofferenza di Cristo suo figlio. La sua fede fu più grande della sua sofferenza: questa non la schiacciò!

    Ma qual è il segno e la prova che si crede realmente nella croce di Cristo? È il portare la nostra croce, la nostra sofferenza, dietro a Gesù, accettare di “prendere parte alle sue sofferenze”, di “essere crocifissi con lui”, di “completare nella nostra carne la passione di Cristo per il bene della Chiesa e del mondo”.

    La nostra vita allora si trasforma in “sacrificio vivente”, in un’offerta come quella di Cristo.

    Non si tratta più dunque di una sofferenza subita passivamente, ma accolta e vissuta con amore. Se vissuta così anche la nostra sofferenza partecipa della dimensione salvifica della sofferenza di Cristo.

    La nostra croce non è in se stessa salvezza, non è potenza, né sapienza. Diviene tutto questo quando ci uniamo alla croce di cristo.

    Soffrire unisce alla croce di Cristo in modo non solo intellettuale, ma esistenziale, concreto è una sorta di canale, di strada, che ci conduce con maria sul Calvario ai piedi della croce, dove la fede si unisce al dolore in un tutt’uno.

    Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze…mi compiaccio nelle mie infermità e nelle angosce sofferete per Cristo (2 Cor 12).

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