• 29 Set

    Amerai il Signore con tutta la tua mente

     a cura di p. Attilio Fabris

    La scoperta dell’essere figli del Padre è antecedente a ogni proposito di cambiare vita, ma d’altro canto anche la vita che cambia permette di scoprire che è bello vivere come figli. Lo scoprirsi figli è un dono. E nell’economia della salvezza noi sappiamo che ogni dono è fatto per essere condiviso. Allora se essere figli è un dono di un Padre che è la Vita, allora questo dono lo debbo condividere, io stesso sono chiamato ad essere dono. Ritrovo la mia identità nell’essere esistenza che si dona. Sono servo perché figlio. Servo non per forza, costretto da un padrone, ma perché il donarmi diventa esigenza insita al mio essere figlio.

    In questo la mia esistenza di figlio si conforma al Figlio Dio-Uomo Gesù il quale “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil): non ebbe paura di perdere la sua dignità di Figlio nel lavare i piedi ai discepoli, e nel portare sulle sue spalle il peso del nostro peccato. Da quando Dio si è rivelato rivelandoci a noi stessi in Gesù in questa modalità l’essere servi non equivale a schiavitù, ma ad assumere il sacrificio di me stesso come mia piena realizzazione. E’ questa che chiamiamo conversione della mente.

    Facciamo allora attenzione ai nostri gesti di servizio: con quali atteggiamenti sono compiuti? Nascono dalla coscienza del mio essere figlio e dalla coscienza di essere stato servito anzitutto da Dio stesso?

    Quando servo non ho paura di perdere la mia dignità, non ho paura di perdere il mio tempo. E’ questa una grande liberazione interiore: libero di donarmi senza aspettative e ricompense. Libero di fronte agli altri e alle cose: tutto mi è già stato donato.

    Signore della vita

     La mente convertita in questa direzione scopre un’altra grande verità: Dio è Signore della mia vita: la mia vita è nelle mani di Dio, da lui la ricevo istante per istante.

    Se Dio è Signore della vita non esiste più l’assurdo, ma tutto acquista un senso, un valore. Tutti gli eventi sono espressione della sua paternità, della sua provvidenza che mi ha creato e che manifesta continuamente il suo amore. Colgo la mia vita come un dono di amore: un mistero che mi si apre dinanzi perché non potrò mai comprendere perché Dio abbia voluto proprio me, così, perché mi chiami a condividere la sua ricchezza d’essere. E’ un mistero di benevolenza e di grazia.

    Questa nostra mente abbandona la pretesa di capire tutto e spiegare tutto, si apre invece alla gratuità del mistero, non conquista la verità ma ne è conquistata: si apre allo stupore e all’abbandono.

    Guarigione della memoria

    Anche la memoria è chiamata a convertirsi. Non è un solo contenitore di dati, una facoltà passiva. Essa diviene capace di fare memoria, ossia diviene attiva e dinamica; aiuta la mente a capire e a credere attraverso il suo ricordare, nel suo illuminare e collegare episodi e situazioni, nel constatare una costante presenza provvidenziale nella nostra vita.

    E’ quella che in teologia viene chiamata la memoria biblica: “ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto…” (Dt 8,2). L’israelita crede perché i  suoi occhi hanno visto (Dt 11,3-7), i suoi padri gli hanno raccontato (Dt 32,7), perché aveva sperimentato e provato (Dt 8,3). Crede non attraverso elucubrazioni filosofiche o teologiche ma per l’evidenza dei fatti vissuti da lui e dai suoi padri. I fatti l’ebreo li celebrava, ne faceva memoria: un memoriale proiettato verso il futuro.  Quando la fede si fa memoria, significa che è divenuta fede molto personale calata nella vita. Quando quest’aspetto manca la fede rimane ancora troppo fede astratta, astorica, senza cuore. Non bisogna perdere la memoria! Si tratta di una vera e propria “guarigione della memoria”. Troppo spesso la nostra memoria è labile, malata, confusa, parziale… Memoria guarita è memoria attenta, che conserva ciò che i suoi occhi hanno visto e le sue mani hanno toccato. E’ una memoria che “racconta”.

    Esiste in noi una memoria affettiva che è segnata da certe esperienze emotive, e che viene riattivata quando viviamo esperienze simili o analoghe. C’è da augurarsi che nella nostra memoria affettiva venga incisa l’esperienza della paternità di Dio.

    “Con tutta la mente”

     Cogliere quel nesso logico e provvidenziale che lega tra loro armonicamente tutti gli eventi del vivere, vuol dire… non aver più paura della vita, non essere più assaliti dalla preoccupazione di programmare e prevedere, calcolare e controllare, dall’apprensione di difendersi, si è invece in qualche modo al di sopra di tutte queste schiavitù interiori. E’ liberarsi da quell’insicurezza che ci fa sentire così importanti, come se tutto dipendesse da noi. Preoccupati della nostra vita spirituale o di tante altre realtà terrene. Il Padre ci vuole figli non superuomini, servi inutili non protagonisti della salvezza.

    Quando si è preoccupati troppo d’avere sempre tutto e di non mancare di nulla temendo il disagio della privazione, allora è dubbio che io possa vivere e testimoniare la provvidenza del padre e la sua signoria sulla vita. Essere servi del Signore della vita comporta libertà dalle cose e da se stessi, dalle preoccupazioni materiali e spirituali. Conversione intellettuale è questa libertà che permette un impegno totale per il regno: “Cercate prima il regno di Dio, tutto il resto vi sarà dato in aggiunta”.  Questa conversione è ricerca “con tutta la mente” di quella trama salvifica, invisibile, che rende il cammino di ciascuno una storia sacra. E’ una visione spirituale, nello Spirito, che sperimenta-ricorda-comprende-fa ipotesi-discerne spiritualmente. L’operazione mentale è accompagnata dalla fede e genera fede. Una mente che crede che “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8,28).

  • 24 Set

    Il Vangelo della Samaritana

    (Gv 4,1-42)

    Gesù comincia il suo ministero all’ombra di Giovanni Battista, battezzando. In realtà Gesù ha la delicatezza di non battezzare ma lo fa fare ai suoi discepoli.

    Malgrado ciò, nasce una polemica su chi battezza di più: lui o Giovanni. Quando Gesù si accorge di ciò decide di andarsene e di tornare in Galilea con i suoi discepoli. Pensiamo che non debba essere stata una decisione facile, perché mettere su un movimento non è una cosa che si fa in due giorni. Prima di creare questo flusso di persone che venivano a farsi battezzare, Gesù e i suoi hanno lavorato tanto. Constatare che è difficile aiutare l’uomo, fare del bene, vedere come ciò che fa è strumentalizzato per rivalità, il pettegolezzo, etc., deve essere stato una prima esperienza di Passione per Gesù. Gesù non esita: se quello che fa in qualche modo può essere strumentalizzato per fare del male al suo amico Giovanni, Gesù lo abbandona. Sceglie di affrontare un lungo cammino fisico di ricerca: almeno 150 chilometri, in direzione di casa sua e dei discepoli.

    Gen. 29, 1: nessuno riusciva a spostare la pietra dal pozzo … ovvero. Giacobbe ha convinto gli altri pastori a rimuovere la pietra mentre si avvicinava Rachele. E’ il pozzo dove Giacobbe ha incontrato Rachele. Anche in Gen. 24,10 Eliezer trova una moglie per Isacco ad un pozzo. Il pozzo è il luogo dove le persone possono incontrarsi. Un punto d’incontro, perché tutti hanno bisogno dell’acqua. Il bisogno spinge le persone ad incontrarsi. I luoghi d’incontro sono frequentati per la loro capacità di soddisfare a questo bisogno.

    Essendo il pozzo un buco che penetra la terra, esso è simbolico di quanto l’uomo deve fare per andare oltre ciò che è superficiale. Ci afferma che oltre la banalità dell’esistenza esiste la possibilità di soddisfare il bisogno dell’uomo. E’ simbolico di una relazione che va in profondità, che non rimane allo stato epidermico.

    Quando arrivano al pozzo, verso mezzogiorno, sono almeno al secondo giorno di cammino. Gesù è sì stanco per aver camminato, ma forse anche per ciò che ha vissuto esi è lasciato alle spalle.

    Gesù si accorge che da lontano una donna sta arrivando per attingere acqua dal pozzo. Solitamente le donne ci si recavano la mattina e forse dopo pranzo per rigovernare e preparare la cena, ma non certo per l’ora di pranzo; e tanto meno da sole. Il pozzo solitamente rimaneva in un luogo isolato per non inquinarlo i rifiuti del centro abitato. L’acqua era preziosa e andava tutelata.

    Perché tu Samaritana vai al pozzo a quest’ora da sola?

    – Non voglio incontrare le altre donne del paese perché sono cattive con me, mi considerano una poco di buono, mentre in realtà loro sono peggio di me ma vogliono salvare la faccia. Le odio. E poi perché mi fanno soffrire con i loro sguardi e le battute. Sono tutte invidiose. E poi a me piace stare da sola.

    – Ma non è che hai qualche altro fine, magari quello di incontrare una carovana di stranieri?

    – In effetti, preferisco gli stranieri alla gente di questo stupido paesino dove mi tocca vivere.

    Dietro il primo fine di andare a prendere l’acqua ecco che il cuore persegue un altro fine: sedurre. Cosa fa Gesù? Fugge perché una donna vuole abbordarlo? Le regole non permettono di parlare con una donna, e neanche a lei è permesso parlare; ma Gesù è assetato e non ha una brocca, e questo lo spinge a chiedere: una situazione d’emergenza che è prevista dalla legge. Però se era normale chiedere da bere, non lo era chiederlo ad una samaritana. Gesù si espone ad un rifiuto vivendo il rapporto con l’altra con naturalezza e verità. Al di là di quelle che potrebbero essere le intenzioni dell’altra, Gesù vive quelle che sono le sue, d’intenzioni. Gesù esprime il suo bisogno: “Dammi da bere”.In che tono Gesù avrà pronunciato quella frase? Un tono supplichevole di chi ha i complessi d’inferiorità nei confronti dell’altro sesso? O di chi è talmente assetato che sbava per un sorso d’acqua? Un tono autoritario, tipico del maschio che si sente superiore a una donna, per giunta samaritana? Un tono mellifluo, mieloso di chi già pregusta quello che avverrà dopo? Un tono seduttore che cerca di far presa sulle corde emotive dell’altra? Un tono losco di chi fa finta di essere innocuo per poi saltare addosso alla preda improvvisamente? Il tono di Gesù esprime semplicemente il suo bisogno di bere e la capacità di entrare in relazione con l’altra in maniera totale e profonda come il pozzo, senza doppi fini. Gesù non ha paura: non si lascia prendere da timori.

    Continua a essere se stesso, e essere se stesso significa vivere il suo bisogno. Quanti giri di parole faremmo noi, per riuscire a stabilire un rapporto prima di manifestare il vero bisogno? Gesù non dice nemmeno per favore: ma dall’ascolto che abbiamo fatto, dal tono di voce e dallo sguardo sappiamo che il suo non è un imperativo violento. L’atteggiamento di Gesù è di trasparenza. La persona che ha a che fare con lui può costatare quali sono le intenzioni del suo cuore, essere trasparenti vuol dire consegnarsi nelle mani dell’altra, giocare a carte scoperte, vuol dire la morte dell’orgoglio, della superbia. Come si può entrare in relazione con l’altra senza il rapporto sessuale? Si può entrare in comunione senza vedere sullo sfondo dell’incontro un letto? Non siamo capaci di scavare il pozzo dell’amore autentico. Questa donna ha la brocca per attingere al pozzo dell’amore carnale, affettivo, ma non ha la brocca per attingere al pozzo dell’amore autentico; anzi: nemmeno sa che esiste il pozzo dell’amore vero.

    Avvicinandosi a Gesù si accorge che è un Giudeo. Anche se ci va per rimediare rimane spiazzata dal tono di Gesù, dal suo sguardo, si sente confusa, ed è costretta a ripararsi dietro un comportamento formale, che le consenta di studiare l’avversario e vedere il gioco che fa: “Come mai tu…”. A quanto pare lei non rifiuta di dargli da bere ma si mette giocare con il bisogno di Gesù.

    Avrebbe potuto rifiutargliela o dargliela e ritirarsi in buon ordine. Lei preferisce attaccare bottone. Lo fa tirando fuori una vecchia polemica e sarebbe interessante cogliere il tono della sua voce. E’ una provocazione. Un modo per rompere il ghiaccio, una frase mediante la quale la samaritana costringe Gesù a scoprirsi: “Se tu, giudeo, hai tutto questo poco rispetto delle vostre consuetudini, significa che non hai solo l’intenzione di bere”. La samaritana usa il bisogno di Gesù. Vede che è assetato e che lei ha la risposta al suo bisogno. Gioca con questo bisogno esercitando potere su di lui. E’ questa la tecnica di potere che usiamo solitamente nelle nostre relazioni: una volta individuato il bisogno dell’altro ed entrando in possesso di quanto possa soddisfarlo esercitiamo potere ora soddisfacendolo, ora lasciandolo a secco. Le relazioni del nostro “amore” sono delle compravendite in cui ognuno vende qualcosa in cambio di altro. Gesù invece gioca in perdita: non ha paura di entrare in relazione con qualcuno giudicato impuro e che, secondo la religione giudaica, è causa di interdizione alle pratiche di culto, e quindi alla stessa relazione con Dio. Gesù, pur di entrare in relazione con questa donna, compie qualcosa che contraddice principi e convinzioni alle quali lui tiene moltissimo e che ha sempre praticato fedelmente per tutta la vita. E questo Gesù lo fa anche per un incontro occasionale, che durerà poco tempo, che forse non avrà un seguito, perché per lui ogni persona è importantissima, come se fosse l’ultima con cui entrare in relazione prima di morire. Davanti alla reazione della donna come avremmo reagito noi a nostra volta? Saremmo entrati in polemica? Ci saremmo ritirati con la coda fra le gambe?

    Però ecco che Gesù, introducendo degli elementi nuovi nel dialogo, comincia a giocare su doppi sensi: parla di acqua ma intende un’altra acqua, che è il suo amore. Un’acqua sconosciuta, ma viva. Gesù capisce che questa donna sta manifestando il suo bisogno di relazioni nuove. Non si scandalizza, non gli fa la morale, preferisce accogliere il suo bisogno ma senza giocarci e andando alla radice di esso.

    Per farlo mette subito Dio al centro del discorso: “Se tu conoscessi il dono di Dio”… Gesù vuole portarla a vedere il suo vero bisogno, quello di cui ha paura e che non vuole affrontare se non superficialmente. Gesù ha chiaro che Dio può, tramite lui, rispondere al suo bisogno. Gli propone acqua viva, acqua che scorre come quella del Giordano, che non imputridisce, che lava, che disseta e da sollievo.

    Anche questa è una tecnica di approccio: le frasi a doppio senso portano i due a muoversi in una determinata direzione, a vedere se l’altra ci sta. Solo che i doppi sensi di Gesù si muovono in una direzione a noi sconosciuta. “Se tu conoscessi il dono di Dio”. Gesù ha la sfacciataggine di proporsi come qualcosa di speciale, come uno che, dal canto suo, può soddisfare la sete di lei, con un acqua particolare, come se lui fosse stato mandato sulla sua strada da Dio stesso, come un dono. Sembra quasi che dica “Tu non sai chi sono io”. E’ la consapevolezza di Gesù di essere quello che è, senza falsa modestia, ma dalla finalità non di ottenere un riconoscimento di questo mondo, ma in funzione della Gloria a Dio. Questo si può evincere dal comportamento complessivo di Gesù, senza isolare la frase dal resto del racconto. Gesù ha chiaro quello che ha ricevuto, e quello che può dare. Gesù vuole aiutare questa donna a scoprire qual è il suo vero bisogno, cos’è che in fondo cerca veramente, ma non sa di averne bisogno. E Gesù, per far questo, sposta il discorso su Dio, mette Dio al centro. Quello che Gesù dice è misterioso: cosa sarà questa acqua viva, e che personalità sarà quella di uno che addirittura si presenta come un dono di Dio, un inviato di Dio?

    Siamo di fronte a un pazzo, un millantatore, uno sbruffone che ostenta grossolanamente le sue capacità per sedurre? O veramente questo uomo ha qualcosa di diverso dagli altri? La donna si domanderà in se stessa chi sarà mai questo uomo: l’unico a cui si può paragonare, stando alle sue parole, è il patriarca Giacobbe. Lei lo aggredisce il giusto, per farsi accogliere. E una tecnica di potere con la quale cerca di manifestare il suo desiderio ma in modo velato.

    Tutti abbiamo bisogno di entrare in relazione con tutti, ma nessuno lo fa correttamente: o fuggiamo per paura, o cerchiamo di conquistare con gli strumenti di potere. Non siamo capaci che di scavare pozzi di acqua che ci disseteranno per sempre: una volta che abbiamo spremuto una persona cominciamo ad innamorarci di un altra. L’unico che può salvare l’umanità da questa incapacità, è colui che sa veramente amare di un amore qualitativamente diverso, un amore che cerca il bene dell’altra, dell’altro.

    L’unico è Gesù. Non ti scoraggiare, quindi, davanti alla falsità delle tue relazioni: è possibile ancora oggi costruire relazioni autentiche attingendo a questa sorgente di amore che è Gesù. Anzi, questa messa che stiamo vivendo è già questa relazione autentica di Gesù con noi e di noi fra noi stessi. Non troverai fuori di qui la possibilità di essere pienamente te stesso, solo che tu lo voglia. L’amore di Dio è qui e ti sta amando. Io faccio finta di dare per prendere, Dio invece chiede per dare.

    Come ci dirà Gesù, questa donna ha avuto cinque mariti: la sua è una coscienza inquieta, in continua ricerca di appagamento, ma niente la appaga fino in fondo. Dove sono quegli uomini? Le relazioni che si impostano sull’esercizio di potere, sono destinate a finire molto presto. Questa ricerca della donna, la porta ad avere un atteggiamento aggressivo, la manifestazione del suo bisogno, pur non essendo trasparente, è densa di volontà di esercizio di potere: una coscienza abituata alla schermaglia. “Se tu conoscessi…” Gesù invece la accoglie con dolcezza; e questo è un atteggiamento che comporta una fatica interiore, per non scendere sullo stesso piano dell’altra, è trovare in se la sorgente di un amore diverso, che ama per primo, che è gratuito. Gesù, inoltre, non n’approfitta, non fa finta di restare calmo, per poi, al momento opportuno, sedurla. Non ha doppi fini. E ancora non ha un atteggiamento moraleggiante: non gli fa nessuna predica, non le impone dei pesi che non è capace di capire la ragione per cui li dovrebbe portare; né, ammesso che lo capisse, potrebbe portare. Eppure per una coscienza morale come quella di Gesù, sensibile a tutto ciò che può essere contro la verità nei rapporti deve essere doloroso astenersi dal farlo. Questa donna, come vivrà accoglienza di Gesù? Non la fraintenderà? Non è abituata ad essere trattata così: non ha mai conosciuto uno che si comporta correttamente con lei, penserà che è un poco di buono.

    Da una parte provoca Gesù, ma quando l’altro esce dai miei schemi, faccio fatica a capire dove vuole andare a parare, c’è poco da fidarsi. Forse è un poco di buono. Gesù accetta il rischio del coinvolgimento, pur di andare incontro a questa donna. Come sempre, ogni persona che incontra è importante per lui. Si consegna alla violenza del cuore di questa donna, vuole fargli fare l’esperienza che c’è uno in questo mondo, che non approfitta di lei, e che gioca a carte scoperte. La donna per tutta la vita non ha fatto altro che provarle tutte, per togliersi questa sete che la divora. Ma sono state sempre delle sorgenti che non gli hanno tolto la sete: è sempre questa cammella vagabonda che vaga, sempre in cerca. Ma ora sente che la relazione con Gesù, questa conoscenza, il coinvolgimento di lui con lei, è un’acqua diversa: si sente rinfrancata, si sente capita, non si sente giudicata. Man mano che parla con Gesù sente accoglienza, tranquillità, sente che quest’acqua che le propone Gesù, la sta già bevendo, anche se ancora non capisce di cosa si tratta. Gesù non pretende di più e va avanti con una domanda: “Vai a chiamare tuo marito…”.

    Gesù usa una parola molto delicata che bisognerebbe reinventare oggi: una parola che indica sia il marito, sia un uomo qualsiasi, di modo che la donna può rispondere o eludere la domanda chiaramente a doppio senso. Gesù non le fa violenza ma se vuole, capisce che Gesù a messo il dito sulla sua piaga. Non è una domanda polemica o impertinente. Se lo fosse lei scatterebbe o si chiuderebbe. Gesù deve averla amata molto perché lei possa avere accolto questa domanda rimanendo calma e riflessiva. Finalmente ha trovato qualcuno con cui giocare a carte scoperte, con cui può parlare liberamente, sente liberazione, guarigione. Gesù non dice alla donna di lasciare quest’uomo, Gesù è fraterno nel suo atteggiamento. Anche se è un amore vissuto in un modo disordinato, basato su giochi di potere e di sfruttamento, Gesù non viene ad affossarlo… anzi: con la sua acqua Gesù viene a salvarlo, a far sì che non rimanga allo stadio di quell’amore che poi finisce, come sono finiti gli altri matrimoni nella vita di questa donna. Condizione essenziale per dissetare qualcuno è l’avere chiaro qual è la sua sete, sia per lei sia per lui. Per ciò Gesù la porta ad un atteggiamento di confessione. Non è facile, perché scattano le paure e la gelosia di sé. Questa donna rispondendo alla domanda di Gesù si apre ad una condivisione della sua vita.

    Potrebbe anche essere un altra provocazione, come se dicesse: “Non ho marito quindi sappi che sono disponibile per te”. Ma Gesù preferisce farle sentire che lei è importante per lui ma che non vuole sfruttarla. Continua a farle vedere che ha chiaro che tipo di donna è lei, ma accogliendola.

    Dire: “non ho marito” è anche dire: “sono povera, ho bisogno di te”, è una confessione. Alla sua violenza Gesù risponde fraternamente ed è probabile che gli costi. Non le fa la paternale, non affossa il suo amore umano, anche se è disordinato. Gesù viene per ordinare l’amore umano offrendo la sua acqua.

    Lei non capisce ma sperimenta che l’accoglienza di quest’uomo la fa stare bene; si sta già dissetando. Si sente accolta, illuminata e tranquillizzata. E’ la condivisione della sua vita che le fa sperimentare l’acqua viva. Scopre che è importante per lui, che è disposto a sacrificarsi per lei, ad esporsi a critiche. La donna riconosce che Gesù è un profeta, cioè che è stato inviato da Dio per lei. Tuttavia comincia a tirare fuori delle questioni teologiche… l’adorazione, Samaria, Gerusalemme…Certamente sono problematiche autentiche, e che risolte possono dare un’intesa migliore, però che bisogno c’era di tirarle fuori proprio mentre la relazione è diventata così intima?

    La Samaritana fa una domanda: chi ha ragione? Noi o voi? E’ meglio la nostra religione o la vostra?… Perché una donna che è abituata a dissetarsi al “pozzo” anziché in Chiesa fa domande di carattere religioso? Forse cerca un argomento religioso per far vedere che è in grado di reggere il confronto con il personaggio che ha davanti e che mette sempre Dio al primo posto. Manifesta un desiderio di continuare a parlare con quest’uomo, ma per favore cambiamo argomento. E’ come dire: mi piace chiacchierare con te ma non parliamo dei miei mariti, dei miei problemi affettivi. Mi fa soffrire troppo. La donna in realtà, non riesce a sostenere il rapporto con Gesù, pur sentendo il bisogno di continuarlo, cambia discorso. Cosa è successo? Non riesce a vivere la sua verità, è caduto quello schermo, quella maschera con la quale si poneva in relazione con gli altri, e non è capace di vivere senza, non abituata a vedersi e a farsi vedere così alla luce del sole. Nelle nostre relazioni ci presentiamo agli altri con un’immagine, e questa ci fa da schermo fra quello che presentiamo e quello che siamo in realtà, Gesù si mette in relazione senza schermi. Quello che è, mostra, anzi, è capace di accogliere l’altro per quello che è, e non per quello che mostra. Ma questa donna non è abituata a stare in questa verità: ha paura di sé, di Gesù… E Gesù sembra che si sottometta a questa richiesta. Comincia a parlare della controversia Giudeo-Samaritana, ma con grand’abilità torna a bomba sul problema centrale di questa signora: il problema del Padre, e gli presenta un Dio Padre che si fa mendicante d’adoratori in spirito e verità.

    La invita ad avere con Dio lo stesso rapporto che sta instaurando con lui, un rapporto fatto d’autenticità, di verità. Lei scappa di nuovo: “So che deve venire il messia”… E’ quasi offensiva, come se dicesse: “Ma tu che ne sai? Chi sei per venirmi a smuovere questi problemi?”

    Ma Gesù insiste: “Il Messia sono io, non scappare, fidati. Vedo che sei spaventata. Non vedi che sto servendo la tua vita? “Lei vorrebbe stare con Gesù, ma non con se stessa. Parlare sempre d’altro, degli altri, ma non di se stessa. Gesù è molto delicato, sta al gioco, come sempre, capisce la difficoltà della coscienza della donna, rispetta i suoi tempi, però, nello stesso tempo, cerca di riportare il discorso al punto principale: Dio! Il Padre … Gesù parla del Padre, fa capire che lei ha bisogno del padre, della paternità, lei ha bisogno di entrare in questa relazione autentica con Dio, e conoscere che egli è padre. Nonostante tutta quest’accoglienza di Gesù, la donna tira fuori la storia del messia. Possiamo immaginare che sia lecito indagare sull’identità di una persona prima di dargli fiducia, eppure dà proprio l’impressione che tenti ancora una volta di svicolare, In fondo chiede a Gesù di dire esplicitamente che è il messia, oppure che Gesù, riconoscendo di non esserlo, si metta in relazione con lei non avanzando pretese di coinvolgimento, perché la persona che veramente potrà dare una risposta al cuore dell’uomo deve ancora arrivare. Ancora una volta, proprio dietro una giustificata domanda, si cela un atteggiamento, di resistere fino alla fine prima di dare veramente fiducia ad una persona, il cuore non si arrende, dentro si è ingaggiata una battaglia terribile: quest’uomo si è messo completamente a servizio della mia persona, quest’uomo mi sta aprendo delle prospettive infinite per la mia vita di donna, per la mia relazione con Dio, sto facendo un’esperienza come mai prima nella vita, e proprio per questo ti metto i bastoni fra le ruote, ti metto alla prova, ti torchio fino alla fine, fino a farti uscire l’anima, perché non mi fido, e mi fiderò solamente quando vedrò scorrere il tuo sangue, quando vedrò che sei schiattato sotto i miei colpi, la mia insistenza , la mia riprovazione. A questo punto, Gesù, in un ultimo svuotamento di sé, deve dire ciò che è il segreto intimo, più intimo della sua vita, deve manifestare se stesso fino in fondo, e correre il rischio di essere rifiutato, lì dove poi non è possibile fare più niente. Infatti dopo queste ultime parole di Gesù non c’è più niente da dire: se la Samaritana lo rifiuta, Gesù non ha più carte da giocare, e questo sarebbe disastroso per la samaritana stessa. Anche quest’ affermazione di Gesù, la massima che si possa pensare, potrebbe essere intesa come un’affermazione potente e sovrastante, come si conviene ad un figlio di Dio, invece va proprio letta in questa chiave passiologica, in quest’atteggiamento autosvuotante. Lei vorrebbe stare con Gesù, ma non con se stessa. Parlare sempre d’altro, degli altri, ma non di se stessa. A questo punto succede un fatto decisivo: tornano i dodici.

    Per la donna è un momento decisivo. Adesso saprà se Gesù fa sul serio con lei. Potrebbe aspettarsi un voltafaccia di Gesù, come forse farebbe lei se arrivasse gente del paese.

    Adesso vede che Gesù è disposto a compromettersi con lei anche pubblicamente: quest’uomo è disposto a pagare per lei. Temeva che finisse l’incantesimo del rapporto con lui, ma Gesù non l’abbandona, non si preoccupa di salvare la faccia. In quel mentre tornano i discepoli, e questo è un avvenimento che pone Gesù nella condizione di perdere ancora la sua vita. Essi si avvedono che Gesù sta parlando da solo con una donna, sta facendo qualcosa che va contro la legge, questo è causa di scandalo in loro.

    Inoltre sanno che Gesù è affamato, invece non manifestano niente a Gesù: non sono premurosi, non gli domandano nemmeno se ha bisogno di qualcosa. I dodici, nel tentativo di riallacciare un dialogo con Gesù, tirano fuori il discorso del mangiare, un po’ come noi quando vogliamo stare con qualcuno e lo invitiamo a cena. Al di là delle situazioni di difficoltà, ci deve essere in ogni caso un rispetto per le necessità fondamentali delle persone, i conflitti avvengono per essere risolti, per essere momenti di crescita. Le chiarificazioni avverranno, ma non è giusto trattare l’altro in questo modo, ignorando i suoi bisogni fondamentali, eppure questo fanno gli apostoli; e inoltre, non gli manifestano le loro perplessità riguardo al suo comportamento, ma stanno zitti. Come fa male questo silenzio ostile, meglio quando le cose te le dicono in faccia: questa è guerra fredda.

    Gesù non ha cambiato atteggiamento con lei, malgrado questa presenza dei dodici che lo stanno a guardare in cagnesco. A questo punto la Samaritana è talmente contenta che sente il bisogno di andare a comunicare la sua gioia a tutto il paese; proprio a quei paesani che prima evitava, e va a raccontare quello che non permetteva a nessuno di raccontare: “tutto quello che ho fatto”. Prima di partire lancia a Gesù un altro messaggio trasversale: “lascio qui la mia brocca per che torno subito e so che tu mi aspetterai e che mi posso fidare”.

    E’ probabile che domani questa donna tornerà al pozzo con le altre donne e non più da sola perché si sente riconciliata con se con Dio e con il paese. Lei che è un’avventuriera solitaria, ora si accorge che Gesù la far stare bene anche pubblicamente. Il suo star bene diventa riconciliazione con il suo paese, va alle persone con le quali sta in lotta da una vita, e non ha più paura di essere se stessa, di riconoscere il male che ha fatto, di annunciare quello che gli è successo, e ha lasciato la brocca lì, per dire che sarebbe tornata, perché uno così non lo ha mai incontrato e con lui vuole continuare a camminare.

    “Rabbì, mangia”. Qual è il sentimento interiore degli apostoli? Sono ancora meravigliati per l’atteggiamento, il comportamento di Gesù, perplessi. Bisogna ristabilire la relazione, ma da dove si parte? La situazione contingente di essere tornati con il cibo per Gesù, diventa l’occasione per ricominciare il discorso: si offre da mangiare, si racconta la visita in città e poi si affronta la questione della samaritana.

    “Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete”. Gesù si sta nutrendo interiormente di quello che è avvenuto fra lui e la samaritana. E’ assorto. E’ contento di quello che è avvenuto, contento che questa donna abbia accolto la sua parola, abbia accolto la sua persona, abbia accolto la verità di Dio. Questo dà una gran gioia a Gesù: e’ il senso del suo essere nel mondo, del suo esistere, è la ragione per cui si è sentito inviato dal Padre. Questo è un alimento per Gesù, é nutrimento. Gesù, per i discepoli, sta da un’altra parte. Sta dalla parte più autentica, che nemmeno le necessità materiali riescono a mettere in secondo piano. Tuttavia ciò che dice Gesù è enigmatico: per chi non si mette in atteggiamento di ascolto la sua affermazione rimane su un piano strettamente materiale. Ma Gesù risponde che ha già mangiato.

    I discepoli non capiscono che Gesù è assorto, che sta vivendo un momento di intensa preghiera di ringraziamento al Padre, perché la conversione di questa donna da significato a tutta la sua incarnazione, alle sue fatiche e sofferenze.

    Gesù sa che se ha potuto operare questo miracolo è grazie alla sua comunione con il Padre e alla loro interazione. Gesù gode di questa collaborazione con il Padre e raccoglie il frutto del suo essersi esposto, del aver amato per primo.

    Gesù vuole preservare questo momento che lo sta nutrendo profondamente, ma i dodici non capiscono il suo bisogno. Gesù dice “Io ho un cibo che voi non conoscete, che è fare la volontà del Padre mio. Cioè quello che ho appena fatto con questa donna e che mi appresto a fare con tutti i samaritani che verranno qua, accogliere, parlare dell’amore di Dio per l’uomo, del fatto che non fa differenze di persona, che il Regno viene”.

    ”Qualcuno forse gli ha portato da mangiare?” La considerazione sembra essere pertinente, circostanziale. Eppure dovrebbero essere abituati a vedere Gesù assorto, il maestro rivolto verso qualche finalità a loro ancora oscura. Invece, come quasi sempre, le loro coscienze sono sorde, indurite. I malintesi hanno sempre origine da una mancanza di ascolto della propria e dell’altrui coscienza.

    “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”. Ora Gesù chiarifica il suo atteggiamento: qualunque cosa abbia fatto è opera di Dio; è sempre stato così, e lo è stato anche in questo frangente. Questo è cibo, perché viene incontro al bisogno più profondo dell’uomo: la comunicazione alla e della vita. Comunicazione alla vita: Gesù è profondamente attento a ciò che il Padre dice, a ciò che il Padre vuole, è in atteggiamento di ascolto: questo è basilare per l’ebreo, e nella tradizione biblica ascoltare la parola è la stessa cosa di nutrirsi della parola. Comunicazione della vita: perché, proprio ascoltando, Gesù arriva a sentire che la stessa parola vuole comunicarsi a quella persona che è capitata davanti a lui.

    “Non dite voi: ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco io vi dico: levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura”. C’è qualcosa di illogico: se mancano ancora quattro mesi come è possibile che i campi siano pronti già per la mietitura? Capiamo che Gesù ha una visione profetica da comunicare ai suoi discepoli. Il piccolo episodio della samaritana e dei suoi compaesani, che a loro volta stanno arrivando, è diventato una piccola porta da dove guardare verso il futuro, e Gesù vede il frutto della sua missione, alla quale vuole associare i suoi discepoli.

    “In ciò si avvera la parola che uno è colui che semina e uno è colui che miete. Io vi ho mandato a mietere ciò che voi non avete lavorato, e voi siete entrati nel frutto del loro lavoro”. Gesù è profondamente cosciente che l’immensa opera del Padre, può essere portata avanti solo attraverso una stretta collaborazione con lo stesso. Questo è vero per lui, che è stato docile a quanto lo Spirito del Padre ha fatto nel cuore della samaritana, ed è vero ancor di più per i discepoli che potranno fare questo solo in collaborazione con gli altri. L’opera grandiosa del Padre ci trova inseriti già in un flusso di vita che non possiamo mai dominare totalmente.

    “Vi ho mandati a mietere ciò che non avete seminato”. Noi sappiamo che molti hanno seminato prima di noi, i discepoli sanno che Gesù ha seminato prima di loro, ma chi ha seminato per Gesù nel cuore della Samaritana tanto da permettere questa conversione apparentemente cosi improvvisa?

    Da quanto tempo lo Spirito di Dio lavora nel cuore di questa donna? Forse da anni sente questo ritornello dentro di se: “Dov’è tuo marito? Di chi mi posso fidare? Chi sarà fedele alla mia vita?”. Gesù ha colto l’opera di Dio in lei e glie l’ha rivelata. Per ciò Gesù si sente collaboratore del Padre e gioisce di ciò. Questa è una grossa botta per l’orgoglio umano che vuole essere il solo ed assoluto protagonista. Ma è una buona notizia per chi si sente sovraffaticato da una responsabilità al di sopra delle sue forze. Inoltre è una visione, questa della direzione generale del Padre, che suscita sentimenti di gratitudine e di glorificazione. Lui è il vero artefice di quest’opera, lui è immensamente proteso verso le sue creature.

    I samaritani credettero in Gesù, perché avevano potuto costatare che quello che aveva fatto nella samaritana era un’opera di Dio. Era riuscito a portarla ad un ravvedimento, a un’ascolto di se stessa e di quello che aveva fatto. E Gesù è invitato a rimanere. In loro c’è voglia di condividere, di conoscere meglio questo maestro. Anche i samaritani, conoscendo Gesù, hanno una visione profetica: il loro incontro con lui è una piccola porta dalla quale danno uno sguardo sul futuro e sull’eternità, e si accorgono che quest’opera di Gesù è qualcosa destinata a crescere a dismisura fino ad abbracciare il mondo intero. Lui che è stato capace di superare le barriere fra giudei e samaritani, è uno che ha dentro di sé il germe di un’universalità senza confini: è veramente il salvatore del mondo.

    Quale immagine di Gesù ricaviamo alla fine di questo lavoro su Gv 4 ? Un Gesù che ha una gran capacità di relazione, perché non ha paura di essere rifiutato: sia quando la samaritana potrebbe farsi forte del fatto che non si poteva rivolgere la parola ad una donna sola, e che non correvano buoni rapporti fra giudei e samaritani, sia quando i discepoli tornando non comprendono il perché stesse a parlare con lei. Un Gesù che è paziente, e sa educare il bisogno della samaritana ad indirizzarsi verso Dio. Un Gesù che può dare qualcosa che nessuno al mondo può dare: qualcosa come un’acqua viva che sazia il bisogno del cuore dell’uomo, qualcosa che dà la possibilità di dare un culto autentico a Dio: in Spirito e verità; un vero cibo, che è la volontà di Dio che è il compito che Dio dà ad ognuno di svolgere su questo mondo. Un Gesù che non conosce barriere culturali o religiose, ma sente di entrare in relazione con tutti e che per questo è definito dagli stessi samaritani come “Salvatore del mondo”. Cosa ci dice il Signore attraverso questo quadro sulla persona di Gesù? Che esiste un uomo che è capace di entrare così tanto in relazione con gli altri da saziare quella sete di amore che c’è nel cuore di ognuno. Una parola questa che c’esorta a non disperare: è possibile per te, per noi sperare, credere che è possibile ancora avere questa risposta al nostro  bisogno di avere relazioni autentiche nella nostra vita. Questa parola ci dice ancora che ora, in questo momento il Signore ti dà la possibilità di avere questa nuova relazione, questa relazione autentica con gli altri. Questa relazione autentica comincia qui, attraverso la chiesa. La chiesa è questa che ora comunica con te e ti dice una parola vera, una parola autentica, e che può salvare la tua vita, così che anche tu, come questi samaritani, possa dire che questo Gesù è veramente il salvatore del mondo.

    Anche oggi Dio continua a creare qualche cosa nella vita di ognuno di noi. Non è un creatore andato in pensione.

    Signore rendimi attento alla tua opera dentro di me affinché la tua parola possa illuminarmi come quel giorno ha illuminato la Samaritana.

  • 23 Set

    LA PREGHIERA CONTINUA
    Obiettivi, indicazioni pratiche, principi base

    Tratto da Matta El Meskin, L’ESPERIENZA DI DIO NELLA PREGHIERA , ed. Qiqajon 

    La vita nel suo senso più profondo, si riassume in due atti costanti di un’estrema semplicità: il primo è l’amore la cui sorgente è Dio, il secondo è l’adorazione, che è il proprium della creazione: “Dio è amore” (1Gv 4,16); “Io non sono che pre­ghiera” (Sal 109,4). Questi due atti sono ininterrottamente co­stanti; così, Dio non cessa di amare la creazione e la creazione non cessa d’adorare Dio: “Vi dico, che se questi taceranno, gri­deranno le pietre” (Lc 19,40).

    Tutti gli atti e le molteplici occupazioni della vita passeranno e scompariranno dopo averci valso condanna o ricompensa e re­steranno soltanto questi due straordinari atti: l’amore di Dio per noi e la nostra adorazione di Dio. Non passeranno mai e rimar­ranno eternamente, perché Dio è felice d’amarci: “Ho posto le mie delizie tra i figli dell’uomo” (Pr 8,31) e noi troviamo tutta la nostra felicità nell’adorazione di Dio.

    Quest’adorazione è un’intuizione divina depositata da Dio al cuore della natura dell’uomo, affinché egli abbia la gioia d’adorare la sorgente della vera felicità. L’abbiamo toccato con mano, sperimentato e verificato tante e tante volte; abbiamo acquisito la certezza che la preghiera e l’adorazione sono fonti di felicità permanente.

    C’è dunque un mezzo per condurre una vita d’ado­razione e di preghiera ininterrotta, per mettere Dio al centro del nostro pensiero, per fare in modo che tutti i nostri atti e i nostri comportamenti gravitino intorno a lui, per vivere alla sua pre­senza dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina? In realtà, quest’opera non è una cosa da poco; esige da parte nostra grande determinazione, perseveranza e molta attenzione. Non dimentichiamo però che, così facendo, realizziamo il verti­ce della volontà e del piano divini e che, di conseguenza, vi tro­veremo immancabilmente l’aiuto, l’amore e la guida di Dio.

    Riassumiamo come segue la sostanza di quest’esercizio.

    1.       Gli obbiettivi della preghiera continua:

    – Vivere sempre alla presenza di Dio.

    – Associare Dio a tutte le nostre attività, a tutti i nostri pen­sieri e conoscere la sua volontà.

    – Accedere a una vita di gioia, avvicinandoci alla fonte stessa della felicità: Dio, e gioire del suo amore.

    – Acquisire un’alta conoscenza di Dio nel suo stesso essere.

    – Praticare un felice distacco dalle cose di questo mondo, sen­za rimpiangere nulla.

    1.     Qualche indicazione sulla preghiera continua:

    – Ravvivare il sentimento di essere alla presenza di Dio che vede tutto ciò che facciamo e sente tutto ciò che diciamo.

    – Tentare di parlargli di tanto in tanto, con brevi frasi che tra­ducano il nostro stato del momento.

    – Associare Dio ai nostri lavori domandandogli di essere pre­sente alle nostre attività, rendendone a lui conto dopo averle con­cluse, ringraziandolo in caso di riuscita, dicendogli il nostro rammarico in caso di fallimento, cercandone le ragioni: ci siamo forse allontanati da lui o abbiamo omesso di chiedere il suo aiuto?

    – Cercare di percepire la voce di Dio attraverso i nostri lavori. Molto spesso egli ci parla interiormente ma non essendo attenti a lui, perdiamo l’essenziale dei suoi orientamenti.

    – Nei momenti critici, quando riceviamo notizie allarmanti o quando siamo assillati, chiediamogli subito consiglio; nella pro­va egli è l’amico più sicuro.

    – Non appena il cuore comincia a irritarsi e i sentimenti ad agitarsi, volgiamoci a lui per calmare la nefasta agitazione prima che invada il nostro cuore; invidia, collera, giudizio, vendetta, tutto ciò ci farà perdere la grazia di vivere alla sua presenza, per­ché Dio non può coabitare con il male.

    – Tentare per quanto possibile di non dimenticarlo, tornando subito a lui, non appena i nostri pensieri sono colti in flagrante reato di vagabondaggio.

    – Non intraprendere un lavoro o dare una risposta prima di aver ricevuto una sollecitazione da Dio. Questa diventa sempre meglio discernibile a misura della fedeltà del nostro cammino alla sua presenza e della nostra determinazione a vivere con lui.

           3. Principi base per una vita di preghiera continua:

    – Credi in Dio? Allora che Dio sia la base di tutti i tuoi comportamenti; con lui accogli tutto ciò che incontri nella vi­ta, felicità o tristezza. Che la tua fede non cambi ogni giorno a seconda delle circostanze. Non lasciare che sia il successo ad aumentare la tua fede, né il fallimento, la perdita e la malattia a indebolirla o ad annientarla.

    – Hai accettato di vivere con Dio? Allora, una volta per tutte, metti in lui tutta la tua fiducia e non cercare di indietreggiare o di battere in ritirata. Sii fedele a lui fino alla morte.

    – Affidagli tutti i tuoi affari materiali e spirituali; egli è vera­mente in grado di reggerli tutti. Sappi che la vita con Dio sopporta tutto: malattia, fame, umiliazione… e non essere sorpreso se ti accadono queste cose; sii paziente e le vedrai trasformarsi e schierarsi dalla tua parte per il tuo maggior bene.

    – Concentra il tuo amore su Dio e non permettere agli ostaco­li di ridurlo; al contrario, accogli ogni sofferenza senza amarezza ma con dolcezza, a motivo di questo amore, perché il vero amore trasforma la sofferenza in felicità.

    – Beati coloro che sono stati ritenuti degni di soffrire per il suo Nome. Ancora più beati coloro che desiderano sacrificarsi per amore del suo Nome.

    Breve storia della preghiera continua

    La preghiera continua è una disciplina spirituale particolare che impegna le facoltà interiori dell’anima e tocca centri precisi del cervello con lo scopo d’acquisire la calma interiore neces­saria a pervenire a uno stato di veglia spirituale costante e di percezione permanente della presenza divina, accompagnata da un completo dominio dei pensieri e delle passioni. Costituisce l’opera spirituale più importante e più elevata che, condotta con successo, può farci raggiungere le vette della vita spirituale.

    Questa forma di preghiera è già menzionata negli insegna­menti dei primi padri del deserto d’Egitto: Macario il Grande parla della recitazione costante del “dolce Nome di Gesù”e abba Isacco, discepolo di Antonio, fa un lungo elogio della ripetizione continua del versetto di un salmo. Entrambi hanno vissuto verso la fine del IV secolo e gli insegnamenti del secondo sono stati raccolti da Cassiano durante i suoi viaggi in Egitto.

    Attraverso le parole di abba Isacco apprendiamo che questo metodo di preghiera, costitutivo di una delle tradizioni asce­tiche più importanti tra quelle che i padri avevano ricevuto dai loro predecessori, “è un segreto che ci è stato rivelato da quei pochi padri appartenenti al buon tempo antico, ma che vivono tutt’ora; noi lo riveliamo a nostra volta a quel piccolo numero di anime che dimostrano una vera sete di conoscerlo”.

    Quanto agli effetti di questa pratica sulle facoltà dell’anima e della mente, essi erano noti ai padri fin dall’inizio,come si deduce dalle parole di Isacco: “[Questa preghiera] esprime tutti i sentimenti di cui è capace la natura umana; conviene perfetta­mente a tutti gli stati e a ogni sorta di tentazione… Che l’anima (mens) ritenga incessantemente questa formula, cosicché, a for­za di ripeterla, acquisti la capacità di rifiutare e allontanare da sé tutte le ricchezze rappresentate dai nostri molteplici pensieri“.

    Fin da allora, cioè dal IV secolo, la preghiera continua si è dif­fusa in Egitto e in tutto l’oriente cristiano fino a occupare un posto preponderante nella dottrina ascetica di tutte le chiese orientali. La ritroviamo, tra gli altri, negli insegnamenti di Nilo il Sinaita (+ 430), poi in quelli di Giovanni Climaco all’inizio del VII secolo (570-640), e di Esichio di Batos (Sinai, VII o VIII secolo). L’importanza accordata all’hesychìa (tranquillità) si am­plifica progressivamente fino a raggiungere uno dei suoi vertici negli insegnamenti di Isacco ll Siro, vescovo di Ninive, verso la fine del VII secolo.

    Gli elementi frammentari di questi insegnamenti furono rac­colti in una dottrina sistematica solo con l’arrivo di Simeone il Nuovo Teologo (1022) e poi di Gregorio il Sinaita, che li orga­nizzarono in una dottrina mistica di tipo specificamente bizan­tino. Gregorio il Sinaita, seguito dal discepolo Callisto che di­verrà patriarca di Costantinopoli, la introdusse al Monte Athos alla fine del XIII secolo e fece della preghiera continua una prati­ca mistica fondamentale nella tradizione bizantina, dopo aver raccolto la quasi totalità delle parole dei padri riferite a questo argomento, ordinandole, spiegandole e commentandole.

    Con il soggiorno di Nil Sorskij al Monte Athos, nella seconda metà del XV secolo, si aprì una porta molto ampia per l’impian­tazione in Russia della preghiera continua. Tutta l’eredità orien­tale antica, con le sue ricchezze, si trovò trasferita ai padri russi che rivaleggeranno in ardore per applicarla con amore, fedeltà e devozione. Ormai, questa pratica occuperà un posto molto im­portante nella vita delle generazioni successive, come ci si può rendere conto leggendo i Racconti di un pellegrino russo.

    Ma, lasciando il deserto d’Egitto, suo luogo d’origine, la pre­ghiera continua perse buona parte della sua semplicità originaria; chi la praticava nei primi secoli, viveva spontaneamente in profondità i suoi effetti spirituali senza esaminarne il come; ne raccoglieva i frutti senza che ciò suscitasse in lui ambizioni spirituali.

    Questa forma di preghiera è dunque passata da un’umile pra­tica ascetica a una sistematizzazione mistica elaborata, provvista di discipline proprie, proprie condizioni, gradi e risultati. L’o­rante può prendere coscienza di tutto ciò ancor prima di cominciare a praticarla. Il che, naturalmente, non ha mancato di attri­buire al metodo una buona parte di complessità, accresciuta da una dannosa mancanza di naturalezza. Nondimeno, la preghiera continua ha sempre i suoi adepti e i suoi praticanti esperti e, su coloro che l’amano, non cessa di versare in abbondanza i suoi effetti benefici, le sue grazie e le sue benedizioni. L’autore stes­so confessa i benefici di questa preghiera per quanto lo riguarda personalmente.

  • 20 Set

    LA PURIFICAZIONE DEL CUORE

    MATTA EL MESKIN
    L’ESPERIENZA DI DIO NELLA PREGHIERA – ed. Qiqajon  COMUNITA’ DI BOSE

     

    In senso biblico, il cuore è il centro dal quale sgorgano tutte le reazioni della vita spirituale e corporea: “Con ogni cura vigila sul tuo cuore, perché da esso sgorga la vita” (Pr 4,23), non sol­tanto quelle buone, ma anche quelle cattive: “Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le pro­stituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie” (Mt15,19).

    Il cuore diviene così l’interprete della situazione dell’uomo, sia egli buono o cattivo: “L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo, dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuo­re” (Lc 6,45), il che significa che il movimento interiore del cuo­re influenza l’uomo tutto intero, il suo pensiero, le sue parole e le sue azioni. Gli è impossibile parlare senza svelare il proprio cuore, che lo voglia o no: “Perché la bocca parla dalla pienezza del cuore” (Lc 6,45). Così la parola dell’uomo esprime la realtà del suo cuore e può, di conseguenza, giustificarlo o condannar­lo: “Poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato” (Mt 12,37). Il rapporto tra il cuore e la bocca è espresso da Paolo: “Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rm  10,10). Quin­di, ciò che il cuore crede, la bocca deve confessarlo.

    Ma l’evangelo ci parla della possibilità di veder coesistere nell’uomo due cuori, l’uno che traduce esattamente il suo stato, l’altro, contraffatto, dal quale escono pensieri, parole e azioni simulate che non traducono lo stato reale dell’uomo. Egli allora parla e agisce da uomo virtuoso per far credere di esserlo, invece è malvagio: “Razza di vipere, come potete dire cose buone, voi che siete cattivi? Poiché la bocca parla dalla pienezza del cuore” (Mt 12,34).

    Questa parola del Signore ci insegna come sia impossibile all’uomo dire cose buone quando è cattivo, a meno che egli non possieda in se stesso, per simulare la virtù, una forza supple­mentare o un altro cuore che viene dal demonio. Possiamo percepire questo dal fatto che il Signore descriva i falsificatori del bene “razza di vipere“, perché la vipera è il simbolo del demo­nio; e l’obiettivo della dimostrazione simulata della virtù è quel­lo di mascherare il male e meglio assicurarne la persistenza. Tale è la tattica peculiare del demonio.

    Il demonio non si accontenta di insozzare il cuore con il male e le passioni, trasformando il “tesoro del cuore” in rifugio del maligno che diffonde il male, ma vi aggiunge la possibilità di as­sociargli un secondo cuore che parla virtuosamente al fine di mascherare il male e meglio assicurarne la diffusione e l’azione.

    Quanto all’azione di Dio sul cuore, essa consiste nello strap­pare radicalmente il cuore malvagio creando nell’uomo “un cuore nuovo” (Ez 36,26). E con questo cuore nuovo l’uomo diventa necessariamente un uomo nuovo. “Lo spirito del Signore inve­stirà anche te e ti metterai a fare il profeta insieme con loro e sa­rai trasformato in un altro uomo… Ed ecco, quando ebbe voltato le spalle per partire da Samuele, Dio gli mutò il cuore” (1Sam   10,6.9).

    Nella Bibbia, la creazione del cuore nuovo equivale a tre ope­razioni essenziali. La prima: il cuore dell’uomo peccatore è con­trito; la seconda: l’uomo è interamente lavato e purificato dall’interno; la terza: l’uomo riceve lo Spirito santo. Ritroviamo queste operazioni espresse con grande chiarezza nel Salmo 51. Nell’Antico Testamento, la creazione di un cuore nuovo era un’operazione eccezionale e individuale. Nel Nuovo Testamento, essa è generalizzata, non solo relativamente alla creazione di un cuore nuovo, ma anche alla creazione di un uomo interamen­te nuovo.

    Quanto alle tre operazioni, le ritroviamo tutte nel mistero battesimale, nel quale il cuore è lavato e purificato nella fede: “… purificandone i cuori con la fede” (At 15,9). Sul piano sen­sibile ciò è espresso con l’immersione nell’acqua nel Nome di Cristo. Ma la purificazione è completa solo quando il cuore, contrito per il pentimento e la rinuncia al peccato, ottiene la remissione: “Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel Nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito santo” (At 2,38). E’ quindi a perfezionamento della purificazione per la fede e il pentimento che l’uomo riceve lo Spirito santo.

    Così, la creazione di un cuore nuovo con l’acqua e lo Spirito diventa possibile per ogni uomo tramite la fede e la conversione. C’è però una differenza importante tra la purificazione del cuo­re attraverso la fede e la conversione, e la creazione, attraverso lo Spirito santo, di un cuore puro e nuovo.

    La purificazione del cuore è per noi un percorso obbligatorio e necessario, mentre la creazione di un cuore puro e nuovo e un’azione soprannaturale che spetta a Dio solo. E’ tuttavia lega­ta al nostro cammino, perché è nella misura in cui noi purifichiamo il nostro cuore attraverso la fede e la conversione che di­ventiamo atti ad accogliere pienamente quel cuore nuovo crea­to a immagine di Dio. E’ nella misura in cui detestiamo il male, aborriamo i pensieri e le passioni malvagie e abbiamo in orrore le opere del peccato, che diventiamo atti ad accogliere la potenza della santità perché abiti in noi come una nuova natura, river­sando in noi l’amore divino e ispirandoci le opere di giustizia. Nella misura in cui ci sforziamo di purificare il nostro cuore dal­le tenebre del peccato che oscurano lo sguardo spirituale, diven­tiamo atti ad accogliere la verità, a portarla e a radicarla nelle profondità del nostro essere. In altri termini, è nella misura in cui ci sbarazziamo dell’uomo vecchio con i suoi mali esecrabili che possiamo apparire nella forza dell’uomo nuovo divino: “Vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rive­stito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, a im­magine del suo creatore” (Col 3,9-10).

     Entriamo qui nell’ambito della teologia ascetica e mistica per la quale le opere dell’uomo e la sua fatica, sostenute dalla grazia, rappresentano una base essenziale nell’accoglienza dei doni ineffabili di Dio che superano tutte le opere e la natura stessa dell’uomo. I padri asceti hanno posto come condizione indispensabile della salvezza “la purificazione del cuore”, perché essa condiziona la nascita dell’uomo nuovo e permette di vivere una nuova vita spirituale in Cristo. Per i padri, il cuore, hè kardia, rappresenta, conformemente alla nozione biblica, il centro dell’essere umano nella sua totalità. Corrisponde, con la sua descrizione e i suoi effetti, a quello che è il cervello per i medici. Ha anche, senza dubbio, un senso più ampio: è il centro delle facoltà, delle capacità, dell’intelli­genza, del discernimento, della volontà, della sapienza e del giu­dizio, tutto ciò nasce da esso e in esso si fissa. “Così è per il cuore che ha la mente che lo governa, la co­scienza che lo rimprovera, i pensieri che lo accusano e lo difendono”.  (Macario il Grande, Hom. sp. 15,33). Nella stessa omelia, Macario descrive il cuore come “l’offici­na della giustizia e dell’ingiustizia, là la morte, la vita, il commercio onesto e quello fraudolento “.
    Sebbene il cuore possa diventare il crocevia di tutti i mali, egli dice ancora:  E di nuovo là vi è Dio e anche gli angeli, la vita e il regno, la luce e gli apostoli, le città celesti, i tesori di grazia…  (Macario il Grande, Hom. sp. 43,7). Il cuore dirige e governa l’intero corpo e quando la grazia si è impossessata dei pascoli del cuore regna su tutte le membra e sui pensieri. Nel cuore è la sede dei pensieri e ogni pensiero dell’anima e la sua speranza, perciò da esso la grazia fluisce in tutte le membra del corpo.  (Macario il Grande, Hom. sp. 15,20).

     Appare così che la grazia, agli occhi dei padri, può penetrare il pensiero, la volontà, la coscienza e tutte le membra, se ha do­minato il cuore. In altri termini, la natura dell’uomo il cui cuore è investito dalla grazia diviene, a causa di ciò, una natura spiri­tuale nuova. Da qui il valore della purificazione del cuore come preludio all’inabitazione della grazia. Macario il Grande insiste nel dire che il cuore malvagio insoz­za la volontà e corrompe le inclinazioni e gli istinti naturali. Nel­lo sguardo e nelle mani di un simile uomo, senza che egli se ne renda conto, tutto diventa impuro:  Nel cuore di quanti sono figli della tenebra regna il pec­cato ed esso fluisce in tutte le sue membra, infatti “dal cuo­re escono i pensieri malvagi” (Mt 15,19) e, diffusosi in tal modo, ottenebra l’uomo … Come l’acqua fluisce attraverso un canale, così il peccato attraverso il cuore e i pensieri. Quanti negano questo sono confutati e dileggiati dal pecca­to stesso, benché esso non voglia trionfare; il male infatti cerca di restare occulto e nascosto nei pensieri dell’uomo”  (Macario Il Grande, Hom. sp. 15,21).

    Così, il primo sforzo dell’uomo e la sua prima preoccupazione per sormontare le derive della volontà e raddrizzare le inclina­zioni e gli istinti che si fossero lasciati sottomettere dalla domi­nazione del male diventa, prioritariamente, la purificazione del cuore, cioè il faccia a faccia con il male all’interno del cuore per dominarlo, combatterlo e annientarlo.

    Macario descrive il cuore nella stessa omelia 15 come “il pa­lazzo di Cristo, dove viene a riposare“. Lo descrive anche come “il capitano di una nave che dirige e governa tutto l’equipag­gio“, come il conducente del carro: “Se un carro, le redini, gli animali e l’intero equipaggio sono affidati a un solo conducente, costui, quando vuole, spinge il carro a rapidissima velocità e, quando vuole, lo ferma; e a sua volta il carro dunque è in potere di chi lo guida. Così anche il cuore”. È così che Macario esprime l’aspetto primario dell’azione del cuore e la sua estrema importanza in quanto capitano della nave della nostra vita e conducente del carro che traina i nostri corpi. Se quindi il capitano è ignorante e insensato, che cosa ne sarà della nave? E se il conducente è scervellato e folle, quale sarà la fine del viaggio per il carro e i suoi cavalli? Se la casa è sporca, come potrà il Signore venire a riposarvi e ad abitarvi? Quanto più la casa dell’anima, ove riposa il Signore, ha bisogno di essere adornata affinché possa entrarvi e riposar­vi colui che è immacolato e irreprensibile. In quel cuore tro­vano riposo Dio e tutta la chiesa celeste.  (Macario il Grande, Hom. sp. 15,45).

     Macario ritiene che, come la costruzione della città comincia con la demolizione delle rovine, come la coltivazione della terra comincia col dare fuoco ai rovi, così il cammino della vita co­mincia con la purificazione del cuore. Quando una casa è stata abbandonata e uno la vuole ri­costruire, innanzitutto abbatte gli edifici in rovina, perico­lanti… E chi vuole coltivare un giardino in luoghi deserti e maleodoranti comincia per prima cosa a ripulire il posto, lo cinge con un recinto, scava dei fossi … Così anche le volon­tà umane dopo la trasgressione sono incolte, deserte, disse­minate di spine … Occorre dunque molto lavoro e molta fatica per ricercare e porre il fondamento finché nel cuore de­gli uomini non venga il fuoco e inizi a ripulirlo dalle spine.  (Macario il Grande, Hom. Sp. 15,33).

     Ma perché Dio ha scelto il cuore dell’uomo quale luogo privi­legiato del suo riposo, escludendo ogni altro? “Dammi il tuo cuore e prestami attenzione, figlio mio, e tieni fisso lo sguardo ai miei consigli” (Pr 23,26). E il primo comandamento: “Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore” (Dt 6,5). In realtà, l’uomo non possiede nulla di più fondamentalmente sensibile, tenero, dolce, misericordioso e affettuoso del cuore. Il cuore esprime l’insieme dei sentimenti dell’uomo più delicati e più veri. Non è tuttavia per questo motivo che Dio chiede il cuore dell’uomo. Il cuore ha una qualità che supera la dolcezza, la tenerezza, la misericordia e l’affetto, che fa di lui il centro dal quale sgorga la personalità con tutte le sue componenti, le sue caratteristiche e i suoi particolarismi. Il cuore è, in un certo senso, il santo dei santi dell’uomo. E’ questa sola qualità a renderlo degno di Dio. Co­sì, se l’uomo ama Dio con tutto il cuore, ciò significa che l’ama con tutto il proprio essere; di più, significa che si dona intera­mente a lui. E quando Macario dice che il cuore ingloba la mente, la co­scienza e i pensieri, mette l’accento sulla ragione principale dell’interesse di Dio per il cuore dell’uomo e per il suo amore.

    Dio non è interessato all’amore affettivo, quali che siano la sua intensità e perfino la sua violenza, perché si tratta di un amore che durante il cammino, quando i sentimenti sono feriti o offesi, necessariamente si spegne. Dio si preoccupa dell’amore del cuore, quello nel quale l’uomo si dona e dona tutto ciò che è, quell’amore le cui ferite ravvivano la fiamma, che i dolori af­finano e che la morte perfeziona.
    Per questo la purificazione del cuore è di una tale importanza per coloro che desiderano amare Dio. Dio non chiede né accetta l’amore parziale o condiviso. E’ necessario che il cuore sia total­mente per Dio. “Con tutto il tuo cuore“, vuoi dire: con un cuore depurato da tutte le imperfezioni dei sentimenti umani, dai le­gami carnali o dalle inclinazioni e dalle emozioni dei sensi, ciò significa anche completamente purificato da tutti gli idoli e dai culti segreti. Il santo dei santi deve essere consacrato a Dio solo e per lui ornato.

     

  • 09 Set

    I GRADI DELLA PREGHIERA
    NELLA SPIRITUALITA’ ORTODOSSA

    Di MATTA EL MESKIN

     

    E a ogni grado che li elevava verso la gloria pensavano di aver raggiunto la fine; e se si elevano ancora e si rischiarano a una luce più grande  dimenticano il livello precedente e pensano, una volta di più, di essere giunti alla fine del cammino! Ciò accade perché non sono loro,  ma l’azione dello Spirito santo in essi  che li eleva verso la gloria” (Giovanni di Dalyatha: Omelia sulla grandezza degli esseri spirituali)

    La preghiera

    La maggior parte tra noi conosce della preghiera soltanto la sua forma più semplice, quella che consiste nel recitare davanti a Dio qualche parola, sia essa improvvisata in base alle circostanze o composta dai santi, oppure costituita da brani scelti dalla Bibbia, dai salmi, dagli evangeli. In realtà, tutto ciò non è altro che un preliminare alla preghiera in Spirito e verità. E’ certo che se gli uomini sapessero quanto splendore ed elevazione sono rac­chiusi negli altri gradi della preghiera e come essi attirano grazia e benedizioni non esiterebbero un istante a cominciare a praticarli.

    Sebbene nella preghiera non sia facile distinguere tappe ben separate – a causa della loro unità e degli stretti legami che le uniscono -, possiamo comunque fornire alcune indicazioni sui diversi generi di preghiera.

    La preghiera vocale

    Nella preghiera vocale, come abbiamo già detto, recitiamo pa­role e frasi che possono essere improvvisate o selezionate dalla Bibbia o dalle opere dei santi; questo genere di preghiera si ritie­ne sia la base di altre, oppure una sorta di preliminare all’entrata in dialogo con Dio… Ma è necessario che sia accompagnata da uno sforzo mentale che permetta di seguire il senso delle parole recitate e da una motivazione interiore concernente tale senso, affinché le parole non siano declamate come se provenissero da qualcun altro, ma che siano assimilate e restituite come prove­nienti da noi stessi e rivolte direttamente a Dio

    Dobbiamo tuttavia notare che la preghiera, sia essa recitazio­ne personale o all’interno di una chiesa, salmodia individuale o in coro, può sfociare d’improvviso in uno stato contemplativo di rapimento dello spirito e di coscienza della presenza di Dio; per­ché lo stato di preghiera in quanto tale, nella propria stanza o in chiesa, è, in realtà, apparizione davanti a Dio ed entrata effetti­va nello spazio delle potenze spirituali che non cessano di lodare Dio e di servirlo.

    Se l’uomo si dispone alla preghiera vocale con cuore contrito, umile nell’adorazione e con il sentimento vivo di celebrare davanti alla santa Trinità, fin dal momento in cui apre la bocca egli è idoneo a entrare nella conoscenza e nella contemplazione dei divini misteri; allora la sua preghiera e la sua lode sono impre­gnate di calore e di purezza in un’indicibile felicità.

    Ma ciò non significa che ogni preghiera vocale debba trasfor­marsi in preghiera contemplativa; la preghiera vocale, in quanto tale, costituisce un grado particolare che ha la propria importan­za come servizio divino e che possiede la propria efficacia nella vita spirituale dell’uomo; non è meno importante della preghie­ra contemplativa.

    La preghiera mentale

    La preghiera mentale, detta a volte preghiera interiore per­ché viene dal profondo del cuore, è una preghiera nella quale l’intelletto si associa al cuore unendo pensiero e sentimento. Seppure di tanto in tanto la si esteriorizza con alcune parole, per la maggior parte del tempo essa è offerta nella calma e nel silenzio.

    La prima tappa della preghiera mentale è la meditazione; pos­siamo definirla come un intrattenimento con Dio nel corso del quale l’uomo fa memoria delle opere di Dio verso le sue creature e constata davanti a lui lo stato della propria anima; egli si pente, in questa circostanza, delle sue mancanze e dei suoi peccati, pre­senta lode e rendimento di grazie per testimoniare la propria gratitudine e decide di orientare la propria condotta in base alla volontà di Dio.

    Questa tappa è quella della “preghiera eterogenea”, che co­pre soggetti numerosi e diversi a volte senza alcun legame tra loro. I salmi ne costituiscono l’esempio più sostanzioso. Brani scelti della meditazione di David con Dio trattano tanto della creazione materiale, quanto della creazione dotata di ragione, una volta della legge, un’altra volta dell’anima e talvolta questa differenza è riscontrabile nel medesimo salmo; è sempre co­munque all’interno di un dialogo vivo e commovente dell’anima con Dio.

    La seconda tappa della preghiera mentale è la contempla­zione; qui la preghiera entra in uno stato di concentrazione non soltanto in rapporto al soggetto meditato (consistente per esempio, nel concentrare la preghiera su uno dei comandamen­ti o su una delle opere di Cristo evangeliche o redentrici), ma anche in rapporto all’uomo stesso: sotto la potente influenza dell’amore egli si trova in uno stato di veglia cerebrale perfetta, i sensi controllati, la volontà centrata sulla preghiera e il cuore spiritualmente pronto ad accettare qualsiasi orientamento dello Spirito santo.

    Ancora, la preghiera contemplativa è necessariamente divisa in due gradi legati tra loro.

    Primo grado: la contemplazione volontaria

    Il suo successo dipende dall’amore che l’uomo, nel proprio cuore, nutre per Cristo e dalla sua disponibilità a concentrarsi su un determinato soggetto per contemplarlo nel profondo del pro­prio cuore e del proprio pensiero, pur restando pronto a ricevere ogni orientamento spirituale.

    Questo grado non esiste senza l’aiuto intimo della grazia che accompagna la volontà dell’uomo e gli offre la possibilità di per­severare, di proseguire e di approfondire la sua preghiera, facen­dogli strada con la sua luce e permettendogli così di ottenerne un grande tesoro spirituale.

     Secondo grado: la contemplazione in spirito

    È apertura d’amore del cuore di Dio all’uomo in risposta all’amore dell’uomo in preghiera davanti a lui. Qui la preghiera è penetrata da un elemento divino che la fa uscire dall’ambito delle possibilità umane e volontarie; è il motivo per cui, a questo li­vello, è difficile parlare di preghiera, sarebbe meglio parlare di “grazia della preghiera”.

    All’inizio, questo grado può sembrare particolarmente elevato da raggiungere, ma fin dal momento in cui l’uomo riceve la gra­zia di accedervi, vi si abitua, se così si può dire; e tale stato gli diventa facile, naturale e accessibile a motivo della semplicità dello Spirito santo e della sua stupefacente disponibilità a ri­spondere a ogni richiesta che un cuore amante gli presenta. Per­ché si mantenga a questo livello, all’uomo viene chiesto soltanto di restare costantemente in accordo con il volere dello Spirito santo nell’amore, nella semplicità e nella purezza del cuore, nel distacco dalle preoccupazioni e dai pensieri terreni e nella capacità di osservare i comandamenti e l’insegnamento spirituale. E’ necessario però che comprenda che non esistono predisposizioni che possano conferirgli il diritto a raggiungere questo grado di contemplazione nella grazia e l’apertura del cuore di Dio, per­ché ciò è puro dono.

    Sta all’uomo domandare con lacrime e suppliche, senza crede­re di esserne degno, come dice Giovanni di Dalyatha: “Padre buono, donami il tuo amore, anche se non ne sono degno!” anche se vi accede ogni giorno, anche se è ritenuto degno di tut­te le altre virtù: purezza, ascesi, umiltà e preghiera continua; il dono della contemplazione in spirito e dell’apertura del cuore di Dio all’anima umana è al di sopra di tutte le virtù.

    Ciò non significa che il grado della contemplazione in spirito sia un miracolo; è però una grazia: prova ne è il fatto che essa è accompagnata generalmente dal dono del discernimento e da quello della sapienza; il grado della contemplazione spirituale è infatti la perfezione della preghiera, la perfezione di tutte le gra­zie e di tutti i doni.

     A coloro che sono ritenuti degni di perseverare in questa via saranno affidati anche altri doni e carismi che si trovano al di là dei confini della preghiera, come l’estasi o il rapimento nella contemplazione di Dio in uno stato spirituale prossimo alla per­dita di coscienza che permette di intravedere indicibili verità di­vine.

    Se volessimo illustrarli potremmo rappresentare i tre diversi generi della preghiera con tre atteggiamenti concreti: la preghie­ra vocale sarebbe rappresentata da colui che con timore sta da­vanti a Dio, la meditazione da colui che con lena si dirige verso Dio e la contemplazione da colui che con amore dimora nel seno di Dio.

    Semplificando ancora potremmo scoprire gli stessi tre generi nelle parole di Cristo: “Chiedete e vi sarà dato” è la preghiera vocale; “Cercate e troverete” è la meditazione; “Bussate e vi sa­rà aperto” è la contemplazione o il punto d’arrivo.

    Avendo trattato altrove della preghiera vocale sotto le sue molteplici forme, ci soffermiamo in questo capitolo sulla preghiera mentale, i suoi livelli e i suoi esercizi.

     1. La meditazione

     Ti siano gradite le parole della mia bocca,  il meditare del mio cuore davanti al tuo volto, Signore mia roccia e mio redentore!

     Beato l’uomo che… si compiace nella legge del Signore  e medita la sua legge giorno e notte.

     Parlerò dei tuoi consigli… Io trovo la mia gioia nei tuoi comandi Sì, li amo molto tendo le mani ai tuoi comandi che amo e medito sulle tue volontà.  (Sal 119 46-48)

    Il cuore mi bruciava nel petto al ripensarci si infiammava ancor di più.  (Sal 39,4)

    Medi/a (meléta) queste cose,  dedicati a esse interamente perché tutti vedano il tuo progresso.  (1Tm 4,15)

    Il termine “meditazione”, in greco meléte, è un termine con­venzionale tradizionale strettamente legato a una lettura appro­fondita delle Scritture che tocca il cuore e che lascia un segno indelebile nella memoria, nel sentimento e nel linguaggio.

    Secondo la tradizione patristica, la meditazione è la chiave di tutte le grazie; a colui che la pratica con fervore conferisce pen­siero, linguaggio e sentimenti evangelici; comprende le realtà al­la maniera di Dio e può progredire in tutti i doni e i carismi. Se apre la bocca, le parole della Scrittura ne escono senza artifici, né affettazione e, insieme a esse, i pensieri divini fluiscono co­me onde di luce che attraverso la conoscenza divina rischiarano lo spirito di colui che ascolta toccandone il cuore e infiamman­done i sentimenti.

    Il termine “meditazione”, in ebraico haghig e in greco meléte, dal verbo meletào, veicola un senso di studio, di approfondi­mento della comprensione attraverso l’esercizio del pensiero e del cuore. Così la meditazione della sapienza, meléte sophìas, si­gnifica studio della sapienza con applicazione, approfondimento ed esercizio pratico.

    Secondo la tradizione patristica, questo termine tendeva all’assidua applicazione del cuore e dell’intelletto alla Parola di Dio, affinché, grazie alla Parola, i monaci fossero trasformati. I padri, infatti, ritenevano che fosse opportuno dedicarsi alla me­ditazione solo attraverso la lettura della Parola di Dio; perché la meditazione del cuore ha il potere di modellare la coscienza e il pensiero dell’uomo, il quale non deve lasciarsi modellare se non dalla benedetta Parola di Dio, secondo la sua volontà e il suo pensiero.

    E’ per questo motivo che il termine “meditazione” si riferisce in modo particolare alla lettura della Bibbia e il suo uso si limita allo studio della Parola di Dio unito alla concentrazione interio­re per esserne impregnati e reagirvi spiritualmente.

     Lettura nella calma

     Sempre secondo la tradizione patristica, il primo dei gradi della meditazione è la lettura nella calma, con lentezza e a voce alta, “gustando” le parole; segue poi la ripetizione reiterata della stessa lettura. Presso i padri questo genere di lettura veniva sem­pre fatto a voce alta ed era detto “recitazione ripetitiva”. Di fat­to, la meditazione attraverso la ripetizione della Parola di Dio, a voce alta, con il cuore desto e come “gustandola” è in grado di radicare questa Parola nelle profondità dell’uomo che potrà ripeterla in seguito come se la “ruminasse”, fino a che essa di­venti sua parola; al tempo stesso egli sarà diventato il depositario fedele della Parola di Dio e il suo cuore il tempio del tesoro divino: “… che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52). E’ proprio di questo che si tratta quando è detto di “custodire la Parola” (cf. Gv 8,51-52; 14,23; 17,6). L’evangelo o la Parola sono ormai custodite in un luogo sicuro all’interno del cuore come un tesoro di grande valore; il profeta David dice: “Custodisco la tua promessa nel mio cuore” (Sal 119,11). E’ co­me se l’uomo aderisse alla Parola e la cingesse, come un forziere, per metterla al riparo dai ladri.

    È per questa ragione che, nella tradizione patristica, le pre­ghiere improvvisate avevano un puro sapore evangelico, perché provenivano da un cuore traboccante della Parola di Dio. Simili preghiere improvvisate, o – per usare l’espressione di Isacco il Siro -, “che l’uomo compone da sé”, erano recitazioni ripetitive della Parola di Dio studiata a memoria che si completavano ar­monicamente fra loro; testimoniavano il grado al quale l’anima era stata toccata e modellata dalla Parola e dalla volontà di Dio.

    Di conseguenza, la meditazione è stata strettamente legata al­la preghiera come il primo dei suoi gradi, quello che permette all’uomo di viverne e di crescere davanti a Dio in piena fiducia e sicurezza; perché è una preghiera presa al cuore dell’evangelo e capace quindi di provocare una profonda trasformazione, un grande rinnovamento nella sensibilità, nel pensiero e nel lin­guaggio dell’uomo. Per questo motivo nella tradizione cristiana autentica non è possibile attribuire alcun valore alla preghiera improvvisata, se colui che prega non è ripieno della Parola di Dio, esercitato nella vera meditazione: la sua parola rischierebbe di essere non evangelica e i suoi pensieri potrebbero non tradur­re la volontà e il pensiero di Dio.

     Ripetizione silenziosa della Parola

     La meditazione non è unicamente lettura vocale in profondità; comprende anche la ripetizione silenziosa della Parola eseguita molte volte, con un approfondimento sempre crescente, fi­no a che il cuore viene infiammato dal fuoco divino. Ciò è ben illustrato dalle parole di David: “Il mio cuore mi bruciava nel petto, al ripensarci s’infiammava ancor di più” (Sal 39,4).

    Appare qui il filo sottile e segreto che lega la pratica e lo sfor­zo alla grazia e al fuoco divino.

    Il solo fatto di meditare più volte la Parola di Dio, lentamente e nella calma, conduce, mediante la misericordia di Dio e la sua grazia, all’incendio del cuore! Così la meditazione diventa il pri­mo legame normale tra lo sforzo sincero della preghiera e i doni di Dio e la sua grazia ineffabile. Questa è la ragione per cui la meditazione è stata considerata come il primo e il più importan­te grado della preghiera del cuore, a partire dal quale l’uomo può elevarsi al fervore dello spirito e viverne tutta la vita.

    Rammentiamo che in ebraico il termine “meditare” e reso con hagah, che ha il significato originario di “balbettare” – cioè il primo apprendimento della pronuncia e della comprensione -; esprime poi il tentativo di uno sforzo sostenuto per comprende­re e imparare ciò che deriva dalla volontà di Dio e dai misteri nascosti della sua Parola e dei suoi comandamenti; per questo, nel suo primo salmo, sentiamo David dire: “Beato l’uomo … che si compiace nella legge del Signore e medita (jehgheh) la sua legge giorno e notte”; diventerà di certo un uomo secondo la volontà di Dio, come lo era divenuto David stesso!

    Il risultato di questa meditazione, di questa pia ripetizione della legge del Signore, è annunciato da David: l’uomo riesce ormai in tutto ciò che intraprende (Sal 1,3), come se la medita­zione fosse il grado dei perfetti. Dall’origine del termine ebraico hagah (apprendimento elementare della pronuncia e della com­prensione della Legge) risulta tuttavia che la meditazione è an­che il grado adeguato ai debuttanti desiderosi di stabilire con Dio una relazione intima e sincera.

    La meditazione in quanto tale può essere quindi sia inizio che fine, perché la stessa Parola di Dio è inizio e fine: per mezzo suo l’uomo entra nella verità e, in essa, giunge alla verità intera.

    Per questa ragione, la meditazione era per i padri una pratica di grande profitto. L’hanno vissuta e praticata fino all’ultimo giorno della loro vita. Così Palladio, l’autore della Historia Lau­siaca, dice che Marco il Monaco conosceva a memoria l’Antico e il Nuovo Testamento (18,25), che Heron recitava a memoria, da­vanti a lui, i Salmi, la Lettera di Paolo agli Ebrei, il libro di Isaia per intero e una parte del libro di Geremia, dell’evangelo di Lu­ca e del libro dei Proverbi (26,3). Analogamente Rufino, nel corso dei suoi viaggi ha visto e testimoniato esempi simili.

    Non bisogna dedurne che presso i padri la meditazione consi­stesse soltanto nell’apprendere “a memoria”, piuttosto che que­sta ne era una conseguenza ineluttabile, giacché la “dilettazio­ne” costante delle sante Scritture nella recitazione ripresa quoti­dianamente, non può che imprimerle nella memoria e lasciarle correre sulle labbra con spigliatezza.

    Constatiamo che la perseveranza del cuore nella meditazione delle Scritture si traduce sempre in un’infusione nel cuore di vi­ta vera; perché la Parola di Dio, come il Signore l’ha definita, è Spirito e Vita. La perseveranza nella meditazione della Parola manifesta necessariamente un legame segreto con il Signore e, di conseguenza, un flusso di vita vera che irriga il cuore.

    Il cuore che invece si distoglie dalla meditazione della Parola manifesta di essere preda della stagnazione e dell’aridità. Il pro­feta David ci mostra la differenza tra il cuore che medita la legge di Dio e quello che se ne è allontanato: “Il loro cuore è ottuso come lardo, ma io medito la tua legge” (Sal 119,70). Intende di­re che la meditazione della legge di Dio mantiene il cuore vivo, lo riscalda al fuoco che scaturisce dalla Parola divina; perché la meditazione implica in modo fondamentale l’approfondimento costante dello spirito delle Scritture e la ricerca delle verità na­scoste dietro il comandamento, il che ha per risultato di rinnova­re ogni volta il pensiero dell’uomo, di affinare la sua sensibilità rendendola più evangelica e di conferirgli un comportamento docile e pronto, aperto positivamente a ogni eventualità.

     Verso la contemplazione

     Constatiamo così che, nei suoi stadi avanzati, la meditazione si stacca a poco a poco dalla lettura per dedicarsi alla considera­zione delle verità divine e di tutto ciò che i comandamenti e l’e­conomia divina comportano. La meditazione comincia allora a sfociare nei primi gradi della contemplazione, passando dall’ap­profondimento della Parola all’approfondimento della verità che la Parola cela.

    La perseveranza nella meditazione della Parola viva di Dio riempie il cuore e lo spirito di sante considerazioni, le quali, a loro volta, messe a profitto attraverso la contemplazione, diver­ranno le ali leggere che permetteranno di volare nel cielo dello spirito senza la mediazione della lettura.

    Senza la meditazione costante della Parola divina, dei coman­damenti del Signore e delle sue promesse è tuttavia impossibile che nascano in noi i pensieri e le sante considerazioni che riem­piono il cuore e lo spirito fino a farli traboccare.

    Oltre alla felicità che questo già di per sé comporta, l’immen­so tesoro dei pensieri e delle considerazioni che otteniamo grazie alla meditazione costante dei libri santi, procura all’uomo anche la ricchezza dello Spirito. Oltre all’eliminazione di tutti i pensieri malvagi, costituisce per l’uomo un’offerta capace di soddisfare e sempre gradita a Dio: “Ti siano gradite le parole della mia bocca, il meditare del mio cuore davanti al tuo volto, Signore, mia roccia e mio redentore” (Sal 19,15).

    Si racconta di un monaco che, dopo una lunga notte trascor­sa nella meditazione delle virtù di uno dei suoi fratelli monaci, dice all’anziano: “Padre, ho perso inutilmente la notte a elencare le virtù di mio fratello Untel, ne ho contate trenta e mi sono molto rattristato riscon­trando che io non ne possiedo nessuna”. L’anziano gli risponde: “La tua tristezza per esserti trovato sprovvisto di ogni virtù e la tua meditazione delle virtù di un altro valgono più di trenta vir­tù”. Questo esempio illustra come i comandamenti del Signore s’imprimano nell’intelletto e nella coscienza per esortare l’uomo a cercare nello spirito dove si trovano le virtù o dove non si tro­vano. Ciò mostra infatti come la meditazione della Parola di Dio generi la meditazione delle virtù e lo sforzo per acquisirle; inol­tre essa spinge l’anima, vigorosamente e costantemente, a esa­minarsi e a misurarsi in base all’evangelo, senza trovare riposo se non nella verità che essa medita, né felicità se non nell’appli­cazione del precetto divino. La meditazione è il pedagogo che conduce l’uomo per mano per elevarlo al di sopra di se stesso, la lampada che ne illumina il discernimento e, a grandi falcate, guida i suoi passi verso l’eternità.

     La meditazione dei misteri

     Il grado più alto della meditazione è però senza dubbio la meditazione dell’”economia” dell’incarnazione divina, della redenzione compiuta sulla croce e della resurrezione che ci ha do­nato la potenza di vita. È la meditazione del mistero del disegno di Dio che l’evangelo descrive con parole semplici e chiare, le quali, se l’uomo vi si sofferma a sufficienza, svelano al suo cuore il loro senso misterioso e vi riversano una forza ardente capace di offrirgli una nuova vita: “Conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte” (Fil 3,10); “Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cri­sto che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3,17-19).

    La meditazione si lega qui alle parole stesse, alle stesse espres­sioni; si concentra sul senso manifesto del testo ispirato, distin­guendosi così dalla contemplazione di quegli stessi misteri, giac­ché procede liberamente senza limitarsi alla letteralità del testo, ma affidandosi all’insieme delle percezioni personali e all’allar­gamento degli orizzonti del discernimento e della conoscenza.

    Così, la meditazione dei misteri del disegno divino, esatta­mente come vengono presentati nella Scrittura, è la base imperativa della vera contemplazione, quella che permette di accede­re alla forza e alla luce di quegli stessi misteri. E’ la meditazione costante, felice e riuscita che permette alla contemplazione di progredire e di svilupparsi.

    La meditazione, questo lavoro spirituale avvincente e attraen­te, parte integrante dell’orazione, è un dovere che s’impone a tutti senza esclusioni; perché l’uomo non può nutrirsi della pa­rola della Scrittura se non la ripete nel proprio cuore e nella pro­pria mente: proprio questa è la meditazione. Così pure è diffici­le entrare in una preghiera a Dio che sia ardente e vera senza ri­petere davanti a lui le parole delle sue promesse, senza aggrap­parvisi e senza situarsi in rapporto a esse; anche questo dipende dalla meditazione.

    La meditazione è quindi una preghiera che si fonda sulla ripe­tizione delle parole di Dio e delle sue promesse nel cuore e nella mente, finché non siano integrate nella fede e nella speranza dell’uomo e divengano un’autentica forza sulla quale egli possa fare affidamento nel momento del bisogno: “Custodisco la tua promessa nel mio cuore per non peccare contro di te” (Sal 119,11).

     Guidata dal fervore o in lotta contro l’inerzia

     Quando l’uomo è fervente, infiammato dallo Spirito, la pre­ghiera di meditazione gli diventa facile, spontanea, senza biso­gno di sforzo di concentrazione o di sentimenti forzati; si parla, in questo caso, di preghiera semplice o spontanea; essa è intima, calorosa e amante fiducia dell’anima verso il suo creatore, è ciò che nutre interiormente: il desiderio di rendergli gloria per le sue opere, le sue qualità, la sua sapienza, o di rendergli grazie per la sua misericordia e la sua immensa e discreta sollecitudine. L’anima può allora infiammarsi nel corso della meditazione si­lenziosa, non sopportare più di tacere e cominciare a pregare con parole che, scorrendo senza freni, esprimono l’amore, l’adora­zione e la sottomissione, come un bambino che con deboli paro­le esprime i suoi immensi sentimenti. Il cuore è aperto davanti a Dio e sente tutto ciò che l’indicibile tocco della mano divina agita in lui.

    Ma se l’uomo vuole entrare nella meditazione senza possede­re quest’ardore preliminare che immediatamente lo esorta alla preghiera del cuore, ha bisogno di un certo sforzo interiore e di una concentrazione mentale che permettano all’anima di vince­re la propria inerzia e all’intelletto di liberarsi delle preoccupa­zioni esteriori per entrare in una lettura spirituale cosciente che l’elevi al livello della preghiera. Egli è allora chiamato a scuotersi interiormente, la coscienza deve opporsi volontariamente a tut­te le preoccupazioni psicologiche e mentali che l’hanno portata a disseccarsi e a trascurare l’adorazione, la preghiera e il contatto con Dio.

    Lo sforzo della coscienza verte sull’amore per vincere l’iner­zia e le preoccupazioni esteriori. L’uomo che, volontariamente e con tutto il cuore, avanza verso l’amore di Dio, anche se all’ini­zio è impacciato, si sente subito invaso dell’amore divino, perché l’azione divina sostiene sempre lo sforzo umano e alla fine vi si unisce.

    La volontà deve quindi restare attiva e paziente, in attesa dell’arrivo della forza divina che l’invaderà di calore spirituale, affinché la persona possa infine lanciarsi verso le profondità e cominciare la propria preghiera e la propria meditazione con fa­cilità e nella gioia.

    Questo cammino dello spirito nel corso della lettura spirituale fa passare l’uomo dall’aridità interiore e dalla preoccupazione mentale per le cose di questo mondo, alla concentrazione inte­riore, all’ardore spirituale e alla preghiera. In realtà, si ritiene che essa costituisca il cammino spirituale più importante e più delicato di tutta la vita di preghiera, la sola porta che apre sui se­greti della vita spirituale, il primo gradino della scala celeste che unisce l’anima al suo creatore.

    In quegli istanti l’uomo può incontrare una certa resistenza dell’anima, al momento dispersa in affanni e preoccupazioni molteplici che non hanno alcun valore né senso; può dover an­che affrontare l’astuzia di una mente che passa da una rappresentazione all’altra, da un pensiero all’altro, distratta da soggetti del tutto insignificanti. Tocca allora alla volontà, armata di un sincero proposito interiore, mantenersi con tenacia saldamente afferrata all’amore, polarizzata sul volto di Cristo, nell’attesa e nella supplica, finché la grazia divina la ritrovi, la liberi e le ren­da amore per amore.

     La Scrittura, scuola di meditazione

     È la Scrittura la fonte feconda, a partire dalla quale lo Spirito santo insegna ai suoi discepoli la meditazione; si tratta in realtà della grande scuola le cui lezioni non hanno mai fine, perché, quali che siano le ricchezze che possiamo trarne, in definitiva non ne avremo tratto che un’infima parte. La ricchezza delle Scritture è suddivisibile in tre livelli: il livello storico, che va dall’inizio della creazione alla fine dei tempi e concerne la crea­zione muta e quella dotata di ragione; il livello etico o legale, che comprende i comandamenti, i precetti e le leggi che Dio ha sta­bilito per gli uomini; il terzo livello che comprende i rapporti di Dio con coloro che egli ama, ciò che egli ha detto loro e ciò che essi hanno detto a lui. Questi tre livelli rispondono a tutti i biso­gni della nostra meditazione con Dio, non tanto come eventi del passato o realtà considerate in se stesse, quanto come proposte che mantengono tutta la loro attualità in noi e che costituiscono la nostra realtà interiore.

    Il più bell’esempio di meditazione eterogenea e libera, inte­grante i tre livelli, è l’ammirabile raccolta di salmi inaugurata dal profeta David. Veramente, attraverso il lungo e toccante intratte­nersi del salmista con Dio, troviamo capolavori di meditazione.

    Per quanto concerne la creazione non c’è creatura ch’egli non citi lodando il creatore per averla fatta. Egli parla con Dio della creazione del cielo e della terra e di ciò che è sotto la terra, delle montagne e le colline, dei mari e le sorgenti, delle valli, le cam­pagne e i prati, degli alberi, i boschi, le erbe e i frutti; canta il sole, la luna, gli astri e le stelle, le nubi e la nebbia, la neve e il gelo, il caldo e il freddo, la pioggia e la tempesta; parla dei rettili e dei pesci, degli uccelli del cielo e degli animali della terra; del­le bestie selvatiche e delle bestie dei campi e di tutto ciò che si muove sulla faccia della terra; parla dei popoli e delle nazioni, delle loro lingue e di tutte le creature della terra; e nella sua esal­tazione spirituale le interpella una dopo l’altra perché acclamino il creatore, invitandole a benedirlo e a cantarlo con lui.

    Poi il salmista in diversi passi dei salmi, soprattutto nel cele­bre Salmo 119, giunge a intrattenere Dio sulle sue leggi e i suoi comandamenti: ne descrive la loro entità, la loro bellezza, la loro dolcezza; testimonia davanti al creatore che esse sono per lui più dolci del miele, danno luce ai suoi occhi, sono la gioia del suo cuore, la ricchezza della sua anima, la meditazione delle sue not­ti e dei suoi giorni, tanto da diventare la lampada che guida i suoi passi e illumina il suo cammino; assicura i giovani che esse sono luce e rettitudine per le loro vie, e i bambini che vi trove­ranno la sapienza; poi confida a Dio la grande tristezza che l’in­vade alla vista dei peccatori che trasgrediscono i suoi precetti, degli orgogliosi che ignorano la legge; se la prende con quelli che la violano e li maledice; infine rende grazie a Dio per averlo istruito nei suoi comandamenti meglio dei suoi nemici e per avergli dato di comprenderli meglio degli anziani.

    Altrove il salmista si rivolge al suo creatore parlandogli del proprio stato: si considera verme della terra e non uomo, miserabile e senza più valore di qualsiasi altro; ricordando la propria giovinezza e i suoi traviamenti, chiede misericordia, vede gli at­tuali sbagli davanti ai propri occhi, la sua anima si affligge; egli grida, implorando clemenza, gli occhi infiammati per le lacrime, l’anima contrita per la tristezza, le ossa consumate per i rimorsi e i sospiri, tanto che con gli occhi stralunati, la pelle che ade­risce alle ossa, è come il gufo e l’uccello abbandonato solitario su un tetto (Sal 102,6)! Egli prega poi il suo creatore di non ca­stigarlo nella sua collera, perché è pronto a subire la correzione ma secondo l’amore e la misericordia di un padre clemente; lo supplica di non farlo morire “alla metà dei suoi giorni  (Sal 102,25), ma di lasciarlo vivere ancora, affinché possa offrirgli quanto gli spetta in lode, glorificazione e azione di grazie. Così David avrà assimilato integralmente l’insegnamento dello Spiri­to santo al punto da meritare la testimonianza del Signore: “Dio ha trovato un uomo [David] secondo il suo cuore” (1Sam 13,14) e ancora: “David ha parlato sotto l’ispirazione dello Spirito” (cf. Mt 22,43).

    Così David ci ha offerto, nello Spirito, un modello permanen­te e sempre attuale di meditazione perfetta secondo il desiderio di Dio. Ogni salmo è in sé una notevole opera di meditazione che già basta per iniziarci a questa forma di preghiera e che, in­sieme al resto dei salmi, ci offre una stupefacente immagine dell’intimità vissuta da David nel suo intrattenersi con il Signore.

    Il segreto dello straordinario avanzare di David risiede nella sua approfondita conoscenza della legge del Signore da lui medi­tata senza sosta.

    Sappiamo bene che la meditazione è un’arte che necessita di tempo per raggiungere la perfezione, ma il cui progredire è facile e rapido, anche se non lo si percepisce chiaramente; è ciò che ac­cade per tutte le virtù spirituali. Così, man mano che avanzia­mo, sentiamo le nostre mancanze e le nostre impotenze, tanto che quando giungiamo a un grado elevato, pensiamo di non do­ver avanzare più di un solo passo, ma è l’effetto della grazia che maschera i progressi ai nostri occhi per impedirci di cadere nella vanità e nell’orgoglio. Ogni volta che questo sentimento di im­potenza c’invade, sarà indizio – come i padri ispirati dallo Spiri­to ci hanno insegnato – che abbiamo raggiunto una tappa im­portante e che davanti a noi si staglia un’altura che necessita di un grande slancio per essere meglio superata.

     

  • 02 Set

    Immaginazione e vita spirituale

    Di Matta el Meskin

    Tra le grazie con le quali Dio ha gratificato l’uomo c’è l’am­piezza dell’immaginazione umana capace di estendersi ben oltre i limiti del mondo materiale. Il pensiero umano è in grado di abbracciare tutto ciò che si trova sulla terra e si estende ancora oltre a immaginare ciò che è nell’aldilà.

    Dio ci ha fornito di un’immaginazione viva affinché possia­mo rappresentarci gli eventi del passato, viverne, partecipare alle loro grazie e preservarci dai loro errori. Così, dalla vita di Cri­sto, dei profeti e dei santi, possiamo attingere immagini viventi e imprimerle nelle nostre vite: “Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando atten­tamente l’esito del loro tenore di vita, imitatene la fede” (Eb 13,7). “Imparate da me” (Mt 11,29).

    Unendo al presente delle nostre vite il passato con le sue im­magini vive impresse nella nostra memoria, possiamo prolungar­lo grazie all’immaginazione e concepire un avvenire migliore.

    L’immaginazione è il legame che unisce le verità del passato alle realtà del presente e alle speranze del futuro.

    Tuttavia l’ampiezza dell’immaginazione differisce a seconda delle persone; ve ne sono alcune dotate di un’immaginazione potente, illimitata, capace di concepire le cose nella loro verità senza vederle. Così, non appena il loro sguardo cade su cose or­dinarie, insignificanti per gli altri, vi vedono una bellezza e un fascino nascosti e ne traggono considerazioni di un’estrema pre­cisione e perspicacia.

    Altri non vedono negli eventi che immagini pure e semplici che nella coscienza rapidamente si dissipano, al punto che i sen­si vi prestano poca attenzione; esse passano senza lasciare nell’a­nima alcuna traccia.

    Certuni possono farsi un’idea estremamente sensibile degli eventi del passato; tutti i sensi partecipano allora al clima dell’e­vento, tanto che la persona percepisce in profondità di vivere in esso. Coloro che sono dotati di questo tipo d’immaginazione sono profondamente impressionati dalla vita di chi li ha prece­duti, possono facilmente trasporre immagini della vita dei loro predecessori e imprimerle nella propria vita; esse diventano così verità del presente.

    L’immaginazione, come ogni dono naturale creato da Dio, può deviare e, invece di essere per l’uomo causa d’elevazione e di crescita sul cammino della virtù, può trarlo in inganno, la­sciando vagabondare il suo pensiero verso il male e la passione, perdersi nelle futilità e nel distorcimento morale e consegnarsi a sogni illusori.

    Se l’uomo non diffida di questa deriva, se non governa il proprio pensiero e non controlla la propria immaginazione, sarà per lui di un’influenza disastrosa, in particolare durante la pre­ghiera.

    Dobbiamo dunque cercare di sapere come nasce l’immagina­zione.

    L’immaginazione non è un entità esistente in quanto tale, li­bera dal comportamento dell’uomo, come a prima vista può sembrare; è la risultante di molteplici forze: l’ambizione, l’im­potenza, la passione repressa, l’invidia amara, la collera e la pau­ra sono fattori che possono risvegliarla e proiettarla lontano dal mondo della verità e della realtà per supplire a ciò che l’anima è stata incapace di realizzare.

    Per questo, per curare dal vagabondaggio del pensiero nei sogni e dall’evasione dal mondo reale, si parte dall’analisi dei soggetti del pensiero vagabondo. E’ un percorso relativamente facile che uno può fare da solo. Per garantire però un risultato determinante è meglio che sia il padre spirituale a guidare una simile analisi.

    È inutile tentare di controllare il pensiero con la forza; è im­possibile. La mente continua a funzionare e il pensiero a dispie­garsi fino a quando nell’uomo c’è un soffio di vita, sia sveglio oppure dorma. Il rimedio sta nella conoscenza della ragione del vagabondaggio del pensiero nei territori del male, e poi nel per­corso necessario per trattare le cause della repressione.

    Parimenti, dobbiamo preparare al pensiero un buon terreno, perché possa installarvisi e soddisfare i propri bisogni immagi­nativi e contemplativi, esercitandolo alla contemplazione e al ri­cordo degli eventi della Scrittura e delle vite dei padri, attraver­so un sostenuto esercizio quotidiano.

    Nonostante tutto quel che possiamo dire e tutto ciò che pos­siamo fare a proposito del controllo del pensiero, in modo particolare durante la preghiera, in realtà, per l’uomo c’è un unico cammino che gli permette di raggiungere la pace interiore e il riposo del pensiero: l’amore, l’amore che sgorga dalla fede e dal­la fiducia in Dio. I metodi volontaristi del controllo del pen­siero possono riuscire a governare parzialmente il pensiero e le capacità immaginative, ma non possono riuscire a fissare il pen­siero in Dio.

    Quando nel cuore dell’uomo esplode l’amore di Dio, esso non investe soltanto la mente, ma tutti i sensi, e l’uomo tutto intero diviene bocca che parla e orecchio che ascolta: nessuna forza può più separarlo dal suo dialogo d’amore con Dio.

    Quando l’amore di Dio ne infiamma il cuore, l’uomo, non so­lo controlla il proprio pensiero e i propri sensi ma, nella propria interezza, accede anche a uno stato di quiete e di serenità pa­ragonabile al paradiso.

    Ciò dipende dal senso di sicurezza e di fiducia assoluta che si riceve alla presenza del Dio onnipotente. Il passato, con i suoi mali e i suoi tristi ricordi, è cancellato dall’orizzonte del pensiero in preghiera, nemmeno esistono più le preoccupazioni del presente con le loro esigenze, e scompare l’angoscia del futuro con le sue incognite. Ormai l’anima riposa in Dio. Ha posto in lui una fiducia illimitata, simile a quella del bimbo che riposa sul seno di sua madre.

    Uno dei più grandi misteri del nostro amore di Dio e del suo impatto sull’anima umana è, senza dubbio, la capacità di quest’amore di convincere l’anima ad affidare totalmente, semplice­mente e immediatamente, la propria volontà, la propria vita, le proprie speranze e la propria debolezza nelle mani del suo ama­to. L’uomo si alza allora per pregare, non soltanto con lo spirito chiaro e il pensiero controllato, ma anche con un senso di ab­bandono, di serenità e di calma perfino nelle situazioni d’ango­scia e di turbamento più violente e pericolose.

    L’atteggiamento del martire che avanza verso la spada del carnefice con calma e tranquillità, pregando e levando al cielo le mani e gli occhi, è immagine viva ed eloquente della potenza dell’ amore capace di vincere su tutto.

    Per colui che ama, la disposizione al dono di sé e all’abne­gazione è il miglior scudo contro tutti gli imprevisti, tutte le minacce e le angosce che, durante la preghiera, sono i fattori più potenti di turbamento del pensiero.

  • 01 Set

    Fate tutto quello che vi dirà

     Gv 2,1-12

      di p. Attilio Franco Fabris

    Presso il popolo ebraico le nozze erano festeggiate con grande solennità tanto che la festa durava anche una settimana (cfr. Gn 29,27).

    Ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea, un piccolo villaggio vicino a Nazaret. E Maria vi fu invitata forse per motivi di parentela o di amicizia.

    Notiamo subito che nel quarto vangelo Maria madre di Gesù non è mai chiamata con il suo nome proprio. La ritroviamo nel quarto vangelo qui, all’inizio della manifestazione pubblica di Gesù, e alla fine, ai piedi della croce (Gv 19,25).

    Giovanni ci dice che naturalmente vi fu invitato anche Gesù, con i suoi discepoli.

    E venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli dice: Non hanno vino. Con questo breve tratto Giovanni ci rivela non solo il dono di osservazione della madre di Gesù, la sua attenzione tipicamente femminile ai dettagli materiali, ma soprattutto la sua delicatezza e la sua innata compassione.

    Maria non chiede nulla, si accontenta di far presente al figlio la situazione.

    Ci sorprende la reazione, a prima vista di ripulsa, di Gesù: Che c’è fra te e me, donna? Non è ancora giunta la mia ora! L’espressione che c’è fra me e te ricorre altrove nella Bibbia. E’ una locuzione semitica che esprime una distanza o una divergenza tra i due interlocutori. In questo nostro passo Gesù sembra mettere in questione la relazione con sua madre. Arrivando la sua  ora Gesù si emancipa dai legami di sangue (ricordiamo il brano lucano dello smarrimento e la risposta di Gesù). Gesù non rompe i legami con Maria sua madre, tuttavia afferma una certa autonomia e indipendenza dalla madre (cfr. 11,1ss).

    Resta il fatto che la forma interrogativa rende possibile due spiegazioni, due riposta una negativa e una positiva da parte di Gesù.

    Giovanni ci rivela in tal modo la grande disponibilità di Maria: Ella non solo acconsente alla rinuncia imposta, ma dispone gli altri ad una completa docilità. Con ciò passa dal suo ruolo di madre di Gesù secondo la carne, a quello di madre spirituale di tutti i discepoli.

    Gesù da’ l’appellativo di donna a sua madre. Quale il significato? Lo stesso avviene ai piedi della croce (19,26).

    Un’interpretazione esegetica consente di rifarsi a Gn 3: Maria rappresenterebbe la nuova Eva, la madre di tutti i viventi.

    Un’altra interpretazione vedrebbe nella “donna” l’immagine del popolo eletto, chiamato spesso nell’AT. Con appellativi femminili.

    “Fate quello che Lui vi dirà”. Gli esegeti hanno trovato parecchi riferimenti biblici a questa espressione: Gn 41,55; Es 19,8; 24,3.7.

    In quest’ultimo caso Maria raffigurerebbe il Nuovo Israele, essa collaborerebbe alla rivelazione di Gesù disponendo i servi ad eseguire gli ordini di suo figlio, raccomandando loro una totale obbedienza ai comandi di Gesù

    Maria mediatrice di grazia

     Nella nostra pericope assume una grande importanza la figura di Maria. E’ qui infatti che ella ci si presenta come mastra nella fede.

    E’ lei che con il suo intervento premuroso a favore degli sposi in difficoltà spinge il Figlio a rivelare la sua gloria. La fede dei discepoli è quindi favorita dell’opera mediatrice di Maria.

    Maria è realmente la mediatrice della rivelazione di Gesù e della fede dei discepoli: Gesù opera il miracolo per la sollecitudine della madre, i discepoli hanno creduto in Gesù grazie al prodigio avvenuto in seguito all’intervento di Maria.

    Per san Giovanni, Maria non è una donna come tutte le altre. La sua grandezza e la sua dignità derivano dalla missione sublime di essere la madre del Messia Figlio di Dio, oltre che madre dei discepoli rappresentati da Giovanni ai piedi della croce (19,26).

    Ella è la Madre della vita, “la donna”, nuova Eva madre di tutti i viventi.

    Ricordiamo infine  la comparsa di Maria si pone all’inizio e alla fine del ministero di Gesù: la rivelazione si compie dunque sotto lo sguardo attento e contemplativo di Maria la quale vi collabora.

    Maria e i discepoli del Figlio suo

     Il brano delle nozze di Cana rappresenta uno dei fondamenti più solidi della mariologia e della nostra devozione a Maria.

    Il n. 58 della Lumen Gentium parla della funzione di Maria nell’indurre il Figlio a dare inizio ai segni: da ciò comprendiamo che il prodigio di Cana è frutto dell’intercessione della Madre di Gesù.

    Ne deduciamo importanti considerazioni:

    – Maria ha una posizione nell’economia della salvezza, perciò deduciamo una fiducia illimitata nella sua potente intercessione. Ella interviene per noi, si preoccupa per noi, prende a cuore i nostri problemi e necessità ancor prima che ce ne preoccupiamo.

    – la madre di Gesù è modello esemplare di ogni discepolo: Cana ci presenta Maria come serva silenziosa del Figlio suo e modello di fede.

     

  • 31 Ago

    Gli effetti della preghiera

    Alexis Carrel (1941)

     

    In questo testo, tratto dal suo libro La preghiera (1941), il medico e biologo francese Alexis Carrell (1873-1944), vincitore del premio Nobel per la medicina nel 1912, spiega la necessità, quasi fisiologica, che l’essere umano ha di pregare. Con l’esercizio e la costanza nel pregare l’uomo stesso “fiorisce” nella sua personalità; si producono in lui cambiamenti e atteggiamenti che lo fortificano e lo sollevano al di sopra della proprie capacità. “Non dobbiamo vedere la preghiera come un atto ai quale si affidano solo i deboli di spirito, i mendicanti, o i vigliacchi”, afferma lo scienziato. E citando la frase di Nietzsche secondo cui sarebbe vergognoso pregare, Carrel segnala che, “in realtà, pregare non è più vergognoso di quanto sia vergognoso bere o respirare. L’uomo ha bisogno di Dio come ha bisogno di acqua e di ossigeno”.

     

    La preghiera è sempre seguita da un risultato, se è fatta in condizioni convenienti. «Nessun uomo ha mai pregato senza imparare qualche cosa», scriveva Ralph Waldo Emerson. Tuttavia la preghiera è considerata dagli uomini moderni un’abitudine caduta in disuso, una vana superstizione, un resto di barbarie.

    In verità noi ignoriamo quasi completamente i suoi effetti. Quali sono le cause della nostra ignoranza? Innanzitutto, la scarsezza della preghiera. Il senso sacro è sulla via di scomparire presso gli uomini civili. È probabile che il numero dei Francesi che pregano abitualmente non oltrepassi il quattro o il cinque per cento della popolazione. In secondo luogo, la preghiera è spesso sterile. Poiché la maggior parte di coloro che pregano sono egoisti, bugiardi, orgogliosi, farisei incapaci di fede e d’amore. Infine gi effetti della preghiera, quando si producono, spesso, ci sfuggono. La risposta alle nostre domande e al nostro amore vien data abitualmente in modo lento, insensibile, quasi non udibile. La piccola voce che sussurra questa risposta nel fondo di noi stessi vien facilmente soffocata dai rumori del mondo. I risultati materiali della preghiera sono anch’essi oscuri. Si confondono generalmente con altri fenomeni. Ben pochi uomini, anche fra i sacerdoti, hanno dunque l’occasione di osservarli in modo preciso. E i medici, per deficienza di interesse, lasciano spesso passare, senza studiarli, i casi che sono alla loro portata. Inoltre, gli osservatori sono spesso sviati dal fatto che la risposta è ben lungi dall’essere sempre quella che si attendeva. Per esempio, chi domanda d’esser guarito di una malattia organica resta ammalato, ma subisce una profonda e inesplicabile trasformazione morale. Tuttavia, l’abitudine della preghiera, sebbene sia eccezionale nell’insieme della popolazione, e relativamente frequente nei gruppi rimasti fedeli alla religione degli avi. In tali gruppi è possibile ancora oggi studiare la influenza della preghiera. E, fra gli innumerevoli effetti di essa, il medico ha soprattutto l’occasione di osservare quelli che si chiamano psicofisiologici e curativi.

    La preghiera agisce sullo spirito e sul corpo in un modo che sembra dipendere dalla sua qualità, dalla sua intensità, dalla sua frequenza. È facile conoscere qual è la frequenza della preghiera e, in una certa misura, la sua intensità. La sua qualità, invece, resta sconosciuta, perché noi non abbiamo il mezzo di misurare la fede e la capacità di amore degli altri. Tuttavia, il modo di vivere di colui che prega può illuminarci sulla qualità delle invocazioni che egli innalza a Dio. La preghiera, perfino quando è di debole valore e consiste soprattutto nella recitazione macchinale di formule, esercita un effetto sulla condotta. Essa fortifica nello stesso tempo il senso sacro e il senso morale. Gli ambienti nel quali si prega sono caratterizzati da una certa persistenza del senso del dovere e della responsabilità, da una minor gelosia e malvagità, da qualche bontà nei rapporti col prossimo. Sembra dimostrato che, a parità di sviluppo intellettuale, il carattere e il valore morale sono più elevati negli individui che pregano, anche in modo mediocre, che in quelli che non pregano.

    Quando la preghiera è abituale e veramente fervente, la sua influenza si fa chiarissima. Essa è in certo modo paragonabile a quella di una ghiandola secrezione interna, come la tiroide o la ghiandola surrenale, per esempio. Essa consiste in una sorta di trasformazione mentale organica. Tale trasformazione si compie progressivamente. Si direbbe che nella profondità della coscienza s’accenda una fiamma. L’uomo si vede così com’è. Scopre il suo egoismo, la sua cupidigia, i suoi errori di giudizio, il suo orgoglio; si piega all’adempimento del dovere morale; tenta di acquistare l’umiltà intellettuale. Così gli si apre dinanzi il regno della Grazia… A poco a poco si produce una pacificazione interiore, un’armonia delle attività nervose e morali, una maggiore resistenza alla povertà, alla calunnia, alle preoccupazioni, la capacità di sopportare, senza accasciarsi, la perdita delle persone care, il dolore, la malattia, la morte. Così il medico, che vede un malato mettersi a pregare, può rallegrarsi. La calma generata dalla preghiera è un aiuto potente alla terapeutica.

    Tuttavia la preghiera non dev’essere paragonata alla morfina. Poiché essa determina, insieme con la calma, una integrazione delle attività mentali, una specie di fioritura della personalità. Talvolta l’eroismo. Essa imprime nei suoi fedeli un sigillo particolare. La purezza dello sguardo, la tranquillità del contegno, la gioia serena dell’espressione, la virilità della condotta e, quando è necessario, la semplice accettazione della morte del soldato o del martire, rivelano la presenza del tesoro nascosto nei fondo degli organi e dello spirito. Sotto quest’influenza anche gli ignoranti, i tardi, i deboli, i poco dotati utilizzano meglio le loro forze intellettuali e morali. La preghiera — come pare — solleva gli uomini al di sopra della statura mentale loro propria per eredità o per educazione.

    Dio li ricolma di pace. E pace si irradia da loro. E pace essi portano dovunque vadano. Disgraziatamente non c’è ora nel mondo che un minimo numero d’individui che sappiano realmente pregare.

    Sono gli effetti curativi della preghiera che, in tutte le epoche, hanno principalmente attirato l’attenzione degli uomini. Oggi ancora, negli ambienti in cui si prega, si parla molto spesso di guarigioni ottenute per effetto di suppliche indirizzate a Dio o ai suoi Santi. Ma quando si tratta di malattie suscettibili di guarire spontaneamente o con l’ausilio delle cure ordinarie, è difficile sapere quale sia stato il reale agente della guarigione. Solo nei casi nei quali qualsiasi terapeutica è inapplicabile, o fallita, i risultati della preghiera possono essere sicuramente constatati. L’ufficio medico di Lourdes ha reso un grande servizio alla scienza dimostrando la realtà di queste guarigioni. La preghiera ha talvolta un effetto, per così dire, esplosivo. Vi sono malati che sono stati guariti quasi istantaneamente di affezioni come il lupus al viso, il cancro, le infezioni renali, le ulceri, la tubercolosi polmonare, ossea o peritoneale. Il fenomeno si produce quasi sempre nello stesso modo. Un grande dolore. Poi il senso d’esser guariti. In alcuni secondi, o tutt’al più in alcune ore, i sintomi scompaiono, e le lesioni anatomiche si rimarginano. Il miracolo è caratterizzato da una accelerazione estrema dei processi normali di guarigione. Mai una simile accelerazione è stata osservata finora nel corso delle loro esperienze dai chirurghi e dai fisiologi.

    Perché questi fenomeni si producano, non c’è bisogno che preghi il malato. Bambini, ancora incapaci di parlare, e non credenti sono stati guariti a Lourdes. Ma, al loro fianco, qualcuno pregava. La preghiera fatta per altri è sempre più feconda di quella fatta per se stessi. Dall’intensità e dalla qualità sembra dipenda l’effetto della preghiera. A Lourdes, i miracoli sono molto meno frequenti di quanto fossero quaranta o cinquant’anni fa. Gli è che i malati non vi trovano più l’atmosfera di profondo raccoglimento che vi regnava un tempo. I pellegrini sono divenuti turisti e le loro preghiere sono divenute inefficaci.

    Tali sono i risultati della preghiera dei quali io ho una sicura conoscenza. Accanto ad essi ce n’è una moltitudine di altri. La storia dei Santi, anche moderni, ci riferisce molti fatti meravigliosi. E non c’è dubbio che la maggior parte dei miracoli attribuiti, per esempio, al Curato d’Ars, siano veri. Quest’insieme di fenomeni ci introduce in un mondo nuovo, l’esplorazione del quale non è ancora cominciata e sarà feconda di sorprese. Quel che noi già sappiamo chiaramente è che la preghiera produce effetti tangibili. Per quanto strano ciò possa apparire, noi dobbiamo considerare vero che chi domanda riceve e che a chi batte viene aperto.

    Insomma, tutto accade come se Dio ascoltasse l’uomo e gli rispondesse. Gli effetti della preghiera non sono un’illusione. Non bisogna ridurre il senso sacro all’angoscia dell’uomo davanti ai pericoli che lo circondano e davanti al mistero dell’universo. Né bisogna fare unicamente della preghiera una pozione calmante, un rimedio contro la nostra paura della sofferenza, della malattie della morte. Qual è dunque il significato del senso sacro? E quale posto assegna la natura stessa alla preghiera nella nostra vita? In realtà è un posto molto importante. In tutte le epoche gli uomini dell’Occidente hanno pregato. La Città antica era principalmente una istituzione religiosa. I Romani innalzavano templi ovunque. I nostri antenati dei Medio Evo coprivano di cattedrali e di cappelle gotiche il suolo della Cristianità. E ai nostri giorni ancora, al di sopra di ogni villaggio s’innalza un campanile. Con le chiese, come con le università e le officine, i pellegrini venuti dall’Europa instaurarono nel Nuovo Mondo la civiltà occidentale. Nel corso della nostra storia pregare è stato un bisogno elementare come quello di conquistare, di lavorare, di costruire o di amare. In verità il senso sacro sembra essere un impulso proveniente dal più profondo della nostra natura, un’attività fondamentale. Le sue variazioni in un gruppo umano sono quasi sempre legate a quelle di altre attività basilari, il senso morale e il carattere, e talora il senso estetico. Ma proprio a questa parte tanto importante di noi stessi noi abbiamo permesso di atrofizzarsi e spesso di scomparire.

    Bisogna ricordare che l’uomo non può, senza pericolo, comportarsi secondo il piacere della propria fantasia. Per riuscire, la vita dev’essere guidata da regole invariabili che dipendono dalla sua stessa struttura. Noi corriamo un grave rischio, quando lasciamo morire in noi qualche attività fondamentale, sia essa d’ordine fisiologico, intellettuale o spirituale. Per esempio, la deficienza di sviluppo dei muscoli, dello scheletro e delle attività non razionali dello spirito in certi intellettuali è disastrosa quanto l’atrofia dell’intelligenza e del senso morale in certi atleti. Ci sono innumerevoli esempi di famiglie prolifiche e forti, le quali non produssero che dei degenerati o si estinsero, dopo la scomparsa delle credenze ataviche e del culto dell’onore.

    Noi abbiamo imparato, attraverso una dura esperienza, che la perdita del senso morale e dei senso sacro nella maggioranza degli elementi attivi di una nazione porta alla decadenza di essa e al suo asservimento allo straniero. La caduta della Grecia antica fu preceduta da un fenomeno analogo. È evidentissimo che la soppressione delle attività mentali volute dalla natura è incompatibile con la riuscita della vita.

    In pratica, le attività morali e religiose sono legate le une alle altre. Il senso morale svanisce poco dopo il senso sacro. L’uomo non è riuscito a costruire, come voleva Socrate, un sistema di morale indipendente da ogni dottrina religiosa. Le società nelle quali scompare il bisogno di pregare generalmente non sono lontane dal processo di degenerazione. Per questo appunto tutti gli uomini civili — increduli o credenti allo stesso modo — devono interessarsi a questo grave problema dello sviluppo di ciascuna attività basilare di cui l’essere umano è capace.

    Per quale ragione il senso sacro ha una funzione molto importante nella riuscita della vita? Per mezzo di quale meccanismo la preghiera agisce su di noi? Qui noi lasciamo il dominio dell’osservazione per quello dell’ipotesi. Ma l’ipotesi, sia pure audace, è necessaria al progresso della conoscenza. Bisogna che ci ricordiamo un primo luogo che l’uomo e un tutto indivisibile, composto di tessuti, di liquidi organici e di coscienza. Esso non è dunque compreso interamente nelle quattro dimensioni dello spazio e del tempo. La coscienza, infatti, se pur risiede nei nostri organi, si prolunga nello stesso tempo al di là della continuità fisica. D’altra parte il corpo vivente, che ci sembra indipendente dal suo ambiente materiale, cioè dall’universo fisico è, in realtà, inseparabile da esso. Infatti è intimamente legato a tale ambiente dal suo bisogno incessante dell’ossigeno, dell’aria e degli elementi che la terra gli fornisce. E non ci è permesso di credere che siamo immersi in una atmosfera spirituale, della quale non possiamo fare a meno più che non possiamo fare a meno dell’universo materiale, della terra, cioè, e dell’aria? Quest’atmosfera null’altro sarebbe che l’essere il quale è immanente in tutti gli esseri e che tutti li trascende, quello cioè che noi chiamiamo Dio. La preghiera potrebbe dunque essere considerata è come l’agente delle relazioni naturali fra la coscienza e il suo proprio ambiente. Come una attività biologica dipendente dalla nostra struttura. In altri termini come una funzione normale del nostro corpo e del nostro spirito.

    Riassumendo, il senso sacro riveste, in rapporto alle altre attività dello spirito, una importanza singolare. Poiché ci mette in comunicazione con l’immensità misteriosa del mondo spirituale. Per mezzo della preghiera l’uomo va a Dio e Dio entra in lui. Pregare appare cosa indispensabile al nostro sviluppo totale. Non dobbiamo vedere la preghiera come un atto ai quale si affidano solo i deboli di spirito, i mendicanti, o i vigliacchi. «È  vergognoso pregare » scriveva Nietzsche. In realtà pregare non è più vergognoso di quanto sia vergognoso bere o respirare. L’uomo ha bisogno di Dio come ha bisogno di acqua e di ossigeno. Congiunto con l’intuizione, coi senso morale, col senso estetico e con la luce dell’intelligenza, il senso sacro fa sì che la personalità possa pienamente sbocciare. Non c’è dubbio che la riuscita della vita richieda lo sviluppo integrale di ciascuna delle nostre attività fisiologiche, intellettuali, affettive e spirituali. Lo spirito è nello stesso tempo ragione e sentimento. È necessario dunque amare la bellezza di Dio. Noi dobbiamo ascoltare Pascal con lo stesso fervore con quale ascoltiamo Cartesio.

    da A. Carrel, La Preghiera, Morcelliana, Brescia, 1986, pp. 28-44.

     

  • 28 Ago

    SOLIDARIETA’: ESSERE IN RELAZIONE

     a cura di p. attilio f. fabris

    Se accostandoci al nostro mistero ci siamo scoperti soli, limitati, nel medesimo tempo avvertiamo una grande forza, un bisogno, che ci spinge a porci in relazione: il bisogno di relazione deriva dall’essenza e dalla coscienza del nostro essere persone umane.

    Siamo creati ad immagine di Dio e Dio è relazione trinitaria. La Gaudium et Spes afferma al n. 12: L’uomo, per sua intima natura, è un essere sociale e senza rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti.

    L’apertura agli altri è connaturale, stabilire e allacciare legami con gli altri risponde alla nostra natura; formare il “noi”, ovvero la comunità, è una delle nostre aspirazioni essenziali. Nessuna è un’isola autosufficiente, tutti abbiamo bisogno di relazione per completarci

    Come entrare in relazione, con quale atteggiamento? Anzitutto porsi nella percezione dell’altro come “mistero”. L’altro è un Tu differente da me, che mi sta dinanzi e mi interpella. Io non sono un oggetto per il tu e neppure il tu lo deve essere per me.

    Dall’incontro di due misteri nasce la tensione alla comunione. Per essere autentica deve sempre rispettare la soglia di “solitudine” che è il centro dell’altro. Occorre perciò riconoscere nell’altro un nucleo incomunicabile. Questo limite certo comporta sofferenza, ma senza di esso vi sarebbe fusione confusa, non ci sarebbe né un Io né un Tu.

    Il fatto che l’altro resti altro fa scattare altri atteggiamenti: innanzitutto il rispetto e l’accoglienza non giudicante. Non ne desidero l’assorbimento, la fusione che indicherebbe patologia. La vera relazione è integrazione, incontro, di due persone.

    L’intimità nasce sempre da questo tipo di incontro: essa non pone l’accento né sull’uno né sull’altro, è indipendente. Diviene clima, atmosfera di fiducia, accoglienza incondizionata.

    E dove c’è incontro c’è amore, e dove vi è amore vi è Dio.

    AD IMMAGINE DELLA TRINITA’

     Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza. Ad immagine e somiglianza della vita trinitaria.

    Possiamo affermare che l’uomo trova la sua metafisica, il suo fondamento, nella teologia trinitaria. E’ l’uomo trinitario, non chiuso in se stesso come in occidente, e neppure l’uomo che viene assorbito, fuso, o nei totalitarismi o nelle mistiche orientali. L’”uomo trinitario” è perciò per natura essere in relazione. Questo passaggio dalla comunione divina a quella umana si è attuata in Cristo, nel suo comandamento, per il dono dello Spirito, poiché nella Pentecoste avviene il miracolo dell’unità nella diversità.

    Il mistero della persona e della comunità deve far riferimento al mistero trinitario.

    Nella Trinità ogni Persona è relazione sussistente, ovvero pura relazione. Nella Trinità ciascuna persona è pienamente se stessa senza confusione in perfetta relazione.

    Questa relazione fa delle persone divine una comune-unità.

    Tutto in comune senza perdere nulla di se stesse. Non esiste confusione, fusione, ma passaggio di amore perfetto tra l’una e l’altra.

    Questo deve divenire punto di riferimento per la nostra vita. Dare tutto restando noi stessi. Nella Trinità ogni persona è dono di sé, un dono che viene comunicato all’uomo rendendolo capace di comunione nonostante il peccato.

    A nostra volta realizziamo ricevendo dall’altro, sia donando all’altro.

    Un Dio solitario non sarebbe l’Amore senza limiti. Un Dio dualizzato sarebbe l’origine di una cattiva molteplicità che deve alla fine essere riassorbita. La trinità è la pienezza dell’unita nella comunione molteplice. L’unità- trinitaria indica l’infinito superamento dell’opposizone come della solitudine. Ciascuna persona divina contiene l’unità mediante la sua relazione alle altre, non meno che per la sua relazione con se stessa (s. Giovanni Damasceno).

    Il nostro vivere la relazione allora è sorretto dalla solidarietà, che è corresponsabilità e interdipendenza gli uni nei confronti degli altri.

    Ancora la GS al n. 24 dice: L’uomo, la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso in terra, non può ritrovarsi pienamente, se non attraverso un dono sincero di sé.

    “Se noi possiamo amare è perché rispondiamo all’amore di Dio. Dio ci ama per primo. L’amore si incarna e viene a noi in Gesù, lo Spirito santo è questo amore che si effonde nei nostri cuori. Così noi amiamo Dio per mezzo di Dio, lo spirito ci rende partecipi dell’amore con cui il Padre ama il Figlio e il Figlio il Padre. L’amore ci getta negli spazi trinitari, gli spazi trinitari sono gli spazi dell’amore” (O. Clement)

  • 27 Ago

    La ricetta del Regno:
    pochi semi di senapa e un po’ di lievito

    Lectio di Mt 13,31-33

     

     

    di p. Attilio Franco Fabris

    Il piccolo Giacomino, protagonista della fiaba “Il fagiolo magico” di Richard Walker, mentre era in cammino verso la fiera del paese scambiò con uno sconosciuto l’unica grossa mucca della madre con un… insignificante e piccolo fagiolo. Tornato a casa…beh! la mamma non ne fu affatto contenta, e il bambino ricevette dalla mamma solo botte e un sentirsi mandare subito a letto senza cena, cosa che fece a malincuore ma solo dopo aver seminato di nascosto il misterioso piccolo fagiolo. Quale stupore quando al mattino madre e figlio videro che l’insignificante piccolo seme era divenuto un’altissima pianta che permise a Giacomino di scalare il cielo fino alle nuvole dove trovò un grande palazzo con grandi ricchezze che fece la loro felicità per sempre.

    Solo agli occhi del piccolo Giacomino il piccolo fagiolo poteva valere più di una grossa mucca! Ma “i grandi”, lo sappiamo bene, hanno a proposito criteri di misura diversi, sono impossibilitati a scorgere i misteri racchiusi nell’arcano e banale fagiolo. I grandi sono abbagliati dalle cose grosse, e più sono smisurate più ad essi piacciono.

    Non è dello stesso avviso Gesù che nel vangelo benedice il Padre perché ai suoi discepoli se si faranno piccoli sarà dato di introdursi alle strane prospettive di valutazione del Regno così simili a quelle del piccolo Giacomino: In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25).

    Solo ciò che è piccolo può essere offerto e non imposto, solo ciò che è povero può essere accolto o rifiutato in tutta libertà, solo ciò che è insignificante può essere riconosciuto come dono d’amore e accolto con gioia. Il Verbo onnipotente di Dio non si è presentato al mondo nella potenza della sua gloria divina, ha scelto invece per amore la strada della piccolezza, della povertà, dell’insignificanza per annunciare il Regno: si è fatto piccolo come un bambino, ha scelto per compagni un gruppetto di gente che non contava, è morto sconfitto. Sepolto nella terra, come un pizzico di lievito nella pasta. E questo perché tutto fosse posto sotto l’insegna del dono che si offre nella gratuità più grande. Vieni o Spirito santo, donaci occhi e cuore di bambini, come quelli di Gesù che si è fatto il più piccolo di tutti noi, affinché possiamo scorgere in lui la presenza feconda del Regno nella sua Chiesa spesso umiliata, e in tutte quelle piccole realtà che pur non facendo rumore e non imponendosi con la forza, i sondaggi e la pubblicità, seminano nel silenzio e nel nascondimento piccoli semi di fede, speranza e carità nei solchi di questa nostra storia così spesso incantata solo da ciò che più appare e grida più forte. E fa’ o Spirito santo che questa umile semina sia accompagnata in noi dalla grande speranza che il tuo Regno avanza nella storia e la conquista con la forza dell’amore!

     Lectio

     Le parabole evangeliche che parlano del Regno di Dio sono state pronunciate da Gesù in un contesto di precise attese messianiche da parte del popolo giudaico. Queste attese avevano come comun denominatore il presupposto che il regno di Dio si sarebbe manifestato con gloria e potenza, e che esso avrebbe soprattutto conciso con il giudizio e la separazione definitiva dei buoni dai cattivi, del bene dal male, ovvero con il trionfo definitivo di JHWH su tutti i popoli della terra e su ogni forma di ingiustizia e di male. Di questo tipo di attesa è testimone anche Giovanni il Battezzatore con la sua violenta predicazione profetica di stile apocalittico (cfr Mt 3, 10ss).

    Ma sia la predicazione di Gesù che le sue scelte di vita furono per tutti coloro che vedevano e speravano in lui l’atteso “messia” furono una doccia fredda: in lui non è presente nessuna aspirazione alla gloria, né alla potenza di nessun tipo, non opera alcun giudizio di separazione nei confronti dei peccatori e dei “lontani”: anzi sembra preferirli agli osservanti e ligi farisei.  Il Regno che Gesù annuncia sin dall’inizio della sua predicazione e che costituisce il suo nocciolo delude e scandalizza i più. Tra questi anche il Battista rinchiuso in attesa di giudizio nel carcere del Macheronte (cfr Lc 7,19; 24,21).

    Ma come Gesù contempla e annuncia il mistero del Regno di Dio? Il Regno, ovvero la signoria di Dio nel mondo per lui è realtà già presente nella storia. E così che egli apre la sua predicazione:Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15)   Ma lo è con caratteristiche che non corrispondono alle attese umane: il Regno, presente in  Gesù stesso, è presenza umile, piccola, che si propone e non si impone, solo i piccoli sono abilitati a riconoscerla e ad accoglierla (cfr Lc 9,48). I grandi invece sono ciechi e sordi perché ricercano il regno di Dio altrove, secondo i loro criteri di giudizio e di misurazione (cfr Mt 13,15)!

     Nel vangelo di Matteo troviamo una serie di brevi parabole con le quali Gesù offre ai suoi ascoltatori una profonda catechesi sulla realtà e le modalità di presenza e di azione del Regno di Dio. Tra queste troviamo le due similitudini del granellino di senape e del lievito nella pasta (13,33-35).

    Gesù paragona la presenza del Regno di Dio nel mondo al seme di senape che è ancor più piccolo di una capocchia di spillo, ma che, cresciuto può diventare una pianta alta più di quattro metri. In Matteo troviamo due piccole differenze che lo contraddistinguono degli altri due sinottici. La prima è che il granello di senape non è seminato dal contadino in una generica “terra” ma “nel suo campo”. Per Matteo il mondo è il campo di Dio in cui viene seminato il piccolo granello del Regno e dove è destinato a crescere. La seconda differenza è che gli uccelli del cielo non vengono solo a rifugiarsi all’ombra dei rami dell’albero ormai cresciuto, ma anche a “nidificare” su di essi trovando l’ambiente ideale dove vivere e crescere nella benedizione di Dio. Questi uccelli forse rappresentano tutti i popoli della terra che Isaia vede radunarsi nei tempi messianici nella città santa (cfr Is 63) e che ora convergono nella Chiesa nuova Sion. Questa immagine dell’albero su cui si rifugiano svariati uccelli probabilmente è ripresa da Ez 17,22-23: “Così parla il Signore Dio: io prenderò dalla cima del grande cedro un tenero ramoscello… Io stesso lo pianterò su un monte alto ed eminente. Lo pianterò sull’alto monte di Israele ed emetterà fronde e produrrà frutti; diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui prenderà dimora ogni specie di uccelli; ogni specie di volatili riposerà all’ombra dei suoi rami”.

    Il centro di attenzione della parabola è tutto rivolto al seme, alla sua apparente insignificanza iniziale e successivamente alla straordinaria grandezza della pianta che da esso si sviluppa (“il più piccoloil più grande”). Ma occorre fare attenzione al fatto che il Regno non è rappresentato dalla piccolezza del seme bensì dalla storia del seme, dal suo inaspettato sviluppo. Il risultato finale fa comprendere il valore, l’energia che il piccolissimo seme già nascostamente possiede in se stesso fin dal suo inizio. Il contrasto operato dalla parabola tra l’inizio e il finale non implica assolutamente una “rottura”, o una “sostituzione” tra seme e albero, c’è una continuità. Gesù non vuole consolare i discepoli per l’esperienza che fanno di essere pochi, in minoranza,  promettendo un futuro di gloria nel quale la sorte si capovolgerà. Non è questo il suo messaggio, bensì quello di aiutarci ad accogliere senza scandalizzarci la piccolezza del seme nella certezza che esso contiene già in sé, anche se nascosta, tutta la fecondità e la forza dirompente del Regno di Dio. Gesù stesso sperimenterà sulla croce, nella sua carne, questa estrema debolezza e piccolezza. Allora l’albero che cresce a dismisura sarà quello della croce di cui i frutti sono la grazia e la misericordia di Dio per il mondo intero..

    Ma veniamo alla seconda similitudine. Una buona massaia mischia alla sua pasta un po’ di lievito perché tutta essa possa per poi farne del pane fragrante. In genere il lievito nel nuovo testamento ha una valenza negativa in quanto è impuro non essendo altro che farina imputridita: così basta un po’ di male per rovinare una grande quantità di bene (cfr 1Cor 5,7-8; Gal 5,7-10; Mt 16,6-12).  Ma qui l’immagine è rovesciata: anche il bene, benché possa sembrare “poco” e insignificante, anzi addirittura nascosto, è estremamente contagioso.

    Il verbo usato per descrivere l’azione della donna è “nascondere”. Il lievito è nascosto all’occhio ansioso che vorrebbe vederne subito i risultati, ovvero la presenza del Regno è nascosta, velata all’occhio desideroso di chi vorrebbero subito vederlo “qui o là”: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!” (Lc 17,21).  Il racconto contiene in sé anche un aspetto paradossale: la nostra buona massaia impasta con un po’ di lievito “tre staie” di farina che equivalgono a ben quaranta chili. Nessuna donna ne impasterebbe tanta! E per farla lievitare non basterebbe certamente un pizzico di lievito! Ma il paradosso è appositamente voluto perché ha valore teologico non… ricettario. Lo stupore è dato proprio dal fatto che una misura tanto piccola di lievito possa provocare una reazione tanto grande. Ma anche qui l’immagine di una lievitazione così smisurata non va letta come fosse una promessa di una progressiva e totale “cristianizzazione” del mondo. In questo senso il messaggio non è diverso dalla similitudine del “sale” (cfr Mt 5,13) e della “luce” (cfr Mt 5,14): non è volontà di Dio che il mondo diventi d’un colpo un’enorme saliera o una grande lampadina! Ancora una volta non si tratta di un discorso consolatorio consegnato ad un gruppo sparuto che ha bisogno di essere incoraggiato. La finalità del discorso di Gesù è di rivelazione, prima che essere una esortazione di tipo  morale e dunque il messaggio della parabola vuole semplicemente esprimere quale debba essere la funzione del Regno nel mondo e la modalità attraverso la quale esso deve agire.  Una rivelazione che ricorda alla Chiesa che in germe il regno di Dio è già presente in lei nella storia, perché in essa è sempre presente il Cristo suo sposo. Sant’Ambrogio afferma: “Ubi Christus ibi Regnum” dove è Cristo lì c’è il Regno. Di conseguenza anche la sposa deve accettare la modalità evangelica dell’instaurarsi del Regno che passa attraverso la fecondità nascosta del mistero pasquale: “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).

    Dalle due similitudini la piccola comunità dei discepoli apprende la lezione fondamentale che l’aiuterà lungo la storia ad evitare due pericoli: quello di identificare sin d’ora se stessa con il Regno come fosse già totalmente presente e quella opposto del sentirsi totalmente estranea, quasi rassegnata dinanzi al mondo, perché in attesa di un Regno che non c’è ancora. Ogni comunità, per quanto piccola e povera essa sia, deve apprendere a vivere in una vitale tensione tra un “già e un non ancora” che le permetta sia di guardare alla meta come anche di testimoniare sin d’ora il Regno: è questa in fin dei conti la valenza della Chiesa, la sua immensa dignità e bellezza, ovvero l’essere “sacramentum Regni”, segno efficace della presenza del regno di Dio nel mondo.

     Meditatio

     L’immagine del piccolissimo seme di senapa e del lievito nascosto non corrisponde certamente all’immagine che anche noi ci aspetteremmo e desidereremmo del Regno di Dio. Un po’ infettati dai virus mondani e non evangelici anche noi, come gli apostoli sul monte degli ulivi al momento dell’ascensione, domandiamo ogni tanto al Signore: “E’ questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?” (At 1,6). Facciamo fatica ad accogliere la piccolezza e marginalità della nostra presenza nel mondo sempre più simile a un granello di senapa o a un pizzico di lievito: vorremmo inorgoglirci vedendo fin d’ora la forza e la verità del vangelo trionfare ed ergersi come un immenso albero sul mondo e che testimoni il Regno di Dio. Con impeto ed entusiasmo quante volte abbiamo cantato a squarciagola: Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat? Certamento Cristo  ha vinto e ora regna e regge l’universo intero ma non con i nostri parametri. Il motto della Certosa è illuminante: “Stat crux dum volvitur orbis”. Nello stemma c’è un albero che sovrasta le mutevoli vicende del mondo, ma quest’albero radicato nella roccia è la croce! La grandezza del regno è la marginalità e il nascondimento della croce che sconvolge il nostro criterio di misurazione: il più grande nel Regno è colui che si fa il più piccolo di tutti (cfr Lc 9,48; 22,26s).

    La pedagogia di Dio sta facendo percorrere alla Chiesa, alle singole chiese e nostre comunità, una strada diversa da quella che vorremmo, anzi si direbbe che ci sta obbligando ad un’impressionante retromarcia: non solo non cresciamo, ma… diminuiamo sempre più! Nella nostra vecchia e ormai ex-cristiana Europa stiamo divenendo minoranza, in altre parte del mondo non solo i cristiani non trionfano ma sono addirittura perseguitati. I nostri numeri si assottigliano, le chiese e i conventi si svuotano. Cosa provoca in noi tutto questo? Un senso di fallimento, amarezza, rassegnazione, rabbia?

    Siamo chiamati a interpretare questa situazione non solo con immediati criteri statistici e sociologici ma con uno sguardo di fede che cerca di cogliere, attraverso la luce del mistero pasquale, il disegno che Dio sta scrivendo per noi e con noi nella storia. Questo sguardo di fede è ben diverso dai criteri “mondani” contrassegnati dal numero, dalla misura dell’impatto sociale, dal successo, dal riconoscimento: esso usa come metro la croce non l’auditel!

    Il disegno del Padre, già a partire dalla scelta di Abramo e del piccolo popolo di Israele (cfr Is 41,14) si dipana lungo la storia sotto il segno della piccolezza e della marginalità. A Gedeone in cammino con un grande esercito per andare in battaglia contro i nemici di Israele è chiesto da parte del Signore di assottigliare all’inverosimile le fila dell’esercito, perché sia chiaro che la vittoria appartiene a Dio e non alla bravura tattica dell’uomo (cfr Gdc 7): questa è la via percorsa da Dio stesso nel mistero dell’incarnazione del Figlio, dove egli stesso entrando nel mondo si fa piccolo e nascosto agli occhi dei grandi, si incarna al margine di un impero colmo di gloria. Così deve essere la strada che deve percorrere la sua sposa, la Chiesa posta nel mondo come “sacramento del regno”, sempre tentata dall’occhiolino di presunti amanti che le promettono gloria e potenza in questo mondo.

    Dio ci vuole marginali perché si manifesti in noi la sua forza (cfr 2Cor 11,30), ci vuole piccoli perché il suo dono sia accolto nella libertà e non imposto dalla forza, ci chiede infine di essere poveri perché le forze del male continuamente assalgono e contrattaccano all’inverosimile il Regno che Dio sta edificando nel mondo. È per questo “mistero della piccolezza” del Regno che Gesù afferma che esso è rivelato solo ai piccoli (cfr Mt 11,25-26). Perché esso è fatto a loro misura!Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio” (Lc 6,20).

    Le due brevi parabole ci insegnano dunque ad avere uno sguardo diverso sulla storia e sul nostro collocarci in essa. Sono un invito da parte dello Spirito a non puntare come criterio di discernimento su misure di “grandezza” umane, ma ad apprendere ad essere nel mondo semplicemente rimando-segno-sacramento del Regno che  con tutta la sua energia nascosta come linfa già percorre le vene della storia.  Gesù invita la nostra comunità a far propria la speranza del contadino che ha seminato e deve superare l’impazienza di voler vedere subito i frutti:Diceva: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa” (Mc 4,26s).  È già regno di Dio la nostra testimonianza dell’evangelo: il nostro annuncio della buona notizia, è già regno di Dio il nostro gesto di amore anche se non è vesto da nessuno, il nostro perdono, la parola di speranza, il nostro stare accanto all’ultimo magari in silenzio. E’ già regno di Dio il nostro lavoro quotidiano nascosto e umile fatto con un cuore grande e generoso per la gloria di Dio e il bene dei nostri fratelli. È Regno di Dio lo stare in preghiera davanti al Signore facendoci lode e intercessione per il mondo intero. Con tutto ciò la Chiesa “di questo Regno costituisce in terra il germe e l’inizio” (LG 3).

     Vinceremo in questa luce la tentazione di leggere la nostra attuale insignificanza e marginalità come luoghi di fallimento e frustrazione, ma la vivremo come situazione nella quale ci è dato di condividere la stessa modalità dell’evangelo che è annunciato ai piccoli e ai poveri (cfr Lc 6,20). Questa strada, anche se faticosa, ci permette di essere liberati dai nostri deliri di grandezza e di protagonismo, facendoci toccare con mano che l’amore basta: un amore che nello stile di Dio si fa piccolo e nascosto, non ha paura di perdere, che si pone a servizio del mondo senza voler mai prevaricare.

    Gesù guardando la sua piccola comunità ne può così riconoscere l’intrinseca bellezza e il destino di gloria: “Non temere piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32). Gesù ci invita a superare le nostre paure che derivano dal prender atto della nostra insignificanza, della immensa sproporzione tra ciò che siamo e la missione che ci è data da svolgere, delle forze del male che ci ostacolano: “Non temere! Perché Io ho vinto il mondo!” (cfr Gv 16,33).

    Il pensiero va ad un grande testimone del vangelo del nostro tempo: p. Charles de Foucauld. Il suo cammino è stato contrassegnato da una sempre più grande accettazione di sprofondare nella più grande marginalità così vicina ad un apparente fallimento. Voleva fondare una nuova famiglia religiosa: non ebbe nessun discepolo in vita, voleva testimoniare il vangelo fra le tribù dei tuareg e non convertì nessuno. Eppure la sua figura rifulge ora di una grandezza e fecondità straordinarie. La sua esistenza piccola come un granello di senape e nascosta come lievito nella farina del deserto del Saahaar ha dato e sta dando immensi frutti per il Regno.  Tra le sabbie del deserto così simili alla farina del vangelo scriveva: “Silenziosamente, segretamente come Gesù a Nazaret, oscuramente come lui, passare sconosciuto sulla terra come un viaggiatore nella notte…poveramente, laboriosamente… disarmato e muto…senza fare resistenza, imitando in tutto Gesù a Nazaret e Gesù sulla croce”.

     Oratio

     Mi domando, Signore, se ho cercato la perfezione in modo abbastanza puro.
    Ah! Avrei dovuto ornarmene, adornarmene…
    Essere per gli altri, per me, un santo.
    Occorre che io rinunci a tutto questo.
    E che ammetta, semplicemente, una buona volta, di essere soltanto, quello che sono.
    Forse, Signore, è proprio questo che tu chiami “diventare come fanciulli”.
    Accettarsi con la stessa semplicità di cuore
    con cui tu ci hai accettato tutti siamo quel che siamo.
    Accettare di essere, semplicemente,quelli per cui tu sei venuto:
    peccatori per i quali la Buona Notizia è proprio buona.
    Più buona di quanto non si dica. (Lucien Jerphagnon)

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