• 25 Nov

    Barnaba e Paolo portano fatti: Atti 15,12-21

     a cura di p. Attilio Franco fabris

    All’assemblea di Gerusalemme, Paolo e Barnaba portano fatti. Raccontano ciò che Dio ha operato fra i pagani ai quali è stata annunciata la Buona Notizia. L’esperienza pentecostale della comunità di Antiochia, come la conversione di Cornelio, è un fatto indiscutibile.

    I giudaizzanti questi fatti non li hanno mai veramente “ascoltati”. Hanno la loro “forma mentis”, i loro principi che si affermano, riconfermano, rifiutando di confrontarsi con i fatti. I fatti per loro non fanno testo, perché essi sanno già come stanno le cose!

    Con questo atteggiamento è possibile attuare un autentico discernimento comunitario e apostolico?

    I fatti devono contare, perché è da questi che la verità deve scaturire. Se manca questo confronto allora inevitabilmente la verità decada ad ideologia: non c’è ascolto, non c’è libertà di spirito nel mettersi in discussione, di lasciarsi interrogare dai fatti.

    Fortunatamente i fatti, cioè la testimonianza di Paolo e Barnaba, trovano credito.

    La soluzione magica adottata è: fare sempre “come se…”.

    E’ faticoso e spesso doloroso il confronto coi fatti. La nave sta a galla, va… Sentiamo sciabordio nel fondo della stiva, ci affacciamo e ci accorgiamo che nella stiva c’è acqua! Ma la nave va… Certo, ci deve essere un buco da qualche parte, prima o poi affonderemo, ma la nave va e va… Si chiude il boccaporto e avanti! La nave intanto va, prima o poi penseremo al problema. Ma sarà troppo tardi.

    Alla fine della testimonianza di Paolo e Barnaba si alza Giacomo, responsabile della comunità di Gerusalemme, vicino al partito dei giudaizzanti. Poco dopo una lettera è inviata a tutte le comunità: chi vuole essere discepolo di Mosè continui pure a fare il discepolo di Mosè, chi vuole essere discepolo di Gesù faccia il discepolo di Gesù.

    La comunità ha partorito una grande decisione, di grandissime conseguenze pastorali. E’ un giro di boa per la vita delle comunità cristiane.

    Ma per arrivarci c’è stato bisogno di un Concilio, un capitolo. Il Signore ha suscitato persone capaci del coraggio della verità, di prendere posizione a difesa dell’originalità della Buona Notizia.

    Piste di riflessione

    ∑    In mezzo a noi i fatti trovano credito? Ovvero: abbiamo il coraggio di guardare la realtà in faccia? O facciamo gli struzzi? Sono o non sono i nostri discernimenti spirituali e apostolici viziati a monte da queste forme di ambiguità? Un’ambiguità che alla fine ci priva delle coordinate per arrivare a conoscere la verità.

    ∑    Quali “fatti” interrogano urgentemente le nostre comunità religiose e il nostro apostolato?

    ∑    Quali “fatti” vorresti che il Capitolo tenesse assolutamente presenti per il suo discernimento spirituale ed apostolico?

     

  • 24 Nov

    La lunga discussione a Gerusalemme e l’intervento di Pietro:
    Atti 15,1-12

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

    Il brano riporta un momento di discernimento critico e fondamentale nel cammino della prima comunità cristiana.

    Il testo parla di “una lunga discussione”. Proviamo ad immaginarla… quando si discute c’è sempre da temere: la discussione infatti è un rischio, ovvero c’è il rischio della divisione, dello scontro. Eppure questo rischio deve essere corso. Il testo sottolinea l’aggettivo “lunga”: è importante perché ci dice la fatica nel trovare una soluzione, l’arroccarsi ciascuno sulle proprie posizioni: sembra non esserci via d’uscita.

    Il nostro quotidiano è segnato da tanti interrogativi di minor o grave importanza. Questi problemi sono spesso nascosti dietro le apparenze del quotidiano. Covano fra noi, sotto la cenere problemi terribilmente seri. Sappiamo tutti che, se li affrontiamo, c’è il rischio della spaccatura. E allora? Meglio far finta di niente! Ma questa è la soluzione che salvaguardia l’unità? Certamente no!

    Ma una di uscita c’è. E’ l’intervento di Pietro: “Dopo lunga discussione Pietro si alzò e disse…”. Se non c’è il responsabile dell’unità e del bene comune certe situazioni di confronto, di dibattito, di divisione non si possono sbloccare. Non si può pensare che su certe questioni capitali il consenso venga fuori naturalmente, spontaneamente, dalla base. L’esperienza dice che dalla base non ci si può attendere un consenso né spirituale né culturale: occorre l’intervento di colui che nel Signore, dopo un attento ascolto, si fa interprete della verità, dell’unità e del bene comune.

    La base poteva non riconoscere a Pietro questa autorità. Difatti Pietro esita, per timore della disapprovazione… ma poi prende posizione, rischia. Ciò che compromette l’unità e il bene comune è l’ambiguità, quell’ambiguità la quale si manifesta, prima che nelle scelte pratiche, nel disagio nel prendere posizione circa la verità.

    Certo, l’esperienza ci dice che non è sempre facile distinguere bene i problemi a la verità delle loro soluzioni: ma è vero che ci sono delle verità di immediata evidenza sulle quali bisognerebbe prendere posizione, e non si ha il coraggio di farlo.

    Alla fine della “lunga discussione” e dopo l’intervento del responsabile della comunità, l’assemblea tace.

    Piste di riflessione

    ∑    Hai l’impressione che su certi problemi la comunità non si interroga mai? Quale secondo te il motivo? Nella nostre comunità si ha il coraggio della discussione, anche “se lunga”?

    ∑    Quali problemi di capitale importanza, e mai affrontati decisamente, le nostre comunità e la provincia dovrebbero  coraggiosamente porsi nel prossimo Capitolo?

    ∑    Il servizio dell’autorità come attualmente è interpretato e vissuto avrebbe bisogno di essere rivisto alla luce del brano sopra meditato?

  • 23 Nov

     LE VIE ALLA CONOSCENZA DI DIO

    OBIETTIVO DEL CORSO:

    EVIDENZIARE LE DIFFICOLTA’ IN ORDINE ALLA COMUNICAZIONE UMANA E SPIRITUALE

     


    L’approccio al Kerigma non è sufficiente per aprire alla comunicazione spirituale.

    Questa problematica s’inserisce nel processo più vasto della

    • Consegna della Parola
    • Risonanza della Parola

    Questa tematica sta diventando d’attualità; è il servizio della Parola scandito dalla Traditio e dalla Redditio. Essa si propone come Premessa al Primo Annuncio.

    E’ possibile una Traditio Verbi senza una Redditio? La prassi consiste in una proposta d’ascolto, ma non prevede la redditio. Ciò può essere valido nella pastorale ordinaria, ma è senz’altro insufficiente per un’Iniziazione alla fede.

    Come si organizza la Redditio? Nella tradizione cristiana dell’Effatà.

    Nell’ultimo incontro CEI, Mon. Chiarinelli ha rilevato come, nonostante tutti gli aggiornamenti e gli sforzi fatti in ordine ad una catechesi rinnovata, non si è approdati a nulla.

    COME DIRE GESU’ CRISTO AGLI UOMINI DEL NOSTRO TEMPO?

     Il problema non è solo dottrinale, ma operativo.

    L’annuncio della Buona Notizia  propone un’esperienza d’ascolto. Cosa significa Ascoltare?

    Risponde la Santa Scrittura? L’ascolto è la via alla conoscenza di Dio.

    Ma questo è vero per ogni esperienza religiosa? No! L’affermare che la conoscenza di Dio passa attraverso l’ascolto è una scelta culturale che va rispettata; non si tratta di una parola in un senso metaforico, è una parola “acustica”. Privilegia l’orecchio rispetto all’occhio. La forma si coglie: questo ci richiama a quel filone di filosofia che contrapponeva l’epistemologia di tipo occidentale centrata sulla vista, a quella di tipo semitico centrata, invece, sull’ascolto.

    Attraverso lo sguardo cosifico la realtà e la possiedo, perciò anche Dio diventa oggetto. L’udito “si tende”a cogliere una Parola che gli è rivolta.

    L’occhio tende a possedere la verità e spersonalizza il rapporto. Anche nei rapporti interpersonali quando “si scruta con gli occhi” c’è il tentativo di possedere la personalità dell’altro. In questo modo non si costruisce sicuramente una fraternità; essa nasce da un ascolto umile, che pone quindi lo sguardo verso il basso, in atteggiamento di accoglienza dell’altro così com’è e come si manifesta.

    Il primo approccio (fondato sullo sguardo) è quello della tradizione greco/latina, il secondo è quello della tradizione biblica.

    Nell’impostazione semitica la conoscenza dell’oggetto naturale, ha come modello la conoscenza interpersonale che rispetta il soggetto e non lo assimila ad un oggetto da esplorare e possedere.

    La nostra educazione, scolastica e non, è tutta di tipo occidentale; l’apprendimento è stato fondato sull’occhio e sulla ragione, piuttosto che sull’ascolto.

    Alla luce della nostra esperienza di conoscenza e di riflessione religiosa, quali sono le vie della conoscenza di Dio?

    • La contemplazione della natura
    • L’interiorità
    • L’intelligenza
    • La mediazione della tradizione

    LA CONTEMPLAZIONE DELLA NATURA

    E’ la via universale alla conoscenza di Dio; Dio s’identifica con una manifestazione della natura: il vulcano, il tuono, il turbine ecc…

    La conoscenza di Dio a livello universale passa attraverso la contemplazione (sguardo che insiste, che si sofferma sulla realtà e la interpreta); da qui nasce il mito.

    Chiediamoci: quanto ha inciso nell’evoluzione della nostra esperienza religiosa l’incontro con Dio attraverso la natura?

    • La dolcezza della natura
    • La maestosità della natura
    • L’immensità del mare, la distesa placida delle acque illuminate dall’alba o dal tramonto
    • Il mormorio della risacca sulla riva del mare
    • Il mare in burrasca

    La montagna è il luogo dell’incontro con Dio; sulle alture si respira il mondo di Dio.

    Ma perché il senso religioso mette Dio nella natura? Si tratta di un’oggettivazione cosmologica che evidenzia la percezione della trascendenza di Dio. Dio E’ in alto e non lo posso raggiungere. Che cosa mi è inesplorabile? Il cielo.

    Pensate:

    • Al silenzio
    • Al fruscio del vento
    • Al miracolo della primavera: sui rami secchi e spogli spunta una gemma verde
    • Alla nascita di un bambino….

    Vi siete ricordati alcuni particolari nella vostra storia? Quegli incontri con la natura sono stati mediazioni dell’incontro con Dio?

    Come può la nostra pastorale ricuperare quel patrimonio che è legato al vissuto di fede e di provvidenza vissuto dalle nostre persone anziane?

    • Pastorale delle stelle: “I cieli narrano la gloria di Dio…”
    • Pastorale della montagna “Alzo gli occhi verso i monti, da dove mi verrà l’aiuto?”

    Purtroppo il recupero di questi valori è affidato ai movimenti ambientalisti, così che la natura è proposta in chiave antireligiosa:

    Che cosa dice l’esperienza di fede al riguardo? Che il Signore prende l’iniziativa attraverso queste manifestazioni della natura, per toccarci, per visitarci; è come se il Signore aspettasse il momento in cui la nostra attenzione si posa su un particolare e una voce interiore c’invitasse:”Guarda, solleva lo sguardo, mi manifesto a te attraverso un riflesso della gloria del mio Volto”.

    Il contatto con la natura ha un aspetto particolare, ma non sempre questo ha un seguito di tipo religioso….

    Dall’analisi delle vostre esperienze si comprende che attraverso la contemplazione della natura possiamo vivere sentimenti contrastanti:

    • Sintonia, pace, armonia che acquieta, placa (in questo senso possiamo parlare di un’efficacia sacramentale).
    • Senso d’estraneità, di lontananza, d’esilio.

    Risonanze contrastanti, antagoniste, ambivalenti:le stelle affascinanti possono essere molto calde e molto fredde; l’universo sterminato segno di un Assoluto vicino, prossimo, è nello stesso tempo infinitamente lontano…A volte accanto alla sensazione di essere protetti e custoditi, sperimentiamo l’esperienza del naufrago, dell’abbandonato, del derelitto alla deriva.

    “Sono qui su questa terra, trafitto da un raggio di sole”.

    La natura svela l’infinito; è cifra e icona dell’infinito, ma Dio è al di là.

    Ma chi è Dio? Che cosa è il mio quotidiano che nello stesso tempo è prevedibile e imprevedibile?

    In questo contrasto si colloca il momento religioso.

    Dio merita fiducia oppure no?

    Quest’esperienza dell’incontro con Dio nella natura è segnata DALL’AMBIGUITA’: bellissima la natura, ma questa si trasforma in orrore; incantevole il paesaggio fino a che tutto va e non si trasforma in disagio…

    Bella la vita, ma  poi c’è la morte! Chi ha l’ultima parola, la vita o la morte?

    Dio chi è? Nostro creatore e anche nostro carnefice, Colui che ci ha creato a termine? Ma perché la vita è segnata dalla morte?

    Queste sono le grandi tematiche in cui la nostra coscienza deve addentrarsi! Noi non svegliamo gli interrogativi perché viviamo di rendita delle risposte che ormai sono diventate nostre.

    Mi lascio interrogare dalle angosce dell’uomo del nostro tempo il quale dice: ma DIO DOVE E’?Che cosa  può dire ad un malato terminale l’esuberanza della natura?Da una parte contempla i fiori spuntare su un ramo secco e, dall’altra, sperimenta il disfacimento della carne nel suo fisico

    ABBIAMO UN’ALTRA RISPOSTA ATTRAVERSO QUELLO CHE CI VIENE CONSEGNATO CON LA MORTE E LA RISSURREZIONE DI GESU’

    La vita è per la morte? Se si, la vita è la celebrazione della morte!

    Israele ha vissuto molto quest’interrogativo e non ha mai sviluppato in proprio la credenza dell’immortalità dell’anima. La risposta a quest’interrogativo era: La generazione, i figli!

    Oggi la nostra società ha abolito questa risposta;

    e allora cosa resta agli uomini del nostro tempo? La speranza cristiana no, la risposta della generazione neppure e così restiamo con la nostra incertezza, tiriamo avanti con la nostra vista corta per poi cadere nella voragine della solitudine e della vecchiaia, con la prospettiva dell’eutanasia.

    Oggi ci si proietta nella prospettiva del CARPE DIEM dove va a finire l’amore? Diventa solo una rapina. La vita è una benedizione o una maledizione? (cfr. Giobbe).

    Nel nuovo Testamento troviamo spunti del genere (cfr. Rom. 1 ecc…) Ma le riflessioni che abbiamo fatto sull’ambiguità della conoscenza di Dio attraverso la natura non smentiscono, ma completano la riflessione di S. Paolo.

    Oggi si deve pretendere che una conoscenza naturale di Dio trasferisca sul piano della teologia biblica. C’è o non c’è Dio!Il vero problema è quello di sempre: chi è Dio. La nostra tradizione culturale si è intestardita per mostrare l’esistenza di Dio, all’uomo biblico interessa sapere CHI E’ DIO!

    LA VIA DELL’INTERIORITA’= VIA DELLA COSCIENZA

    Le quattro vie della conoscenza di Dio non sono separate tra loro ma si intersecano, portano a dare a ciascuno di noi un particolare volto di Dio; un forte legame esiste tra la via della conoscenza di Dio attraverso la natura e la via della conoscenza di Dio nell’interiorità. Il contatto con la natura porta l’uomo a contatto con Dio: il nostro desiderio di contemplare Dio attraverso la natura si trasforma in un desiderio interiore: sentire Dio dentro di sé, nel profondo del proprio cuore, un dolore acuto, una necessità che se non consumata ci porta ad una consumazione.

    Nel cuore dell’uomo abita la verità. Ascolta la profondità della tua coscienza e nel profondo coglierai la voce di Dio: Già nel tempio di Gerusalemme la parte più interna è la CELLA; nel Santo dei Santi abitava Dio. La presenza del Signore nel tempio di Gerusalemme era legata al fatto che lì vi erano conservate le Tavole della Legge, la Verga d’Aronne, un vasetto con la manna….

    La nostra coscienza è un tempio e, nella sua parte più intima, vi abita Dio.

    Fare silenzio…fare vuoto…Interiorità abissale! Nella notte del profondo della coscienza si accende l’alba della verità! l’interiorità è una via sapienziale.

    “Anche di notte il mio cuore m’ istruisce…” E S: Paolo “…Lo Spirito prega dentro di noi con gemiti inesprimibili!” Sono inesprimibili proprio perché veniamo associati alla preghiera dello Spirito che prega così: sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno….

    L’interiorità comporta delle condizioni:

    • Il silenzio: dove c’è confusione è difficile raggiungere quello stato necessario per guardare dentro di sé
    • Il raccoglimento
    • La separazione dalla vita ordinaria troppo chiassosa e dispersiva : l’effetto delle preoccupazioni disperdono la nostra vita, occorre quindi fare ordine, trovare il tempo dello stare con e non del fare.                     
    • La guida di un compagno di cammino, di una guida più esperta di noi: fare luce nel cuore attraverso l’esperienza di un altro cuore; nel cuore c’è il bene e il male, abbiamo bisogno di aiuto perché quello che abbiamo dentro può essere il tutto o il contrario del tutto.
    • L’iniziazione alla vita dello Spirito

    La coscienza è una realtà sacra, perché nel profondo di essa scopro di Dio

    La domanda che facciamo è questa:

    Quanto ciascuno di noi ha conosciuto il Signore attraverso la via dell’interiorità?

    L’allontanamento dagli uomini, dal chiasso, ecc… comporta sempre uno strappo; tale strappo è compensato dalla presenza di Dio. Il Sapiente è colui che “riconosce i sapori”, “tasta” il gusto interiore della coscienza; conosce il sapore delle cose, le cose che valgono e quelle che non valgono.

    La tradizione cristiana dice: di Dio non si dice nulla, quindi mettiamoci in ascolto.

    Molti sono gli interrogativi che sorgono nell’animo umano. Io chi sono? Una realtà definita o l’avventura del mio essere io? Più cresco nella conoscenza di me e più mi accorgo di non conoscermi; più so chi sono e più io so di non sapere chi sono.Questo comporta dolore, perché è una profonda sofferenza. L’identità è un dono, non è una conquista. Per crescere ognuno di noi ha bisogno di assumere il rischio della propria soggettività: è il rischio della solitudine e la strada per arrivarvi è quella dell’interiorità.

      • Se comincio a aderire al cammino della verità, dove andrò a finire?
      • Mi troverò d’accordo con quello che sono stato, con quello che credo di essere?Ma è possibile che la nostra pastorale, portatrice di tanti tesori, debba essere sopraffatta dall’ultimo guru

    L’umanità del nostro tempo, così superficiale, ha abbandonato la via dell’interiorità, così che chiunque venga dall’Oriente può aprire una sua scuola e trova ADEPTI proprio perché risponde ad un bisogno.

    Le questioni di tipo psicologico e spirituale si sovrappongono. Nella realtà del nostro tempo la coscienza è talmente poco coltivata che nessuna proposta di tipo spirituale può essere fatta senza una presa di coscienza di carattere psicologico.

    Il bisogno di fare branco è così grande che i giovani sono sempre più incapaci di stare da soli, “farsela con sé è sempre una gran fatica”.Questo porta a una gran povertà interiore.

    Attraverso l’animazione di gruppo è possibile portare ad una scoperta dell’interiorità e da lì, poi, si farà gustare il poter stare da soli.

    Una grande operazione culturale sarebbe quella di aiutare gli uomini del nostro tempo a ritrovare una coscienza, proprio perché i mezzi d’evasione di cui si dispone sono potenti e pericolosi.

    • Quanto credito merita il mio sentire?
    • La mia percezione interiore di Dio è autentica oppure è una mia costruzione?
    • Sto davvero parlando con qualcuno, o il mio è un monologo?

    Anche questa via, però, è segnata da ambiguità e ambivalenza!

    Resta però sempre il dubbio e se anche per quanto ci riguarda, viviamo serenamente questo dubbio, di fronte al mondo la nostra esperienza interiore non dice nulla.

    Il credente deve imparare a stare al mondo in umiltà, per portare con mansuetudine i sospetti e i dubbi degli altri. Dobbiamo riconoscere questa difesa, per permettere al mondo di sospettare e di diffidare della nostra esperienza. L’esperienza interiore si dà, è antitrionfalistica e non è arrogante!

    Attraverso questa via sperimentiamo quindi che Dio è buono e cattivo, è presenza amorosa ed accogliente e, nello stesso tempo, giudice rigoroso e severo.

    San Giovanni dice: “se la tua coscienza ti rimprovera, ricordati che Dio è più grande del tuo cuore! (Cfr. Ps. 138-63)

    L’interiorità spirituale ci interroga sulla nostra identità, ma al fondo della verità di noi stessi non arriveremo mai; non potremo mai conoscerci come siamo conosciuti.

    Nolite judicare! Il processo conclusivo della conoscenza è il giudizio, quando Gesù dice: non giudicate! ci sollecita a non tirare delle conclusioni, perché gli elementi che noi abbiamo delle persone non sono mai esaustivi. La maturità sapienziale della coscienza porta ad usare verbi tipo “mi sembra, mi pare…”, nel senso che nelle decisioni bisogna procedere, ma in punta di piedi, consapevoli della precarietà delle nostre conoscenze.

    Le nostre non sono mai conclusioni assolute, ma sempre provvisorie, aperte alla verifica. Nella parrusia vedremo più chiaro e conosceremo così come siamo conosciuti.

    LA VIA DELL’INTELLIGENZA

    L’intelligenza è lo strumento privilegiato per ogni tipo di conoscenza, anche attraverso l’intelligenza, la coscienza s’interroga:

    • Qual è il senso della vita?
    • Da dove vengo?
    • Dove vado?

    Una coscienza superficiale chiaramente si pone questi interrogativi in modo superficiale.

    Questo è un problema di consapevolezza antropologica, di serietà, di maturità. Questi interrogativi a volte si conciliano con un’esperienza di fede, altre volte si scontrano. “Dio è un rischio” dice Prezzolino. Come spiegare questo? Dio, attraverso la sua assenza, confonde la sapienza degli intelligenti.

    Chiediamoci :

    • Che ruolo ha avuto l’intelligenza nella nostra esperienza di fede? (Nel passato)
    • Che ruolo ha oggi l’intelligenza nella mia esperienza di fede?
    • L’intelligenza è un appoggio o uno strumento?
    • Prima il credere per capire o prima il capire per credere?
    • La presentazione del Kerigma esige di avere davanti delle persone credenti o non credenti?

     

     

     

    Se rispondiamo “credo ut intelligam” siamo in una posizione pre-biblica. La fede è una questione di livelli.

    • Cosmo-biologico (panteista)
    • Dio trascendente e personale (teista)
    • Teismo veterotestamentario
    • Teismo biblico pre-pasquale (N.T.: Dio incarnato)
    • Teismo biblico post-pasquale (N.T.: Gesù Cristo morto e risorto)

    La nostra formazione teologica è servita a supportare in maniera organizzativa la nostra fede preesistente, oppure è venuta a seminare scompiglio?

    Oggi ci troviamo in un contesto del tutto particolare che possiamo così definire:

    la cultura attuale non ha punti fermi, ci troviamo a confronto con un pensiero debole.

    Come si usa l’intelligenza? Esiste un’intelligenza di tipo sapienziale laico che prende Dio sul serio, ed è premessa per l’esperienza sapienziale di tipo biblico.

    Esiste anche un’esperienza sapienziale di tipo laico, che comporta una “ riverenza” per la verità

    E una scelta di tipo morale. L’intelligenza non ha da essere superba, perché quando si pone con superbia siamo alle prese con un’intelligenza stupida, proprio perché non riconosce i suoi limiti.

    L’umile non è colui che si fa piccolo, ma colui che riconosce d’ essere piccolo. L’umiltà non è un processo di “abbassamento”, ma il riconoscimento del proprio essere limitati. La superbia è la perdita del senso della misura, quindi l’intellettuale superbo è uno stupido.  

    ,         Il luogo in cui si realizza la conoscenza della verità oggettiva è l’intersoggettività! Per cui

    • La coscienza credente ricorre all’intelligenza per comunicare quanto ha imparato e non solo attraverso l’intelligenza
    • La coscienza non credente ricorre all’intelligenza per riuscire a dimostrare le proprie tesi

    Nella tradizione biblica l’importanza dell’intelligenza è attestata: confronta il libro di Giobbe, in particolare i capp. 6-16. L’uomo non difende Dio, ma difende se stesso e le sue posizioni.

    La sapienza di Dio è insondabile…ma Dio ascolta l’uomo nella sofferenza, non lo censura come fa l’apologeta.Forse gli uomini del nostro tempo non ci ascoltano perché trovano in noi solo dei difensori della fede e non dei consolatori  

    LA VIA DELLA TRADIZIONE

    Comprende tutto quanto è legato al contesto in cui siamo inseriti, alla cultura dominante, alla testimonianza degli altri. A questo si possono aggiungere le rappresentazioni sacre, gli oggetti religiosi, gli edifici religiosi, ecc…

    La nostra esperienza di fede è stata alimentata dal contesto delle persone con le quali abbiamo vissuto.

    Ci possiamo chiedere:

    • Quello che vivo, in che misura è mio e in che misura mi è stato dato dall’ambiente?
    • Riusciamo ad evidenziare che la nostra esperienza personale è “indotta”, alimentata, nutrita dalla realtà circostante, al punto che diventa difficile distinguere quello che è della nostra coscienza e quello che ci è mediato dall’esterno?
    • Come, dove e quando posso essere davvero me stesso? Da solo? No! Ma attraverso la comunione.

      

     

    Il saggio è colui che ha la bocca sul cuore; lo stolto è colui che ha il cuore sulla bocca. Non c’è una parola senza un cuore, non c’è un cuore senza una parola!

    Le ambiguità e l’ambivalenza sono presenti anche in quest’ultima via, come del resto, lo sono anche quelle precedenti.

    Per convincerci è sufficiente che ci chiediamo:

    • I miei contenuti mentali sono o non sono autentici?
    • Le mediazioni ambientali che ho ricevuto sono o no autentiche?
    • In che misura sono presenti gli uni o le altre e come faccio a stabilirlo?

     Queste quattro vie della conoscenze di Dio, comuni all’uomo universale, sono state segnate dall’ambiguità e dall’ambivalenza.

    Possiamo ora stendere una piccola tabella avendo a disposizione 100 punti che suddivideremo in base all’incidenza che le quattro vie hanno avuto IERI ed OGGI, NELLA NOSTRA ESPERIENZA DI FEDE:

    IERI (ANNO ORIENTATIVO)                                   OGGI

     . natura _____________                                               ___________

    . interiorità __________                                           ___________

    . intelligenza _________                                          ___________

    . tradizione __________                                             ___________

     

    Conclusioni 
    Dai confronti fatti usciamo tutti confermati sia nella conoscenza di queste quattro vie come pure nella solidarietà con qualsiasi credente sulla faccia della terra.Non c’è credente in questo mondo che non arrivi alla conoscenza di Dio attraverso la mediazione della natura, l’interiorità, l’esercizio della ragione e la mediazione dell’ambiente.Queste quattro vie, comunque, portano in sé l’ambiguità e l’ambivalenza. C’è quindi nella nostra vita il momento dello strappo; costa molto dolore e comporta pure il rischio di “ buttare il bambino con l’acqua sporca”.Ps. 27 : “Mio Padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto”

    Applicazioni

    Sono stato generato dall’ambiente in cui sono nato, cresciuto e poi mi sono distaccato; io sono stato generato sotto tanti punti di vista, ma all’esperienza di generazione si accompagna sempre l’esperienza d’abbandono. Ciò è indispensabile per passare ad un atteggiamento adulto e dire: Signore, fammi assumere la responsabilità di portare il mio mattoncino.

    E’ l’esperienza del compromesso istituzionale. Fino a quando siamo soli coltiviamo la fede ma in modo molto idealista, quando entriamo in confronto ci accorgiamo dello scarto che esiste tra l’ideale e il reale.

    Ad es: Quando io annuncio la Buona Notizia, chi mi ascolta può dire “che bravo, eccezionale…”, quando vivo nella comunità cosa diranno i miei confratelli?

    Quando presentiamo la Buona Notizia ad un catecumeno rimane entusiasta; quando entra nella Chiesa (istituzione) coglie la profonda distanza tra Vangelo e vita.

    E’ difficile trovare un credente che faccia Chiesa con sé stesso! Il credente vuole condividere con gli altri la sua esperienza di fede. Il rapporto con Dio passa attraverso il rapporto con i defunti! La prima divinità che l’uomo conosce sono gli antenati; attraverso il rapporto affettivo con i trapassati si apre alla percezione divina. Ecco perché il culto dei morti è la matrice d’ogni esperienza religiosa. Qual è il primo invisibile di cui si fa esperienza? La persona cara defunta!

    Le quattro vie appena analizzate usano un linguaggio particolare:

    • La natura
    • L’interiorità
    • L’intelligenza
    • La tradizione
    La tradizione biblica ci presenta la via particolare dell’incontro con la PAROLA E IN PARTICOLARE CON LA PAROLA DEL PROFETA. Questa via s’inserisce nella quarta (quella della tradizione), ma si differenzia da essa. La differenza tra questa Parola e quella dell’ambiente è che questa Parola è l’unica capace di risolvere il dramma dell’ambivalenza e dell’ambiguità delle quattro vie. Il fenomeno della profezia è tipico della cultura biblica.
  • 22 Nov

    L’EMOROISSA

    Mc 5,25-36

    la paura di essere (diventare) se stessi

     

     di p. Attilio Franco Fabris

     

    In ciascuno di noi esiste una dinamica di crescita, evoluzione, cambiamento. Avvertiamo una tensione interiore che ci spinge ad essere di più, di affrontare la vita con coraggio e speranza, insomma a vivere essendo e diventando sempre più pienamente noi stessi.

    Ma questo aprirsi al futuro provoca insicurezza.

    Un’insicurezza che spesso ci blocca; infatti ci poniamo in “stato di sorveglianza” del nostro io in quanto non ci fidiamo di noi stessi. Sospettiamo di noi stessi.   Questa insicurezza nasce nel profondo. Da un dettato che quasi ci precede. Esso afferma categoricamente: “Io sono fatto male, sono sbagliato; non mi posso fidare di me!”.

    Ci sentiamo inadeguati, e perciò non riusciamo ad “accettare noi stessi” nella nostra autentica realtà. E’ la sensazione di non valere nulla.

    Esistono particolari ambiti del nostro essere che possono rivelare questa sensazione.

    Quali sono le realtà di noi stessi dinanzi alle quali ci sentiamo insicuri, inadeguati?

    John Powell ne indica alcune:

    –         il nostro corpo (mi piaccio fisicamente, o rifiuto parti di me? Vorrei essere diversamente?)

    –         le nostre capacità (es. l’intelligenza,…)

    –         la nostra storia (vi sono aspetti della mia storia che non riesco ad accettare? Che vorrei cancellare e che creano in me sofferenze insanabili?)

    –         i nostri errori (gli sbagli che ho fatto tanto tempo fa come li giudico? Gli ho integrati scoprendovi un insegnamento oppure mi fanno tuttora soffrire?)

    –         le emozioni (esistono emozioni “inaccettabili” che io devo rifiutare e negare? Le mie emozioni hanno libero accesso alla mia consapevolezza?)

    Vie di soluzione generalmente ricercate

    Dinanzi al rifiuto, alla paura e insicurezza nei miei stessi confronti esistono delle soluzioni:

    • rifugiarci e aderire solamente al nostro “io ideale” rifuggendo dall’”io reale” (“vorrei essere”, “devo diventare…”, “mi costringo ad apparire…”)
    • Il ricorso a modelli ideali esterni (i miti di qualsivoglia categoria, le star, ecc.…penso, agisco, parlo, mi vesto come loro, vivo della loro ombra)
    • Il ripiegamento su se stessi e sulla propria “incapacità” e inadegnatezza nei confronti della vita: mi chiudo in me stesso, non voglio più aver a che fare con gli altri, vorrei scomparire a me stesso…

    Queste vie di soluzione provocano alla fin fine ulteriore sofferenza e  divisione interiore.

    Una sofferenza che porta a trovare sollievo in forme di appagamento artificiale: fumo, alcol, droga, sesso, lavoro, divertimenti, ecc….

    La paura e l’insicurezza non ci lasciano la libertà né di essere, né di pensare né di agire. Soffriamo ma … il più delle volte preferiamo questa situazione all’accettazione del rischio di vivere. Questa accettazione vuol dire iniziare a cambiare, e il cambiamento provoca sempre paura.

    IL BRANO EVANGELICO

    v. 24. Una gran folla segue Gesù. Lo pressa d’ogni lato. E’ una massa anonima in mezzo alla quale la donna si nasconde.

    La seguire Gesù può contenere quest’aspetto di ambiguità, di un percorso di massa. Esso rischia di offrire la scusa di evitare un confronto diretto e personale dell’incontro con Cristo.

    v. 25. Una donna malata da anni, ridotta allo stremo, povera. Una donna che non ha nome, ma che è presentata col volto del suo male, della sua sofferenza. Una donna che si vergogna della sua malattia.  L’emoraggia è una secrezione gonorreica sanguigna e purulenta della donna.

    La donna è ammalata da “dodici anni” ovvero da sempre. Dodici è il numero della totalità. Essa perde la sua vita (=sangue) lontano dal Signore, è destinata alla morte.

    La sua malattia la isola e la separa da tutti gli altri, in quanto culturalmente e cultualmente impura. Come la lebbra essa la escludeva addirittura dalla società umana. (leggi Lv 15,19-30). La sua è una femminilità in gran parte negata: tutto ciò che ha a che fare con la sessualità, è visto come sporco, come colpa…. Probabilmente preclusa al matrimonio e alla maternità. Dunque una vita segnata drammaticamente dall’esperienza della morte.

    Per questo genere di persone ogni richiesta d’aiuto è avvertita come un’onta. Occorre nascondersi, dissimulare il più possibile. Solo alla fine si manifesta il proprio male perché costretti. Ma finché è possibile all’esterno si cerca di dare una buona impressione, di risparmiare agli altri e a se stessi il confronto con il proprio male: “Se gli altri sapessero cosa accadrebbe?”.

    La sofferenza di questa contraddizione è terribile: da un alto dover dire a ciascuno con la parola e con l’atteggiamento: “Non farti troppo vicino, non mi toccare, sono impura!”. Un continuo farsi da parte, in preda al proprio senso colpa e alla propria insicurezza. E dall’altro lato vi è in lei un bisogno incessante di stare con gli altri, di essere come gli altri.

    v. 26. Molti medici! Questa donna non si è mai accontentata. Non si è rassegnata.

    E’ l’ansia della vita, la paura di perderla, che costringe l’uomo a tentare tutte le vie, ad affannarsi per trovare una soluzione alla sua paura. Ma invano! Il rimedio peggiora il male, un po’ come chi sta annegando e si agita. E quando la medicina non può far nulla…!!!??

    Risultato della sua ansia e della sua paura è la progressiva dilapidazione delle sue sostanze. Un’ulteriore esperienza di fallimento.

    Questa donna ha dovuto dare e dare… i medici sempre più ricchi e lei … sempre più povera, sola.

    Un sacrificarsi interminabile sperando di guarire affidandosi agli altri.

    Per lei ormai nulla le è dovuto gratuitamente. Neppure lontanamente passa l’idea nella sua mente che vi sia finalmente qualcuno a cui affidare la sua vita senza riserve, senza cadere in una nuova voragine di angoscia, senza dover anticipatamente “pagare” la sua prestazione.

    E’ un cerchio diabolico che sembra non doversi più spezzare. La situazione appare irrimediabile.

    v. 27aAvendo udito”: la fede procede dall’ascolto.

    Da chi ha udito? Con quali risonanze?

    v. 27b-28. Venne alle spalle di Gesù…: è convinta che basti “toccare” le vesti di Gesù per essere guarita. Ella ricerca non solo una guarigione fisica, ma una salvezza-liberazione che le permetta di riaprirsi alla vita in una ripresa della comunione con gli altri, con Dio.

    Usa il passivo: Sarò salvata. Ovvero riconosce che tale salvezza ormai non le può provenire se non attraverso un dono dall’alto. Essa si azzarda a compiere un gesto sacrilego contrastante la legge (Lv 15,19-30). Essa trova il coraggio di andare contro la legge. Di compiere un atto sacrilego.

    (Riguardo al “toccare il mantello” cfr. 3,10; 5,56).

    Vuole “toccare” ma di spalle: ha paura!  Infrange sì la legge ma di nascosto. Spera di farla franca. Non vuole scoprirsi nella sua povertà. Non vuole esporsi: è immonda. Ha paura di dire se stessa.

    A questo punto facciamo un’osservazione: questa donna pur veramente disperata avverte che in lei la paura di essere se stessa è più forte della sua stessa disperazione. Logica vorrebbe che gridasse il suo bisogno guardando in volto Gesù, ma questo non accade! Perché? Vuole il miracolo, ma strappandolo di nascosto. Ma un miracolo ottenuto così è un miracolo a metà! Non è occasione per un incontro con Dio che riapre alla fiducia nei confronti della vita, di se stessi, degli altri e di Dio stesso. La paura allora fa da padrona anche sulla sua sofferenza.

    In mezzo alla folla la donna avrà faticato a trovare un varco per avvicinarsi a Gesù (rendendo tutti immondi!).

    v. 29. la guarigione è immediata. In questo mutuo toccare e lasciarsi toccare da parte di Gesù passa un flusso d’amore capace di guarire. Dove è presente la fede la potenza di Dio si libera, non per magia, ma perché Gesù testimonia come Dio renda disponibile la sua potenza regale per coloro che credono: la fede della donna ha dunque reso possibile il dispiegarsi in lei della potenza divina che l’ha guarita. Il racconto potrebbe finire qui. La guarigione è ottenuta: Gesù continua inconsapevole dell’accaduto il suo cammino, e la donna tenendo ben nascosto il suo segreto se ne torna a casa sua, (per condividere con chi la sua gioia? Vera gioia non è l’incontro con chi ti ha salvato?) . Ma proprio qui il racconto continua, anzi è ripreso quasi daccapo. La donna ha bisogno di qualcosa di più importante, che porti a compimento quello che in lei è già in parte è avvenuto e di cui è solo segno.

    v. 30. La potenza che esce da Cristo è la sua vita. Ci dona la sua vita perdendola.

    Gesù se ne accorge ovvero è attento e partecipa con la sua compassione alle sofferenze di chi gli si accosta. Il gesto di contatto della donna è estremamente personale, carico di attese e speranze: è intenzionale e dunque estremamente personalizzato. E’ tale contatto profondo che ha reso possibile il liberarsi, per tramite di Gesù, della potenza salvifica. Si può quasi dire che la fede e la speranza della donna fanno prendere coscienza a Gesù della sua qualità di Salvatore.

    E’ l’umanità di Cristo lo strumento salvifico di Dio (Caro cardo salutis).

    La duplice presa di coscienza, di Gesù e della donna, pur diverse, hanno in comune un gioco di attività-passività che va evidenziato. Soprattutto il momento della passività segnala una “potenza” che sfugge al dominio e si presenta come una terza realtà, che li coinvolge entrambi. E’ la presa di coscienza di questa presenza-azione divina e l’aperura verso di essa che crea l’ambito di un incontro profondo tra Gesù e la donna. Questa solidarietà, da cui sono esclusi discepoli e folla, può ora divenire parola e comunicazione profonda.

    v. 31. I discepoli non comprendono perciò la domanda di Gesù. Non sanno distinguerne la verità. Sono ancora fermi all’esterno del mistero di Cristo.

    Vi sono diversi modi di toccare:  quello della folla, che solo opprime, non produce nulla, non cambia nulla. E’ un “toccare” esteriore. C’è poi un toccare possessivo che è prendere, impossessarsi.

    Ma vi è invece un “toccare” diverso che è segno rimando alla comunione e all’amore: che riconosce l’altro nella sua diversità. I discepoli non comprendono ancora questo (v 31).

    v. 32. Lo sguardo di Gesù interpella: esprime elezione, salvezza, giudizio. L’incontro con lo sguardo mette sempre a disagio, ma apre a nuovi orizzonti.

    Il dialogo dunque si instaura non senza difficoltà. Questa fatica orienta a comprendere come sia proprio nel dialogo personale, e non primariamente nella guarigione, che si ha la trasformazione più profonda.

    La domanda di Gesù è un appello personale che attende una risposta che è un esporsi, un mettersi in gioco nella relazione.

    La sua domanda è ancora come un giudizio di misericordia: vuole mostrare che lui non ha paura di lasciarsi toccare dall’impurità della donna.

    Un uomo comune al posto di Gesù sarebbe stato ben attento a tenere nascosta l’identità della donna, dovrebbe esporre questa e lui stesso al giudizio della folla.

    Gesù invece ha il coraggio di svelare l’audacia della donna. Non si vergogna di lei, e vuole che lei non si vergogni più della sua malattia.

    Il momento più coraggioso della storia di questa donna non deve passare come un gesto nascosto, un furto dissimulato. Questo incontro è uno snodo fondamentale nella vita e nel futuro di questa donna.

    v. 33. Vi è contrasto tra la paura della donna che si sente “sacrilega” e la dolcezza di Gesù che la riconsegna alla vita. La donna si presenta vergognosa e colpevole: ha infranto i limiti imposti dal tabù.

    Ma da parte di Gesù essa riceve incoraggiamento ed approvazione.

    In lei vi è un misto di gioia esplosiva e di paura. E’ la prima volta che questa donna non si sente più ferita per il fatto di essere donna.

    Questo incontro col volto di Cristo la sta liberando da ogni paura e vergogna, ella può dire ormai tutta la verità.  Ed è questa la guarigione più profonda: finalmente la libertà di essere e di dire se stessa. In Gesù si sente ormai riconciliata con se stessa e con la vita.

    Perché? L’unica forza capace di rompere questo cerchio è la saggezza dell’amore, una relazione nella quale ci si sente accolti e amati per quello che si è, indipendentemente perfino dalle questioni di purezza o impurità. Una mano che si tende gratuitamente che non chiede nulla per sé.

    La forza risanante sperimentata dal contatto con Gesù la sopraffà di gioia, si sente ormai libera dal suo incubo che per dodici anni aveva in lei bloccato la gioia del vivere. Ora il miracolo è compiuto perché finalmente Gesù ha compiuto la guarigione più importante: la liberazione dalla paura di essere se stessa.

    Questa donna è finalmente riconsegnata a se stessa in quella fiducia dinanzi alla vita alla quale anelava senza riuscire a trovarla. Finalmente può essere se stessa. L’incontro con lo sguardo di Gesù ha operato il miracolo.

    v. 34. “Figlia”: espressione di confidenza e tenerezza. Vi è ormai una profonda comunione tra lei e Gesù. E’ come una bimba che viene nuovamente alla luce, donata nuovamente alla vita.

    La tua fede ti ha salvata”: tutto il percorso compiuto dalla donna è riconosciuto da Gesù come un itinerario di fede. La fede che salva viene così svelata non tanto come un sistema di credenze o di pratiche, ma come personale e immediato coinvolgimento. E’ solo la fede che può aprire all’efficacia dell’agire salvifico di Dio

    “Va’ in pace”: non è solo augurio di benessere (“Stammi bene!”), ma proclamazione che la salvezza ha toccato questa donna, la quale è giunta di nuovo ad un’esperienza di comunione con Dio e con gli altri.

    Egli riconduce l’uomo ad una relazione fiduciosa con Dio: è una fede che risana dalla paura di Dio.

    Lo stato di Schalom definisce lo stato di integrità e di salute dell’uomo, il suo benessere.

    La “cura” è il risanamento operato dalla fede. Gesù non l’ha trasmesso come medico, ma come colui che ha risvegliato la fede in Dio, una fede capace di sciogliere l’uomo dalla voragine della sua angoscia:

    “Ciò che hai fatto –sembra dire Gesù – non era una colpa; è un segno di grande fiducia, del fatto che tu, senza domandare il permesso, hai fatto e preteso ciò di cui hai bisogno per vivere. Infatti è proprio questo che Dio desidera, e questo egli intende con “fede”: superare l’angoscia e il timore, che può rovinare e distruggere la vita portandola fino alla malattia, ed avere la certezza che Dio vuole che noi viviamo, anche se il tenore della legge sembra contraddire questa volontà: Va’ dunque, la tua fede ti ha salvata!”.

  • 21 Nov

    INIZIAZIONE ALL’ASCOLTO

    LA COSCIENZA E LE SUE CONTRORISONANZE

     

    a cura di p. Attilio franco fabris su appunti di p. Virginio S. sj

     

     

     

    Un Dio che parla all’uomo

     L’esperienza di fede di tipo biblico si impernia sulla Parola. Una Parola incarnata che è mediata dagli uomini.

    Riconosciamo in quest’esperienza religiosa il primato che viene dato alla PAROLA.

    Ma parlare di primato della Parola comporta il parlare del primato dell’ASCOLTO.

    Sempre l’incontro con la Parola diviene esperienza di ascolto. Ma un ascolto che non è anzitutto interiore, spirituale (troppo si è dato adito a tale interpretazione!), ma un ascolto che è “acustico”, che interessa anzitutto l’organo fisico dell’udito.

    Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre il latte e il miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo”. (Dt 6,3-4). Il testo riassume l’atteggiamento di Israele nei confronti di Dio nell’unica raccomandazione: “Ascolta… Schemà’ Isra’el”.

    Perché devo ascoltare la Parola?

    Perché l’uomo non vive di solo pane, ma di quanto esce dalla bocca di Dio. Perché per vivere l’uomo ha bisogno della Parola come del pane: “Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.” (Dt 8,3; cfr Pr 9,1-5; Sir 24,18-20; 51, 23-24; Am 8,11-12; Gv 6,68).

    La tradizione biblica afferma che l’attività essenziale del Dio di Israele è quella di parlare: Dio disse… (cfr. Gn 1,3…).

    Cosa significa che Dio “parla”?

    Un Dio che vuole parlare dovrebbe scandalizzarci, meravigliarci. Perché la potenza di Dio desidera manifestarsi attraverso la sua parola?

    Per intanto sottolineiamo che: se l’attività principale del Dio biblico è quella di “parlare” allora l’attività essenziale dell’uomo, sua creatura, è quella di “ascoltare”. Se no allora per chi e a chi Dio parlerebbe?

    Ma cosa significa ascoltare?

    Il dizionario italiano (Devoto) da questa definizione: trattenersi volontariamente e attentamente ad udire, prestare attenzione o partecipazione a qualcuno o a qualcosa in quanto informazione o motivo di riflessione o anche devozione.

    Trattenersi:  ovvero dare tempo fermandosi da tutto il resto.

    Volontariamente: implica una decisione, una scelta che si impone fra tante

    Attentamente: impiegando tutte le nostre energie

    Ad udire: L’ascoltare è anzitutto un fatto acustico

    Qualcuno o qualcosa: io posso pormi in ascolto di un’altra persona come anche di un fatto, di una realtà che mi sta dinanzi.

    Informazione, riflessione, devozione: qui si dice il motivo per cui ascolto. Quella determinata persona o realtà può offrirmi qualcosa di nuovo in vista della mia esistenza.

    Ma ora facciamo attenzione alla valenza del verbo ascoltare che in senso biblico va inteso in senso allargato: dialogare, collaborare, entrare in comunione di vita. E’ la valenza del verbo “Schamà”: sentire, prestare orecchio, accogliere, acconsentire, essere docile, lasciarsi persuadere, mettere in pratica, obbedire. La stessa parola obbedienza deriva dal latino ob-audire: dall’ascolto alla persuasione, dalla persuasione alla docilità, dalla docilità all’obbedienza.

    Dunque “ascoltare” è un’azione complessa che non comporta il semplice “udire”. E’ una realtà che viene a toccare il mio io profondo (= la coscienza) interrogandomi. 

    L’“ascolto”, come forse da noi sinora inteso, è un termine forse per noi troppo astratto. Ad esempio quando vogliamo metterci “in ascolto della Parola”, pensiamo ad una sorta di riformulazione interiore dei contenuti che chiamiamo meditazione, quandi ad una esperienza interiore. In tal modo tendiamo a spiritualizzare l’ascolto.

    Per l’uomo l’essere fatto “ad immagine e somiglianza” di Dio” (Gn 1,26 ss) comporta il riferimento alla parola: l’uomo è tale in quanto abilitato da Dio al parlare e all’ascoltare. E’ la Parola che abilita alla parola l’uomo stesso, rendendo capace di “inter-loquire/dialogare” con il Creatore. Questa capacità di interloquire con Dio colloca l’uomo nel mondo in una situazione del tutto privilegiata e singolare in rapporto a tutto il resto della creazione (cfr. Gn 1,26-28; 2,8.15.19-20).

    Quando la tradizione biblica ribadisce incessantemente il fatto che Dio “parla” cosa vuol significare? Si vuole affermare che Dio desidera essere comunione, comunicazione, interazione. Dio crea perché vuole costituirsi interlocutori, partners, amici realizzando con loro un’esistenza di comunicazione, collaborazione, condivisione, comunione. L’ascolto e la parola sono doni che ci vengono offerti per uscire dalla nostra solitudine e dalla nostra angoscia.

    Tutto questo suppone da parte dell’uomo la capacità di ascoltare la Parola che Dio sempre per sua iniziativa gli rivolge, di risponderle.

    A questo punto è utile poter constatare nella nostra esperienza quotidiana quanto viviamo l’esperienza dell’ascolto inteso come interazione, comunione, condivisione con i nostri simili:

    Da un breve sondaggio potremmo prendere subito atto che:

    –         dialogare e ascoltare è difficile, faticoso, preferiamo fare altro: “Ci sono cose più importanti”

    –         che è quanto mai carente nella nostra vita. Ci limitiamo per lo più a comunicare “informazioni”.

    –         Che questa mancanza ci getta in un clima di solitudine, paura, incertezza e talvolta angoscia.

    Questo ci fa comprendere che la prima vocazione dell’uomo che è quella di poter interagire attraverso il dialogo e l’ascolto con l’altro e con l’Altro è spesso disattesa, gettandoci di conseguenza in un mondo nel quale ci ritroviamo soli, incapaci di comunicare.

    1. 1.  natura e dinamiche della coscienza

    Il luogo dell’ascolto

     La parola che ascoltiamo non raggiunge solo le nostre orecchie.

    Sarebbe solo suono e nulla più.

    Essa invece raggiunge la nostra interiorità, ovvero viene a toccare la nostra coscienza.

    Qui la parola può suscitare una molteplicità di sentimenti, emozioni, ricordi.

    La parola non ci lascia indifferenti, sempre però che siamo disposti ad ascoltarla, ovvero ad “accoglierla”.

    Cos’è la coscienza?

    Anzitutto ci domandiamo: cos’è la coscienza?

    La parola deriva dal latino “cum-scire”-“sapere-con”.

    Un “sapere” con chi?

    Con se stessi evidentemente!

    In tal senso la parola coscienza è sinonimo di “autocoscienza” (è una tautologia).

    Tentiamo una definizione:

    la coscienza è la facoltà immediata di avvertire, comprendere, valutare i fatti che si verificano nella sfera dell’esperienza individuale. E’ la capacità di interagire con la realtà in maniera diversa.

    (la coscienza è stata identificata attraverso diversi termini nelle diverse culture: I latini chiamavano la coscienza “anima”, da cui animato (colui che interagisce con la realtà) e inanimato (colui che non può interagire). In greco essa veniva chiamata “psiché”: mente, ovvero la capacità dell’uomo di interagire con la realtà interpretandola, studiandola, modificandola… Gli ebrei la chiamavano “nefesch”: “soffio-respiro-gola-stomaco”. La coscienza come esperienza tangibile del nostro appartenere alla vita (=il grande soffio di Dio)).

    Infatti, tutta la realtà continuamente mi offre degli stimoli che provocano in me delle reazioni.

    Fatti, persone, parole…

    Ogni incontro suscita in me reazioni diverse: queste da dove nascono? Dalla mia coscienza.

    Ricordiamo che l’attività della coscienza non è prerogativa del solo uomo, essa appartiene in diversa misura a tutte le forme di vita esistenti (animali e vegetali): anch’esse si pongono in misura differenziata a diverso livello in interazione con la realtà che le circonda.

    La differenza è che nell’uomo questa capacità di interazione è al massimo, per cui egli riesce addirittura a governare la realtà stessa.

    coscienza e risonanze

     Nella coscienza dunque esistono delle reazioni alla realtà:

    le chiamiamo “risonanze”.

     

    Che rapporto esiste tra coscienza e risonanza?

    Che confini esistono tra le due esperienze?

    Dove finisce l’una e inizia l’altra?

    Dobbiamo affermare che possiamo conoscere la coscienza non in se stessa ma solo attraverso le sue risonanze.

    La coscienza non è un’attività già precostituita e formata nell’uomo. Essa si struttura mano a mano e nella misura in cui essa viene attivata ed educata.

    Sono proprio le reti fittissime delle risonanze a strutturare la nostra coscienza.

    Hanno perciò un ruolo determinante nella formazione della coscienza la rete di relazioni e l’ambiente con cui essa si trova ad interagire (soprattutto nei primi tre anni di vita).

    Io sono frutto delle mie risonanze, ovvero del mio vissuto.

    E’ per questo che è difficilissimo de-strutturare una coscienza.

    Il ragionamento non serve. Occorreranno esperienze di relazioni e un ambiente tali da poter ristrutturare la coscienza, ma è impresa faticosissima che provoca moltissime resistenze e sofferenze.

    Il nostro contesto culturale non facilita l’ascolto della coscienza.

    I nostri ritmi sono spesso frenetici, i tempi liberi sono imbottiti da TV e mass media, la pubblicità ci assedia. In famiglia il dialogo e l’ascolto vicendevole è spesso molto carente….

    Tutto questo lo potremmo definire quasi un “complotto” al fine di impedire all’uomo di ascoltarsi e di ascoltare. E’ bombardato da sollecitazioni, immagini, suoni, falsi bisogni….

    La pubblicità, ad esempio, sa bene che quando l’uomo ascoltasse la sua coscienza il suo potere svanirebbe all’istante perché l’uomo ritornerebbe ad essere padrone della sua vita e delle sue scelte.

    L’uomo di oggi, così apparentemente immerso nella realtà, si ritrova angosciosamente sempre più solo, perché lontano dal nucleo centrale della sua stessa esistenza.

    Vive all’esterno, lontano dal sé, e quindi solo e sperduto in questo mondo.

    Per ovviare a tale angoscia non rimane altro che incrementare ancor più l’imbottimento di sollecitazioni esterne che vengano a colmare il vuoto esistente. Droga, alcol, sesso, denaro, lavoro stressante, mass-media, gioco d’azzardo… sono gli strumenti più usati a raggiungere tale scopo.

    LIVELLI E STRUTTURAZIONE DELLA COSCIENZA

     Esistono più livelli della coscienza in cui le risonanze possono sorgere.

    Alcune risonanze sono facili da cogliere e da individuare, altre invece si collocano a livello più profondo e quindi sono più difficili da cogliere.

    Questo perché?

    Per il fatto che la nostra coscienza sussiste a più livelli: da un livello conscio ad uno in-conscio.

    L’uomo infatti può vivere in diversi modi e a diversi livelli il suo essere presente a se stesso, ovvero l’ascolto della sua coscienza: da un massimo di autoconsapevolezza ad una coscienza quasi assente.

    Teniamo tuttavia presente che la pienezza della consapevolezza di sé non è data alla natura dell’uomo. Infatti per tutti noi esistono tanti aspetti (bisogni, avvenimenti, traumi…) che non sono accessibili alla nostra coscienza. Tuttavia questi aspetti continuano a far parte del nostro essere e contribuiscono a creare atteggiamenti e comportamenti di cui non riusciamo a dare a livello conscio una risposta adeguata. Molto di noi, forse la maggior parte, rientra in ciò che non riusciamo a spiegare perché non conosciamo.

    Questo ci ricorda che l’obiettività e la libertà umana soffrono di una certa qual limitazione.

    Se il livello conscio è la punta dell’icemberg, quello subconscio e inconscio rappresenta il resto (il 90% !).

    Definizioni

     Ciò che fa la differenza tra conscio e inconscio, tra coscienza e non, è il grado di accessibilità o consapevolezza del comportamento alla propria introspezione, cioè l’ampiezza con la quale possiamo avvertire e riferire ciò che si muove nel nostro essere interiore.

    Possiamo suddividere la nostra coscienza a tre livelli differenti:

    1. la coscienza conscia:  esprime il normale campo di coscienza che la persona ha di sé. Comprende tutto ciò che è immediatamente presente o accessibile alla consapevolezza.
    2. Il subconscio: è costituito da tutti quei contenuti psichici non imnmediatamente presenti alla coscienza ma che possono essere richiamati alla consapevolezza mediante mezzi ordinari quali la riflessione, l’intrispezione, l’esame di coscienza, la meditazione…
    3. L’inconscio:  è l’insieme di tutti quei contenuti che giacciono nel più profondo di noi stessi, depositati e accumulatisi per anni e anni. Essi possono essere riportati alla luce della consapevolezza solo attraverso strumenti professionali quali ad esempio le tecniche psicoterapeutiche. L’inconscio è conosciuto indirettamente tramite i suoi effetti (es. atti sintomatici, perturbati, rimossi, sogni,…)

    La conoscenza delle nostre aree subconsce e inconsce (quando necessario) è di fondamentale importanza per la crescita della persona. Spesso soffriamo e facciamo soffrire perché non ci conosciamo a sufficienza, perché manchiamo di consapevolezza.

    Ovvero siamo poco capaci di ascolto della nostra coscienza.

    Ricordiamo che non  esiste una divisione netta, tra i due mondi c’è un rapporto di sfumatura. Tra conscio e inconscio esiste una certa qual comunicazione. Una comunicazione che si attua però secondo modalità diversificate.

    Nessuno può giungere a possedere in toto la sua coscienza.

    L’uomo è mistero a se stesso. E questo provoca inquietudine e insicurezza.

    Quando ci troviamo di fronte alla risonanze della nostra coscienza non dobbiamo demonizzarle: esse esistono e basta, e chiedono che noi ne prendiamo atto.

    Troppo spesso le nostre risonanze, quelle che emergono a livello di “subconscio e inconscio” non sono prese in considerazione, non vengono accolte né amate. Mentre esse rappresentano il nostro vissuto più profondo.  La conseguenza è che noi viviamo fuori casa, ovvero lontano da noi stessi, non ci conosciamo e abbiamo paura di farlo.

    RISONANZE DELLA COSCIENZA E INTERAZIONE CON LA CORPOREITÀ

     Generalmente noi opponiamo vita interiore (coscienza) a vita esteriore (corporeità).

    Invece esiste un rapporto strettissimo di interdipendenza tra le risonanze della coscienza e la nostra corporeità: pensiamo ad esempio all’esperienza del dolore, della gioia, del pianto…

    Le risonanze trasbordano nella corporeità, si “somatizzano”.

    Possiamo affermare che la corporeità “drammatizza” le nostre risonanze. Noi continuamente e il più delle volte inconsapevolmente “drammatizziamo” il nostro vissuto interiore. Quindi vi è una strettissima interazione tra corporeità e coscienza.

    La risonanza oggettivata nella corporeità cerca una comunicazione: Perché infatti allora “somatizzerei” la risonanza? Perché ho bisogno di comunicarla! Perché attraverso la manifestazione-comunicazione la risonanza ottiene il suo massimo livello di autoconsapevolezza.

    In questo senso io ho bisogno degli altri. Un bisogno disperato di confidare il mio vissuto a qualcuno.

    Cosa succede in ogni relazione?

    Una continua interazione delle coscienze che in tal modo si manifestano e si strutturano.

    Ora il dialogo tra due coscienze è possibile solo attraverso la comunicazione delle risonanze e attraverso la loro manifestazione attraverso la corporeità.

    Ecco l’itinerario:

    – Concepimento della risonanza

    – oggettivazione della risonanza

    – manifestazione della risonanza (e viceversa)

    Ma questa interazione è trasparente, naturale, spontanea?

    Oppure, come il più delle volte succede, è conflittuale? Ovvero a livello di concepimento della risonanza provo un determinato sentimento e a livello di corporeità lo nego, e viceversa.

    Dobbiamo riconoscere, prendendo in esame la nostra stessa quotidianità, che tra coscienza e corporeità l’interazione non è quasi mai fluida. Essa incontra resistenze, ostacoli.

    Queste resistenze, questi ostacoli noi le possiamo chiamare controrisonanze.

    Le controrisonanze ossia sono quelle barriere che più o meno coscientemente noi frapponiamo all’emergere delle risonanze della coscienza.

    Le potremmo così elencare:

    –         la paura di essere (diventare) se stessi

    –         la paura degli altri

    –         la gelosia di sé

    –         l’inerzia

    –         la frenesia

    –         il conflitto con la verità

    –         la rivalità

    LE CONTRORISONANZE

    1.     PAURA DI ESSERE (DIVENTARE) NOI STESSI

    In ciascuno di noi esiste una dinamica di crescita, evoluzione, cambiamento.

    Ma questo aprirsi al futuro provoca insicurezza.

    Un’insicurezza che spesso ci blocca; infatti ci poniamo in “stato di sorveglianza” del nostro io in quanto non ci fidiamo di noi stessi. Sospettiamo di noi stessi.

    Esiste nel profondo della coscienza un dettato: “Io sono fatto male, sono sbagliato; non mi posso fidare di me!”. Ci sentiamo inadeguati, e perciò non riusciamo ad “accettare noi stessi” nella nostra autentica realtà.

    Quali sono le realtà di noi stessi dinanzi alle quali ci sentiamo insicuri, inadeguati?

    John Powell ne indica alcune:

    –         il nostro corpo e le sue capacità

    –         la nostra storia e i nostri errori

    –         i nostri sentimenti ed emozioni

    –         la nostra personalità

    Dinanzi al rifiuto, alla paura e insicurezza nei miei stessi confronti esiste allora solo una soluzione: rifugiarci e aderire solamente al nostro “io ideale” rifuggendo dall’”io reale”. La coscienza rifugge dunque o nell’io ideale o a modelli ideali esterni, e questo per rifuggire dal confronto imbarazzante con il proprio io reale avvertito come pericoloso.

    Ma questo provoca ulteriore divisione interiore, sofferenza ed esperienze di frustrazione.

    La paura e l’insicurezza non mi lasciano la libertà né di essere, né di pensare né di agire, ma preferiamo questa situazione all’accettazione del rischio di vivere.

    Questa controrisonanza viene messa a tacere sin dall’inizio, nel cuore della coscienza, che si trova così subito divisa, impedendosi di ascoltarsi veramente se stessa. (cfr “L’emoroissa” Mc 5)

    B.     PAURA DEGLI ALTRI

    E’ la paura di non essere come gli altri si aspettano da noi. Ci sentiamo in dovere di rispondere alle aspettative degli altri.

    Questa situazione è data dalla paura di non essere accettati dagli altri, rifiutati. Abbiamo paura della solitudine.

    Ma tale controrisonanza ci trasforma in “maschere” che cambiano  a seconda delle persone e delle situazioni.

    Alla fin fine ci condanniamo alla vera solitudine che è quella dell’isolamento del nostro io che non sa più riconoscersi.

    Es. biblico: Gv 5 “Il paralitico guarito”

    C.     LA GELOSIA DI SE’

    E’ la ricerca di un angolo della mia vita di cui non devo rendere conto a nessuno. E’ data dalla paura di essere spossessati. Non voglio condividere i miei segreti, perché voglio essere io il padrone di me stesso.

    “Sono io che decido quanto, come, dove dare me stesso agli altri”.

    Io sono mio: e basta! Io mi comunico tanto quanto io decido. Faccio entrare l’altro nella mia vita tanto quanto voglio. Tale risonanza riguarda quelli che sono i rapporti seri e vitali della nostra esistenza.

    “Ho già condiviso tutto e basta!” dove il tutto sono io che lo decido.

    In questo contesto l’evoluzione della mia coscienza si ferma, non evolve. La conseguenza è che intere regioni della mia coscienza rimangono inesplorate perché non condivise. La coscienza si atrofizza.

    Non bisogna mai affermare il principio della gelosia di sé (la “privacy”)m ma occorre al contrario aprirsi progressivamente alla relazione nello scambio delle nostre risonanze.

    Questa controrisonanza è una perdita secca per la coscienza. Nego al mio io più profondo la crescita dell’interazione, mi ritrovo in un isolamento mortale. Quello che chiamo la mia ricchezza è la mia più grande povertà. Se impedisco all’altro di entrare, non mi permetto di entrare in relazione con il mio io più vero e più profondo e dunque mi impedisco di conoscermi sempre più. L’interazione che avviene nell’incontro e nel dialogo è negata.

    Cosa distingue la gelosia di sé dalla privacy? Sicuramente la sua impermeabilità e la sua intransigenza.

    Es. Biblico: Anania e Saffira: Atti 5,1-12

    D.    L’INDOLENZA, L’INERZIA DI MOTO E DI QUIETE

    La coscienza fatica a mettersi in moto al presentarsi della risonanza. L’inerzia di quiete impedisce il prendere atto della risonanza nella coscienza.

    La coscienza si perde di vista, disattende il momento presente, la risonanza emergente infatti disturba e indispone.

    Quante possibilità di sviluppo infatti vengono mortificate dall’indolenza della coscienza? Quante potenzialità sono frustrate?

    Questa controrisoananza è all’origine del conservatorismo perché il cambiamento scomoda.

    O al contrario non sto mai fermo, mi agito, sempre in movimento ma non ho il coraggio di fermarmi per ascoltare la mia coscienza: con la scusa delle urgenze dimentichiamo l’essenziale.

    Anche questa è una resistenza al cambiamento.

    Es. biblico: le dieci vergini, la parabola dei due figli.

    E.     IL CONFLITTO CON LA VERITA’

     La coscienza è affamata di informazioni.

    Ma alcune verità fanno male, disturbano.

    Perché? Perché provocano dei conflitti nella coscienza.

    E allora la coscienza si trova a far fronte a verità di questo tipo che emergono in lei; si difende diventando parziale: si schiera dalla parte che decido io perché fa più comodo.

    Anche la ricerca dell’assoluta infallibilità significa rifiuto della verità di me stesso la quale comporta la mia fallibilità. Le certezze assolute ricercate ad ogni costo sono il tentativo estremo di tamponare le nostre insicurezze.

     

    Es biblico: Acab e Michea: 1 Re 22

    F.      LA RIVALITA’

    La controrisonanza della rivalità si scontra con la risonanza della coscienza dell’altro, di fronte alla verità. E’ come se dovessi darla vinta all’altro.

    Il confronto con l’altro è faticoso, a volte doloroso e ci pone sulle difensive.

    La rivalità ricerca una vittoria fasulla.

    Esiste una rivalità aperta ed una occulta, mimetizzata.

    Essa si manifesta nella fatica di dire: “Ho sbagliato!”. Ci può essere un apparente consenso in cui scindo la coscienza dalla sua manifestazione.

    Es biblico: Gv 9 “il cieco nato”;

    CONCLUSIONE

    Al termine dell’itinerario circa le nostre controrisonanze possiamo dire che al fondo di tutto esse dicono la non accettazione di crescere, di seguire sino in fondo la nostra strada. Crescere vuol dire soffrire e io a questo non ci sto. Esse dicono ancora la nostra volontà di salvarci da soli (il vero peccato), di risolvere da noi stessi i problemi restando all’interno del nostro orizzonte umano senza riconoscere la nostra dipendenza da Dio. L’autosufficienza dice chiusura, incomunicabilità: non ho bisogno degli altri.

    Vero peccato è dunque il ritrovarsi incapaci di crescere, di essere noi stessi, confusionati dai nostri tentativi di salvarci da soli e di evitare le fatiche del cambiamento che è invece la stessa vita.

    Queste controrisonanze esplicitano l’esperienza di disgregazione della nostra coscienza.

    Mettono alla luce la frattura che esiste tra coscienza e corporeità, tra coscienza e coscienza.

    Esse sono barriere che ostacolano le nostre risonanze.

    Occorre aiutare la coscienza a riprendere contatto con la nostra corporeità, questa è fondamentale non un’appendice della coscienza.

    Questo fa comprendere il perché nella spiritualità biblica il corpo è tanto importante.

    Es. l’importanza della prostrazione, dell’imposizione delle mani, dell’alzare le mani…

    Il linguaggio corporeo può divenire strumento di discernimento delle mozioni spirituali.

    L’iniziativa di Dio dovrà fare i conti con tutte queste nostre resistenze.

    Se Dio parla non lo fa per arenarsi nei problemi della comunicazione, ma per risolverli. La Parola di Dio è viva ed efficace proprio per ridare all’uomo gli strumenti di una comunicazione nella verità.

    Il punto di partenza è l’uomo sordo e muto, che non sa né ascoltare e dunque parlare veramente. C’è bisogno che Dio, l’unico che sa veramente comunicare, intervenga su questa povera realtà dell’uomo per trasformarla.

    ***

    Es. biblico Mc 7,31-37

    (si drammatizza il gioco infantile sulla piazza del villaggio con la presenza del bambino sordomuto)

    Il sordomuto dalla nascita non può interagire.

    Con il sordomuto non si può giocare bene. A giocare con lui non ci si diverte. Gli altri (i forti, gli intelligenti) sono preferiti e scelti.

    In questo mondo si delineano due schieramenti: i forti e i deboli. I deboli si arrangino: peggio per loro.

    Il sordomuto è sempre più emarginato: egli non risponde alle aspettative degli altri. Perciò si sente scartato.

    Colui che è emarginato, scartato può reagire a questa situazione in diversi modi.

    1. con il servilismo: accetto un ruolo subalterno e insignificante pur di non essere allontanato dal gruppo
    2. con la ricerca di potere: cerco di acquistare la benevolenza del gruppo magari rimettendoci
    3. con la rappresaglia: cerco di farla pagare al gruppo, attraverso propositi di sabotaggio o di violenza.
    4. L’alleanza con un salvatore: il quale si mette dalla parte del debole (ma fino a quando? E con quali motivazioni?)

    Dunque la relazione con il sordomuto non è una relazione facile.

    Non riesce a giocare con gli altri, manca della capacità di comunicazione e quindi di interazione che è fondamentale per il collocarsi all’interno del gruppo.

    La mancanza di comunicazione rende dunque estremamente difficile la relazione del sordomuto con il resto del gruppo.

    Vi è un disagio vicendevole per cui:

    –         il sordomuto sempre più si apparta dal “gioco” di gruppo, relegandosi in una sempre più grande solitudine

    –         il gruppo estranea sempre più il sordomuto, in quanto diverso e quindi difficile da integrare con gli altri.

    Il sordomuto vive perciò una grande esperienza di solitudine e perciò di sofferenza. Le sue risonanze sono: “Io non sono importante per gli altri come io vorrei”, “Non mi sento amato come desidererei, anzi rifiutato”, “Non c’è posto per me nel mondo… nessuno mi vuole”.

    L’emarginazione produce sempre un movimento di autoemarginazione. L’autoemrginazione si strutturalizza e le dinamiche di sviluppo della persona ne vengono ad essere sempre più mortificate.

    E’ utile analizzare come il sordomuto-emarginato ed autoemarginato vivrà l’esperienza del bisogno di affetto nell’esperienza sessuale ( ci si vergogna di stare col sordomuto, mi squalifica: per cui lo allontano), si prendono le distanze da lui, non ci si associa con i perdenti, e come si collocherà nel mondo del lavoro…. E il sordomuto si vergognerà di essere quel che è, si sentirà in colpa, non accetterà la sua situazione, la vivrà come una “morte”.

    Confronto con la mia esperienza

    A questo punto sarà possibile una lettura della mia storia personale alla luce della vicenda del sordomuto.

    • riconosco una qualche corrispondenza fra il vissuto del sordomuto e il mio? Lo sento affine? Lo sento cugino o fratello?
    • Mi sento a mio agio nella piazza del villaggio? Ossia in mezzo agli altri?

    Lettura dell’esperienza

    Come mai io, pur non avendo l’handicap fisico del sordomuto, sento una consonanza con il suo vissuto?

    Quale sarà il mio handicap?

    Sono le mie controrisonanze.

    Esse vengono a distorcere la mia comunicazione e interazione con la realtà e con gli altri. Le controrisonanze generando difficoltà di comunicazione ed interazione  mettono in moto gli stessi dinamismi del sordomuto.

    Siamo perciò a livello della coscienza. Essa è sordomuta!

    Certo, con una buona analisi, vedremo come in noi le controrisonanze hanno una ricaduta sulla corporeità.

    L’incontro con Gesù

    Drammatizzazione dell’incontro con Gesù…

    Dove è il sordomuto?

    Chi lo porta a Gesù? Come?

    Quali risonanze?

    Come l’approccio con questo profeta straniero?

    Quali i passi da dover fare per acquistare la fiducia del sordomuto da parte di Gesù?.

    Gesù deve  portare lontano dalla piazza il sordomuto, lontano dai condizionamento nei quali è incappato, Ricreare con lui e per lui una situazione verginale di comunicazione.

    Gesù avrà intrapreso dei passaggi graduali di avvicinamento… deve necessariamente passare attraverso l’economia umana della relazione.

    Ovvero occorre una iniziazione.

    Gesù si propone al sordomuto, cerca una via per entrare in relazione con lui.

    Gesù tocca le orecchie.

    E’ il punto debole di quell’uomo, da cui parte tutto il suo disagio.

    Mette realmente il dito nella piaga di quell’uomo.

    Avrà resistito il sordomuto nel vedere Gesù toccare la sua piaga?

    Probabilmente per il sordomuto è faticoso accettare che Gesù entri nella sua vita, nella sua morte. In questo modo infatti egli la oggettiva, la sottolinea, Lasciar entrare l’altro nelle mie piaghe fa soffrire. Quanto quelle orecchie furono oggetto di scherno e di vergogna!

    E Gesù vuole mettere le dita proprie in quelle ferite della sua vita.

    Ma questa accoglienza della mia morte rende la mia morte vivibile.

    Dice il Signore: “Lasciamo condividere la tua morte e la tua morte si metterà  a servizio della tua vita”.

    La rivalità direbbe: “No! Le mani nelle mie orecchie non le metti!”.

    Quanto tempo sarà stato necessario affinché il sordomuto si lasci fare da Gesù? Tutto il tempo necessario, minuti, ore, giorni, anni…..

    Che esperienza straordinaria di accoglienza finalmente vive il sordomuto. In quel gesto Gesù si lancia totalmente e vi si coinvolge totalmente con la sua corporeità. Quella corporeità che diviene strumento di salvezza per il sordomuto.

    Gesù mette la sua saliva sulla lingua del sordomuto. E’ un trapianto di bocca espresso simbolicamente. Un gesto non violento, che chiede tempo, inventiva, collaborazione, fiducia.

    Gesù prega. Emette un respiro: è faticoso quello che sta avvenendo per lui e per l’uomo. Esso esprime attesa e speranza. È già preghiera.

    Il sordomuto osserva attentamente.

    Gesù pronuncia una parola autorevole, un comando: “Apriti! Effatà!”.

    Gesù va all’origine del male.

    E subito è il miracolo: ode, parla correttamente.

    “Che mi hai fatto?”.

    Risonanze del sordomuto guarito….

    Tutti abbiamo problemi di comunicazione. In essi ci dibattiamo oscillando tra il rifiuto degli altri, il rancore, il risentimento, il bisogno…

    Solo Gesù di Nazaret fa uscire dal carcere della solitudine il sordomuto facendolo entrare nuovamente in comunione con sé, con gli altri, con Dio.

    Riconosciamo un circolo vizioso tra incapacità di comunicare ed indurimento della coscienza: l’uno crea l’altro e viceversa.

    Solo una Parola, la parola di qualcuno che sa parlare davvero, sa penetrare nella coscienza attraverso il corpo, è capace di sbloccare l’ascolto e la comunicazione in quest’uomo e quindi di strapparlo dalla sua solitudine e dal suo conflitto con la realtà.

    Attualizzazione

    Vi sono tre livelli di attualizzazione:

    –         catechetico-didattico

    –         parenetico

    –         kerigmatico

    Dice il catecheta:

    L’uomo vive una condizione di sordomutismo, ma Dio sa ascoltare e sa parlare.

    Il Dio biblico è specialista nella comunicazione con l’uomo. Dio è energia di comunicazione e perciò di vita. Per questo egli può aprire le orecchie e sciogliere la lingua, per entrare in comunicazione con noi.

    Le nostre sordità e i nostri mutismi non hanno l’ultima parola. Non bisogna dare spazio alle risonanze che parlano della sordità e del mutismo di Dio.

    Ma è proprio vero? Chi mi assicura che questa accadrà?

    Risponde il pareneta:

    Non ti scoraggiare. Non aver paura. Vedrai…. Il signore viene a salvarti. Egli metterà la sua capacità di comunicare al tuo servizio. Non dire “Non ci posso far niente. Sarò sempre fuori posto nel mondo”.  Ravviva la speranza.

    L’esortazione non può dire di più.

    Occorre l’intervento dell’evangelista-profeta.

    Io ho una buona notizia da darti.

    Il Signore vuole operare nella tua vita. Quando? Ora!

    Quello che il Signore ha fatto al sordomuto lo vuole fare anche a te. Adesso.

    Le tue controrisonanze, che sono la tua sordità, sono talmente forti che non puoi liberartene da solo.

    Non accanirti contro di esse, non ti colpevolizzare. Io lotterò per te.

    Se ti senti come il sordomuto, qui ed ora, vieni in mezzo. E il Signore che ha operato sul sordomuto opererà anche in te.

    Io dirò alle tue orecchie e alle tue labbra nel suo nome “Effatà”.

    Non ti propongo una teoria, ma un’esperienza.

    Metti la parola di Gesù alla prova.

    Infatti l’ascolto è un dono suo non una tua conquista.

    Quella che ti faccio è una proposta semplicissima contro la quale si scagliano le tue controrisonanze.

    Ma sarà solo l’esperienza a dirti se questa parola è vera o no.

    E’ solo la verifica che può accreditare la catechesi e la parenesi. Queste senza profezia rimangono senza fondamento.

    Quali gli effetti dell’Effatà?

    Comincio a distinguere le controrisonanze con più lucidità e velocità. Divengo perciò più trasparente a me stesso.

    In un certo qual senso un maggior ascolto aggrava la mia consapevolezza della mia sordità e del mio mutismo. Ma è via obbligata per una progressiva liberazione.

    Trovo più libertà nel contraddire le mie controrisonanze. Trovo il coraggio di dissubbidire ad esse.

    L’effatà è un vero è proprio esorcismo, il primo esorcismo nel cammino dell’iniziazione.

    Infatti la mia situazione di sordo e di muto risponde ad una situazione oggettiva di peccato, di schiavitù. Le controrisonanze sono più forti di me, non provengono infatti da me ma da colui che è il divisore, il separatore, l’accusatore.

    Chi può compiere l’effatà?

    Lo può fare chiunque crede nell’efficacia del nome di Gesù. Certo occorre uno che dia l’avvio: è il profeta-evangelista.

    Perché è così efficace, spesso più di un sacramento:

    perché finalmente porto davanti al signore la mia morte. E questo dà una valenza forte perché vi gioco totalemente e liberamente la mia disponibilità. Questo porre la mia morte ai piedi della croce ha una forte carica battesimale.

    La comunità in mezzo alla quale si pronuncia l’effatà è la nuova piscina battesimale.

    Il movimento pendolare

    Sarà tipico nella persona emarginata un movimento pendolare. Ovvero tentativi di proposte di tecniche di inserimento che possono avere più o meno successo.

    Se va bene è un’esperienza gratificante ( “pur di essere dei vostri sono disposto a qualsiasi cosa”)

    Se non va bene è esperienza di progressivo isolamento (“Io vi voglio bene, ma voi non mi volete bene, allora anch’io non vi voglio bene”)

    Quanto durerà l’allontanamento? Finché il bisogno non rimetterà in moto il tentativo di riavvicinamento (“Io ho bisogno di voi!”).

     

     

     

     

  • 20 Nov

    La problematica dell’ascolto nella s. Scrittura

     a cura di p. Attilio Franco Fabris su appunti di p.Virgino S. sj

    L’esperienza di fede di tipo biblico si impernia sulla Parola. Una Parola incarnata che è mediata dagli uomini.

    Riconosciamo in quest’esperienza religiosa il primato che viene dato alla PAROLA.

    Ma parlare di primato della Parola comporta il parlare del primato dell’ASCOLTO.

    Sempre l’incontro con la Parola diviene esperienza di ascolto. Ma un ascolto che non è anzitutto interiore, spirituale (troppo si è dato adito a tale interpretazione!), ma un ascolto che è “acustico”, che interessa anzitutto l’organo fisico dell’udito.

    Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre il latte e il miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo”. (Dt 6,3-4). Il testo riassume l’atteggiamento di Israele nei confronti di Dio nell’unica raccomandazione: “Ascolta… Schemà’ Isra’el”.

    Perché devo ascoltare la Parola?

    Perché l’uomo non vive di solo pane, ma di quanto esce dalla bocca di Dio. Perché per vivere l’uomo ha bisogno della Parola come del pane: “Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.” (Dt 8,3; cfr Pr 9,1-5; Sir 24,18-20; 51, 23-24; Am 8,11-12; Gv 6,68).

    La tradizione biblica afferma che l’attività essenziale del Dio di Israele è quella di parlare: Dio disse… (cfr. Gn 1,3…).

    Cosa significa che Dio “parla”?

    Un Dio che vuole parlare dovrebbe scandalizzarci, meravigliarci. Perché la potenza di Dio desidera manifestarsi attraverso la sua parola?

    Per intanto sottolineiamo che: se l’attività principale del Dio biblico è quella di “parlare” allora l’attività essenziale dell’uomo, sua creatura, è quella di “ascoltare”. Se no allora per chi e a chi Dio parlerebbe?

    Facciamo attenzione alla valenza del verbo ascoltare che in senso biblico va inteso in senso allargato: dialogare, collaborare, entrare in comunione di vita. E’ la valenza del verbo “Schemà”: sentire, prestare orecchio, accogliere, acconsentire, essere docile, lasciarsi persuadere, mettere in pratica, obbedire. La stessa parola obbedienza deriva dal latino ob-audire: dall’ascolto alla persuasione, dalla persuasione alla docilità, dalla docilità all’obbedienza.

    Per l’uomo l’essere fatto “ad immagine e somiglianza” di Dio (Gn 1,26 ss) comporta il riferimento alla parola: l’uomo è tale in quanto abilitato da Dio al parlare e all’ascoltare. E’ la Parola che abilita alla parola l’uomo stesso, rendendo capace di “inter-loquire/dialogare” con il Creatore. Questa capacità di interloquire con Dio colloca l’uomo nel mondo in una situazione del tutto privilegiata e singolare in rapporto a tutto il resto della creazione (cfr. Gn 1,26-28; 2,8.15.19-20).

    Quando la tradizione biblica ribadisce incessantemente il fatto che Dio “parla” cosa vuol significare? Si vuole affermare che Dio desidera essere comunione, comunicazione, interazione. Dio crea perché vuole costituirsi interlocutori, partners, amici realizzando con loro un’esistenza di comunicazione, collaborazione, condivisione, comunione.

    Tutto questo suppone da parte dell’uomo la capacità di ascoltare la Parola che Dio sempre per sua iniziativa gli rivolge, di risponderle.

    Davar: parola/fatto

    Alla ricchezza semantica del verbo “shamà” corrisponde l’altrettanta ricchezza del termine “davar”: parola” e “dibber”: dire.

    Davar però non significa solo “parola” bensì anche “fatto, accadimento, evento”.

    Se “davar” oltre che parola significa “fatto”, essa può essere oltre “fatto” anche “parola”. 

    Noi occidentali facciamo fatica a cogliere il nesso tra queste due valenza.

    Noi tenderemmo istintivamente a privilegiare l’accezione di “davar” come “parola”: nella cultura biblica questo è impossibile: tra i due significati ci è un’inscindibile interazione (cfr. Dei Verbum, 2ss).

    Per capire meglio bisogna partire dal fatto che le culture antiche riconoscevano il valore dell’uomo a partire dal valore della sua parola. L’uomo – per esse- è la sua parola, si misura sulla sua parola.

    Per analogia: l’unica parola che ha veramente il massimo valore è quella di Dio, in quanto infallibile e vera: fa quel che dice e dice quel che fa.

    In Israele l’uomo vero non è il chiacchierone e neppure uno che tace. E’ piuttosto uno che ascolta e pensa molto, e che quando parla pesa, pondera le sue parole. Quando parla sa quel che dice, manifesta senza paura la verità del suo cuore, e si assume la responsabilità delle sue parole. Ciò che dice è e ciò che dice fa. (cfr. Sir 21,25-26; 27,5-6… Mt 5,37).

    Questo substrato antropologico ha fatto sì che Israele si sia trovato un giorno a fare i conti con la serietà della “Parola” di Dio mediata dall’incontro con i mediatori di cui Dio stesso si è servito. Una parola che si presenta sovrana della storia, in grado immancabilmente di fare quel che dice. Questo incontro ha fatto sì che si applicasse a Dio l’antropomorfismo del suo “parlare” all’uomo. Dio di per sé non “parla”, ma gli uomini sì.

    Dunque la riflessione teologica di Israele sull’operatività della Parola suppone l’esperienza dell’incontro con questa stessa parola nella storia mediata dai servi della Parola.

    Ma l’incontro con la Parola per l’uomo diviene scontro in quanto è inevitabile che la Parola debba fare i conti con la diffidenza e la sfiducia da parte dell’ascoltatore.

    Teniamo presente che il punto di arrivo dell’ascolto non si risolve infatti in qualche azione isolata e puntuale, ma piuttosto richiede un atteggiamento permanente, un modo diverso di stare al mondo, che può essere riassunto con l’espressione: “Cammina davanti a Dio, con lui, sulla sua Parola” (cfr. Gn 17,1; Mi 6,8).

    Il servizio della Parola

    Parlare di primato della Parola significa “dire la Parola” e dunque del “servizio della Parola”. Infatti non c’è Parola se non c’è parola (cfr. Rm 10,14).

    Il Dio della rivelazione biblica parla agli uomini servendosi della mediazione di altri uomini.

    A questo punto possiamo già ricavare due coordinate fondamentali dell’esperienza religiosa di tipo biblico e che scaturiscono proprio dal primato della parola:

    1. la centralità del servizio della Parola
    2. la centralità dell’ascolto.

    Quando si parla di “servizio della Parola” occorre parlare di una molteplicità di servizi.

    Infatti questo servizio abbraccia una grande varietà di forme che vanno dalla più semplice ed elementare divinazione (es. il consulto degli “urim”) a quella più raffinata che è la “profezia”.

    L’A.T. presenta almeno sei tipi diversi di servizi e relativi mediatori:

    –         l’angelo del Signore o di Dio

    –         il sacerdote

    –         il veggente (ro’eh)

    –         il visionario (horeh)

    –         l’uomo di Dio

    –         il profeta (navì)

    Quest’ultimo è il termine più usato (più di trecento volte) ma è alquanto generico. Navì è “colui che parla davanti” ovvero che ha il coraggio di dire in faccia le cose come stanno (cfr. 1Re 22; 2Re 5); ed è “colui che parla in vece e in nome di un altro”. Tali valenze comportano un raggio alquanto allargato di tale servizio alla Parola.

    La pedagogia della Parola

    L’intento fondamentale della Parola, a cui spetta sempre l’iniziativa, è quello di porsi al servizio dell’uomo proponendogli un rapporto di comunione e collaborazione (è il tema fondamentale dell’Alleanza).

    Ma nel perseguire questo intento la Parola incontra grandi ostacoli: anzitutto la paura e la diffidenza dell’uomo nei riguardi di Dio; vi si aggiungono inoltre l’incredulità, lo scetticismo, il sospetto. Il tutto in qualche modo “avvalato” “giustamente” dalla kenosi con cui la Parola generalmente si manifesta.

    Cosa ne segue?

    Che la Parola non può fare breccia nel cuore dell’uomo se non conquistando anzitutto la sua fiducia.

    Come raggiunge questo obiettivo?

    Mettendo anzitutto in conto queste resistenze e sviluppando al fine di superarle una sua pedagogia che prevede un suo accostarsi all’uomo non in modo casuale, irruente, improvviso, violento ma al contrario in modo graduale, progressivo, ovvero proporzionato alla capacità e alla disponibilità all’ascolto dell’uomo stesso.

    Potremmo enucleare in sei tappe tale pedagogia adottata dalla Parola

    1. l’iniziativa della Parola. E’ lei che cerca l’uomo rassicurandolo: “Non temere!”
    2. Offerta della solidarietà di Dio al fine di realizzare la vita dell’uomo.
    3. Dialogo con l’incredulità dell’uomo, persuasione circa l’affidabilità della proposta.
    4. Indicazione di una via e dei mezzi al fine di verificare tale affidabilità.
    5. Se l’uomo accetta: offerta della propria guida e accompagnamento: “Io sarò con te”
    6. Compiuta la verifica nuovo invito alla collaborazione in funzione della sua vita per una realizzazione ancora più ampia.

    Tale pedagogia la possiamo chiamare: pedagogia della promessa.

    Infatti quando la Parola si presenta all’uomo gli si fa incontro come una promessa per la sua vita.

    Si tratta di una promessa unilaterale, gratuita, incondizionata, attraverso la quale Dio offre all’uomo di porsi al servizio della sua vita. Dio in cambio non chiede nulla, non pretende di insegnare nulla (non fa la predica!), né lo esorta ad alcunché. Domanda solo fiducia.

    Non è questa già una buona notizia?

    L’ebraico non conosce il termine “promessa”. In tutti i testi questa valenza è sempre resa con la parola “davar”.

    Infatti, come abbiamo visto, la pregnanza di davar “parola-fatto riportata a Dio indica una davar che immancabilmente produce, effettua quel che dice, ovvero costituisce già attuale il futuro che annuncia. Tale pregnanza esime dalla ricerca di un vocabolo specifico per “promessa”.

    Affermare che la parola si presenta all’uomo come promessa comporta un’importante conseguenza:

    l’uomo non può dare fiducia alla parola fintanto che non ne sperimenta, almeno in parte, l’affidabilità ovvero l’adempimento.

    La Scrittura testimonia che il più delle volte l’uomo non giunge a dare fiducia alla parola, al profeta, a Dio se non dopo averlo messo alla prova secondo le indicazioni della Parola stessa, verificandone così l’autenticità e l’attendibilità.

    Ovvero l’uomo biblico non giunge alla fede, se non sperimenta il già ( è la promessa innesco/caparra). Il che non esclude, anzi è in vista, del non ancora, ovvero un successivo rilancio per un’ulteriore promessa ancor più vasta (la promessa maggiore).

    La pedagogia della parola nell’AT mira a condurre l’uomo ad una fiducia assoluta nella promessa, tale da far un giorno a meno della rassicurazione dell’adempimento parziale storico (cfr. il sacrificio di Isacco Gn 22).

    La fiducia pura nella promessa è il modello della speranza biblica. Paolo la chiamerà: “speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18).

    Il Kerigma

    Che nome daremo a tale servizio della Parola? Un servizio che asseconda la pedagogia della Parola stessa al servizio dell’uomo?

    Tale servizio nella tradizione biblica si chiama: Kerygma.

    Tale servizio si presenta perciò come il fondamento per ogni ulteriore servizio della Parola: ovvero come fondamento della catechesi e della parenesi.

    Concludendo

    Al termine di queste nostre riflessioni possiamo così giungere a specificare alcune coordinate essenziale su cui si struttura l’esperienza biblica e il servizio della Parola che ad essa fa riferimento:

    1. 1.      la centralità del servizio della Parola
    2. 2.      la centralità dell’ascolto
    3. 3.      la centralità della promessa
    4. 4.      la centralità dell’adempimento (anche parziale)
    5. 5.      la centralità del kerygma come servizio della Parola/promessa
    6. 6.      la dipendenza delle altre forme di servizio alla parola del Kerygma.
  • 13 Nov

    L’uomo: un pellegrino
    sempre in attesa

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Il poeta G. Gibran, nel suo libro più famoso intitolato, Il Profeta scrive: Noi gli erranti sempre alla ricerca della strada più solitaria, mai iniziamo un giorno là dove ne abbiamo terminato un altro, ed ogni levare di sole non ci trova là dove abbiamo ammirato la luce del vespro. Anche quando la terra dorme viaggiamo”.

    L’uomo è presentato come un pellegrino , un pellegrino del tempo. Un tempo inarrestabile, che scorre senza che possa essere afferrato mai, l’uomo non ne è il padrone.

    Ma è proprio questa “drammaticità” del tempo che scorre che colloca l’uomo sempre in posizione nuova nei confronti del suo passato e del suo futuro. E’ il tempo che permette un cammino, un progresso, una crescita, una progettualità, un’attesa.

    Il cammino, il pellegrinaggio,è stato assunto nelle diverse culture come una simbolica di primaria importanza per esprimere lo scorrere del tempo e della vita: per affermare che la vita è un cammino verso un incontro.  Bene perciò il filosofo G. Marcel definisce l’uomo come viator, viaggiatore.

    L’uomo dunque simbolizza se stesso, come un essere in cammino. Ma verso dove? Quale significato dare all’ineffarrabile scorrere del tempo e della vita? Si tratta di darvi un significato.

    Certamente si vuol camminare verso la pienezza della vita e della gioia. Dalla vita attendiamo proprio questo. Tutto l’uomo è teso a questa meta ma è dato costante che la nostra attesa rimane sempre insoddisfatta. Non fosse altro perché sappiamo che all’ultimo orizzonte si delineano le sponde del fiume Lete con la barca di Caronte pronta a farci transitare, per l’ultimo viaggio!

    Ma dentro di sé la nostalgia del desiderio di vita e di gioia permane, non si può soffocare: “esule o pellegrino, in fuga o in marcia, l’uomo è spinto da una nostalgia struggente. Un disagio lo rende inquieto; un dolore lo porta a tornare alla sua vera casa. In nessun luogo trova la patria stabile del suo desiderio. Per questo è essenzialmente un camminatore” (S. Fausti).

    Il cammino della vita e della storia, con le attese che comporta, suggerisce il progredire, il crescere. Dunque il cammino presuppone la durata nel tempo, la pazienza, l’accettazione dell’inevitabile fatica e del rischio, il ravvivare in noi la consapevolezza del cammino stesso e della meta da raggiungere, onde evitare il rischio di percorrere la strada in modo distratto, superficiale e in fin dei conti insensato e inconsapevole.

    Senza durata, senza attesa, non vi è vita né storia, non vi è crescita. E l’uomo non si trova già bell’e fatto all’inizio, quando esce dal grembo della madre: occorre una vita per costruire l’uomo e … non basta! L’esistenza dell’uomo (e come individuo e come società)  ha bisogno perciò della storia. Solo l’uomo è capace di storia (Heidegger parlerà di geschicthe: storia vivente).

    Ma questo dato di fatto forse ovvio per noi non bisogna darlo poi per scontato: esso è il frutto, possiamo affermarlo a pieno diritto, di una rivelazione.

    Se guardiamo alle civiltà arcaiche (all’antica Grecia per esempio o anche alle filosofie orientali) restiamo colpiti dal fatto che il tempo è svuotato in un certo senso di rilevanza. In esse è viva l’angoscia della vita che sfugge sia a livello di individuo come di cosmo… occorre sfuggirvi ad ogni costo. Lo strumento è la visione mitica di un tempo ciclico,  ovvero di un eterno ritorno e incessabile ripetersi delle cose: e questo rende possibile il recupero di tutto ciò che sembra vada irrimediabilmente perduto. Il viaggio di Ulisse, dove l’attesa si risolve in un ritorno e non in un avanzare, ne è l’emblema più significativo. Ovvio che per far questo sia indispensabile sganciarsi dal valore della continuità degli eventi quotidiani; essi assumono significato solo alla luce di un proiettarsi al di là di essi, in un tempo mitico che solo è reale.

    Sulla stessa linea, ma con motivazioni diverse, le filosofie dei secoli passati, tralasciando l’insegnamento biblico, posero l’accento e l’attenzione sugli aspetti immutabili dell’uomo: ovvero sulla sua essenza, sulla sua natura, sulla sua anima. La sua storicità passava in second’ordine. Non interessava più di tanto perché ciò che è più vero e più importante è ciò che è al di là del tempo, ciò che è eterno.

    Per la storia rimaneva uno sguardo di commiserazione e rassegnazione: una povera valle di lacrime dalla quale occorre sfuggire al più presto. E dove l’attesa si risolveva solo in un al di là posto dopo la morte.

    La filosofia esistenzialista porterà al centro proprio l’uomo, in questo figlia del rinascimento e dell’illuminismo, nel suo collocarsi nel mondo e nella storia. L’esistenza appare come un “cammino”, un “compito da assolvere”. Si è compreso, reagendo alla visione precedente che guardava all’essenza e all’eterno, che l’esistenza umana è esistenza temporale, che non si realizza in un solo momento, ma in una continua successione di tempi, strettamente vincolati tra loro. Ed è così che si approda ad una visione di uomo “adulto”, trasformato dalla storia che vive ma altresì capace di trasformare la storia stessa.

    In questa linea nuove correnti filosofiche accentueranno che ormai l’unico protagonista della storia è l’uomo e solo lui. (Si pensi al marxismo, alle correnti storicistiche, ad autori esistenzialisti come J.P. Sartre). Per essi: “L’uomo sarà in seguito, e sarà quale si sarà fatto… l’uomo non è altro che ciò che si fa”). Ma queste filosofie fanno sì che le attese si restringano all’esistere limitato in questo mondo con tutta la loro carica di contraddittorietà e delusione. La nostra attesa ha invece come misura l’infinito.

    Uno sguardo alla nostra cultura rivela un ulteriore accostamento alla storia.

    L’uomo di oggi ha scelto di rinunciare alla storia – e quindi all’attesa – per ripiegarsi sull’istante. Il momento attuale va vissuto con la massima intensità (di piacere) possibile. La nostra cultura vede una ricerca affannosa, angosciata di una moltiplicazione di istanti, che vorrebbero tentare di riempire il vuoto lasciato da una mancanza “di attesa”verso il futuro e “di memoria” per il proprio passato. Disancorato dal passato e dal futuro l’uomo di oggi si ritrova sospeso sull’istante, ma sospeso sul vuoto. E nessuno è più perso di colui che non sa dove andare o di chi e che cosa attendere.

    Ma la rivelazione biblica si parla di un Dio personale e creatore, che intesse un dialogo con l’uomo. Un Dio che ha dato un inizio alla storia e al quale questa appartiene. Con la rivelazione nasce il concetto di storia come luogo teologico, in cui si intesse un rapporto, una storia di alleanza che apre la storia continuamente al futuro di Dio e dunque all’attesa del suo compimento, impedendo al credente di ricadere sia in una visione ciclica della storia stessa, come nel suo svuotamento di significato.

    Ciascuno di noi si colloca in un punto preciso del tempo, con una tensione aperta a diverse possibilità. Ci vediamo situati in una tensione tra un passato già realizzato e un futuro sempre aperto e da costruire insieme al Signore altrimenti “si lavora invano”.

    Per ciascuno il presente è l’aspetto predominante, l’unico realmente posseduto. Un presente però che si estende sia nelle radici del passato come nell’attesa di un futuro che sappiamo essere nelle mani di Dio. Il passato è passato in quanto rimane nel presente come “memoria”, fondamento del mio attuale esistere. Il futuro appare futuro perché già ora, nel presente è anticipato come appello, compito, progetto di crescita. L’uomo è soggetto di speranza.

    Si tratta dunque di un presente teso dinamicamente tra passato e futuro. Se ciò non fosse sarebbe ridotto ad un semplice istante sospeso nel vuoto, nel nulla.

    Non possiamo assumere atteggiamenti errati.

    Essi potrebbero essere sintetizzati così:

    –       il fatalismo e la rassegnazione: è una forte tentazione in questa fase storica di passaggio in cui ci  sembra  di brancolare del buio.

    –       L’alibi: il cercare giustificazioni per non assumersi la resposabilità del proprio e altrui cammino

    –       Il ripiegamento sull’istante privo di “memoria” e di “speranza”, e di progettualità.

    Possiamo assumere atteggiamenti corretti:

    –       La consapevolezza che la storia è in mano a Dio che ci annuncia in Cristo la promessa della vita divina in comunione con lui. Ci ha rivelato perciò il nostro destino ultimo.

    –       La nostra storia non è dunque un girare in tondo ma un pellegrinaggio verso la meta, il ritorno alla casa del Padre. Essa ha una direzione e non possiamo fallire!

    –       Sapremo guardare alla nostra storia e alla storia con gli occhi di Dio, ma occorre un cuore puro, per scorgere che in ogni istante, sia buono o cattivo, Egli ci è vicino e ci apre dinanzi una strada da percorrere, saremo aperti dunque alle sorprese di Dio.

    –       Non vivremo dunque da rassegnati ma responsabili nel camminare ogni giorno nell’umiltà di un sì ai passi che Dio ci chiede di compiere.

    –       Infine consapevolezza che non camminiamo da soli: siamo in cordata con la Chiesa tutta, con i santi che in cielo intercedono, con gli angeli che ci accompagnano. Non siamo dunque mai soli.

     

  • 12 Nov

    L’esychia

     Archimandrita Kallistos: da “Sobornost” N ° 3- 19

    tratto da: M. BRUNINI: La preghiera del cuore nella spiritualità orientale, ed. Messaggero

     I.                  I DIFFERENTI LIVELLI DELL’ESYCHIA

    Una delle storie dei “Detti dei Padri del deserto” descrive una visita di Teofilo, arcivescovo di Alessandria. ai monaci di Scete. Ansiosi di fare una buona impressione al loro illustre ospite. i monaci riuniti chiesero all’abate Pambo: “Di’ qualcosa di edificante all’Arcivescovo“. Ed il vecchio rispose: “Se non è edificato dal mio silenzio, tanto meno sarà edificato dalle mie parole“. Questa storia indica l’estrema importanza data dalla tradizione del deserto alla esychia, la qualità dell’immobilità e del silenzio. “Dio ha scelto l’esychia al di sopra di ogni altra virtù” è detto altrove nei “detti dei padri del deserto”. Come insiste S. Nilo di Ancira: “È impossibile che l’acqua infangata si possa chiarificare se si continua a rimestarla; ed è impossibile diventare monaco senza l’esychia“.

    Esychia, comunque, significa ben di più della semplice astenzione dal parlare fisico. Il termine può essere invece interpretato a molti livelli differenti. Tentiamo di distinguere i vari significati, partendo dai più esteriori per arrivare ai più profondi ed interiori.

         Esychia e solitudine

    Nelle fonti più antiche il termine “esicasta” e il relativo verbo “esichazo” generalmente denota un monaco che vive in solitudine, da eremita, a differenza di quelli che sono membri di un cenobio. Questa accezione si ritrova già in Evagrio pontico ( + 399) e in Nilo e Palladio (inizi V secolo). Si ritrova pure nei “Detti dei Padri del deserto“, in Cirillo di Scitopoli, in Giovanni Mosco, Barsanufio, e nella legislazione di Giustiniano. Il termine esychia continua ad essere adoperato con questo significato anche in autori posteriori, come in S. Gregorio il Sinaita ( + 1346). A questo livello il termine si riferisce soprattutto alla relazione, nello spazio, di un uomo in rapporto ad altri. Questo è il significato più esteriore.

    Esychia e la spiritualità della cella

    Esychia – dice l’abate Rufo nei “Detti” – è dimorare nella propria cella nel timore e nella conoscenza di Dio, astenendosi completamente dal rancore e dalla vanagloria. Tale esychia è madre d’ogni virtù e protegge il monaco dalle frecce infuocate del nemico“. Rufo continua mettendo l’esychia in relazione col ricordo della morte e conclude dicendo: “Siate vigilanti sulla vostra anima“. Esychia è qui associata con un altro termine chiave della tradizione del deserto, “nepsis“, sobrietà spirituale o vigilanza. Quando “esychia” è collegata con la cella, il termine si riferisce ancora alla situazione esterna, dell’esicasta nello spazio; ma questo significato è allo stesso tempo più interiorizzato e spirituale. L’esicasta, nel senso di uno che rimane con attenta vigilanza nella sua cella, non è sempre un solitario, ma può essere anche un monaco vivente in comunità. L’esicasta è, allora, uno che obbedisce all’ingiunzione di Abba Mosè: “Vai a sederti nella tua cella e la tua cella ti insegnerà tutto“. Egli tiene a mente il consiglio che Arsenio diede ad un monaco che desiderava fare opera di servizio caritatevole: – Qualcuno domandò ad Arsenio, “I miei pensieri mi tormentano dicendomi: – Non puoi digiunare, né lavorare: almeno vai a visitare gli infermi, che questo è pure una forma di amore”. L’anziano, riconoscendo i germi seminati dal demonio, gli disse: – “Vai, mangia, bevi e dormi senza fare alcun lavoro; solamente non lasciare la tua cella“. Perché egli sapeva che la permanenza paziente in cella, porta il monaco al compimento della sua vocazione.

    La relazione tra esychia e la cella è chiaramente definita in un famoso detto di S. Antonio d’Egitto: “I pesci muoiono se s’attardano in terra asciutta; similmente i monaci, quando ciondolano fuori della cella o passano il loro tempo con uomini del mondo, perdono il tono della loro esychia“. Il monaco che rimane nella cella è come la corda d’uno strumento accordato. L’esychia lo mantiene in uno stato di alerte prontezza, ma non di tensione ansiosa né di sovraffaticamento; ma se egli ciondola fuori della cella la sua anima diviene grassa e flaccida.

    La cella, compresa come struttura esterna dell’esychia, è vista soprattutto come un laboratorio di incessante preghiera. La principale attività del monaco, quando rimane immobile e in silenzio nella sua cella, è il continuo ricordo di Dio, accompagnato da un senso di compunzione e di cordoglio. “Siedi nella tua cella“, dice abba Ammonas a un vecchio che si propone d’adottare qualche ostentata forma d’ascetismo, “mangia un poco ogni giorno ed abbi sempre nel suo cuore le parole del pubblicano. Allora potrai essere salvato“.

    Le parole del pubblicano “Dio abbi compassione di me peccatore” sono strettamente parallele alla formula della preghiera di Gesù, come si trova a partire dal VI secolo in Barsanufio, nella vita di abbà Filemon ed altre fonti. Ritorneremo a tempo debito all’argomento dell’esychia e della invocazione del nome. La clausura della cella monastica e il nome di Gesù sono esplicitamente connessi in una frase di Giovanni di Gaza a proposito del suo confratello eremita Barsanufio: “La cella in cui è rinchiuso vivo come in una tomba, per amore del nome di Gesù, è il suo luogo di riposo; nessun demone vi entra, neppure il principe dei demoni, il Diavolo. È un santuario perché contiene la dimora di Dio“.

    Per l’esicasta, dunque, la cella è casa di preghiera, santuario e luogo d’incontro tra uomo e Dio. Tutto ciò è espresso con particolare efficacia nel detto “La cella dal monaco è la fornace di Babilonia, in cui i tre fanciulli trovarono il Figlio di Dio; è la colonna di nubi da cui Dio parlò a Mosè“. Questa nozione della cella come punto focale della Presenza divina, si ritrova nelle parole d’ un eremita copto contemporaneo, Abuna Matta al-Meskin. Quando un visitatore gli chiese se avesse mai pensato di andare in pellegrinaggio ai luoghi santi, egli rispose: “Gerusalemme. la santa, è qui, dentro e attorno queste caverne, perché che altro è la mia caverna se non il luogo in cui nacque il mio Salvatore, Cristo; che altro è la mia caverna se non il luogo in cui Cristo, mio Salvatore, fu condotto al riposo, che altro è la mia caverna se non il luogo da cui Egli al massimo della gloria risorse dai morti? Gerusalemme è qui, proprio qui, e tutte le ricchezze spirituali della città santa si possono trovare in questa radura“.

    A questo punto, ci stiamo muovendo velocemente dal significato esteriore a quello più interiore del termine “esychia”. Interpretato in termini di spiritualità della cella, la parola significa non solo una condizione esteriore, fisica, ma anche uno stato dell’anima. Denota l’attitudine d’uno che sta nel suo cuore di fronte a Dio. “La cosa principale” dice il vescovo Teofane il Recluso (1815-94) “è stare di fronte a Dio con la mente nel cuore, e continuare a restare di fronte a Lui incessantemente, notte e giorno, fino al termine della vita“. E questo è, praticamente, ciò che la quiete ed il silenzio significano per l’esicasta.

    Esychia e il “ritorno in sé stessi”

    Questa comprensione più interiorizzata di “esychia” è perfettamente espressa nella definizione classica dell’esicasta come la ritroviamo in S. Giovanni Climaco ( + ca. 649): “L’esicasta è uno che cerca di confinare il suo essere incorporeo nella sua casa corporea, per quanto ciò possa parere paradossale“. L’esicasta, nel vero senso del termine, non è qualcuno che ha viaggiato all’esterno verso il deserto, qualcuno che si separa fisicamente dagli altri, chiudendo la porta della sua cella, ma uno che “ritorna in sé stesso” chiudendo la porta della sua mente. “Ritornò in sé” è detto del figliuol prodigo e questo è ciò che anche l’esicasta fa. Egli risponde alle parole di Cristo “Il Regno di Dio è dentro di voi” e cerca di “guardare il cuore con tutta l’attenzione” (Pr. 4,23).

    Reinterpretando la nostra definizione originale dell’esicasta come di un solitario che vive nel deserto, possiamo dire che la solitudine è uno stato dell’anima, non un fatto di collocazione geografica, il deserto reale si trova dentro, nel cuore.

    Il “ritorno in sé” è descritto con precisione da S. Basilio il Grande ( + 379) e da S. Isacco di Siria (VII sec.). “Quando la mente non è più dispersa nelle cose esterne“, scrive Basilio, “né sperduta nel mondo a causa dei sensi, allora essa ritorna in sé; e per mezzo di sé stessa ascende al pensiero di Dio“. “Siate in pace con la vostra anima” intima Isacco, “e allora cielo e terra saranno in pace con voi. Entrate prontamente nel tesoro che è dentro di voi, e così vedrete le cose che sono in cielo; perché una sola è l’entrata che conduce ad entrambi. La scala che porta al Regno è nascosta nella vostra anima. Sfuggite il peccato, immergetevi in voi stessi, e nella vostra anima scoprirete la scala su cui ascendere“.

    A questo punto sarà utile fare una breve pausa e distinguere con maggior precisione tra i significati interiore ed esteriore della parola “esychia”.

    In un famoso detto di abba Arsenio si indicano tre livelli. Quando era ancora tutore dei figli dell’imperatore nel palazzo, Arsenio pregò Dio: “Mostrami come posso essere salvato“. E una voce rispose: “Arsenio. sfuggi dagli uomini e sarai salvato“. Egli si ritirò nel deserto e divenne un solitario; e poi pregò ancora, con le stesse parole. Questa volta la voce rispose: “Arsenio, sta’ lontano, sta, in silenzio, sta’ in quiete, perché queste sono le radici della libertà del peccato“. Fuggire gli uomini, restare in silenzio, rimanere in quiete: tali sono i tre gradi dell’esychia. Il primo è spaziale, il “fuggire gli uomini“, esternamente, fisicamente. Il secondo è ancora esterno, il “rimanere in silenzio“, il desistere dal parlare. Nessuna di queste cose può trasformare un uomo in un reale esicasta; perché anche se vive in una solitudine esteriore e tiene la bocca chiusa, può essere interiormente pieno di irrequietezza e agitazione. Per conseguire la vera quiete è necessario passare dal secondo livello al terzo, dall’esychia esterna a quella interiore, dalla mera privazione di parlare a quella che S. Ambrogio di Milano chiama “Negotiosum silentium“, il silenzio attivo e creativo.

    S. Giovanni Climaco distingue gli stessi tre livelli: “Chiudi la porta della tua cella materialmente, la porta della lingua al parlare, e la porta interiore ai cattivi spiriti“. Questa distinzione tra i livelli di esychia, ha importanti implicazioni per i rapporti dell’esicasta con la società. Uno può fuggire nel deserto visibilmente e geograficamente, eppure nel cuore rimanere ancora nel mezzo della città; inversamente un uomo può continuare a restare fisicamente nella città ed essere esicasta vero nel cuore. Per un cristiano ciò che importa non è la posizione spaziale, ma il suo stato spirituale. È vero che alcuni scrittori dell’oriente cristiano, e in particolare S. Isacco di Siria, sono giunti molto vicino all’affermazione che non ci può essere esychia interiore senza solitudine esteriore. Ma questo non è certo opinione comune. Ci sono storie nei “Detti”, in cui laici, completamente impegnati in una vita di servizio attivo nel mondo, sono paragonati ad eremiti e solitari; un dottore d’Alessandria è considerato, per esempio, spiritualmente pari a S. Antonio il grande stesso. S. Gregorio il Sinaita rifiutò la tonsura ad un suo discepolo chiamato Isidoro, e lo rimandò dal Monte Athos a Tessalonica, per essere di esempio e guida ad un gruppo di laici. Ben difficilmente Gregorio avrebbe potuto fate questo, se avesse considerato la vocazione di esicasta urbano come una contraddizione. S. Gregorio Palamas insiste, nella maniera più chiara, che il comando di S. Paolo “pregate incessantemente” si applica a tutti i cristiani senza eccezioni. A questo proposito si dovrebbe ricordare che, quando scrittori ascetici greci come Evagrio o Massimo il confessore, usano i termini “vita attiva” e “vita contemplativa” per essi “vita attiva” non significa la vita di servizio diretto al mondo, come la predicazione, l’insegnamento, il lavoro sociale ecc., ma la battaglia interiore per sottomettere le passioni ed acquistare le virtù. Usando il termine in questa accezione, si può dire che molti eremiti e molti religiosi viventi in stretta clausura, sono ancora coinvolti nella “vita attiva“.

    E così ci sono uomini e donne completamente impegnati nella vita di servizio al mondo che pure posseggono la preghiera del cuore; e di essi si può dire che vivono la “vita contemplativa“. S. Simeone il nuovo teologo ( + 1022) affermava che la pienezza della visione di Dio è possibile “nel mezzo delle città” come “nelle montagne e nelle celle“. Egli credeva che persone sposate, con lavori secolari e bambini, e gravati delle ansietà di condurre una grande famiglia, potessero nondimeno ascendere le vette della contemplazione; S. Pietro aveva obblighi familiari eppure il Signore lo chiamò a salire il Tabor e ad assistere alla gloria della trasfigurazione. Il criterio non sta nella situazione esterna, ma nella realtà interna. E così come è possibile vivere nella città ed essere esicasta, ci sono analogamente alcuni il cui dovere è di parlare sempre e che tuttavia sono interiormente in silenzio. Secondo le parole di abba Poemen, “un uomo appare rimanere silenzioso e pure condanna gli altri in cuore: una tal persona sta parlando tutto il tempo. Un altro parla da mattina a sera eppure resta in silenzio; cioè, egli non dice nulla all’infuori di ciò che è utile agli altri“.

    Ciò concorda esattamente con la posizione degli startsi come S. Serafino di Sarov e i padri spirituali di Optimo della Russia del XIX secolo: costretti dalla loro vocazione a ricevere un flusso interminabile di visitatori – dozzine e anche centinaia in un sol giorno – non perciò tralasciavano la loro esychia interiore. Invero, era proprio a causa di questa esychia interiore che potevano agire da guida agli altri. Le parole che dicevano a ciascun visitatore erano cariche di potere, perché erano parole che provenivano dal silenzio.

    In una delle sue risposte, Giovanni di Gaza fece una chiara distinzione tra silenzio interiore ed esteriore. Un fratello vivente in una comunità che trovava nei suoi doveri di lavoro come falegname una causa di disturbo e distrazione chiese, se non avesse dovuto divenire eremita e “praticare il silenzio di cui i padri parlano“. Giovanni non fu d’accordo “come i più” rispose “tu non capisci cosa s’intende col silenzio di cui parlano i padri. Silenzio non consiste nel tenere la bocca chiusa. Un uomo può dire diecimila parole utili, e ciò vale come silenzio; un altro dice una sola parola non necessaria, ed è rompere il comandamento del Signore: Nel giorno del giudizio renderete conto di ogni parola oziosa che esce dalla vostra bocca“.

    Esychia e povertà spirituale

    La quiete interiore, quando è intesa come custodia del cuore e ritorno in sé, implica un passaggio dalla molteplicità all’unità, dalla diversità alla semplicità e alla povertà spirituale. Per usare la terminologia di Evagrio, la mente deve diventare “nuda. Questo aspetto dell’esychia è reso esplicito in un’altra definizione di S. Giovanni Climaco: “Esychia è mettere da parte i pensieri“. In ciò egli adatta una citazione di Evagrio “preghiera è mettere da parte i pensieri“. La esychia implica un progressivo autosvuotamento, in cui la mente è spogliata di tutte le immagini visuali e di tutti i concetti umani, e così contempla in purezza il mondo di Dio. L’esicasta, da questo punto di vista, è uno che è avanzato dalla “praxis” alla “theoria. Dalla vita attiva alla contemplativa. S. Gregorio dei Sinai contrappone l’esicasta al “praktikos” e continua a parlare “degli esicasti che son contenti di pregare a Dio solo nel loro cuore e di astenersi dai pensieri“. L’esicasta, quindi, non è tanto uno che s’astiene dall’incontrare e parlare con gli altri, quanto chi, nella sua vita di preghiera, rinuncia ad ogni immagine, ogni parola, e ragionamento discorsivo, e che è “sollevato al di sopra dei sensi nel puro silenzio“.

    Questo “puro silenzio”, sebbene sia denominato “povertà spirituale“, è lontano dall’essere una semplice assenza o privazione. Se l’esicasta spoglia la propria mente da ogni concetto di provenienza umana, per quanto sia possibile, il suo scopo in questo “autoannullamento” è del tutto costruttivo. Che egli possa essere riempito dall’Onnicomprensivo senso della presenza Divina, è fatto notare bene da S. Gregorio il Sinaita: “Perché dilungarsi nel parlare? La preghiera è Dio, che fa ogni cosa in ogni uomo“. “La preghiera è Dio“; “non è tanto qualcosa che io faccio, ma qualcosa che Dio sta facendo in me” … “non io, ma Cristo in me” . Il programma dell’esicasta è delineato esattamente nelle parole del Battista riguardo al Messia: “Egli deve crescere ma io diminuire“.

    L’esicasta cessa le sue attività, non per essere ozioso, ma per entrare nella attività di Dio. Il suo silenzio non è assenza, non è negativo – una pausa vuota tra due parole, un breve riposo prima di riprendere il discorso – ma del tutto positivo; un atteggiamento di attenzione, di vigilanza, e soprattutto di ascolto. L’esicasta è per eccellenza colui che ascolta, che è aperto alla presenza di un Altro: “Stai in quiete e sappi che io sono Dio” .

    Nelle parole di S. Giovanni Climaco “L’esicasta è uno che dice dormo, ma il mio cuore resta vigile” . Ritornando in sé stesso, l’esicasta entra nella camera segreta del suo cuore e può così, restando là di fronte a Dio, ascoltare il linguaggio senza parole del suo creatore. “Quando preghi” osserva uno scrittore ortodosso contemporaneo della Finlandia “devi tu stesso star in silenzio e lasciar parlare la preghiera“. – o più esattamente – lasciar parlare Dio. L’uomo dovrebbe sempre star zitto e lasciar Dio solo parlare. Questo è ciò che l’esicasta mira ad ottenere. Esychia perciò denota la transizione della “mia” preghiera alla preghiera di Dio che opera in me – o per usare una terminologia del vescovo Teofane – dalla preghiera strenua o laboriosa, alla preghiera ‘che agisce da sé‘ o che ‘muove da sé’.

    Il vero silenzio interiore o esychia, nel senso più profondo, è identico all’incessante preghiera dello Spirito Santo dentro di noi. Come dice S. Isacco di Siria “Quando lo Spirito prende dimora in un uomo questi non cessa di pregare, perché lo Spirito continuerà a pregare costantemente in lui. Allora né nel sonno, né nella veglia, la preghiera potrà essere separata dalla sua anima; ma quando mangia, quando beve, quando giace e quando fa qualsiasi lavoro, i profumi della preghiera saliranno spontaneamente dal suo cuore“.

    Altrove Isacco paragona questo entrare nella preghiera spontanea, ad un uomo che varca una porta, dopo che la chiave è stata girata nella serratura, e al silenzio dei servi quando il padrone sopraggiunge fra loro. “Ciò che avviene in seguito è l’ingresso nel tesoro. A questo punto ogni bocca ed ogni lingua tace. Il cuore, tesoriere dei pensieri, la mente, che governa i sensi, e lo spirito, quell’uccello veloce, tutti debbono stare quieti; perché è arrivato il padrone della casa“. Compresa in questo senso, come ingresso nella vita e nell’attività di Dio, l’esychia è qualcosa che, durante l’età presente, gli uomini possono ottenere solo ad un grado limitato e imperfetto. È una realtà escatologica, che è riservata nella sua pienezza nell’età a venire. Nelle parole di Isacco “Il silenzio è un simbolo del mondo futuro“.

    II.               ESYCHIA E PREGHIERA DI GESU’

     In linea di principio esychia è un termine generico per la preghiera interiore, ed abbraccia una varietà di più specifici modi di pregare. In pratica, comunque, la maggioranza degli scrittori ortodossi più recenti, usano la parola per designare un sentiero spirituale in particolare: l’invocazione del nome di Gesù. Occasionalmente, sebbene con minor giustificazione, il termine “esicasmo” è impiegato in un senso ancor più ristretto ad indicare la tecnica fisica e gli esercizi di respirazione che talvolta sono usati in connessione con la “preghiera di Gesù”.

    L’associazione dell’esychia col nome di Gesù e, come sembra, col respiro – si ritrova già in S. Giovanni Climaco: “Esychia è restare di fronte a Dio in incessante adorazione. Fate che il ricordo di Gesù sia unito al vostro respiro e allora conoscerete il valore dell’esychia“. Qual’è la relazione tra preghiera di Gesù ed esychia? In che modo l’invocazione del Nome aiuta il raggiungimento del silenzio interiore, ora descritto?

    La preghiera, è stato detto, è “metter da parte i pensieri“, un ritorno dal molteplice all’unità. Ora chiunque faccia un serio sforzo di pregare interiormente, stando di fronte a Dio, con attenzione raccolta, diviene immediatamente conscio della sua disintegrazione interiore – della sua incapacità di concentrarsi nel momento presente, nel “Kairos”. I pensieri si muovono senza posa nella testa, come mosche ronzanti (vescovo Teofane) o come il capriccioso saltare di ramo in ramo delle scimmie (Ramakrishna). Questa mancanza di concentrazione, questa incapacità di essere qui ed ora con l’intero essere, è una delle più tragiche conseguenze della caduta. Che si deve fare? La tradizione ascetica dell’Oriente ortodosso distingue due principali metodi per superare i “pensieri”. Il primo è diretto: contraddire i nostri “logismi”, incontrarli faccia a faccia, tentando di espellerli per uno sforzo di volontà. Un tal metodo può, comunque, dimostrarsi controproducente. Quando sono represse con violenza, le nostre fantasie, tendono a tornare con forza accresciuta. A meno che si sia estremamente sicuri di sé; è più sicuro usare il secondo metodo che è indiretto. Invece di combattere direttamente i pensieri e cercare di scacciarli con uno sforzo di volontà, si può cercare di distogliere l’attenzione da essi e guardare altrove. La strategia spirituale diviene così positiva invece che negativa: l’obiettivo immediato non è tanto svuotare la mente da ciò che è male, quanto di riempirla di ciò che è buono. E questo secondo metodo che è raccomandato da Barsanufio e Giovanni di Gaza. “Non contraddire i pensieri suggeriti dai tuoi nemici” consigliano “perché è esattamente ciò che vogliono, e non desisteranno. Ma rivolgiti al Signore per ricevere aiuto contro di essi, ponendo di fronte a Lui la tua impotenza; perché Lui è capace di espellerli e di ridurli a niente“.

    È evidente che non è possibile fermare il flusso dei pensieri con un violento sforzo della volontà. È di poco o di nessun valore il dire a noi stessi “smetti di pensare”; si potrebbe dire ugualmente “smetti di respirare”. “La mente razionale non può restare oziosa” insiste S. Marco il monaco. Come posso conseguire, la povertà spirituale ed il silenzio interiore? Anche se non è possibile far desistere completamente l’inquieta intelligenza dalla sua instabilità, ciò che si può fare è semplificare e unificare la sua attività ripetendo in continuazione una certa formula di preghiera. Il flusso di immagini e pensieri continuerà, ma si sarà gradualmente resi capaci di distaccarci da esso. L’invocazione ripetuta ci aiuterà a “lasciare andare” i pensieri presentatici dal nostro io conscio o inconscio. Questo “lasciar andare” sembra corrispondere a ciò che Evagrio aveva in animo quando parlava della preghiera come di un “mettere da parte” i pensieri. Non un selvaggio conflitto, non una campagna spietata di furiosa aggressione, ma un gentile eppur persistente atto di distacco.

    Tale è la psicologia ascetica presupposta nell’uso della preghiera di Gesù. L’invocazione del nome ci aiuta a focalizzare la nostra personalità disintegrata su un singolo punto. “Attraverso il ricordo di Gesù Cristo” scrive Filoteo del Sinai (IX-X sec.) “raccogliete la vostra mente dispersa“. La preghiera di Gesù è da considerarsi come un ‘applicazione del secondo metodo: l’indiretto, di combattere i pensieri; invece di cercare di scordare le nostre corrotte e triviali immaginazioni attraverso un confronto diretto, ci distogliamo e guardiamo al Signore Gesù; invece di fare affidamento sulle nostre forze, prendiamo rifugio nella forza e nella grazia che agiscono tramite il Nome Divino. L’invocazione ripetuta ci aiuta a “lasciar andare” e a distaccarci dal continuo chiacchierio dei nostri “logismi. Concentriamo ed unifichiamo la nostra mente, continuamente attiva, nutrendola con una dieta spirituale che è ad un tempo ricca eppur estremamente semplice. “Per fermare il continuo ribollire dei nostri pensieri” dice il vescovo Teofane “dovete legare la mente con un pensiero, o con il pensiero di uno solo – il pensiero del Signore Gesù“.

    Diadoco di Foticea (V sec.) afferma: “Quando abbiamo bloccato tutte le uscite della mente per mezzo del ricordo di Dio, allora essa ci richiede ad ogni costo qualche impegno che soddisfi il suo bisogno di attività. Diamole allora, come sola attività il Signore Gesù“.

    Tale in generale è il modo in cui la “preghiera di Gesù” può essere usata per stabilire l’esychia all’interno del cuore. Ne derivano due importanti conseguenze.

    Primo, per conseguire il suo proposito l’invocazione dovrebbe essere ritmica e regolare, e nel caso di un esicasta d’esperienza provata (ma non di un principiante che deve procedere con cautela) dovrebbe essere ininterrotta e continua per quanto è possibile. Aiuti esterni, come l’uso del comboschini (= una specie di “rosario” ortodosso) e il controllo del respiro, hanno come loro principale scopo precisamente di stabilire questo ritmo regolare.

    In secondo luogo, durante la recitazione della “preghiera di Gesù“, la mente dovrebbe essere vuota d’immagini mentali, per quanto ciò è possibile. Perciò è meglio praticare la preghiera in un luogo dove vi siano rari rumori o nessuno del tutto; dovrebbe essere recitata nell’oscurità o con gli occhi chiusi, piuttosto che di fronte ad un’icona illuminata da candele o da lampada votiva.

    Lo starets Silvano del Monte Athos (1866-1938), quando diceva la preghiera usava riporre l’orologio nell’armadio per non udire il ticchettio, e poi si tirava sugli occhi e le orecchie il suo spesso cappuccio monacale. Anche se immagini visive sorgeranno inevitabilmente quando preghiamo, non per questo debbono essere deliberatamente incoraggiate.

    “La preghiera di Gesù” non è una forma di meditazione discorsiva sugli eventi della vita di Cristo. Quelli che invocano il Signore Gesù dovrebbero avere in cuore un’intensa e bruciante convinzione che essi stanno nella immediata presenza del Salvatore, che egli è di fronte e dentro di loro, che egli sta ascoltando la loro invocazione e rispondendo a sua volta. Tale consapevolezza della presenza di Dio non dovrebbe comunque essere accompagnata da alcuna immagine visiva, ma confinata a una semplice sensazione o convinzione; come dice S. Gregorio di Nissa ( + 395) “lo Sposo è presente, ma non è visibile“.

     III.            PREGHIERA E AZIONE

    Esychia, dunque, implica una separazione dal mondo – separazione esteriore oppure interiore, e talvolta entrambe: esteriore per mezzo della fuga nel deserto; interiore attraverso il “ritorno in sé” e il “mettere da parte i pensieri. Per citare i “Detti dei Padri del deserto”: “A meno che uno non dica nel suo cuore: io solo e Dio siamo nel mondo, non troverà riposo“. “Da solo al Solo“. Ma non è forse ciò egoistico, un rifiutare il valore spirituale della creazione materiale ed un evadere le proprie responsabilità verso i propri simili? Quando l’esicasta chiude gli occhi e le orecchie al mondo esterno, come faceva Silvano nella sua cella al monte Athos, quale servizio positivo e pratico sta egli rendendo al suo prossimo?

    Consideriamo questo problema sotto due principali punti di vista. In primo luogo: l’esicaismo è colpevole delle stesse distorsioni di cui fu colpevole il quietismo nell’occidente del XVII sec.? Finora si è deliberatamente evitato di tradurre “esychia” con “quiete” a causa del significato sospetto connesso al termine “quietista”. L’esicasta non si trova in pratica a sostenete posizioni analoghe a quelle quietiste? In secondo luogo, qual’è l’attitudine dell’esicasta rispetto al suo ambiente fisico e umano? Di che utilità è agli altri?

    Il principio fondamentale del quietismo – è stato detto – è la condanna di ogni sforzo umano. Secondo i quietisti, l’uomo per essere perfetto, deve ottenere una completa passività e annichilazione della volontà, abbandonandosi a Dio, a tal punto, da non curarsi né di cielo, né d’inferno, né della propria salvezza. L’anima rifiuta coscientemente non solo tutte le meditazioni discorsive, ma anche ogni atto distinto quale il desiderio per la virtù, l’amore di Cristo, l’adorazione delle persone divine, per restare semplicemente nella presenza di Dio in pura fede. Una volta che si sia conseguito l’apice della perfezione il peccato è impossibile.

    Se questo è il quietismo, la tradizione esicasta è decisamente non quietista. Esychia significa non passività ma vigilanza, “non l’assenza di lotta ma l’assenza di incertezza e confusione. Anche qualora un esicasta sia avanzato al livello della “Theoria” o contemplazione, egli non deve desistere dall’impegno della “praxis” o azione, cercando con sforzo positivo di acquistare virtù e rigettare il vizio. Praxis e theoria, la vita attiva e la contemplativa, nel senso definito più sopra, non dovrebbero essere considerate come alternative, né come due stadi, cronologicamente successivi, l’uno cessante quando l’altro inizia; ma piuttosto come due livelli d’esperienza spirituale interpenetrantesi e presenti simultaneamente nella vita di preghiera. Ciascuno deve lottare al livello della praxis fino al termine della vita. Questo è il chiaro insegnamento di S. Antonio d’Egitto: “Il compito principale dell’uomo è d’essere memore dei suoi peccati al cospetto di Dio, e di aspettarsi tentazioni fino all’ultimo respiro. Chi siede nel deserto da esicasta ha sfuggito tre guerre: udire, parlare, vedere; ma c’è una cosa che deve continuamente combattere – la battaglia che è dentro il suo cuore“.

    È vero che l’esicasta come il quietista, non usa la meditazione discorsiva nella sua preghiera, ma sebbene l’esychia comporti un “lasciare andare” o un “mettere da parte i pensieri e immagini“, ciò non implica da parte dell’esicasta un atteggiamento di “completa passività“, né l’ assenza di “ogni atto distinto quale… l’amore di Cristo“. Il “lasciare andare” del male o dei logismi banali, durante la ripetizione della “preghiera di Gesù”, e la loro sostituzione con l’unico pensiero del Nome, non è passività, ma un modo positivo in sé stesso per controllare i pensieri. L’invocazione del nome è certamente una forma del “restare in presenza di Dio in pura fede“, ma allo stesso tempo è contrassegnata da un attivo amore per il Salvatore e da un’acuta nostalgia di condividere ancora più pienamente la vita divina. I lettori della Filocalia non possono non restare colpiti dall’ardore di devozione mostrato da autori esicasti, dal senso di immediata e personale amicizia per il “mio Gesù”.

    A differenza del quietista, l’esicasta non fa alcuna dichiarazione d’essere senza peccato o immune da tentazioni. L’apatheia o “indifferenza”, di cui parlano i testi ascetici Greci, non è uno stato di disinteresse passivo o di insensibilità, e ancor meno una condizione in cui sia impossibile peccare. “Apatheia” dice S. Isacco di Siria: “Non consiste nel non sentire più le passioni, ma nel non accettarle“. Come insiste S. Antonio, l’uomo deve “aspettarsi tentazioni fino all’ultimo respiro” e con le tentazioni c’è sempre la genuina possibilità di cadere nel peccato. “Le passioni restano vive” dice abba Abraham “ma son legate dai santi“. Quando un anziano afferma: “Sono morto al mondo” il vicino replica gentilmente “Non essere così fiducioso, fratello, finché non hai lasciato il corpo. Tu puoi dire: ‘ Sono morto ‘ ma Satana non è morto“.

    Negli scrittori Greci a partire da Evagrio, apatheia è strettamente connessa con l’amore, ciò indica il contenuto dinamico e positivo del termine. Nella sua essenza fondamentale è uno stato di libertà spirituale, in cui l’uomo è capace di levarsi verso Dio con desiderio ardente. Non è una mera mortificazione delle passioni fisiche del corpo, ma la sua nuova e rinnovata energia; è uno stato dell’anima in cui l’ardente amore per Dio e per l’uomo non lascia spazio per passioni egoistiche e animalesche. A denotare il suo carattere dinamico, S. Diadoco usa la frase espressiva: “Il fuoco dell’apatheia“. Tutto ciò a dimostrare l’abisso tra esicasmo e quietismo.

    Per venire ora alla seconda questione: dato per scontato che la tradizione esicasta di preghiera non è “quietista”, in un senso sospetto ed eretico, fino a che punto essa è negativa nei confronti del mondo materiale e antisociale nel suo rapporto con gli altri?

    Questo dubbio può essere illustrato da una storia dei “Detti” su tre amici che divennero monaci. Il primo adotta come lavoro ascetico il compito di rappacificatore, cercando di riconciliare coloro che ricorrono alla legge l’uno contro l’altro. Il secondo cura gli ammalati ed il terzo va nel deserto. Dopo un certo tempo, i primi due diventano completamente logorati e scoraggiati. Per quanto duramente combattano, essi sono fisicamente e spiritualmente incapaci di fronteggiare tutte le richieste a loro poste. Prossimi alla disperazione, vanno dal terzo monaco, l’eremita, e gli dicono i loro affanni. Dapprima egli sta in silenzio; poi versa acqua in una ciotola e dice: “guardate”. L’acqua è torbida e turbolenta. Attendono alcuni minuti. L’eremita dice “guardate ancora”. Il sedimento è affondato e l’acqua interamente chiara; essi possono vedere i propri volti come in uno specchio. “Questo è ciò che avviene – dice l’eremita – a chi vive tra gli uomini: a causa della turbolenza non vede i suoi peccati, ma quando ha imparato la quiete, soprattutto nel deserto, riconosce le proprie colpe“. Così finisce la storia. Non ci è detto come i primi due monaci abbiano applicato la parabola dell’eremita; forse saranno ritornati nel mondo portando dentro di sé qualcosa dell’esychia del deserto. In questo caso, le parole del terzo monaco sarebbero interpretate nel significato che l’azione sociale, di per sé stessa, non è sufficiente, se non c’è un centro immobile nel mezzo della tempesta. Se uno, pur nel mezzo delle sue attività, non preserva una stanza segreta nel cuore dove restare solo davanti a Dio, perde ogni senso di direzione spirituale e vien fatto a pezzi.

    Senza dubbio questa è la morale che molti lettori del XX sec. sarebbero propensi a trarre: tutti dobbiamo, in una certa misura, essere eremiti del cuore. Ma era questa l’intenzione originale della storia? Probabilmente no. Molto più facilmente essa fu intesa come propaganda in favore della vita eremitica nel senso più letterale e geografico. E ciò solleva subito l’intero problema dell’apparente egoismo e negatività di questo tipo di preghiera contemplativa. Qual è, allora, la vera relazione dell’esicasta con la società? Deve essere immediatamente ammesso che, similmente al movimento esicasta del XIV sec., nella rinascenza esicasta del XVIII sec., e nella Ortodossia contemporanea i centri principali di preghiera esicasta sono stati i piccoli sketes, gli eremitaggi che accolgono solo un minuscolo gruppo di fratelli, viventi come una piccola famiglia monastica strettamente integrata, nascosta dal mondo. Molti autori esicasti esprimono una preferenza definita per lo “skete” nei confronti dei cenobi completamente organizzati, la vita in una grande comunità è considerata troppo distraente per la pratica intensiva della preghiera interiore. Pure, anche se l’ambiente esterno dello “skete”, considerato come ideale, pochi arriverebbero al punto di affermare che esso gode un monopolio esclusivo. Sempre il criterio è quello non della condizione esteriore ma del suo stato interiore. Certe condizioni esterne possono risultare più favorevoli di altre per il silenzio interiore; ma non c’è alcuna situazione di sorta che renda il silenzio interiore del tutto impossibile.

    S. Gregorio del Sinai, come abbiamo visto rimanda il suo discepolo Isidoro nel mondo; molti dei suoi compagni più vicini del monte Athos e del deserto di Paroria divennero patriarchi e vescovi, capi e amministratori della Chiesa. S. Gregorio Palamas, insegnò che la preghiera continua è possibile per ogni cristiano; concluse egli stesso la sua vita come arcivescovo. Il laico Nicola Cabasilas (XIV sec.) servitore civile e cortigiano, amico di molti celebri esicasti, afferma con grande enfasi: “Ciascuno dovrebbe mantenere la propria arte o professione. Il generale dovrebbe continuare a comandare, il contadino a lavorare la terra, l’artigiano a praticare la sua arte. E vi dirò perché: non è necessario ritirarsi nel deserto, prendere cibo senza sapore, cambiare d’abito, compromettere la propria salute, o fare in genere cose non sagge, perché è del tutto possibile rimanere nella propria casa senza abbandonare tutto ciò che si ha, eppure praticare la meditazione continua“.

    Nello stesso spirito, Simeone il nuovo teologo insiste che la “vita più alta” è lo stato a cui Dio chiama ciascuno personalmente: “Molti considerano la vita eremitica come la più beata, altri la vita in una comunità monastica, oppure il lavoro di governo, di istruzione o di educazione o d’amministrazione della chiesa… Da parte mia, comunque, non porrei nessuno di questi modi di vita sopra gli altri, né loderei l’uno a scapito degli altri. Ma in ogni situazione è la vita per Dio ed in accordo a Dio che è veramente beata“. La via dell’esychia è dunque aperta a tutti: l’unica cosa necessaria è il silenzio interiore non esteriore. E sebbene questo silenzio interiore presupponga il “mettere da parte” le immagini nella preghiera, l’effetto finale di questa negazione è l’asserzione vivida del valore ultimo di tutte le cose e di tutte le persone in Dio. La via della negazione è contemporaneamente la via della superaffermazione.

    Ciò risulta molto dalla “Via del pellegrino“. L’anonimo russo che è l’eroe del racconto trova che la costante ripetizione della “preghiera di Gesù” trasfigura la sua relazione con la creazione materiale, cambiando tutte le cose in un sacramento della presenza di Dio e rendendole trasparenti. “Quando… pregavo con tutto il mio cuore” egli scrive “tutto attorno a me sembrava delizioso e meraviglioso. Gli alberi, l’erba, gli uccelli, la terra, l’aria, la luce sembravano volermi dire che esistevano per amore dell’uomo, che testimoniavano l’amore di Dio per l’uomo, che tutto provava l’amore di Dio per l’uomo, che tutto pregava a Dio e cantava la sua lode. Così arrivai a capire quello che la Filocalia chiama: la conoscenza del linguaggio di ogni creatura … sentii un ardente amore per Gesù Cristo e per tutte le creature di Dio“. Analogamente l’invocazione del Nome trasforma la relazione del pellegrino con i suoi simili “… ripartii per il mio pellegrinaggio. Ma ora non camminavo più come prima, pieno di preoccupazioni. L’invocazione del nome di Gesù rallegrava il mio cammino. Tutti erano gentili con me era come se ciascuno mi amasse… se qualcuno mi fa del male, mi basta pensare ‘come è dolce la preghiera di Gesù’ e l’offesa e la rabbia svaniscono e dimentico tutto“.

    Un ‘ulteriore evidenza della natura affermativa dell’esychia rispetto al mondo, è da trovarsi nella posizione centrale data dagli esicasti al mistero della trasfigurazione. Il metropolita Antony Bloom dà una impressionante descrizione delle due icone della trasfigurazione che vide a Mosca, una di Andrei Rublev e l’altra di Teofane il greco: “L’icona di Rublev mostra Cristo nello splendore delle sue abbaglianti vesti bianche che illuminano tutto ciò che è attorno. Questa luce cade sui discepoli, sulle montagne e le pietre, su ogni filo d’erba. In questa luce, che è… la Gloria divina, la luce divina stessa inseparabile da Dio, tutte le cose acquistano una intensità di essere che non potrebbero altrimenti avere; in essa raggiungono una pienezza di realtà che è possibile avere solo in Dio“. Nell’altra icona “le vesti di Cristo sono argentate dai riflessi blu, e i raggi di luce che emanano attorno sono pure bianchi argento e blu. Tutto dà un’impressione di minore intensità. Poi si scopre che tutti questi raggi di luce che cadono dalla presenza divina… non danno rilievo ma trasparenza alle cose. Si ha l’impressione che questi raggi di luce divina tocchino le cose o affondino in esse, le penetrino, tocchino qualcosa dentro di esse cosicché dal nucleo delle cose, di tutte le cose create, la stessa luce riflette e risplende come se la vita divina accrescesse le capacità e potenzialità di ogni cosa e le facesse tutte tendere verso se stessa. A questo punto la situazione escatologica è realizzata nelle parole di S. Paolo “Dio è tutto in tutto“. Tale è il duplice effetto della “Gloria” della trasfigurazione: di far risaltare ogni cosa e ogni persona in perfetta distinzione, nella sua essenza, unica e irripetibile; e allo stesso tempo di rendere ogni cosa e ogni persona trasparenti, da rivelare la presenza divina al di là e dentro di loro.

    Lo stesso duplice effetto è prodotto dall’esychia. La preghiera del silenzio interiore non è negativa rispetto al mondo, ma anzi gli dà risalto. Permette all’esicasta di guardare al di là del mondo verso l’invisibile creatore; e in questo modo gli permette di ritornare al mondo e di vederlo con occhi nuovi. Viaggiare, è stato spesso detto, è ritornare al punto di partenza e vedere di nuovo la nostra casa, come per la prima volta. Ciò è vero del viaggio della preghiera come anche di altri viaggi. L’esicasta può apprezzare il valore di ogni cosa più del sensuale o del materialista, perché vede ciascuna in Dio e Dio in ciascuna.

    Non è per caso che nella controversia Palamita del XIV sec., san Gregorio ed i suoi sostenitori esicasti erano impegnati a difendere precisamente le potenzialità spirituali della creazione materiale ed in particolare il corpo fisico dell’uomo. Tale, in breve, è la risposta a quelli che vedono l’esicasmo come negativo e dualista nel suo atteggiamento verso il mondo. L’esicasta nega per riaffermare; si ritira per ritornare. Con una frase che riassume la relazione tra esicasta e società, tra preghiera interiore ed azione esteriore, Evagrio Pontico dice: “Monaco è chi è da tutto separato e a tutto unito“. L’esicasta opera un atto di separazione esternamente, ritirandosi in solitudine; interiormente “mettendo da parte i pensieri”. Eppure l’effetto di questa fuga è di congiungerlo agli uomini più intimamente di prima, di farlo più profondamente sensibile ai bisogni altrui, più acutamente consapevole delle loro possibilità nascoste. Ciò è visibile con maggior evidenza nel caso dei grandi “startsi”. Uomini come S. Antonio d’Egitto e S. Serafino di Sarov vissero per decenni in silenzio totale ed isolamento fisico. Eppure l’effetto ultimo di tale isolamento fu di conferir loro chiarezza di visione ed eccezionale compassione.

    Proprio perché avevano imparato ad essere soli, potevano identificarsi istintivamente con gli altri. Potevano discernere immediatamente le caratteristiche profonde di ogni uomo e forse parlare con due o tre sole frasi, ma quelle poche parole erano la sola cosa che, in quella particolare occasione, si doveva dire. S. Isacco dice che è meglio acquistare purezza di cuore che convertire intere nazioni di pagani. Non è che egli disprezzi il lavoro di apostolato, ma vuol dire che finché non si sia ottenuta una certa misura di silenzio interiore, è improbabile che si converta qualcuno a qualsiasi cosa. Questo è reso meno paradossalmente da Ammonas discepolo di Antonio (IV sec.): “Perché essi avevano prima praticato profonda esychia, essi possedettero il potere di Dio abitante in loro; e poi Dio li mandò in mezzo agli uomini“. E anche se molti solitari non sono mai, in pratica, rimandati al mondo come apostoli o startsi, ma continuano la pratica di silenzio interiore per tutta la vita, completamente sconosciuta agli altri, ciò non significa che la loro nascosta contemplazione sia inutile e la loro vita sprecata. Essi servono la società non con lavori attivi, ma con la preghiera; non con ciò che fanno, ma con ciò che sono, non esternamente ma esistenzialmente. Essi possono dire con le parole di S. Macario di Alessandria: “Sto a guardia delle mura“.

     

  • 03 Nov

    SOLITUDINE, SILENZIO E QUIETE

    I tre stadi della vita solitaria

    Di John Chryssavgis

    Tratto da: A.A.V.V, IL DESERTO DI GAZA – Barsanufio, Giovanni e Doroteo – ed. Qiqajon

     

    La Palestina e gli Anziani di Gaza

    Grazie a una situazione storica privilegiata e a una colloca­zione geografica strategica, la regione di Gaza può fregiarsi di un’eredità propria, contrassegnata sia da continuità sia da crea­tività, in rapporto alla primitiva pratica della solitudine e del silenzio. Il facile accesso a questa regione sia per mare che per terra insieme alla sua vicinanza all’Egitto, alla Siria e alla Terra santa, da un lato, e il suo carattere remoto e desertico, dall’al­tro, avrebbero reso Gaza, a partire dalla fine del IV secolo, un rifugio unico per espressioni della vita ascetica importanti e in­novative.

    In Palestina i monaci erano generalmente coscienti delle loro radici bibliche. Un tempo i profeti avevano camminato in questi luoghi; questo era il deserto dove Gesù aveva pregato e la terra dove erano stati seminati per la prima volta i semi del mar­tirio. Al tempo stesso i monaci erano coscienti delle loro radici ascetiche e confessavano apertamente il loro debito nei con­fronti dei padri e delle madri d’Egitto.

    A Gaza e in Palestina la topografia della regione e la spiri­tualità tradizionale contribuirono in egual misura a un’intensa e feconda atmosfera di solitudine e di silenzio. Non solo, ma, come vedremo più avanti, il genere di vita dei due più noti anziani, Barsanufio il Grande e Giovanni il Profeta, produsse un retaggio di sottili variazioni della via dell’anima.

    Non sappiamo esattamente quando – o perché – Barsanufio giunse nella regione collinare di Thabatha, presumibilmente dall’Egitto, scegliendo di condurre in questa terra la vita ritira­ta del recluso in un piccola cella. Sappiamo, però, che dal suo ritiro egli offrì preziosissimi consigli a numerosi asceti che, pa­rallelamente al diffondersi della straordinaria reputazione del discernimento e della compassione del Grande anziano, si ra­dunarono attorno a lui. A un certo punto, tra il 525 e il 527, l’altro Anziano, abba Giovanni il Profeta, venne a vivere accanto a Barsanufio, condividendo lo stesso genere di vita e svolgendo il medesimo ministero.

    Forse con l’intento di imitare questo genere di vita, l’intera comunità di Thabatha assunse la forma di un raggruppamento di varie celle, in cui monaci ed eremiti vivevano gradi diversi di reclusione. A mio avviso fu l’intensità della solitudine e il posto di primaria importanza attribuito al silenzio che più tardi favo­rirono l’estendersi del monastero con la creazione di laborato­ri, case di accoglienza per gli ospiti, un’infermeriae una chie­sa per l’istruzione dei visitatori.

    Barsanufio e Giovanni rappresentavano la continuazione e, per molti versi, un’incarnazione dei principi diventati teso­ro comune nel deserto egiziano. In particolare, Barsanufio era chiaramente plasmato dalla concezione evagriana che “mona­co è colui che, separato da tutti, è unito a tutti“. Non apren­do la porta all’anziano monaco egiziano che chiedeva di veder­lo, Barsanufio in realtà lasciava la porta aperta a tutti! Alcuni aspetti del suo genere di vita sono naturalmente reminiscenze di precedenti modelli del monachesimo della Giudea che era geo­graficamente e spiritualmente abbastanza vicino a Barsanufio e a Giovanni. Cirillo di Scitopoli descrive quanto Eutimio (+ 473) desiderò una vita di solitudine, ma anche il fatto che egli si prese cura di organizzare i suoi monaci in piccole comunità, ritirandosi successivamente in una regione più lontana, dove si ripeté lo stesso processo.

    L’uso stesso di comunicare in silenzio attraverso qualcun al­tro – che è sicuramente un’importantissima dimensione del comunicare per iscritto – inteso come misura di protezione della propria solitudine, trova un precedente in abba Isaia, che du­rante i cinquant’anni della propria reclusione in questa stessa regione, comunicava regolarmente tramite Pietro l’Egiziano. Isaia comunque non raggiunse mai la misura di Barsanufio e Giovanni; questo modo di comunicazione e di conversazione con i discepoli non costituì mai un elemento centrale nel suo ministero spirituale. Ma tale modo di dare consigli non era completamente originale né del tutto eccezionale nella regione. Paradossalmente l’invisibilità e l’inaccessibilità di Barsa­nufio e di Giovanni divennero le ragioni della loro visibile no­torietà e attrazione. Il genere di vita che ambedue condussero e al quale incoraggiarono altri comporta un equilibrio di solitu­dine e di silenzio: E tu pratica la quiete per cinque giorni e incontra i fratelli gli altri due; e se il tuo stare in cella è secondo Dio, se sai cioè che cosa vuoi stando in cella, certo non cadrai nelle grinfie del demone della vanagloria. Infatti colui che sa che cosa è venuto a fare in una città, questo vuole e non svia il suo cuo­re, altrimenti verrebbe meno allo scopo che si è prefisso.

    Cos’è allora che l’anima desidera imparare attraverso la soli­tudine, il silenzio e la quiete? Quali sono le variazioni spirituali della reclusione monastica e della quiete?

    La via dell’anima

     Barsanufio e Giovanni tracciano una distinzione tra solitudi­ne, silenzioe quiete. Sebbene gli Anziani di Gaza non siano sempre precisi nella distinzione da essi delineata, sottolineano tuttavia come sia importante dedicare del tempo a esaminare i diversi aspetti dell’anima e i principi particolari che la governano. Nel nostro tempo in cui vigono una comunicazione istanta­nea e un apprezzamento immediato dei desideri, sembra che di noi stessi e delle motivazioni che si celano dietro le nostre azioni conosciamo meno che di ogni altro argomento. La conoscenza di sé è invece il cuore della solitudine, la base del silenzio e il centro della quiete.

    In un qualche momento del lungo cammino che conduce dall’infanzia alla maturità, molti di noi hanno perso il contatto con le facoltà vitali che ci permettono di conoscere noi stessi. Forse parte del problema è dovuto al fatto che ci siamo propo­sti traguardi impossibili, che possono essere raggiunti soltanto dagli angeli. La spiritualità del deserto insegnò agli anziani di. Gaza che la perfezione appartiene soltanto a Dio; noi non siamo chiamati a rinunciare alla nostra imperfezione o a dimenticarla. La stessa fragilità e vulnerabilità della vita rivela la primaria importanza di affrontare e accettare i nostri desideri interiori e le nostre personali debolezze. La verità è che la presenza di Dio si può discernere al cuore di queste tensioni e di queste prove.

    Barsanufio e Giovanni certamente comprendono le vie dell’anima e le seduzioni della tentazione. Essi hanno piena coscienza del fatto che se non compiamo la scelta radicale di rinun­ciare ai legami e al modo di pensare che ci è familiare, attraverso un atto di xeniteìa – per mezzo del quale entriamo nel territorio straniero e impariamo a parlare l’estraneo linguaggio della so­litudine – non possiamo cominciare ad articolare il linguaggio dell’anima. Gli Anziani di Gaza erano perciò consapevoli che, sebbene ci siano tante vie di conoscenza di sé quanti sono gli esseri umani, le differenze tra di noi sono di fatto molto lievi. Ancor più, essi riconoscono che la profondità della solitudine, del silenzio e della quiete è determinata da norme specifiche e da regole spirituali. Spesso le nostre vite sono complicate da re­gole e norme; siamo angosciati o spaventati dall’idea di restare soli, incapaci di ascoltare, poco propensi ad amare. Barsanufio e Giovanni propongono vie pratiche e semplici: stare seduti in cella, praticare il silenzio, cercare la quiete. La vita spirituale è una via per spezzare cattive abitudini e stabilirne di nuove al loro posto: “Per chi siede in cella, recidere la volontà è disprez­zare il sollievo della carne in tutto“.

    E Barsanufio adotta l’immagine della costruzione di una casa per descrivere la dura lottae lo sforzo continuo  richiesti dalla pratica del silenzio e della quiete: Se vuoi costruire la tua casa, dapprima prepara il materiale e tutto l’occorrente: spetta quindi all’operaio venire e co­struire. L’occorrente per la costruzione di un tale edificio consiste in una fede salda (cf. 1Pt 5,9) per costruire le mura, luminose finestre di legno che lascino entrare la luce del sole per illuminare la casa, affinché non sia trovata in essa alcuna tenebra (cf. 1Gv 15). Le finestre di legno sono i cinque sensi [spirituali], rafforzati dalla croce preziosa del Cristo, che introducono la luce del sole spirituale di giustizia (cf. Ml 3,20) e non permettono che appaia nella casa alcuna tenebra, intendo dire la tenebra del nemico e di colui che odia il bene. Poi ti occorre un tetto che ripari la casa, affinché di giorno non ti bruci il sole né la luna di notte (Sal 120 [1211,6). Il tetto indica l’amore verso Dio, che non viene mai meno (cf. 1Cor 13,8) e protegge la casa e non lascia che il sole tramonti sulla nostra ira (cf. Ef 4,26), affinché non lo troviamo nel giorno del giudizio (Mt 10,15) come accusatore che ci brucia nel fuoco della geenna (cf. Mt 5,22) e non troviamo la luna ad attestare la rilassatezza e l’indolenza delle nostre notti. Questa casa deve poi avere una porta, che lascia entrare e custodisce chi rimane dentro. Quando dico “porta”, tu, fratello, pen­sa come porta spirituale al Figlio di Dio che dice: Io sono la porta (Gv 10,9).

    Nella casa dell’anima, poi, la qualità fondamentale della soli­tudine è l’attenzione o la vigilanza; la qualità essenziale del silen­zio è l’ascolto o l’obbedienza, e la qualità essenziale della quiete è la comunione o l’amore. Non c’è obbedienza senza vigilanza e non vi può essere comunione senza solitudine. Quando queste tre qualità coesistono, la lotta ascetica ci consente di scoprire l’anima profonda e di prendere con noi la nostra anima ovun­que andiamo: “E se giungerai a praticare la quiete, troverai ri­poso e grazia dovunque tu viva questa quiete”.

    La solitudine: la porta dell’anima

    La solitudine è ciò che ci accorda il tempo e lo spazio per di­ventare attenti agli altri e a noi stessi. È un prerequisito nella via del progresso spirituale. In risposta a un tale che gli chiedeva preghiere, Barsanufio scrive: “Fratello, non costringermi a par­lare poiché io desidero abbracciare quiete e silenzio “.

    E con un monaco che gli chiedeva se doveva accettare de­naro per nutrire i poveri, abba Giovanni è parimenti radicale, apparentemente privo di carità: devi evitarlo a tutti i costi “an­che se tu vedessi davanti alla tua cella un uomo strangolato“. Ambedue gli Anziani avvertono con quanta facilità la carità e il servizio sono utilizzati come giustificazione per sfuggire al la­voro interiore di conversione. Riconoscono che perfino la pre­ghiera può diventare un pretesto per evitare il difficile lavoro della solitudine e del silenzio. E’ per questo motivo che abba Giovanni stabilisce: “Trattandosi di elemosina, non tutti sono in grado di comprendere l’argomento, ma solo quelli che hanno raggiunto la quiete e l’afflizione per i propri peccati”.

    Barsanufio spiega in che cosa anzitutto consista la solitudi­ne: “Entrare nella cella significa entrare nella cella dell’anima ed esaminarla e raccogliere il nostro pensiero distaccandolo da ogni uomo“. E Giovanni aggiunge: “Stare in cella è ricordar­si dei propri peccati e piangerli e affliggersi (cf. Gc 4,9); vigilare perché la mente non sia fatta prigioniera. Ma, se lo fosse, ricon­durla in fretta nel suo luogo”.

    Purtroppo, tuttavia, noi tendiamo a confondere la conoscen­za di sé con il ripiegamento su se stessi. Ma in realtà la conoscenza di sé ci conduce dal ripiegamento su di sé all’oblio di se stessi: Fratello, odia perfettamente per amare perfettamente; allontanati perfettamente, per avvicinarti perfettamente; aborrisci l’adozione, per ricevere l’adozione (cf. Gal 4,5); rinuncia a fare la tua volontà, e fa’ la volontà di Dio; taglia te stesso e lega te stesso; fa’ morire te stesso e fa’ vivere te stesso (cf. 1Pt 3,18); dimentica te stesso, e conosci te stesso. Ed ecco che hai le opere del monaco.

    Curiosamente, mentre promuoviamo la necessità di conoscere e amare gli altri, in cambio tralasciamo spesso di conoscere noi stessi nella solitudine. Barsanufio ripete la ferma convinzione di abba Alonio: “Io e Dio siamo soli al mondo”. Barsanufio afferma: “Che tu sia solo e ti affatichi un pò, ti giova più che avere un altro“. Davvero, non siamo mai meno soli di quando siamo soli: “Mentre lottate in questa lotta non siete soli, ma anche molti altri lottano insieme a voi con le loro preghiere (cf. Col 4,12)”.

    Essere consapevoli delle ragioni per cui facciamo quello che facciamo facilita la consapevolezza delle ragioni per cui gli altri fanno quello che fanno e infine l’accettazione degli altri per quello che sono. Il narcisismo non è tanto conoscenza di sé, quanto piuttosto insufficiente conoscenza del vero io. Le persone ripiegate su se stesse e centrate su di sé normalmente soffrono per un io troppo piccolo piuttosto che per un io troppo grande.

    Spesso cerchiamo la comunione in una direzione sbagliata. Invece di guardare dentro di noi, ci volgiamo fuori di noi, verso gli altri. Per questa via il movimento di separazione della so­litudine non diventa affatto il primo passo verso la comunione con gli altri: “Fratello, scruta il tuo cuore da solo nella tua cella e troverai donde ti è venuta la durezza del tuo cuore“. La comunione si sviluppa a partire dall’interno e riflette il mondo interiore dell’anima. Essa costituisce il solido fondamento a partire dal quale possiamo raggiungere gli altri, perfino Dio stesso. Dice un detto apocrifo attribuito a Gesù nel Vangelo di Tommaso: 

    Quando di due farete uno,  allorché farete la parte interna come l’esterna,  la parte esterna come l’interna  e la parte superiore come l’inferiore allora entrerete nel Regno.

    La solitudine allora è ciò che dona stabilità. È come una bussola segreta nella nostra relazione con Dio, con gli altri e con noi stessi. Ci mette in grado di distinguere tra coinvolgimento personale e desiderio di piacere agli altri (anthroparéskeia) che deve essere rigorosamente confessata. La solitudine conduce al silenzio, che altro non è «se non chiudere il proprio cuore al dare e al ricevere (cf. Fil 4,15), al cercare di piacere agli uomini, e a ogni altra attività».

    La solitudine concerne la dimensione dell’essere e non semplicemente quella del fare. Essa rende l’anima attenta e recettiva, disposta semplicemente a chiedere e attendere umilmente: “Se non ti scoraggi per la fatica, troverai l’umiltà; e se troverai l’umiltà, riceverai anche il perdono dei peccati… Se ti lasci umiliare, riceverai la grazia e la grazia ti aiuterà“.

    Barsanufio e Giovanni affermano chiaramente che la preghiera non è mai esaudita per le vie che ci attendiamo: “Dio regolerà la cosa in un modo che non conosci“. In realtà la preghiera è esaudita per vie che trascendono – e forse addirittura annientano – una fiducia in se stessi che cerca risultati immediati o mete prestabilite. Allora la solitudine non può essere identificata con l’egoismo; la solitudine dissolve l’autoreferenzialità, conduce a considerarsi un nulla, a ciò che Barsanufio e Giovanni chiamano apséphiston: Sii libero da ogni sollecitudine e allora sarai completamente libero per Dio; muori ad ogni uomo; questo è il vivere da stranieri; tieni alla disistima di te stesso e troverai il tuo pensiero imperturbato.

    Barsanufio e Giovanni si muovono costantemente sul filo del rasoio tra l’importuno demone della vanagloria da un latoe il tenebroso abisso della disperazione: Fratello, quanto più l’uomo sprofonda nell’umiltà, tanto più progredisce. Rimanere nella tua cella ti è inutile, perché così tu resti senza afflizione; e se sei senza sollecitudine prima del tempo, il nemico ti prepara un turbamento maggiore – della quiete in cui credi di essere, così da condurti a dire: Magari non fossi mai nato (Gb 3,3; Ger 20,14).

    Spesso è raccomandato l’equilibrio: «Non camminare né dentro, né fuori, ma nel mezzo delle due cose, comprendendo qual è la volontà del Signore“. E ancora: “Il non presumere riguardo al ritiro, né disprezzare la distrazione degli affari, questa è la via di mezzo“.

    Il progresso nella via dell’anima richiede però fatica e tempo. Non cambiamo all’improvviso, divenendo in modo magico persone nuove e dimenticando tutte le nostre colpe passate. Non possiamo mai fuggire da ciò che siamo; non possiamo mai sfuggire alle tentazioni e alle passioni, al nostro carattere, alla vanità, alla paura, all’invidia, alla delusione o all’arroganza. Barsanufio ci ammonisce a non entrare in cella “a motivo della viltà”, ma solo “a motivo della preghiera”. Giovanni aggiunge: “Quando ricorri al silenzio per ascesi, allora è buono; quando invece non è così ma taci temendo il turbamento, allora è dannoso”.

    In ultima analisi, il grado di comprensione e accettazione dell’altro sarà proporzionato al grado di comprensione e tolleranza di noi stessi. Siamo uniti l’uno all’altro più dalla nostra debolezza e dai nostri fallimenti che dalla nostra forza e dai nostri successi. Nella solitudine della cella, attraverso tentazioni e tensioni, l’asceta diventa dolorosamente cosciente di ciò che gli manca. Allora l’asceta è tormentato dall’assenza di amore e aspira a una comunione profonda. La cella simbolizza il porto sicuro dell’anima, che nessuno lascia e al quale ciascuno può sempre volontariamente fare ritorno per scoprire sempre di più l’io profondo, senza temere la prova dolorosa o la lotta fino al sangue che ciò può portare con sé. Tale scoperta attraverso la solitudine può diventare una fonte di salvezza. Abbracciare la solitudine nel deserto della cella o dell’anima significa conoscere che cosa pensi, capire come stai e infine accettare gli altri senza il bisogno di difendere te stesso. Significa ancora diventare responsabile senza la minima ombra di autogiustificazione. Ciò è fonte di vulnerabilità e di apertura.

    In questo senso, cioè come fonte di vulnerabilità, la solitudine ci mette in rapporto con la croce di Cristo. Giovanni scrive: “Allora sarà solitudine, perché ha portato la croce“. Chi è stato spinto – da sofferenze personali o da condizioni di vita difficili – a un “punto di rottura” possiede spesso una visione della realtà estremamente ricca, che appare molto meno in chi non ha conosciuto conflitti. In verità la realtà del conflitto come parte costante e cruciale della vita è difficile da accettare. Il modo in cui noi viviamo le tensioni e le difficoltà influenza il nostro modo di accettare noi stessi e gli altri. La solitudine ci ricorda che l’anima non è una regione libera da conflitti dove possiamo evadere o ignorare i pericoli del mondo e le tentazioni dell’anima: Entrare nella cella significa entrare nella cella dell’anima ed esaminarla e raccogliere il nostro pensiero distaccandolo da ogni uomo: allora sentiamo dolore e compunzione. Ciò che impedisce la compunzione è la tua volontà propria; se infatti l’uomo non taglia la sua volontà, il cuore non sente dolore.

    La solitudine, insomma, possiede la capacità di assorbire ogni sorta di dolore e di trasformare ogni genere di tentazione e di tensione in speranza e gioia: “La tentazione porta l’uomo a pro­gredire; dove c’è il bene, là scoppia la lotta. Non temere dunque le tentazioni ma gioisci, poiché ti portano a progredire”. Non c’è da meravigliarsi che gli Anziani di Gaza ripetano insistentemente la necessità di gioire nel Signore: Gioisci nel Signore; gioisci nel Signore; gioisci nel Signore! Il Signore custodirà la tua vita, il tuo corpo, il tuo spirito da ogni male, da ogni attacco diabolico, da ogni fantasia angosciosa

    E ancora: Non possiamo essere senza tentazioni. D’altra parte esse ci insegnano la pazienza … Il nostro Maestro ha sopportato ogni patimento per amor nostro; e come mai noi, ricordandoci di lui, non sopportiamo, per divenire suoi compartecipi (cf. 1Cor 9,23)? Guarda che noi abbiamo ricevuto il comandamento di rendere grazie in tutto (cf. 1Ts 5,18).

    È qui che la solitudine incontra il servizio agli altri e la cella si apre al mondo intero: “Per raccogliere il proprio spirito non ci sono momenti fissi, né ore, né tanto meno giorni; si deve invece sopportare, con rendimento di grazie … Questa è la compassione“.

    Il silenzio: la via dell’anima

     Se la solitudine ci fa dono della consapevolezza e della vigilanza, il silenzio ci educa all’arte dell’ascolto e dell’attenzione. Nella solitudine è importante lo spazio tra le persone; nel silenzio quello tra le parole. Questo spazio è sempre necessario; “il silenzio è più ammirabile e più glorioso“, è sempre migliore, “bello e meraviglioso più di ogni altra cosa“, “bello in ogni caso“, “più necessario e utile di ogni altra cosa“. Il contatto fisico e la comunicazione verbale sono unite alla comunione e all’amore quanto il silenzio. È questo il motivo per cui Barsanufio afferma che il silenzio ci è chiesto da Dio; non dirà mai questo della quiete, che è un dono. La solitudine offre lo spazio e la possibilità di ascoltare e di assumere quello che l’altro sta dicendo e comunicando. Questo avviene perché nella relazione noi portiamo quello stesso io con cui noi siamo o non siamo in rapporto a quando restiamo soli. Gli Anziani infatti rim­proverano severamente quelli che si lamentano di aver perduto, nell’incontrare i fratelli, i doni spirituali conseguiti nella solitudine, come ad esempio, il silenzio.

    Il silenzio è una qualità che ci porta ad avere coscienza che ciò che sta accadendo nel mondo degli altri è importante. Al contrario, il canale di congiunzione tra l”‘io” e il “tu” può accrescere la “consapevolezza” della forza dei miei desideri e dei miei pregiudizi, nella mia mente e nel mio cuore. Quale risultato, io creo la mia versione del “tu”, con infima o nulla possibi­lità di contatto o comunicazione con l’altro. Domanda. Mi accade, mentre mi intrattengo con qualcuno, di distrarmi improvvisamente, al punto sia di sembrare al di là di me, sia di dimenticare l’argomento in corso, non perché la mente sia trasportata verso qualcos’altro, ma perché è fuori di se… Risposta. Questa è una guerra del diavolo, che vuole confondere l’uomo davanti ai presenti. Ma se manifesti loro la cosa con libertà, dicendo: “Perdonatemi, il diavolo mi ha distratto”, è lui a restare confuso e la guerra cessa. Parla dunque con sobrietà.

    Questi anziani riconoscono che dove l’io è impoverito, anche la relazione è compromessa. Ora, Barsanufio e Giovanni sono ben consci che per giungere alla conoscenza di sé abbiamo bisogno di fidarci almeno di un’altra persona: Domanda del medesimo allo stesso. Ti prego, padre, di dirmi come posso sapere se sono nella sottomissione e se abbandono la mia volontà… Risposta. Da questo puoi sapere se vivi da cenobita: se non fai niente di tua volontà, né il mangiare da solo, né con i fratelli, ma se fai senza discutere le cose che ti vengono ordinate. Domanda dello stesso. Quando faccio una carità ai fratelli, mi viene la tentazione di vantarmene; è male se lo faccio di nascosto per mezzo dell’igumeno, piuttosto che personalmente? …Risposta. Tu devi fare attenzione in tutti e due i casi, perché entrambi offrono un’occasione alla vanagloria. Tuttavia, farlo per mezzo dell’igumeno è più leggero, perché il tuo cuore ci trova una sola occasione di lotta: contro se stesso. Se invece lo fai direttamente, il combattimento è duplice: non solo con il tuo cuore, ma anche con gli uomini.

    L’obbedienza è essenzialmente un atto di attento ascolto; è l’arte di ascoltare profondamente (hypakoé). Barsanufio è cer­to che ogni volta che si fa silenzio di propria iniziativa, quel si­lenzio viene dal diavolo e produce turbamenti e ire. Insomma, l’ammonimento fondamentale è una sorta di reminiscenza dell’educazione ricevuta in una buona scuola elementare: “Non parlare mai prima di essere interrogato”. Ma lo scopo che ci si prefigge non è quello di soffocare o reprimere la volontà, bensì di rafforzare e rinsaldare la volontà: “Non esaltarti se il tuo di­scorso è accettato, né affliggerti se non lo è”.

    L’obbedienza è la misura e il criterio dell’autentica solitudine e del silenzio: “Se vuoi sapere se è dannoso o vantaggioso stare in cella per conto proprio, considera questo segno: se ci stai per obbedienza, sappi che è vantaggioso “.

    Naturalmente il delicato equilibrio tra solitudine e comunio­ne non può essere veramente raggiunto senza la grazia divina. Il vero silenzio e la vera quiete sono un riflesso della quiete che esiste nella santa Trinità: Se hai preparato così la tua casa [nel silenzio] … ecco che [il Figlio di Dio] viene col Padre benedetto e con lo Spirito santo e pone la sua dimora presso di te (cf. Gv 14,23) e ti insegna cos’è la quiete e illumina il tuo cuore (cf. Ef 1,18) di gioia ineffabile (cf. 1Pt 1,8).

    Ma ancora, è difficile reggere il sottile equilibrio tra solitudine e comunione senza l’aiuto di un padre spirituale. Grazie a qualcun altro che ha fiducia in noi, cominciamo fiduciosamente – cioè attraverso la fiducia e l’apertura del cuore – a riscoprire il solido terreno interiore. Condividere apertamente i nostri pensieri e le nostre tentazioni con almeno un’altra persona, ci porta a conoscere i desideri e i conflitti che guidano il nostro comportamento. E l’essere preparati ad ascoltare e ad accettare la realtà della nostra natura e noi stessi, ci rende più consapevoli e più attenti agli altri. La nostra capacità di entrare in noi stessi per imparare e crescere è in definitiva anche la possibilità che noi abbiamo di diventare consapevoli della presenza degli altri e attenti ai pesi degli altri.

    Una ragione valida per condividere con gli altri i propri pensieri è che la maggior parte di noi sono critici severi verso se stessi; noi ci ergiamo contro noi stessi con durezza, proprio quando più avremmo bisogno di tolleranza e di compassione, virtù proprie degli Anziani di Gaza. E benché l’obbedienza sia un concetto in contrasto con le contemporanee nozioni di liberazione e di indipendenza, è vero che quando si è incapaci di costruire anche un piccolo pezzetto di terreno solido, termini come libertà e volontà hanno scarsa risonanza.

    Citando frequentemente Gal 6,2 – “Portate i pesi gli uni degli altri” – Barsanufio e Giovanni sottolineano che la responsabilità per “i pesi degli altri” è un punto critico per la crescita spirituale. Assumere e riconoscere la propria responsabilità dinanzi agli effetti dei pensieri e delle azioni implica rinunciare ad accusare gli altri, che di conseguenza divengono meno minac­ciosi per noi: Il medesimo aveva letto nei detti dei padri che colui che vuole davvero essere salvato, deve anzitutto, vivendo insieme agli uomini, sopportare oltraggi, ingiurie, danni, disprezzo, perché i suoi sensi siano liberati e così si innalzi alla quiete perfetta … Disse dunque a se stesso: “Io miserabile non ho fatto nemmeno una di queste cose ma, scandalizzando tutti a motivo della mia infermità, mi sono separato dagli uomini. Devo forse allora ritornare in mezzo agli uomini? E, con l’aiuto di Dio, fare come dicono i padri e così giungere alla quiete perché la mia fatica non sia vana (cf. 1Ts 3,5)

    Il silenzio poi è l’alfabeto del linguaggio della tolleranza e dell’amore. La comunione è spesso travolta sotto il rullo compressore delle nostre parole! Barsanufio preferisce il silenzio; Giovanni invece confessa di amare la conversazione: “Se la persona che mi interroga fosse come me, la mia loquacità non mi lascerebbe star zitto senza rispondergli, perché la mia lingua non si lascia trattenere“. E afferma: “Poiché noi, per la nostra debolezza, non siamo giunti a percorrere la via dei perfetti, parliamo“. Dopo tutto, come osserva a un certo punto: Quanto al silenzio di cui parlano i padri, tu non sai che cos’é, e sono molti a non saperlo. Questo silenzio infatti non è tacere con la bocca: ci può essere un uomo che dice migliaia di parole utili, e questo gli viene contato come silenzio; e un altro che dice una sola parola inutile, e gli viene contata come trasgressione degli insegnamenti del Salvatore.

    Questo equilibrio tra solitudine e comunione caratterizza il monastero di Serido. Le celle avevano finestre che permettevano la conversazione con i visitatori; e i monaci erano incoraggiati a rispondere ai bisogni degli ospiti, inclusi i laici e i parenti, “non per compiacere gli uomini, né come chi cerca lode, ma con cuore puro” (cf. 1Tm 1,5). Infine abba Giovanni parla di “non-silenzio” ( asiòpeton o tò mé siopàn) quando uno è si silenzioso, però non manifesta sinceramente i suoi pensieri e perciò non ottiene la guarigione. Ambedue, parola e silenzio, possono essere falsi. Quando la nostra teologia è disgiunta dagli altri, quando essa non ha relazione con questo mondo, allora è un falso linguaggio, è cattiva comunicazione. Barsanufio e Giovanni sono poco tolleranti verso le chiacchiere spiritualiche riducono Dio a un oggetto piccolo e maneggevole. Non ci offrono un libro di ricette per la nostra guarigione e salvezza, per quanto seducente possa essere il “rattoppo”. Barsanufio e Giovanni sanno che l’essere umano è imprevedibile; è troppo complesso perché un tale procedimento possa portare benefici duraturi. Più diventa possibile fare previsioni su qualcuno, meno tale persona è reale. Stiamo in guardia dalle persone che hanno sempre la risposta pronta!

    La quiete: la risurrezione dell’anima

    La solitudine e il silenzio sfociano infine nel mistero della quiete. Questo è il momento in cui percepiamo che Dio è il fondamento del nostro essere, “la solida pietra”della nostra costruzione, davanti alla quale non siamo più spaventati della nostra debolezza o della nostra piccolezza. Abba Giovanni dice: “Dove c’è quiete, mitezza e umiltà, abita Dio”. E Barsanufio afferma che la quiete è un dono spirituale, dato da Dio “nei tempi opportuni”.

    La quiete è strettamente legata alla morte. Essa riflette la nostra attesa del mondo a venire. Sii vigilante, ammonisce Barsanufio: “vigila, fratello: sei mortale e sono brevi i tuoi giorni”. Dice ancora: “La cella nella quale uno è sepolto come in una tomba, per il nome di Gesù, è un luogo di riposo … è diventata un santuario, dato che contiene la dimora di Dio (cf. Ef 2,22).

    La quiete può in certo senso rassomigliare alla morte, è simile alla lenta crescita silenziosa di germogli seminati profondamente nel terreno: crescita nascosta, ma reale. Barsanufio paragona “la quiete perfetta“a una nave che giunge nel porto; dapprima essa “è sbattuta e agitata dalle onde e dai flutti; ma quando giunge nel porto, si trova in una grande calma“.

    Si vive la vita in pienezza solo quando ci si è posti di fronte alle cose ultime, cioè alla mancanza di senso e alla morte. Dal modo con cui noi ci confrontiamo e ci sottraiamo a queste cose ultime, derivano profonde conseguenze per la nostra esperienza di solitudine, di silenzio e di quiete. Il ricordo della morte è fondamentale nella vita spirituale, è una memoria quotidiana e tangibile della nostra debolezza e imperfezione. Se vogliamo uscire dalla vita nella bellezza e nella luce, dobbiamo semplicemente pensare alla morte. A fatica si può trovare, in case di cura e ospedali, un senso di perfezione, che per giunta è solo apparente. Il ricordo della morte permette alla debolezza di essere rivelata in verità; allora la falsità può essere apertamente svelata e la guarigione può cominciare.

    La quiete tuttavia non è soltanto qualcosa che fa paura; è anche qualcosa di sacro. La quiete è strettamente legata al desiderio della “vita in abbondanza (cf. Gv 10,10), al di là della “mera sopravvivenza“. La maggior parte di noi tende a negare la relazione tra la morte e la quiete entrando nel turbine dell’attivismo che fa della morte una realtà improbabile o forse impossibile. La quiete è come un’attesa rispettosa e riverente. Essa e un rinnovato senso di anticipazione, un’apertura alla risurrezione in cielo. Nella quiete siamo consapevoli di essere vivi e non morti, di avere bisogni e tentazioni e di essere capaci di affrontarli e di assumerli senza fuggire. Nella quiete non siamo vuoti, non siamo soli, non siamo timorosi. Nella quiete sappiamo che Dio è (cf. Sal 45 [46],11); quest’esperienza può accadere in un istante oppure occupare tutta una vita.

    Infine la quiete introduce un elemento apofatico nella via della comunione e dell’amore. Perché attraverso la quiete giunge il consolante invito ad avvicinare gli altri tramite la “non-conoscenza”. Se restiamo fermi alle nostre precomprensioni o alle nostre paure dell’altro, non potremo mai godere di un perfetto silenzio. Quando “conosciamo” qualcuno, finiamo per chiudere subito gli occhi al processo continuo di cambiamento e di crescita dell’altro. Noi limitiamo noi stessi quando fissiamo gli altri unicamente nel passato e non sappiamo gioire della loro potenzialità. Nell’isolamento della solitudine possiamo rischiare di essere quello che siamo; nell’eco prodotta dal silenzio possiamo rischiare di porci davanti agli altri come essi sono; e nella comunione della quiete possiamo accogliere gli altri nella loro interezza, nella loro dimensione eterna, al di là di quello che possiamo comprendere, sopportare o semplicemente sfruttare.

    Conclusione

    Secondo una leggenda conservata nella Storia ecclesiastica di Evagrio Scolastico, al tempo in cui Evagrio scrive (593 ca.) circa cinquant’anni dopo la data presunta della morte di Barsanufio, si credeva che il Grande anziano fosse ancora vivo. Quando il patriarca di Gerusalemme diede ordine di aprire la porta della sua cella, ne uscì una fiamma di fuoco. Il silenzio di Barsanufio fu una dimostrazione più forte della sua stessa morte.

    Solitudine, silenzio e quiete sono valori monastici che presentano sottili, ma significative, variazioni dell’anima. Per molti aspetti esse costituiscono un equivalente della triplice distinzione evagriana tra praktiké, theorìa e theologhìa. Tuttavia, con la loro particolare distinzione delle variazioni dell’anima, che aprirà la via al pensiero monastico delle generazioni successive, Barsanufio e Giovanni offrono una nuova prospettiva alternativa di questo mondo, e non un’occasione di fuggire la realtà del mondo. Definendo i tre stadi della vita solitaria essi sottoli­neano il fatto che noi possiamo essere veramente uniti quando siamo veramente separati. Questa è essenzialmente l’esperienza di lasciare la presa e di affidarsi. È la capacità di dimenticare se stessi nello sforzo di raggiungere l’altro. Solitudine, silenzio e quiete riguardano veramente “ogni pensiero, ogni affare e condotta e preoccupazione“della nostra vita. Ogni relazione richiede la stessa prossimità e la stessa separazione, la stessa accoglienza e la stessa distanza.

    In questo senso i tre stadi della vita solitaria rappresentano una sfida per la paradossale o ideologica collisione che talvolta è messa in luce nella tradizione del deserto tra l’ideale del silenzio e la realtà della verbosità. Questa era la via dei padri del deserto trasmessa attraverso Evagrio Pontico e abba Zosima. Era l’insegnamento ricevuto e ripetuto da Barsanufio e Giovanni che dichiara che uno può essere con gli altri anche quando non è presente. Questa è l’idea che ispira la poesia australiana di Michael Leunig intitolata Sedendo sul muretto:

                “Vieni a sederti accanto a me”
    ho detto a me stesso;
    e, anche se non ha senso,
    mi sono tenuto per mano
    come un piccolo segno di fiducia
    e insieme sedevo [solo] sul muretto.

     

     

  • 01 Nov

    Cosa avviene leggendo la Bibbia?

    Da S. Fausti, Per una lettura laica della Bibbia, EDB 2010

     

    Ogni seme accolto nella terra germoglia e la trasforma secondo la propria specie. Ogni parola deposta nella mente e nel cuore, l’humus umano, germoglia e lo trasforma secondo la sua specie. La parola accolta si ferma nella testa e dà la forma all’intelligenza, scende poi nel cuore e informa la volontà, amore di bellezza, arriva infine ai piedi e alle mani, con cui si cammina e agisce secondo ciò che si capisce e ama. La parola ascoltata sia buona o cattiva determina il capire, il volere e l’agire, tutto l’essere dell’uomo.

    L’uomo è o meglio diventa la parola che ascolta. Perché ogni parola non è solo comunicazione di notizie, ma “contiene” anche chi parla ed è “contenuta” in chi ascolta. Il dire è un “dirsi”, e il “dirsi” un “darsi”. Ogni parola è gravida di chi la trasmette e ingravida chi la riceve.

     Dio si dice e si dà attraverso la parola e l’uomo dinanzi a lui è essenzialmente “ascolto”. Se lo ascolta e risponde diventa partner, altra parte, di Dio stesso. Divento la Parola di Dio!

     Ma vi può essere la possibilità che si rifiuti l’ascolto di questa parola preferendo la propria o l’altrui, magari del nemico. Rifiuto possibile alla mia libertà e motivato da mille propri motivi, ma che porta inevitabilmente alla mia esclusione dalla possibilità di essere trasformato-divinizzato dalla Parola. L’uomo che rifiuta la Parola come i bambini di Federico II si condanna inevitabilmente alla morte.

    Quando leggo la scrittura accade una realtà mai esistita prima. La Parola ascoltata produce in me una inedita parola interiore del cuore. E’ una realtà nuova che si innesca nella mia vita e la cambia.

    L’esperienza che fa il lettore del vangelo è quella di essere trasformato: egli è come Gesù che è puro ascolto della parola del Padre da essere lui stessa questa Parola divina, e così egli mi dà la possibilità di essere figlio come lui, “generato non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla Parola di Dio viva ed eterna” (1 Pt 1,23).

     Differenza tra catechesi narrativa e catechesi dottrinale

     Normalmente i testi sacri sono in prevalenza normativi e dottrinali: dicono che cosa fare e cosa credere. La Bibbia invece riporta per lo più testi narrativi.

    Ora i fatti non sono da fare: sono già fatti. Non sono da credere perché sono fatti e non promesse. Essi sono da osservare, ascoltare, contemplare. La dottrina è da credere, la norma da fare, il racconto e da ascoltare.

    I testi dottrinali hanno la loro utilità. Ma se non scaturiscono da narrazioni di fatti e non si misurano con la narrazione di ciò che producono sono sterili, anzi nocivi (cfr il decalogo e la sua premessa tralasciata). Il catechismo sta alla Bibbia coma una parafrasi alla Divina Commedia, o un menù al pasto concreto.

     Il racconto ci cambia molto più di una dottrina e di una norma (gli spot pubblicitari non sono forma narrativa per coinvolgere a sua insaputa il telespettatore?). Nella terapia psicologica non il sapere concettuale aiuta, ma il rivivere l’esperienza mediante il racconto. Il valore specifico della catechesi biblica rispetto ad altre forme di catechesi è quello del racconto che fa rivivere l’esperienza.

    Ciò che leggo, mi legge dandomi una nuova interpretazione di me. Mentre mi applico al testo, vedo che il testo si applica a me. Fabula de me narratur! Il racconto mi ri-racconta. E la Parola mi fa scoprire nel mio profondo la presenza del volto del padre e del mio essere figlio.

    La mia vita non è altro che esecuzione dell’interpretazione che do di me stesso. In questo senso il vangelo è una logoterapia. È un antivirus che mi riconsegna nella sua integrità il significato delle parole fondamentali (la grammatica fondamentale dell’essere) che la menzogna vorrebbe sempre stravolgere conducendomi a schiavitù e frutti di morte.

    Il modo migliore per parlare di Dio è quello con il quale si è rivelato: il racconto del suo rapporto con noi e del nostro rapporto con lui. Da qui la necessità di prendere la Bibbia come un’unica grande catechesi narrativa, che viene dalla tradizione viva della comunità che l’ha sperimentata e la testimonia.

    Elementi e funzioni della catechesi narrativa dei vangeli

     Il vangelo non è un resoconto di cronaca giornalistica dei fatti non è neppure un’antologia di episodi. È il racconto dell’esperienza di fede che la prima comunità ha fatto del Dio fatto uomo. Fotogrammi e sequenze sono montati al posto giusto: stanno bene dove si trovano, frutto di quanto precede e seme di quanto segue.

    Ogni vangelo propone un suo cammino articolato diverso dall’altro, per giungere allo stesso fine: conoscere e amare Gesù, per essere con lui e come lui. Sono quattro vie diverse che portano alla stessa cima partendo da lati diversi. Questo permette una visione pluridimensionale della stessa realtà.

    Marco (lo sottolineiamo questa sera) si rivolge al pagano che crede in molti dei perché capisca dalla croce chi è veramente Dio. Il suo è il vangelo del catecumeno. Lui è un ebreo che scrive nel greco del koiné a Roma dove si parla il latino per gente che non è ebrea, né romana né greca. Lo può fare perché usa un trucco semplicissimo: usa solo un migliaio di parole comuni riferiti all’ambiente in cui l’uomo vive concretamente, parla di parti del corpo. Di azioni e passioni che tutti provano. Parla di semi, piante, uccelli pesci, pane asini e cani… Queste parole evocative tipiche del racconto, sono capaci di grandi evocazioni dell’immaginario umano comune a tutti e cono giocate in racconti elementari che risvegliano sensazioni, colori, suoni, sapori, sentimenti. Le nostre azioni sono per lo più legate a queste sensazioni e sentimenti. Amiamo e andiamo verso ciò che desideriamo e odiamo e fuggiamo da ciò che temiamo.

    Luca si rivolge ad una comunità mista di credenti della terza generazione perché si senta responsabile di aprirsi al mondo intero. È il vangelo del missionario

    Matteo si rivolge ad una comunità ebraica perché capisca come il Cristo crocifisso sia il compimento delle promesse di Israele. È il vangelo del catecheta.

    Giovanni è il grande teologo che presenta e racconta il mistero che già vive nel credente. È il vangelo del cristiano maturo perché confermi la sua fede.

    Tutti costoro sanno che si potrebbe scrivere all’infinito sull’argomento senza mai riuscire a dire tutto di colui che è tutto. Sono però coscienti di dire quanto basta al loro scopo.

    Il fine del vangelo è che ogni lettore sia in grado di scrivere il suo quinto vangelo, ancora non scritto, che è la sua vita concreta vissuta in Cristo, da lui trasfigurata. Chi ascolta la Parola diventa a sua volta vangelo vivo.


     

     

     

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