• 14 Dic

    Perché “restare in citta’… a far che ?”:
    Luca 24,44-49

     

     a cura di p. attilio franco fabris

    Gesù nel corso della sua apparizione nel cenacolo da’ ai suoi la duplice consegna: “restate in città finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”. Parole di grande immediatezza ed autorità. Quasi un testamento!

    Quel “restate in città” così vago ed indeterminato che senso ha? Possibile che sia la cosa più utile da farsi? Possibile che in questa proposta si giochi tutto il vangelo, tutto il senso dell’esistenza prepasquale e pasquale di Gesù e della comunità e l’esistenza postpasquale di entrambi? “Restare” a far che? Per che cosa?

    Ma occorre fare un altro passo indietro.

    Nel v. 48 si dice: “di queste cose voi siete testimoni”. E’ un versetto chiave, che ci fa comprendere due cose: la prima è che l’adempimento della promessa e la relativa consegna di Gesù sono in funzione di una testimonianza, la seconda che il “di queste cose” rinvia ad un discorso precedente, vale a dire che in contenuto della testimonianza ch’egli affida ai discepoli, lo possiamo cercare e trovare solo proseguendo nel nostro percorso all’indietro.

    Nei vv. 46-47 si dice: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e resuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme”: ecco in sintesi il contenuto della testimonianza affidata da Gesù ai suoi.

    Questa sintesi rappresenta il kerygma, il cuore stesso della Buona Notizia: Gesù crocifisso, morto e risorto costituisce l’adempimento fedele, da parte di Dio, della sua Promessa.

    Ma cosa ha a che vedere la testimonianza del kerygma con il dover restare in città?

    Ce lo spiega Luca stesso con le parole di Gesù al v. 45: “Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse…”.  Queste parole costituiscono un’altra chiave di lettura, esse attestano sei cose fondamentali: 1) la Pasqua di Gesù è l’adempimento delle Scritture; 2) che i discepoli di tutto questo non hanno capito nulla; 3) che la comunità incagliata nelle secche dello scandalo della croce è ancora ferma allo stadio prepasquale; 4) che Gesù è l’unico che della sua Pasqua abbia capito qualcosa; 5) che Gesù è l’unico a poter introdurre i discepoli nell’intelligenza degli avvenimenti pasquali  e delle scritture; 6) che da questo intervento di Gesù dipende la fecondità e il futuro della buona notizia e della comunità dei discepoli. E’ evidente che nell’offrire ai discepoli il servizio di introdurli nell’intelligenza delle scritture, il Gesù postpasquale riconosce il proprio compito fondamentale ed il senso stesso di tutta la sua missione. L’esistenza ed il ministero di Gesù risorto si incentrano su questo servizio da lui reso ai discepoli. E da questo servizio discenderà un giorno la forza della testimonianza al mondo della Buona Notizia da parte degli stessi discepoli.

    Gesù prevede per i suoi amici un processo di maturazione lungo e laborioso. Al fine di comprendere ciò che è avvenuto, e per poter ricevere dal Padre un dono del tutto particolare per trovare il coraggio necessario a testimoniare in piazza la Buona Notizia.

    Tirando la conclusione di quanto detto possiamo allora comprendere il significato delle due consegne: garantire ai suoi un tempo, un luogo, un ambito (At 1,14) in cui assimilare, si potrebbe dire metabolizzare il contenuto della Buona Notizia e così prepararsi a ricevere il dono dello Spirito. Mettere la comunità nella condizione di coltivare la “memoria passionis! Si tratta di una grande esperienza di ascolto, un ascolto che conduca la comunità, attraverso il ministero del Gesù postpasquale, incagliata nelle risonanze prepasquali, all’intelligenza e all’accoglienza del significato della buona notizia.

    Piste di riflessione

    ∑    Gesù vuole assicurare un tempo , un luogo, un ambito in cui la comunità possa metabolizzare attraverso l’ascolto il contenuto della buona notizia. Ti sembra che le nostre comunità offrano questo itinerario e questo servizio, anzitutto ai suoi membri e ad altri? Se no perché? Avverti l’urgenza di questa proposta?

    ∑    Il nostro “predicare la parola” nasce dopo un itinerario vitale di ascolto come quello vissuto dagli apostoli nel cenacolo? Non rischia spesso di tradursi in un ripetere semplicemente dei contenuti-informazioni religiosi, senza che ciò che viene annunciato sia stato elaborato a livello personale e comunitario in un vissuto di ascolto?

     

  • 12 Dic

    Una comunità che riceve un mandato

    At 1,1-12

    a cura di p. attilio franco fabris

    La manifestazione della presenza del dono del Signore alla prima comunità cristiana viene descritta secondo le categorie delle teofanie del Sinai. Questo sta ad indicare il parallelismo fra la festa ebraica della pentecoste e la Pentecoste cristiana.

    Come nell’A.T. l’antico Israele riceve sul Sinai le tavole della legge (e la Pentecoste ebraica è la festa che celebra il dono della Legge), così la comunità cristiana riunita nel cenacolo riceve il dono della Legge nuova, il dono dello Spirito, la nuova legge del cristiano.

    Come si ricava dal resto del racconto i frutti della pentecoste sono: anzitutto la “parresia”, poi la libertà di comunicare con tutti, nessuno escluso.

    La comunità degli apostoli è nel Cenacolo, sono tutti insieme nello stesso luogo. Da quanto tempo? Cosa ci stanno a fare?

    Non  è possibile stare alla cronologia certo simbolica degli Atti. Stando a questa cronologia verrebbe da dire: “Sono lì da dieci giorni”. In realtà questa cronologia rispecchia l’intenzione di Luca di far cadere il giorno della Pentecoste cristiana nel giorno della Pentecoste ebraica.

    Ma proseguiamo nel cammino a ritroso.

    Luca racconta che dopo l’ascensione gli apostoli tornano a Gerusalemme, ritirandosi nel Cenacolo. Ecco il retroterra della Pentecoste: il gruppo degli apostoli e delle donne, con Maria, è accampato notte e giorno nel “piano superiore” del Cenacolo. A che scopo?

    Dicono gli Atti “tutti erano assidui e concordi nella preghiera” (v.14). Luca sottolinea la fedeltà di questa comunità all’ascolto della Parola, persevera in essa.

    Ma perché gli apostoli sono fermi nel cenacolo? Perché non fanno altro?

    Questa situazione, socio-religiosa, incomprensibile trova la sua giustificazione nella tradizione della consegna ferma, decisa, che Gesù ha dato prima di lasciarli ai suoi amici. Tale tradizione riveste un’importanza fondamentale.

    Facciamo ancora un passo indietro. Cosa può fare Gesù, dopo la sua resurrezione, se non condividere con i discepoli intensamente gli interessi e le vicende del regno di Dio al quale ha consacrato la vita? E’ Gesù che ordina ai discepoli di non allontanarsi da Gerusalemme e di attendere “l’adempimento della promessa del Padre”. Le consegne sono due: non allontanarsi e attendere. Una è condizione per l’altra. E ambedue assicurano l’adempimento “fra non molti giorni” (Quanti? La promessa si adempirà quando Dio vorrà).

    I discepoli non possono valutare anzitempo la portata del dono. E’ impossibile comprendere senza prima averne fatto esperienza.

    Dunque questa comunità accampata nel cenacolo vive questa consegna non in nome di una propria iniziativa, ma in ubbidienza alla parola di Gesù. Quanto durerà? Nessuno lo sa. Gli Atti non ci offrono una spiegazione. Come mai?

    Occorre risalire ancora più indietro. Alla conclusione del Vangelo di Luca, Gesù dà ai suoi la medesima consegna (Lc 24,49). E’ un dettaglio di una grandissima importanza dal punto di vista teologico. Luca lo pone proprio a cerniera tra vangelo e atti, quasi ad affermare che tale consegna costituisce l’epicentro come della sua opera, di tutta l’esperienza cristiana. Ci ritorneremo.

     

    Piste di riflessione

    ∑    Quale significato attribuisci alle consegne date da Gesù ai suoi: di fermarsi a Gerusalemme e di attendere?

  • 10 Dic

    GLI ELEMENTI FONDAMENTALI DELLA PRATICA ESICASTA

     

    PLACIDE DESEILLE  La spiritualità ortodossa e la Filocalia, ed. BORLA,

    1. 1.    Il  combattimento invisibile

    La tentazione di mancare di temperanza, di irritarsi, o di commettere qualche altra colpa, è spesso provocata da un’occasione esterna, dalla presenza di «oggetti», per usare il vocabolario di Evagrio Pontico. Ma, anche in assenza di sollecitazioni esterne, la tentazione può nascere nell’anima, a partire da ricordi o da fantasie, sotto forma di «pensieri» cattivi, cioè di tentazioni puramente interiori. Evagrio nota che i laici che vivono nel mondo sono tentati soprattutto dagli oggetti, mentre i monaci, nella loro solitudine, lo sono di più dai pensieri. Questa distinzione non è d’altra parte rigida, e chiunque vuole impegnarsi seriamente nella vita spirituale deve fare questo combattimento invisibile, senza il quale l’ascesi corporale e le opere esteriori non sarebbero sufficienti. Si può consumare il corpo col digiuno, le veglie e tutti i tipi di lavoro, o moltiplicare le buone opere, e tuttavia rimanere agitati dai molti pensieri e dalle fantasie, che possono portare all’orgoglio, alla fornicazione, alla perdita della fede in Dio e alla disperazione.

    Contro gli uomini che vivono nel mondo, i demoni lottano soprattutto attraverso gli oggetti, mentre contro i monaci, lo fanno più spesso con i pensieri; la solitudine infatti li priva delle cose. Ma quanto più è facile peccare col pensiero che con le azioni, tanto più è duro il combattimento che avviene nel pensiero rispetto a quello che riguarda le cose. Il nous è infatti una cosa estremamente mobile, e, quanto alle fantasie illecite, difficile da dominare (Evagrio Pontico).

    Questa domanda fu posta all’abate Agatone: “Che cosa e meglio: l’ascesi corporale o la custodia del cuore?”  L’anziano rispose: «L’uomo è simile ad un albero: la fatica del corpo  è il fogliame, e la custodia del cuore il frutto. Poiché, secondo la Scrittura, ogni albero che non produce buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco  (Mt 3 10) è chiaro che tutta la nostra cura deve essere per il frutto cioè per la custodia del cuore, ma è necessaria anche la protezione e l’ornamento delle foglie che sono la fatica del corpo» (Agatone).

    Quando un uomo, dopo aver udito la parola di Dio, intraprende la lotta, rigetta tutte le faccende di questa vita, i legami di questo mondo,   tutti i piaceri carnali, rinnegandoli e liberandosene, e se rimane con  perseveranza davanti al Signore, consacrandogli tutto il proprio tempo, scoprirà che nel cuore vi è un’altra lotta, un’altra battaglia, segreta, e una nuova guerra, contro i pensieri suggeriti dagli spiriti di  malizia, e che lo attende un altro combattimento. Così, se non cede e invoca il Signore con una fede  incrollabile e una grande pazienza, aspettando il suo aiuto, potrà ottenere da lui la liberazione dai  legami, dai lacci, dalle sbarre e dalle tenebre degli spiriti di malizia, cioè dalle operazioni delle   passioni nascoste […].

    Per tutto il tempo in cui un uomo è preso dalle cose visibili di questo mondo, circondato dalle varie catene della terra, trascinato dalle passioni malvagie, non sa nemmeno che vi è un altro combattimento, un’altra lotta, un’altra guerra dentro se stesso. Infatti, soltanto quando un uomo si alza per combattere e liberarsi da ogni legame visibile di questo mondo, dagli affari materiali e dai piaceri carnali, e comincia a stare con perseveranza davanti al Signore svuotandosi di questo mondo, può conoscere il combattimento interiore delle passioni che si agitano in lui, la guerra interiore e i pensieri malvagi. Come si è detto, per tutto il tempo in cui uno non lotta, non rinuncia al mondo, non si distacca con tutto il cuore dalle bramosie terrene e non vuole unirsi totalmente e senza riserve al Signore, costui non conosce né le astuzie segrete degli spiriti di malizia, né le passioni malvagie nascoste in lui. Ma è estraneo a se stesso, non sapendo di portare in sé piaghe e passioni segrete; è ancora prigioniero delle cose visibili e volontariamente schiavo degli affari di questo mondo (San Macario l’Egiziano).

    Ma come identificare questi pensieri cattivi?   Evagrio Pontico ne ha composto un elenco, che è rimasto classico. Sarà ripreso, in Occidente, da san Cassiano di Marsiglia, poi, con qualche modifica, da papa san Gregorio Magno (540-604), che porterà a sette i «peccati capitali».

    I pensieri cattivi possono essere tutti ricondotti a otto principali. Il primo è la golosità, il secondo la lussuria, il terzo l’amore del denaro, il quarto la tristezza, il quinto la collera, il sesto l’accidia, il settimo la vanagloria, l’ottavo l’orgoglio. Che tutti questi pensieri agitino o meno la nostra anima, non dipende da noi; ma che si attardino in noi e mettano in movimento la passione o no, ciò dipende invece da noi.

    Il pensiero della golosità suggerisce al monaco di abbandonare al più presto l’ascesi, prospettandogli dolori allo stomaco, al fegato e alla milza, l’idropisia, una lunga malattia, la mancanza del necessario, l’assenza di medicine. Spesso gli suggerisce il ricordo dei fratelli che furono così provati; e talvolta suggerisce a costoro di andare a trovare quelli che si dedicano alla temperanza, per descrivere loro dettagliatamente le proprie malattie, attribuendole all’ascesi.

    Il demone della lussuria costringe a desiderare dei corpi, attacca con la più grande violenza coloro che si dedicano alla temperanza, per spingerli alla rilassatezza, persuadendoli che si affaticano invano. Assilla  talmente l’anima da inclinarla verso tali azioni, fa si che pronunci parole e ne oda, come se la cosa fosse là sotto i suoi occhi.

    L’amore del denaro suggerisce una lunga vecchiaia, il non poter più lavorare con le proprie mani, la minaccia della fame, le malattie che sopraggiungeranno, l’amarezza della povertà, e com’è disonorevole dover mendicare il necessario.

    La tristezza o nasce dalla privazione di una cosa desiderata, oppure accompagna la collera. Ecco come nasce dalla privazione di una cosa desiderata: sono i pensieri a dare l’inizio col riportare alla memoria del monaco la sua casa, i suoi genitori, la sua vita passata; poi, quando essi vedono che, invece di resistere egli vi presta volentieri attenzione e si abbandona con la mente a questi piaceri, si impadroniscono di lui e lo fanno precipitare nella tristezza all’idea che le cose passate non ci sono più e che il suo genere di vita attuale impedisce il loro ritorno. Perciò, più l’infelice anima si è abbandonata con piacere ai primi pensieri, più è abbattuta dai secondi.

     

    Quanto alla collera, essa è una passione estremamente ardente. E’ infatti un ribollimento e un movimento dell’irascibile contro chi ci ha offeso o è sembrato offenderci. Essa riempie l’anima di una continua acredine e si impossessa dello spirito, soprattutto durante la preghiera, agitando sotto i suoi occhi l’immagine di colui che l’ha contrariata […].

    C’è poi il demone dell’accidia, detto anche demonio meridiano (cfr. SaI 90, 6), ed è il più pesante di tutti i demoni. Egli attacca il monaco verso la quarta ora e assedia la sua anima fino all’ora ottava. Comincia dandogli l’impressione che il sole sia lentissimo nella sua corsa o perfino immobile, e che il giorno abbia cinquanta ore. Poi lo spinge a guardare sempre dalla finestra, lo getta fuori dalla sua cella per scrutare il sole e vedere se l’ora nona è vicina, infine lo sollecita a guardarsi attorno nell’attesa della visita di un fratello. Gli genera avversione verso il luogo in cui dimora, il suo genere di vita, il lavoro delle sue mani; gli insinua il pensiero che non c’è più carità tra i fratelli e che non può contare su nessuno. Se in quei momenti qualcuno viene a rattristarlo, il demonio ne approfitta per aumentare ancora più questa avversione. Gli fa desiderare altri luoghi, dove gli sarà più facile procurarsi il necessario, dove troverà un mestiere più facile e nel quale riuscirà meglio. A questo aggiunge il pensiero che, per piacere a Dio, poco importa il luogo in cui ci si trova, perché è possibile ovunque adorare la divinità. Gli ricorda ancora i genitori e la vita di un tempo. Gli prospetta la lunghezza della vita e gli mette sotto gli occhi le fatiche dell’ascesi. In una parola, lo scuote da capo a piedi, fino al punto che il monaco, abbandonata la sua cella, fugga fuori dallo stadio. Tuttavia, a questo demone non ne segue alcun altro, per cui, se supera il combattimento, l’anima si ritrova in uno stato di pace e in una gioia ineffabile.

    Il pensiero della vanagloria è estremamente sottile, e nasce facilmente in coloro che praticano l’ascesi: cerca in tutti i modi di rendere note le loro lotte, ricerca la gloria che viene dagli uomini, fa loro immaginare demoni che gridano, donne sanate, folle che cercano di toccare i loro abiti; poi predice loro il sacerdozio, fa apparire alla loro porta persone che bramano di vederli al punto di costringerli, se mai non volessero. Dopo averli così innalzati con speranze piene di vanità, li abbandona a se stessi o alle tentazioni del demone dell’orgoglio o a quello della tristezza, che li assalgono con pensieri contrari alla speranza. Consegna infine al demone della lussuria colui che, proprio un istante prima, era un sacerdote così santo da doverlo perfino legare per poterlo ordinare.

     

    Il demone dell’orgoglio provoca all’anima le cadute più terribili. La persuade a non riconoscere che l’aiuto gli viene da Dio; a pensare di stare praticando l’ascesi con successo e di innalzarsi al di sopra degli altri, stimandoli tardi di mente perché non ne riconoscono la superiorità. In seguito sopraggiungono la collera, la tristezza, e – male supremo – lo smarrimento dello spirito e la follia, così come anche visioni di folle di demoni nell’aria (Evagrio Pontico).

    1. 2.     LA SOBRIETA’ SPIRITUALE E IL DISCERNIMENTO  DEGLI SPIRITI

    Le cose sarebbero relativamente semplici se la tentazione si presentasse sempre a viso scoperto. Ma già l’apostolo Paolo metteva in guardia i Corinzi di quanto Satana era capace di trasformarsi in angelo di luce (cfr. 2Cor li, 14). Molte sono le illusioni che attendono al varco il novizio inesperto. Le consolazioni nella preghiera, le lacrime, gli stessi colloqui spirituali possono nascondere delle trappole per chi non è vigilante.

    Le lacrime, se sono causate dal timore, hanno in se stesse la garanzia. Ma se sono causate dall’amore, quando è ancora a uno stadio imperfetti o, come può accadere per certuni, possono facilmente cambiarsi in illusione. A meno che il pensiero del fuoco eterno non abbia acceso il cuore nel momento dell’azione. Ed è significativo notare che in quel momento il fuoco meno nobile è anche il più sicuro.

    Nel tempo della tentazione, ho sperimentato come questo lupo producesse ingannevolmente nella mia anima una gioia, delle lacrime e una consolazione che erano prive di un ragionevole fondamento; e io ero come un bambino: credevo di cogliere un frutto buono, non un oggetto che mi corrompeva (San Giovanni Climaco).

    Esaminiamo, soppesiamo, sorvegliamo le dolcezze che sentiamo durante la salmodia, per distinguere quali provengono dal demone della lussuria e quali dalle parole dello Spirito e dalla grazia e dalla forza che esse contengono. Non ingannarti, o giovane. Ho visto infatti uomini pregare con tutta l’anima per quanti erano loro cari. Credevano di adempiere alla legge dell’amore, ed erano invece mossi dallo spirito di lussuria. Voi tutti che avete deciso di custodire la purezza, ascoltate un’altra furbizia e un altro espediente di quell’astuto, e guardatevene. Qualcuno che aveva esperienza di questa scaltrezza mi ha riferito che molto spesso il demone della lussuria si nasconde completamente, e mentre il monaco siede e conversa con delle donne, gli ispira grandi sentimenti di pietà e forse anche torrenti di lacrime, e gli suggerisce di ammaestrarle parlando loro del ricordo della morte, del giudizio e della castità. Allora le sventurate, ingannate da questi discorsi e dalla sua falsa pietà, accorrono da quel lupo come fosse un pastore, e quando i rapporti sono diventati più familiari ecco che l’infelice viene travolto nella caduta. Esamina attentamente la soavità che provi nella tua anima, per timore che non sia stata preparata con inganno da medici crudeli, anzi da traditori (San Giovanni Climaco).

    Come discernere la moneta falsa? Nulla può sostituire la chiaroveggenza del padre spirituale. Tuttavia, sin dalle origini del monachesimo, sant’Antonio aveva fissato alcuni criteri che possono aiutare a scovare l’illusione. Antonio considerava soprattutto il caso delle apparizioni angeliche o demoniache. Ma la portata delle sue osservazioni è più ampia. Un pensiero, un moto interiore o una ispirazione  accompagnata da pace, gioia, umiltà, è “spirito buono”. Al contrario, tutto ciò che fa nascere nell’anima turbamento, agitazione e durezza porta il segno dello spirito cattivo, anche se l’apparenza è buona

    È possibile e facile, se Dio ne fa la grazia, discernere la presenza degli spiriti buoni da quelli cattivi. L’apparizione dei santi non genera turbamento: “Non griderà,  non alzerà il tono, non farà udire la sua voce nelle strade (Is 42, 2). La loro presenza è così dolce e tranquilla che colma immediatamente l’anima di gioia, esultanza e fiducia. Perché con loro c’è il Signore, il quale è la nostra gioia e la  potenza di Dio Padre. I pensieri  dell’anima rimangono tranquilli e senza turbamento. Essa stessa, immersa nella luce,  può contemplare da sola coloro che le sono apparsi. Allora il desiderio delle cose divine e future si impossessa di lei, e vorrebbe assolutamente unirsi i con loro. Se avviene che, essendo mortali, alcuni temono alla vista degli spiriti buoni, la carità di questi è tale da dissipare questo timore. Allo stesso modo fece Gabriele con Zaccaria (cfr. Lc 1, 13), e l’angelo che apparve alle donne presso il divino sepolcro (cfr. Mt 28, 5),  e quello che secondo il Vangelo, apparve ai pastori e disse “Non temete” (Lc 2, 10). Perché questo timore  non proviene dall’infermità dell’anima, ma dal fatto che essa riconosce la presenza di esseri che le sono superiori. Tali sono le apparizioni dei santi spiriti. Al contrario, l’incursione e l’apparizione dei cattivi spiriti getta nel turbamento; essi vengono con rumore, strepito e grida, e si agitano come giovani senza educazione o briganti. Subito nascono nell’anima il timore, il turbamento e il disordine dei pensieri; la tristezza, il rancore verso gli asceti; l’accidia, l’afflizione, il ricordo dei genitori; la paura della morte; infine i desideri malvagi, il disprezzo della virtù e il disordine dei costumi. Perciò, quando qualche apparizione vi spaventa, se questo timore si dissipa subito e al suo posto provate una gioia ineffabile, ardore, fiducia, conforto, tranquillità nei pensieri, generosità e amor di Dio, e tutto ciò che è stato già detto, prendete coraggio e pregate, perché questa gioia e questo stato quieto dell’anima manifestano la santità di colui che si rende presente (Sant’ Atanasio di Alessandria).

    Mille anni dopo, san Massimo Capsocaliva si esprimerà quasi negli stessi termini nel corso di un colloquio con san Gregorio Sinaita.

    Altri sono i segni dell’inganno, e altri quelli della grazia e della verità dello Spirito.Ecco quelli dell’inganno: quando il Maligno entra in contatto con noi, suscita nell’intelletto il turbamento; lo rende ribelle e indurisce il cuore; gli ispira mollezza e sfiducia; effonde tenebre sui suoi pensieri; rende cattivo lo sguardo; confonde la mente; consegna il povero corpo al tremore; fa apparire davanti agli occhi il fuoco fascinoso dell’errore, e non quello che diffonde una luce chiara e serena. Fa uscire poi di senno e rende l’intelletto demoniaco. Infine fa uscire dalla bocca parole sconvenienti e bestemmie. L’uomo diventa così soltanto irritazione e collera. In lui non vi è più né umiltà, né preghiere, né  lacrime; egli trae continuamente motivo di vanto dalla sua virtù e se ne gloria. Resta chiuso nelle sue passioni, finché perde il senno e va in perdizione. Da questo inganno del  Maligno, o Padre santo, il Signore ci liberi. Quanto ai segni  della grazia, eccoli: quando il Santo entra contatto con noi, unifica l’intelletto donandogli sapienza, umiltà e misura.

    Pone nell’anima il pensiero della morte, del giudizio, dei nostri peccati, e anche del castigo del fuoco. Dona al cuore la perfetta compunzione, l’afflizione e il pianto; rende lo sguardo più dolce, e le lacrime scendono dagli occhi. Più il contatto è ravvicinato, più l’anima trova dolcezza e consolazione nella preziosa Passione di Cristo e nel suo immenso amore per gli uomini. Egli suscita nell’intelletto contemplazioni altissime scevre da inganno […]. In questo modo lo illumina con lo splendore della conoscenza divina. E quando l’intelletto è rapito, nello Spirito Santo, da questa inaccessibile luce divina, esso viene illuminato da questa stessa luce divina e splendente. Ciò rende il cuore quieto, e colui che ha ricevuto tali doni ottiene nel suo intelletto, nel suo cuore, nella sua ragione e nel suo spirito una beatitudine e una gioia ineffabili.

    Dopo che è stata riscontrata la natura cattiva di un pensiero, com’è possibile resistergli efficacemente? A questo scopo è utile conoscere il processo della tentazione, al fine di opporle resistenza al momento opportuno. San Giovanni Climaco ha così descritto le varie fasi della tentazione:

    I padri, dotati di discernimento, hanno distinto gli uni dagli altri l’approccio, l’adesione, il consenso, la prigionia, il combattimento e ciò che viene chiamata passione dell’anima. Questi uomini beati definiscono l‘approccio come la prima apparizione, nel cuore, del semplice pensiero o dell’immagine di un oggetto che si presenta. L’adesione consiste nell’accettare il dialogo con ciò che si è manifestato, seguito o meno da passione. Il consenso è l’acquiescenza dell’anima, accompagnata da diletto, a ciò che le viene proposto. La prigionia è un impulso violento e involontario del cuore; o anche un continuo attaccamento all’oggetto in questione tale da distrugge la buona disposizione della nostra anima. Il combattimento è definito come un confronto, ancora a parità di forze, con l’avversario, in cui l’anima, secondo la scelta della sua volontà, riporta la vittoria o subisce una sconfitta. Essi dicono che la passione, in senso proprio, è un male che da tempo affliggeva segretamente l’anima e che l’ha portata a contrarre un intimo legame con sé, costringendola, con disposizione abituale, a piegarsi ad essa spontaneamente e connaturalmente.        Di tutti questi movimenti, il primo è senza peccato; il secondo non sempre lo è; quanto al terzo, è colpevole o no secondo lo stato interiore del combattente. Il combattimento infine è l’occasione che procura corona o castigo (San Giovanni Climaco).

    L’approccio o suggestione è la semplice apparizione nella coscienza del pensiero di una cosa cattiva, e di un’attrazione verso di essa; potrà essere, per esempio, un pensiero di vendetta, di golosità, un invito a compiacersi in una cattiva tristezza, ecc. Esso è involontario, e sarebbe vano pretendere di impedire che nascano in noi questi moti. Al contrario, dandoci l’occasione di dimostrare il nostro amore per il Signore e mantenendoci nell’umiltà, la tentazione ha un ruolo importante nell’opera della nostra santificazione. È in questo senso che Evagrio Pontico poteva dire: «Togli le tentazioni, e nessuno sarà salvato».

    Nell’adesione o dialogo, riflettiamo sulla tentazione e, in qualche modo, ci intratteniamo con essa. Ciò può non comportare nessuna connivenza segreta con essa e non avere altro fine che opporgli ragioni contrarie. E questo un metodo che non è senza pericolo e che i Padri generalmente sconsigliano, soprattutto agli asceti inesperti. Perché il dialogo può nascondere già un mezzo consenso, un compiacimento inconfessato che non è del tutto esente dal peccato.

    Il consenso è una presa di posizione personale: accettiamo di far consistere il nostro piacere nella gioia cattiva che ci è proposta: aderiamo a questa tensione disordinata e identifichiamo, in qualche modo, il nostro io con essa.

    Se consensi simili si ripetono, generano dapprima la passione, che è la tendenza cattiva promossa a stato di seconda natura, poi la prigionia, vera ossessione, impulso irresistibile in cui la libertà non ha più posto.

    S’impone quindi un’estrema vigilanza che i Padri chiamano custodia del cuore o sobrietà (nepsis). Bisogna combattere i pensieri sin dal loro apparire, sin dallo stadio in cui sono semplici suggestioni:

    Dobbiamo perciò costantemente ricordarci di questo precetto: «Custodisci il tuo cuore con tutte le possibili attenzioni» (Prv 4, 23), e, secondo il comandamento dato da Dio al principio, sorvegliare la testa velenosa del serpente (cfr. Gn 3, 15), cioè l’inizio dei pensieri cattivi, coi quali il diavolo tenta di penetrare nella nostra anima. Non lasciamo che, per negligenza, il resto del suo corpo, cioè il consenso al piacere cattivo, entri nel nostro cuore; se vi entrasse, certamente il suo morso velenoso darebbe la morte all’anima divenuta sua prigioniera. Dobbiamo anche mettere a morte sin dal mattino i peccatori della terra» (SaI 100, 8), cioè i pensieri carnali, e «sbattere contro la pietra i figli di Babilonia» (Salì 36, 9), quando sono ancora piccoli, perché se non li sterminiamo nella loro infanzia, cresceranno grazie alla nostra connivenza e ci combatteranno con ancora più forza per la nostra perdizione – oppure non potremo vincere se non con molta pena e fatica (San Cassiano).

     

    3. LA PREGHIERA “MONOLOGICA” DI GESU’

    Evidentemente, non basta essere vigilanti, mettere allo scoperto i pensieri cattivi e volervisi opporre. Soltanto la potenza di Cristo può permetterci di combatterli vittoriosamente. Già Origene, molto consapevole della stretta unione che c’è tra Cristo e i cristiani sue «membra», insegnava che è il Cristo stesso che continua nei fedeli il suo combattimento contro Satana e che ogni vittoria ottenuta da un cristiano è una vittoria di tutta la Chiesa. E’ dunque principalmente a Origene che risale l’idea del combattimento spirituale come continuazione del combattimento redentore e l’immagine della campagna militare di Cristo e delle due Città contrapposte, che si ritroveranno, nel XVI secolo, nelle meditazioni di sant’Ignazio di Loyola su «il Regno» e “le due Bandiere”.Ma essa è stata profondamente assimilata dai primi monaci e da Evagrio Pontico. Nello stesso tempo, l’antica concezione secondo la quale, nella persona del martire, è il Cristo stesso che soffre e combatteveniva trasferita, dopo la fine delle persecuzioni, al combattimento

    del monaco contro le tentazioni diaboliche. Per questo, alla vigilanza, i maestri spirituali consigliavano di aggiungere un’invocazione a Cristo, breve, ma ripetuta incessantemente. E quella che è stata chiamata «preghiera monologica», composta cioè di una sola breve formula.

    Con questa pratica, i pensieri si spezzeranno contro la potenza vittoriosa di Cristo, che si fa presente appena lo si invoca; contemporaneamente, essa permetterà di opporre al «ricordo del male» il «ricordo di Dio», che nei nostri autori indica la presa di coscienza di questa attrazione divina e di questo senso intimo delle cose di Dio iscritto nell’anima col battesimo. Già Cassiano dava a questo metodo una formulazione quasi definitiva, anche se non conosceva l’invocazione del Nome di Gesù:

    Ogni monaco che tende al ricordo continuo di Dio, deve abituarsi a sussurrare interiormente e a ripetere incessantemente, nel suo cuore, la formula che vi consegno, e, mediante ciò, cacciare la moltitudine degli altri pensieri, perché non potrà realizzarlo se non liberandosi da tutte le cure e le sollecitudini del corpo. E questa una dottrina alla quale siamo stati iniziati dai rari superstiti dei più antichi Padri, e che, anche noi, consegniamo ai rari privilegiati, che abbiano veramente sete di conoscerla. Per conservare continuamente il ricordo di Dio, dovete quindi tenere presente nel vostro spirito, incessantemente, questa santa formula: «Mio Dio, vieni in mio aiuto; Signore, affrettati a soccorrermi» (Sal 69, 2). Non è senza motivo che questo versetto è stato scelto fra tutta la Sacra Scrittura. Esso esprime tutti i sentimenti che la natura umana può concepire, ed è perfettamente adatto a tutti gli stati e a tutte le tentazioni. Vi è in esso l’invocazione di Dio contro tutti i pericoli, l’umiltà di un’umile e pia confessione, la vigilanza che proviene da un’attenzione e da un timore continuo, la considerazione della nostra fragilità, la fiducia di essere esauditi, la certezza di un soccorso sempre presente e pronto a intervenire. Perché colui che invoca incessantemente il suo Protettore è certo di averlo sempre presente (San G. Cassiano)

    I due elementi fondamentali della preghiera di Gesù sono già presenti ante litteram in questo testo degno di nota: anzitutto l’umile confessione della nostra miseria, che sola può aprirci alla grazia, e nella quale i Padri del deserto vedevano, proprio per questo motivo, l’unica via di salvezza: e poi lo stretto legame stabilito tra l’invocazione e la presenza intima del Signore.

    È in Egitto, in un’epoca indeterminata, ma poco posteriore a quella di Cassiano, che la menzione del nome di Gesù sembra sia stata introdotta nella formula della preghiera monologica, che è diventata così: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!». Non è mai stata, tuttavia, una formula stereotipa. La sua pratica ammette delle varianti, e l’invocazione può anche ridursi al solo nome di Gesù. I Padri raccomandano però di non variare troppo spesso la formula, perché la monotonia della ripetizione ha un ruolo importante nel metodo.

    Diadoco di Fotica è uno dei primi testimoni di questa «preghiera di Gesù», che è anche una «meditazione del suo santo glorioso Nome”dando al termine «meditazione» il suo antico senso di ruminazione di una parola o di una formula:

    Quando chiudiamo tutte le sue uscite col ricordo di Dio, l’intelletto esige assolutamente da noi un’opera che deve soddisfare il suo bisogno di attività. Bisogna dargli perciò il «Signore Gesù» come la sola occupazione che risponde interamente al suo scopo. E scritto infatti: «Nessuno può dire “Gesù è Signore”, se non nello Spirito Santo» (1Cor 12, 3). Ma per non volgersi ad alcuna fantasia, bisogna che contempli sempre in modo esclusivo questa parola, nel suo segreto. Infatti, tutti quelli che meditano incessantemente nel profondo del loro cuore questo santo e glorioso Nome, possono vedere infine la luce del proprio intelletto. Infatti esso, trattenuto dalla mente con attenta cura, brucia con intensa percezione tutta la sozzura che copre la superficie dell’anima; è detto infatti: «Il nostro Dio è un fuoco divorante» (Dt 4, 24). Il Signore poi sollecita l’anima a un grande amore della sua gloria. Perseverando, attraverso il ricordo dell’intelletto, nel fervore del cuore, questo Nome glorioso e così desiderabile fissa in noi l’abito di amarne la bontà senza che nulla ormai vi si opponga. È questa infatti la perla preziosa che si può acquistare vendendo tutti i propri beni, per godere, alla sua scoperta, di una gioia ineffabile (Diadoco di Fotica).

    Con ciò, Diadoco vuole dire che il Nome di Gesù, come i versetti della Scrittura che gli antichi monaci amavano ruminare con una meditazione incessante,  ha in sé un’efficacia eccezionale per risvegliare nel cuore l’amore divino che in lui è nascosto, in virtù del battesimo, come una scintilla sotto la cenere. Con l’invocazione, il gusto di Dio e delle cose di Dio si fa sentire e trionfa sulle false dolcezze del peccato. Lo spirito può allora «vedere la sua propria luce», espressione evagriana che indica la contemplazione e significa che lo spirito, prendendo coscienza sperimentata dell’inclinazione che lo spinge verso Dio, gusta qualcosa di Dio stesso, poiché questa stessa attrazione è la manifestazione della presenza divinizzante del Cristo e del suo Spirito nell’uomo. In seguito, Diadoco mostra l’intima connessione che deve stabilirsi tra l’invocazione formulata dallo spirito dell’uomo, e l’aspirazione dello Spirito Santo che, a poco a poco, si lascia provare nel fondo del cuore:

    Allora l’anima afferra la grazia stessa che medita e che grida con essa «Signore Gesù», come una madre che insegna al proprio figlio la parola «padre», ripetendola insieme a lui finché lo porti, invece del balbettio infantile, all’abitudine di chiamare distintamente suo padre, anche nel sonno. Per questo l’Apostolo dice: «Allo stesso modo lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili» (Rm 8, 26). (Diadoco di Fotica).

    Questa abitudine alla preghiera, che prosegue «anche nel sonno», è tutt’altra cosa rispetto a un semplice riflesso automatico originato dalla ripetizione degli atti. Essa è il frutto di una pienezza interiore, di una perfetta unificazione di tutte le energie dell’anima messe al servizio della carità e animate da essa. Il costante ricordo di Dio, al quale conduce l’esercizio dapprima faticoso della preghiera di Gesù, risulta più da uno stato, da un orientamento divenuto spontaneo e stabile del cuore verso Dio, che da una successione di atti. E’, come dirà il patriarca Callisto in un breve trattato tra i più notevoli della Filocalia, un’acqua viva e zampillante che scaturisce dall’anima come da una sorgente perpetua. E’ ciò che assillava l’anima di Ignazio il Teoforo e gli faceva dire: «Ciò che è in me, non è il fuoco avido della materia, ma è l’acqua che opera e che parla» (Callisto II).

    1. 4.     IL METODO PSICO-FISICO

    L’elemento fondamentale del metodo esicasta è quindi la preghiera monologica:  «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!». La tradizione esicasta vi ha aggiunto in seguito l’assunzione di una determinata posizione corporale e di un certo controllo della respirazione. Le prime descrizioni scritte sistematiche che ci sono pervenute risalgono al XIII secolo, ma vari indizi fanno pensare che questo metodo psico-fisico esistesse già, almeno in uno stadio rudimentale, in un’epoca più antica. La necessità assoluta di controllo da parte di un padre spirituale esperto giustifica il carattere dapprima orale della tradizione su questo punto; gli stessi resoconti letterari non pretendono d’altra parte di supplire all’iniziazione vivente, essendo incompleti.

    La testimonianza più antica sul metodo ci viene da Niceforo il Solitario:

    Innanzitutto bisogna che la tua vita sia quieta, pura da ogni preoccupazione, in pace con tutti. Allora entra e chiuditi nella tua cella e, seduto in un angolo, fa’ ciò che ti dico:

    Tu sai che il nostro respiro è l’aria che inspiriamo ed espiriamo grazie al cuore. Perché è il cuore il principio della vita e del calore del corpo. Il cuore attira l’aria per emettere all’esterno il proprio calore, mediante l’espirazione e raggiungere una buona temperatura. Il principio di questa organizzazione, o meglio il suo strumento, è il polmone. Creato poroso dal Creatore, incessantemente introduce ed espelle l’aria come un mantice. Allo stesso modo il cuore, attirando il freddo con il respiro ed emettendo il caldo, conserva imprescindibilmente la funzione che gli è stata assegnata per l’equilibrio del vivente.

    Tu dunque, come ti ho detto, siediti, raccogli il tuo intelletto, introducilo – il tuo intelletto – nelle narici; è quello il cammino che percorre l’aria per andare al cuore. Spingilo, costringilo a scendere nel tuo cuore insieme all’aria inspirata. Quando vi sarà giunto, vedrai la gioia che ne seguirà: non avrai nulla da rimpiangere. Come un uomo che rientra a casa dopo un’assenza non trattiene più la gioia di poter ritrovare la moglie e i figli, così l’intelletto, quando si è unito all’anima, trabocca di una gioia e di delizie ineffabili.

    Fratello mio, abitua il tuo intelletto a non affrettarsi ad uscire di là. All’inizio è privo di zelo – è il meno che si possa dire – a causa di questa reclusione e di questa strettezza interiore. Ma, quando si sarà abituato, non proverà più alcun piacere nelle relazioni esterne. Perché «il regno di Dio è dentro di noi» e per colui che si volge verso di esso e lo cerca con la preghiera pura tutto il mondo esterno diventerà vile e detestabile.

    Se fin dall’inizio entri attraverso l’intelletto nel luogo del cuore che ti ho mostrato, siano rese grazie a Dio. Glorificalo, esulta e tieniti sempre occupato in questa attività, ed essa ti insegnerà ciò che tu ignori. Sappi, poi, che quando il tuo intelletto si trova in quel luogo, tu non devi tacere o restare ozioso. Ma non devi avere altra occupazione o meditazione che il grido: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me!», senza tregua e ad ogni costo. Questo esercizio, mettendo il tuo intelletto al riparo dalle divagazioni, lo rende impenetrabile e inaccessibile alle suggestioni del nemico e, ogni giorno, lo innalza all’amore e al desiderio di Dio.

    Ma se, fratello mio, nonostante tutti i tuoi sforzi, non giungi a penetrare all’interno del cuore seguendo le mie indicazioni, fa ciò che ti dico e, con l’aiuto di Dio, riuscirai nel tuo scopo. Tu sai che la ragione dell’uomo ha sede nel petto. E’ infatti nel nostro petto che, pur rimanendo mute le labbra, parliamo, decidiamo, ordiniamo le preghiere e i salmi, ecc.  Dopo aver bandito da questa ragione tutti i pensieri (e se vuoi lo puoi), dalle l’invocazione: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!” e costringila a gridare interiormente queste parole, escludendo ogni altro pensiero. Quando, col tempo, sarai padrone di questo esercizio, esso ti aprirà certamente la porta del cuore, così come ti ho detto. Io stesso ne ho fatto l’esperienza. Insieme alla gioiosa e desiderabile attenzione, vedrai venire a te tutto il coro delle virtù, l’amore, la gioia, la pace e il resto. Grazie ad esse tutte le tue richieste saranno esaudite nel Nostro Signore Gesù Cristo.

    San Gregorio Palamas, che difese il metodo dalle facili accuse dei suoi avversari, così lo commenta:

    Tu lo vedi, fratello: Giovanni (Climaco) ha dimostrato che basta esaminare il problema umanamente, non solo spiritualmente, per vedere che è assolutamente necessario introdurre e mantenere l’intelletto dentro il corpo, quando si è scelto di possedersi veramente e di essere un monaco degno di questo nome secondo l’uomo interiore. D’altra parte, non è sconveniente insegnare, soprattutto ai principianti, a guardare in se stessi e a introdurre il proprio intelletto dentro di sé mediante l’inspirazione. Nessuna persona sensata, infatti, impedirebbe a qualcuno di introdurre in se stesso, attraverso certi procedimenti, il proprio intelletto che non è ancora in grado di contemplare se stesso. Coloro che hanno appena iniziato questa lotta vedono continuamente fuggire il proprio intelletto, appena raccolto, e devono, altrettanto continuamente, ricondurlo; nella loro inesperienza, non si rendono conto che niente al mondo è più difficile da contemplare e più mobile dell’intelletto. Per questo motivo, alcuni raccomandano di controllare l’emissione e la ripresa del respiro e di trattenerlo un poco, in modo da trattenere con esso anche l’intelletto, vigilando sulla respirazione perché, con l’aiuto di Dio, progrediscano fino a impedire al proprio intelletto di uscire verso ciò che lo circonda, e purificarlo, perché possano ricondurlo davvero a un raccoglimento uniforme. Si può anche constatare che questo è un effetto spontaneo dell’attenzione dell’intelletto, perché l’entrata e l’uscita del respiro diventa quieta anche durante una riflessione intensa, soprattutto in coloro che sono nell’esichia col corpo e con la mente […]. Colui che cerca di raccogliere l’intelletto in se stesso per spingerlo non ad un movimento in linea retta (verso l’esterno), ma ad un movimento circolare e infallibile (ritornando su se stesso), invece di girare gli occhi qua e là, come potrebbe non trarne grande profitto fissando il proprio petto o il proprio ombelico come punto di appoggio? Perché non soltanto si raccoglierà in se stesso esteriormente, per quanto gli sarà possibile, conformemente al movimento interiore che va ricercando per il suo intelletto, ma, mediante questo atteggiamento del corpo, invierà verso l’interno del cuore anche la potenza dell’intelletto che si riversa all’esterno attraverso la vista.

    Alcuni ironizzeranno sulla fisiologia «sorpassata» che sembra implicare l’insegnamento degli esicasti. Ma in realtà non è questa a fondare il metodo; essa cerca piuttosto di spiegarlo a posteriori. La cosa più importante è l’esperienza, ed essa ha rivelato a questi spirituali un misterioso ma innegabile legame tra il respiro, e quindi i polmoni, il cuore fisico, e lo spirito (o «intelletto»). E innanzitutto un fatto, e la sua attuazione nel campo della vita spirituale si è rivelata molto feconda. Poco importa, in definitiva, che in seguito sia spiegata con una teoria fondata su dati di ordine anatomico e fisiologico. Lo si è già visto riguardo all’ascesi corporale, per gli esicasti, la cui concezione del complesso umano è vicina a quella della Bibbia. É tutto l’essere, corpo e anima, che deve partecipare della vita spirituale, perché è tutto l’essere che deve ricevere la salvezza ed essere divinizzato. Si tratta sempre di simboleggiare le attitudini dell’anima con gesti del corpo, per permettere «l’integrazione armoniosa di tutto il nostro essere nella sua ascesa verso Dio». D’altronde non si tratta di un metodo, in senso stretto, proporzionato all’effetto che si vuole ottenere, ma soltanto di un aiuto, però non trascurabile. Altrimenti verrebbe compromessa la gratuità del dono di Dio.

    Prima di tutto, è con l’aiuto della grazia divina che l’intelletto riesce in questo combattimento. È la grazia divina che corona l’invocazione monologica rivolta a Gesù Cristo con fede viva, con tutta purezza, senza distrazioni, col cuore. Non è l’effetto puro e semplice del metodo naturale della respirazione praticato in un luogo tranquillo e oscuro. I santi Padri, inventando questo metodo, miravano soltanto a fornire un aiuto, se così si può dire, per raccogliere l’intelletto (San Callisto e Ignazio Xanthopouli).

    La nostra ricerca sulle origini del metodo esicasta ha troppe lacune perché si possa determinare se esistono rapporti d’influenza tra esso e le spiritualità musulmana, induista o buddista, che predicano anch’esse l’invocazione del Nome divino unita a una tecnica respiratoria. Una simile influenza non avrebbe in sé nulla che screditi il metodo: le leggi della fisica umana sono universali, e la grazia, lungi dal distruggere la natura, ne assume il dinamismo profondo, trasfigurandolo. E soprattutto la tecnica è sostenuta, nel nostro caso, da una dottrina autenticamente biblica e cristiana. Senza la fede nei dogmi della creazione dell’universo spirituale e materiale, della salvezza per grazia in Cristo, della risurrezione dei corpi, della deificazione mediante i sacramenti, l’insegnamento che i «santi Padri niptici» ci hanno trasmesso riguardo alla preghiera del cuore sarebbe incomprensibile. L’ultimo fondamento del metodo è la confessione del corifeo degli Apostoli davanti al Sinedrio:  «Non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati» (At 4, 12).

    In un tempo in cui molti cristiani sono alla ricerca di «una disciplina totale di vita, anche corporale, che favorisca il loro equilibrio e il loro sviluppo spirituale», è interessante per noi ascoltare i vecchi monaci che hanno saputo mettere al servizio del pieno sviluppo della grazia di Cristo nell’uomo una sapienza umana il cui segreto l’Occidente ha perduto.

     

  • 07 Dic

    Non abbiamo che un solo Padre

    Lectio di Mt 6,9-10; Lc 11,2

     

     di p. attilio franco fabris

     

    E’ interessante notare che la religione monoteistica mussulmana tra i “Novantanove Nomi” dati a Dio non contiene quello di “padre”. Troppo forte è per questa religione la concezione di una trascendenza assoluta di Dio per potergli applicare una simbolica che troppo fa riferimento all’esperienza umana e alla fede cristiana. Dalla mancanza di questo titolo attribuito a Dio difficilmente può scaturire la consapevolezza che tutti siamo suoi figli, che l’umanità deve costruirsi come un’unica grande famiglia in cui ciascuno viene accolto, come in ogni famiglia, nella sua uguale dignità, diversità e libertà.

    In contrapposizione  mi piace riportare un episodio tratto dalla vita di Teresa di Lisieux, una piccola del Regno, che ha sperimentato nella sua vita un abbandono totale e fiducioso nelle mani del Padre, sapendo allargare il suo cuore in un abbraccio a tutta l’umanità fosse anche quella più lontana da Dio. Un giorno – racconta Celina sorella di Teresa – entrando nella cella della nostra cara sorella rimasi sorpresa dalla sua espressione di grande raccoglimento. Cuciva con slancio e tuttavia sembrava perduta in una profonda contemplazione. “A che pensi?” le chiesi. “Medito il Pater noster” mi rispose “ è così dolce chiamare Dio Padre Nostro!”. E le spuntarono le lacrime agli occhi. Teresa amò Dio come un bambino vuole bene al babbo con incredibili manifestazioni di tenerezza. Durante la sua malattia accadde che, parlando di lui, prese una parola per un’altra e lo chiamò papà. Noi ridemmo ma lei riprese tutta commossa: “Oh sì, è proprio mio papà, e quanto mi è dolce dargli questo nome (Consigli e ricordi).

    Invochiamo dallo Spirito di Gesù la grazia di fare la stessa esperienza della dolce e forte paternità di Dio che aprendoci gli occhi ci fa scoprire nell’altro il fratello e la sorella che lui ci dona: O Spirito santo di Dio, / colomba che scendi dall’alto, / aleggia su noi qui raccolti, / ispira la nostra preghiera./ Un cuore unito chiediamo, / un cuore che sappia ascoltare, / un labbro capace di lode, / che sappia al Padre parlare. / Tu operi tutto in tutti, / i doni son molti e diversi, / ci chiami a formare un sol corpo / e l’unico tempio tuo santo. Amen (dalla Liturgia di Bose).

    Lectio

    Numerosi erano i popoli antichi che usavano chiamare Dio con il nome di “Padre”. Ma occorre fare attenzione; non tutti coloro che chiamano Dio col nome di Padre si rivolgono allo stesso Dio; anche Assur il dio sanguinario di Ninive, a cui venivano offerti anche sacrifici umani, era chiamato “padre”. Quindi non basta fermarsi al titolo, ma occorre guardare la realtà che esso indica per comprenderne il significato vero.

    Si rimane meravigliati constatando che, nell’Antico Testamento, l’appellativo  “Padre” riferito a Dio sia usato pochissime volte (15 in tutto!). Israele infatti ha osato rivolgersi a JHWH con l’appellativo di “Padre” molto tardi. Questo per il semplice fatto che nelle mitologie pagane limitrofe la paternità di Dio era intesa in senso troppo fisico-materiale, e questa era una visione incompatibile con l’altissima concezione spirituale che Israele aveva di Dio. L’Antico Testamento userà il titolo di Padre per sottolineare soprattutto la coscienza di Israele di essere stato generato come popolo da parte di  JHWH attraverso il dono dell’alleanza. Da cui scaturisce il dovere di un’obbedienza filiale nei suoi confronti: “Voi siete figli di JHWH, vostro Dio” (Dt 14,1). Successivamente questa paternità di Dio, attraverso la predicazione profetica, viene estesa a tutti gli altri popoli: “Non abbiamo noi tutti un unico padre? Non ci ha creati un solo Dio? (Ml 2,10).

    Ma chiamare Dio “Padre” non significa ancora chiamarlo “Abbà”: parola con cui i bambini si rivolgevano al loro “papà”. E’ il termine aramaico affettuoso e confidenziale con cui il bambino si rivolge al proprio “babbo”. E Gesù, quando parla di Dio e si relaziona con lui nella preghiera, usa abitualmente questo appellativo, suscitando lo scandalo presso i teologi dell’epoca: “Proprio per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo: perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio” (Gv 5,18). Il che non può che indicare che il suo rapporto con Dio è caratterizzato da un’assoluta e unica confidenza, intimità e fiducia.

    Dunque nel Nuovo Testamento il volto di Dio “Abbà” è una rivelazione di Gesù anzitutto perché egli stesso si pone dinanzi a lui sin dall’inizio con una chiara autocoscienza del suo essere a pieno titolo suo “Figlio” (cfr Lc 2,49).

    Ma a cosa fa riferimento la rivelazione di Dio “padre-abbà”? Il primo e fondamentale significato dell’appellativo è quello di Dio riconosciuto come fonte originaria della vita e di relazione filiale. E’ da lui che  “proviene ogni paternità in cielo e in terra” (Ef 3,15) per Gesù prima di tutto in quanto Figlio per natura, ma anche per noi che attraverso il nostro unirci a Cristo mediante la fede, incorporati a lui col battesimo, diveniamo a tutti gli effetti figli adottivi: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12); “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1Gv 3,1). Certamente il rapporto tra Gesù e il suo “Abbà” è unico; non troviamo mai che egli preghi insieme ai suoi discepoli dicendo con i discepoli “Padre nostro” (cfr Gv 20,27).  Tuttavia i discepoli di Gesù, entrando a far parte della sua famiglia, imparano a loro volta a rivolgersi a Dio come figli, chiamando Dio familiarmente “Padre” come ha fatto Gesù. E questo è dono dello Spirito (Gal 4,6; Rm 8,15) che ci dona la capcità della parresia ovvero di una “disinvolta confidente familiarità” con Dio (osiamo dire…).  Per il cristiano si instaura perciò con Dio-Abbà un rapporto di grande familiarità che deriva dalla consapevolezza di essere figli nel Figlio (cfr. Ef 3,11-12). Quando nei testi neotestamentari troviamo l’appellativo “Padre” probabilmente esso traduce sempre l’unica espressione aramaica usata da Gesù: “Abbà”. Egli ci ha rivelato l’immagine di Dio come Padre colmo di misericordia che ha cura dei suoi figli (cfr Lc 15), di cui non si deve e non si può avere paura. Ci ha insegnato a rivolgerci a lui con la semplicità dei bambini (Mt 5,15) perché Egli conosce e ha cura di ogni sua creatura (Mt 6,25-31; Lc 12,6). È esattamente il contrario di un padre-padrone perché la sua paternità è viscerale, compassionevole, mai possessiva anzi desiderosa di promuovere la vera libertà dei figli.

    L’aggettivo “nostro” nel Pater riportato da Matteo è riferito ovviamente a Dio (“di noi”) e non sta ad indicare certamente possesso: Egli è il nostro Dio e noi siamo il suo popolo. Si tratta di un’appartenenza reciproca che ci è stata offerta gratuitamente nell’Alleanza: Io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio (Ap 21,7).

    La paternità di Dio si esprime al plurale perché il suo amore è per tutti. Egli invita gli uomini a percepirsi e raccogliersi da fratelli in un’unica famiglia, questa è una dimensione fondamentale della richiesta del Regno invocato dalla preghiera del Pater (Mt 5,44-45). Un “Nostro” che è riferito in primo luogo a quella realtà sacramentale del Regno già presente che è la Chiesa, famiglia di Dio. 

    Una ulteriore sfaccettatura dell’aggettivo “nostro” è che il Pater è la preghiera che ci fa passare dall’inizio alla fine dal Tu al Noi; constatiamo infatti che nella prima parte al centro vi è un Tu: il tuo nome, il tuo regno, la tua volontà, e nella seconda parte predomina il noi: da a noi il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti, non indurre noi in tentazione, libera noi dal male. Siamo figli, un unico corpo, un’unica famiglia, fratelli e sorelle raccolti attorno a Cristo che crea tra noi legami più forti di quelli del sangue (cfr Mt 23,8). Mette in luce che l’essere suo popolo è una immensa e gratuita degnazione da parte di lui senza alcun nostro merito, cosa che impedisce di trasformare la grazia dell’elezione in spirito di gretto settarismo.

    Infine, sempre Matteo, inserisce l’espressione “che sei nei cieli” comunissima al tempo del giudaismo. Ad esempio un rabbino contemporaneo degli apostoli dice: “Le pietre dell’altare fanno nascere la pace fra Israele e il Padre suo che è nei cieli”.

    Gli antichi erano meravigliati dalla profondità del cielo a loro inaccessibile che rievocava il mistero, la trascendenza, l’infinito. Nella loro cosmologia il cielo appariva loro come una realtà solida sulla quale sta il trono di Dio, la sua dimora, la sua corte celeste, il suo palazzo (cf Sal 2,2s; 104,2; Gb 1,6-12). L’espressione “che sei nei cieli” sta dunque ad indicare la totale trascendenza di Dio, il suo mistero inaccessibile, ma non la sua lontananza! Dio è vicino e lontano, Padre e Signore. Il credente unisce confidenza e timore, familiarità e obbedienza. Certo l’espressione che “sei nei cieli” unita a “Padre” può generare un certo disagio: un vero padre non è mai lontano, staccato, inaccessibile. Tuttavia nella fede siamo chiamati a conciliare questi due aspetti di Dio: la sua paternità non esclude la sua trascendenza e viceversa. E’ un mistero di amore che ci avvolge e che nello stesso tempo ci trascende. E ancora: “che sei nei cieli” è richiamo a Dio come Creatore divenendo  invito a scorgere in ogni cosa un suo dono.

    Sono cieli, che un tempo chiusi, sono ormai spalancati da Gesù (“si spalancarono i cieli” Mt 3,16) a tutta l’umanità perché in lui cielo (Dio) e terra (umanità) sono ormai eternamente riconciliati. Paolo può dire: Il Padre ci ha fatti sedere (ovvero possiamo rimanervi, sono ormai nostra dimora) nei cieli in Cristo (Ef 3,6). Il peccato ci aveva allontanato da questi cieli, ma essi sono ridiventati la “nostra patria”. Viviamo come esiliati: Sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste (2Cor 5,2). La nostra conversione non è altro che un ritorno al cielo di Dio dove finalmente l’umanità sarà unica famiglia raccolta nella casa del Padre.

    Meditatio

    Psicologi e sociologi affermano che la nostra società ha rifiutato la presenza e il ruolo del padre per cui si è parlato per la cultura occidentale di una sorta di “morte del padre”. La sua figura legata ad ogni forma di autorità è stata infatti rifiutata – anche violentemente – a partire soprattutto dagli anni ’60 perché avvertita come un ruolo bloccante e frustrante della spontaneità della vita. Si è visto nella figura del “padre” l’avversario-padrone da combattere in quanto rappresentante di tutti i condizionamenti e alienazioni e si è rivendicato, in una società improntata sull’ideologia radicale che rivendica un’autonomia assoluta (fonte di ogni relativismo) il diritto da parte di ognuno di decidere della sua vita, senza riferimento a nessun “padre”, come meglio crede: anche per quanto riguarda la morte. Anche l’ingegneria genetica – quando ha prescisso dal “padre” rivendicando una sua autonomia da ogni valore di riferimento, è entrata talvolta in un gorgo delirante di onnipotenza, dando luogo ad esistenze che alla loro origine mancano del volto del padre-madre. Anzi questo “padre-madre” anonimo è contrassegnato inevitabilmente da una maschera di morte (per ogni embrione fatto crescere molti altri sono lasciati morire!). La conseguenza è che ci troviamo ad aver a che fare sempre più, soprattutto nell’ambito delle nuove generazioni, con un uomo orfano, solo, sperduto, senza radici, frutto unicamente del caso e perciò incapace di affermare la propria identità e dignità più profonda. La vita, propria e altrui, non avendo significato non vale nulla: il quattordicenne può sparare benissimo al barista per non pagare il conto di 20 euro, o se ammalati ci si può gettare dal balcone perché tanto non c’è nessun padre che abbracci e consoli.  La conseguenza è che nell’ “altro” che mi sta di fronte spesso non si è più capaci di vedere il dono di un fratello o di una sorella da accogliere e amare perché parte di me, della mia vita e della mia storia. L’“altro”, spesso anche all’interno della famiglia, è tutt’al più un “qualcuno”, o forse “qualcosa” da sfruttare se debole, da cui sbarazzarsene se dà fastidio, o da cui difendersi se troppo forte perché minaccia la mia libertà. La nostra è così una società di orfani e di figli unici: senza famiglia, senza padre/madre e perciò senza fratelli né sorelle!

    Questa “orfanezza” invece di spingere alla ricerca del volto del vero padre sembra premere in un parossistico tentativo di spegnere solo l’angoscia che da questa assenza deriva: piccoli orizzonti individuali o incontri racchiusi nel “tutto e subito” di piaceri passeggeri e fine a se stessi, ossessioni  di incontri “virtuali” (più si è meglio è!) che vorrebbero rappresentare quella casa in cui toccare con mano il calore dell’affetto e dell’abbraccio che tutti vorrebbero e che, invece, si rivelano come case fredde e anonime che non riscaldano mai a sufficienza il cuore e in cui, nel riflesso del monitor, è sempre e solo il proprio volto a specchiarsi.

    Tutto questa cultura ha inciso fortemente e negativamente anche sul pensare Dio e Dio come Padre. Lo spauracchio di Dio non funziona più per obbligare i più a stare “in casa”, e il “buon Dio”al massimo è utile per le donne e i bambini. Il giovane e l’adulto non ha bisogno di un “Padre”, può rischiare benissimo da sé la vita che sente solo sua. Tutt’al più può far riferimento a una religiosità vaga e universale, ad un cosmo divinizzato… in cui non ci si sente minacciati nella propria indipendenza e autonomia perché non mi interpella chiamandomi per nome.

    Questi sono alcuni tra i tanti motivi dell’allontanamento dalla chiesa, la casa della famiglia di Dio, soprattutto da parte delle nuove generazioni. La religione del Padre è rifiutata o, il che è peggio, lascia completamente indifferenti.  Lo scrittore E. Hemingway scriveva in uno dei suoi “49 Racconti” una parodia del Padre Nostro: O nulla nostro che sei nulla, / sia nulla il tuo nome / nulla il regno tuo / e sia nulla la tua volontà / così in nulla come in nulla/. Dacci oggi il nostro nulla quotidiano / Ave, nulla, pieno di nulla, / il nulla sia con te”.  Sono parole estremamente drammatiche che risuonano in un buio vuoto colmo di assurdità, ma quanto mai rappresentative della nostra epoca.

    Questa mala comprensione di Dio non è altro che frutto del peccato, del lasciar continuamente insinuare nel cuore il sospetto di un Dio geloso che non vuole il bene e la gioia delle sue creature: Giovanni Paolo II scriveva nella sua enciclica “Dominus et Vivificantem”: “Lo spirito delle tenebre (Ef 6,12) è capace di mostrare Dio come nemico della propria creatura e prima di tutto come nemico dell’uomo, come fonte di pericolo e di minaccia per l’uomo. In questo modo viene innestato da Satana nella psicologia dell’uomo il germe dell’opposizione nei riguardi di colui che “sin dall’inizio” dev’essere considerato come nemico dell’uomo e non come Padre. L’uomo viene sfidato a diventare l’avversario di Dio” .  Ma se Dio che dovrebbe essere mio Padre mi è nemico, come allora posso fidarmi del fratello che mi sta accanto? Come è possibile “metter su famiglia” sia nel senso dello sposarsi come dell’entrare in una comunità cristiana o religiosa? 

    È urgente mettere in atto quella nuova evangelizzazione, desiderio profondo di tutta la Chiesa, capace di annunciare il vero volto del Padre rivelatoci da Gesù. Non è che forse in verità si rifiuti un’immagine caricaturale che di Dio era stata data e che forse la stessa Chiesa in tanti modi aveva avvallato allontanandosi dalla rivelazione biblica? O ancora: quanto le esperienze negative che tanti hanno fatto e fanno nell’ambito delle proprie relazioni familiari hanno influenzato in modo negativo anche il loro rapporto con Dio Padre (e con la Chiesa)?

    Questo Padre-Abbà di certo non possiede le caratteristiche frustranti che vengono rifiutate dalla nostra cultura. Gesù ci rivela un Dio-Abbà-papà che è garante e fonte di vera vita e libertà per tutti i suoi figli e che desidera fortemente che tra loro si instauri l’autentica fraternità, una sola famiglia, racchiusa nel suo progetto sin dal principio”, inaugurata da Gesù con la Chiesa e che è promessa per tutta l’umanità alla fine dei tempi: “Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro” (Ap 21,2-3).

    L’“Abbà” di Gesù non è certo un padre-padrone geloso della vera libertà dei figli, anzi egli la promuove continuamente in tutti i modi, correndone tutti i rischi e anche perdendoci (cfr la parabola del “figlio prodigo e del padre misericordioso Lc 15). I tratti del volto di questo Dio-Abbà, che si manifestano nell’umanità di Gesù suo Figlio, sono caratterizzati dalla tenerezza, dalla compassione, dalla misericordia, dal perdono, da un amore gratuito senza “se” e senza “ma”.

    La preghiera del Padre Nostro ci propone in sintesi tutto questo come programma non solo di preghiera ma anche di vita. L’orazione del Signore ci fa uscire dal rischio di una religiosità falsa caratterizzata dall’intimismo e individualismo: davanti al Padre, anche nel segreto della nostra stanza (cfr Mt 6,6), Gesù ci insegna a portare non solo noi stessi ma anche tutti coloro per i quali egli ha offerto se stesso. Il Catechismo afferma che “i battezzati non possono pregare il Padre “nostro” senza portare davanti a lui tutti coloro per i quali egli ha dato il Figlio suo diletto. L’amore di Dio è senza frontiere, anche la nostra preghiera deve esserlo” (2793). “Pregando il Padre Nostro ci collochiamo sicuramente nell’ambito della preghiera di Gesù, la sua grande preghiera sacerdotale, nella quale lui stesso chiede al Padre che tutti siano “una cosa sola”, come lui è “una cosa sola col Padre” (cfr Gv 17,21).

    In famiglia pregare insieme il Pater significherà allora riconoscere gli uni di fronte agli altri – genitori e figli – in una comune professione di fede la comune paternità di Dio da cui procede ogni paternità e questo riconoscimento sarà garanzia di libertà, di dignità e responsabilità vicendevole. In una comunità cristiana e religiosa significherà riconoscere che si è “famiglia” nella misura in cui non si cerca anzitutto di trovare punti di convergenza in se stessi, nei programmi o nelle simpatie vicendevoli,  ma unicamente nella fede in Cristo che ci raccoglie nella sua famiglia: “la Chiesa è questa nuova comunione di Dio e degli uomini: unita al Figlio unico diventato “il primogenito di molti fratelli” (Rm 8,29 ), essa è in comunione con un solo e medesimo Padre, in un solo e medesimo Spirito Santo (Cf Ef 4,4-6)” (CCC 2790). Ci si riconosce figli di un unico padre e fratelli tra noi non per legami di sangue (motivazioni umane), ma per una “consaguineità” di fede ancor più profonda di fede nel Signore Gesù. “Chi fa la volontà del Padre, questi è fratello, sorella e madre” (Mt 12,50).

    Come sono tristi e controtestimonianti comunità grette, chiuse, divise, fredde incapaci di trasmettere una minima esperienza di Dio-Abbà! Come non chiedere allora al Signore che le nostre comunità sappiano dare testimoniare al mondo del nostro essere “famiglia di Dio”, fratelli tra noi, in cui tutti possano sperimentare l’accoglienza, l’abbraccio, il calore, la misericordia del comune Padre-Abbà? Che l’uomo “orfano” e vagabondo solitario nel mondo possa trovare finalmente una casa in cui scoprire che c’è un Padre desideroso di far festa con tutti i suoi figli. 

    Oratio

    Non dire: Padre se ogni giorno non ti comporti come un figlio.
    Non dire: nostro
       se vivi isolato nel tuo egoismo.
    Non dire: che sei nei cieli   se pensi solo alle cose terrestri.
    Non dire: Sia santificato il tuo nome
       se non lo onori.
    Non dire: Venga il tuo regno,   se lo confondi con il successo materiale.
    Non dire: Sia fatta la tua volontà
       se non l’accetti quando essa è dolorosa.
    Non dire: Dacci oggi il nostro pane quotidiano
       se non ti preoccupi di chi non ha nulla da mangiare.
    Non dire: Rimetti a noi i nostri debiti
       se conservi rancore verso tuo fratello.
    Non dire: Liberaci dal male
       se non prendi posizione contro il male.
    Non dire: Amen
       se non hai inteso e non hai accolto   la Parola del Padre Nostro.

     

     

     

  • 03 Dic

    Una comunità che si costruisce a partire dalla Parola
    e attorno alla Parola:  Atti 2,42-48

     

     a cura di p. attilio franco fabris

    E’ il testo noto come “primo sommario” sulla prima comunità cristiana.

    Ci domandiamo: da dove procede questa comunione?  Dal versetto introduttivo ci viene la risposta: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere”.

    Sono le “quattro fedeltà” della comunità cristiana primitiva. Esse sono in un rapporto funzionale tra loro: l’ascolto dell’insegnamento apostolico, l’unione fraterna (koinonia) , la frazione del pane, la preghiera.

    Anzitutto un primo dato: la koinonia, l’unione fraterna, nasce dall’ascolto della Parola. La comunità non nasce da sentimenti, propositi, progetti… ma dall’ascolto! Si tratta di una comunione che Dio stesso, attraverso la sua Parola, imbastisce, intesse tra noi. La Parola è una forza che esplica sulle nostre esistenze un’azione attraente e aggregante. Una forza che non illumina solo l’intelligenza, ma tocca il cuore e muove le volontà, innescando un processo di aggregazione che struttura, fra coloro che la ascoltano, relazioni nuove.

    E’ questo ascolto-incontro-con-Dio-mediato-dalla-Parola che fa di noi Chiesa in senso neotestamentario.

    Ci sono infatti diverse forme di aggregazione-comunione dal punto di vista religioso e sociale. Ma non sono comunità neotestamentarie, ovvero Chiesa, senza ascolto della Parola.

    Ecco dunque un criterio importante: possiamo dirci comunità evangelica quando le persone si raccolgono attorno alla Parola. E’ la Parola che chiama e che fa Chiesa (“ekklesia” da “kaleo” – chiamare)  a questa Parola siamo chiamati a rispondere.

    E’ una Parola dunque che ci prende, ci raccoglie, ci mette insieme. Per che cosa? Per continuare ad ascoltare quella Parola e vivere di quella Parola.

    Alcuni potrebbero obiettare: “La comunità in senso evangelico è una comunità di fede! “. Certo lo è. Ma lo potrebbe essere ancora in senso teista, non avendo preso ancora piena coscienza del suo essere comunità cristiana. “Come fai a dirlo?”. Si potrebbe rispondere: dal semplice fatto che la sua esperienza di fede non si fonda prevalentemente sull’ascolto della Parola. Nel migliore dei casi accanto ad altre iniziative, progetti, ecc… si pone anche qualche momento di ascolto della Parola che non è certamente centrale. (cfr la difficoltà dei centri di ascolto nelle parrocchie). Dal punto di vista biblico invece sarebbe naturale dire: “Apparteniamo tutti al gruppo di ascolto, perché l’ascolto della Parola è il fondamento del nostro essere comunità, è l’attività fondamentale che tutti condividiamo. All’interno di questa attività ci ripartiamo i compiti e le funzioni richieste dalla vita comune”.

    Nella vita religiosa non siamo stati educati a questo costruire la comunità attorno all’ascolto concreto (tempi, spazi…) della Parola. Domandiamoci come è maturata la nostra vocazione religiosa e sacerdotale. Certamente la Parola è entrata e ha fatto la sua parte. Ma possiamo affermare che la Parola era ed è realmente il centro di tutto? Probabilmente no: e si tratta di una constatazione di tipo socio-pastorale e di tipo socio-religioso.

    L’ascolto della Parola è ad un tempo ascolto personale e ascolto comunitario. Ma l’ascolto vero e proprio che fonda l’esperienza di fede di tipo biblico, non è quello individuale, ma quello comunitario. Occorre essere almeno in due! (cfr Mt 18,20).

    La condivisione della Parola consente allo Spirito di manifestare con intensità, a coloro che si raccolgono intorno ad essa, la presenza del Signore.

    Perché il Signore Gesù assicura la sua presenza in mezzo a coloro che si radunano nel suo nome? Rispondiamo: perché allora la coscienza di coloro che coltivano l’ascolto della Parola, diventa sensibile alla presenza del Signore. La presenza del Signore non si manifesta “quoad se” perché c’era già; essa si manifesta “quoad audientes”, nel senso che coloro che praticano l’ascolto della Parola, finalmente la percepiscono. Ciò che educa il cuore, la coscienza di coloro che ascoltano, a percepire la presenza di Dio, è la Parola stessa.

    L’ascolto della Parola passa attraverso quello che potremmo chiamare il “circuito” dell’ascolto.

    Quali sono le fasi di questo circuito?

    Rm 10,14 ci dice che l’ascolto parte se c’è qualcuno che parla nel nome del Signore. E’ necessario che qualcuno parli: la tradizione biblica lo chiama “profeta” ovvero colui che si fa servo della Parola e non si vergogna delle cose che ha da dire, e parla faccia a faccia con i suoi interlocutori.

    Quindi perché l’ascolto della Parola di avvii ci vuole qualcuno che ci venga incontro con franchezza, per dirci: “Ho qualcosa da dirti da parte del Signore. Vuoi ascoltare?”.

    Questa Parola non si accontenta di istruire, esortare, annunciare. Il profeta fa ben altro. Interroga, dialoga con chi lo ascolta. Cosicché proprio attraverso l’annuncio (il kerigma), l’istruzione (la catechesi), e l’esortazione (la parenesi) si avvia fra chi annuncia, chi porge la Parola, e chi ascolta un dialogo imbastito dalla Parola. Il filo conduttore di questo dialogo con sono le idee, i propositi, i sentimenti, ma è la Parola che il profeta propone e con cui il suo interlocutore, ascoltando, interagisce. Questa Parola filtra e ricicla tutti i nostri vissuti.

    Ne segue che il dialogare fra di noi, frutto esso stesso dell’ascolto, è un dialogare continuamente con quella Parola in nome della quale ci stiamo incontrando. Le nostre Parole divengono un’eco (le risonanze) della Parola ascoltata.

    Dunque alla fase della “datio verbio” deve seguire la “redditio verbi”. Io ti porgo la Parola, tu cosa mi dici? Cosa ti suggerisce la tua coscienza? Così la Parola viaggia, da coscienza a coscienza, va e viene, viene e va, come la spola di un fuso, come la navetta di un telaio,  e tesse le relazioni nuove che fanno la comunità. Questo processo non è altro che la condivisione della Parola. Per definire  la quale potremmo usare l’espressione “fractio verbi”.

    La condivisione della Parola genera comunione: Una comunione che non è frutto di sapienza umana, di intese umane, ma è frutto della Parola, attraverso la quale il Signore ci mette insieme, accomuna, le ga intreccia, annoda fra loro le nostre vite. Le relazioni che nascono dall’ascolto della Parola sono estremamente forti e significative. Perché? Perché in quanto generate dal sacramento della Parola sono delle relazioni “sacramentali”. L’altro diviene necessario: “Io non posso ascoltare la Parola da solo: ho bisogno di te. Tu hai bisogno di me: Abbiamo bisogno di essere comunità-Chiesa”.

    La condivisione della Parola generando relazioni di condivisione e di comunione, porta alla condivisione della vita. Se colui che con me condivide la Parola è segno vivo della presenza del Signore che parla, se io lo sono per lui, possiamo allora non mettere in comune la vita e i beni? E’ una comunione che nasce spontanea, dalla gioia dell’amore. E’ evidente: attraverso l’esperienza della sacramentalità della relazione ecclesiale passa la libertà dell’amore.

    Come chiameremo la condivisione della vita che scaturisce dalla “fractio verbi”? La chiameremo “fractio vitae”.

    La successione allora delle fasi dell’ascolto si presenta così:

    –     “datio verbi”: l’annuncio della Parola

    –     “redditio verbi”: la risonanza della Parola annunciata nelle nostre coscienza

    –     “fractio verbi”: la condivisione delle nostre risonanze

    –     “fractio vitae”: la condivisione della vita attorno alla Parola

    Solo a questo punto è ragionevole che la “fractio vitae” trovi la sua piena esplicitazione nel gesto della “fractio panis”: Luca, nella gerarchia delle “quattro fedeltà” della comunità primitiva colloca la frazione del pane al terzo posto, dopo l’insegnamento degli apostoli e l’unione fraterna.

    La tradizione cristiana definisce la frazione del pane “fons et culmen vitae christianae”: “culmen” in quanto celebra la comunione fraterna già attuale; “fons” in quanto, nella sua forza sacramentale genera ed incrementa la comunione che celebra.

    Come viviamo la “fractio panis”? Essa è segno vivo che attesta da una parte la consegna che il Signore fa di sé all’umanità, dall’altra la nostra disponibilità ad accogliere e condividere il dono di questa comunione. Una comunione che abbraccia la nostra relazione con Dio e con i nostri fratelli.

    Ora nelle nostre celebrazioni queste dimensioni sono altrettanto presenti? Non è forse che la liturgia eucaristica si presenti troppo spesso come una comunione cultuale, un rito in cui si celebra la comunione mistica fra Dio e l’uomo, e la comunione fraterna si intraveda appena? DA che cosa dipende questo? Stando a quanto detto ciò accade perché la “fractio panis” non è preceduta adeguatamente dalla “fractio verbi”. Come può una comunità spezzare il pane se prima non ha realmente spezzato la vita e come può spezzare la vita se non alla luce e nella forza della parola? Togliendo la condivisione della Parola togliamo vigore, significato, efficacia alla condivisione della vita e del Pane.

    Il Signore, fedele al suo popolo, continua a consegnarsi a noi, attraverso il pane della Parola e i segni del pane e del vino. Ma noi alla mensa della parola mangiamo poco o niente. Saltando la mensa della Parola non coltiviamo più nel Signore le relazioni fra di noi, non celebriamo adeguatamente la comunione fraterna e finiamo, senza accorgercene con lo scavalcare tutte le questioni inerenti alla nostra fraternità.

    Per Luca dunque è dall’ascolto della Parola che discende l’unione fraterna, ed è dall’unione fraterna che discende un’autentica “fractio panis”. Nell’ambito poi della “fractio panis” si svolge la preghiera. Queste “quattro fedeltà” costituiscono le tappe del processo che gradualmente aggrega e struttura la comunità primitiva.

    La carenza della condivisione della Parola rispecchia il progetto del Signore? La liturgia della Parola nell’eucarestia non ha forse assunto forse connotati solo rituali e quindi riduttivi? E questo non viene forse ad offuscare la vitalità e concretezza della celebrazione?

    Dove e come e quando l’assemblea è protagonista della preghiera liturgica? Se il principio della partecipazione del popolo alla celebrazione è uno dei sunti fondamentali riscoperti dal Concilio Vaticano II  da dove cominciare? E’ ovvio dalla liturgia della Parola. Invece generalmente è proprio qui che l’assemblea viene tagliata fuori. A volte si percepisce l’idea che l’assemblea sia protagonista nella misura in cui partecipa al ruolo del presbitero. Non è questa la strada. All’assemblea compete il suo ruolo e la sua partecipazione si attua anzitutto e prevalentemente nell’ambito della liturgia della Parola. E’ l’ascolto della Parola il luogo originario della comunione fra il presbitero e l’assemblea, fra l’assemblea e il presbitero, che si celebra poi attraverso la “fractio panis”.

    Ma sottolineamo: il problema non è se introdurre l’omelia partecipata o no. Il problema che sta a fondo è che l’assemblea sia preparata all’ascolto della Parola, sia esperta della “fractio panis”. L’omelia partecipata può essere un punto di arrivo non di partenza.

    L’assemblea deve essere educata prima e fuori della liturgia eucaristica.

    La riscoperta della centralità della Parola, e della Parola condivisa porta alla riscoperta del “dies dominici”, il giorno nel quale la comunità si raccoglie per ascoltare e celebrare il Signore.

    Se oggi nella nostra gente l’adempimento del precetto vissuto è spesso vissuto con pesantezza, o addirittura tralasciato, non è forse dovuto al fatto che la “fractio panis” ha perduto per essi la valenza di memoriale della passione e morte del Signore? E ciò è avvenuto perché è venuta meno la “fractio verbi” che doveva illustrare il significato di quel pane.

    Tirando le conclusioni di quanto accennato possiamo dire: affinché possiamo ritrovare la nostra identità di comunità religiosa è necessario che ritroviamo la nostra identità di comunità ecclesiale: ma l’identità ecclesiale dipende dall’ascolto della Parola.

    Quando la prima comunità è divenuta comunità di ascolto della Parola? Fu l’esperienza dei “cinquanta giorni” nel cenacolo nell’attesa dell’adempimento della promessa.

     

     

    Piste di riflessione

    ∑    Nelle nostre comunità si avverte l’urgenza di riscoprire al di là di programmazioni, progetti, finalità… un perno solido in cui riscoprire la nostra identità cristiana, religiosa, sacerdotale, in modo da risolvere quel disorientamento che attanaglia e rischia di bloccare tutti e tutto? Condividi  l’importanza e la centralità dell’ascolto della Parola come forza convocante e aggregante della comunità neotestamentaria, e che questa possa dirsi comunità evangelica solo nella misura in cui in essa l’ascolto abbia il primato?

    ∑    Come la tua comunità vive l’ascolto della Parola? Cosa sinora avete attuato in questa direzione? Puoi dire che questo ascolto abbia il primato su tutto, ovvero che tutto (apostolato, scelte comunitarie…) scaturisce da esso?

    ∑    Cosa concretamente suggerisci perché le comunità della nostra Provincia divengano sempre più comunità evangeliche fondate sull’ascolto della Parola ?

    ∑    In quale misura nelle nostre comunità si attua il circuito della condivisione della Parola “traditio e redditio verbi”?  Ne senti la necessità? Oppure ritieni che una comunità possa costruirsi su altri fondamenti?

    ∑    La funzione profetica a chi compete? Essa è presente nelle nostre comunità e  nella nostra provincia?

    ∑     Cosa proporresti concretamente affinchè le nostre relazioni trovino fondamento, origine, consistenza e significato a partire dalla condivisione del sacramento della Parola?

    ∑    La condivisione della vita trova il suo fondamento nella condivisione della parola. Ed è da queste due condivisioni che assume “spessore” la condivisione del pane nell’eucarestia. In quale misura nella tua comunità si condivide la Parola in vista della condivisione del Pane? Hai l’impressione che l’Eucarestia si riduca a solo gesto cultuale, che però non esprime efficacemente la comunione  tra i membri della comunità? Un gesto sacro che però scavalca le questioni inerenti alla vita fraterna?

    ∑    Cosa suggeriresti concretamente? Cosa occorrerebbe modificare?

    ∑    Nelle nostre celebrazioni avverti che è la nostra vita ad essere condivisa e spezzata alla luce della parola e nel segno vivo del pane?

    ∑     L’affermazione secondo cui per ritrovare la nostra identità di comunità religiosa è necessario riscoprire la nostra identità ecclesiale ti trova d’accordo? Quali conseguenze concrete comporterebbe l’accettare questo assunto?

     

  • 02 Dic

    Una comunità che conosce la prova: Atti 4,23-31

    a cura di p. attilio franco fabris

    Pietro e Giovanni, dopo la guarigione del paralitico alla porta bella, sono condotti dinanzi al sinedrio.

    Una situazione imprevista. Che sentimenti avranno provato i due apostoli? “Qua le cose si mettono male… Com’è andata per Gesù, così lui ha promesso che sarebbe andata anche per noi… Dobbiamo prepararci…”.

    Cosa avremmo fatto noi? Non è che forse avremmo cercato appoggi, sostenitori, non avremmo forse cercato di entrare nel “giro giusto”? Perché se se ne resta fuori niente protezioni, né… carriera.

    Luca racconta: “Appena rimessi in libertà andarono dai loro fratelli e riferirono quanto avevano detto gli anziani e i sommi sacerdoti”. I due non trovano di meglio che andare di corsa dai loro compagni, a condividere tutto: è la fraternità. Il gusto di raccontare ciò che nel Signore essi hanno vissuto. Ciò che loro hanno vissuto interessa tutta la comunità: “Erano un cuor solo ed un’anima sola”.

    La reazione della comunità è una preghiera, una supplica rivolta al Signore. Una supplica per chiedere di vivere tranquilli e in pace? No! “Ora Signore concedici di annunziare con tutta franchezza la tua parola. Stendi la mano perché si compiano guarigioni, miracoli e prodigi nel nome del tuo servo Gesù”.

    Ciò che la comunità chiede è la franchezza in ordine alla testimonianza della Buona Notizia.

    La preghiera è esaudita, essa è secondo il cuore di Dio (v. 31). Lo Spirito santo scende nuovamente e riempie tutti i presenti. Dunque questa franchezza è il dono principale dello Spirito conferito nella Pentecoste.

    Ma non era già sceso lo Spirito? Sì a Pentecoste appunto. Ma il dono di Dio non è statico, è dinamico, si rinnova continuamente quanto più il cuore si dispone a riceverlo. Il cuore si dispone a riceverlo quanto più accetta di venire sollecitato dagli avvenimenti.

    In una nuova situazione, questa volta di conflitto e di persecuzione, cosa può fare la comunità se non attingere proprio all’esperienza della pentecoste? E come? Attraverso la “memoria passionis”. Ecco il segreto di questa nuova pentecoste. Pietro e Giovanni quando raccontano le loro vicende alla comunità, la aiutano a fare la “memoria passionis”. La comunità non scappa, non impreca, non si dispera, ma nel nome del servo Gesù innalza la sua supplica a Dio per ottenere il dono della franchezza.

    Vi è una convinzione di fondo: ciò che ha toccato intimamente la persona di Gesù ora tocca intimamente la comunità dei discepoli. L’esperienza pasquale di Gesù è la chiave per comprendere quello che sta capitando.

     E questo atteggiamento apre ad una nuova esperienza della Pentecoste.

    Ma la comunità primitiva per reagire all’ostilità del sinedrio ed all’approssimarsi della persecuzione in questo modo, che cammino avrà fatto? Qual è il retroterra della comunità che si raccoglie intorno a Pietro e Giovanni ed invoca dal Signore il dono della parresia?

    La tradizione degli Atti ci suggerisce che ciò è stato reso possibile dal dono dello Spirito.

    Piste di riflessione

    ∑    Le nostre comunit dinanzi alle difficoltà che “strategie di intervento” ti sembra che generalmente adottino? La comunità trova nella “memoria passionis” il criterio di discernimento e di letture delle vicende che essa si trova ad affrontare (cfr Regole e Costituzioni, n.5). E’ presente questo criterio o ne usiamo altri?

    ∑    Credi anche tu che la nostra Provincia abbia bisogno di una nuova esperienza di pentecoste, in quanto anche noi stiamo attraversando situazioni conflittuali difficili? Stiamo vivendo una sorta di persecuzione che si chiama disagio, malessere profondo, sfiducia, stanchezza, pigrizia, resistenza. Tutto questo snerva, sfibra, toglie il gusto del servire il Signore. Siamo inseriti in una cultura secolarista che osteggia in diversi modi la fede. Tutto questo esige franchezza, il coraggio della testimonianza. Cosa proporremo? A quali situazioni nuove stiamo andando incontro?
    Di certo ad una situazione nella quale i credenti si troveranno in una situazione minoritaria. Torneremo nelle catacombe? Metaforicamente sì, cioè inventando e sviluppando dimensioni di vita realmente alternative.

     

  • 01 Dic

    LA PREGHIERA DEL CUORE

     

    Bernard Ugeux IL MORMORIO DELLA SORGENTE INTERIORE, ed. San Paolo,

    Consigli pratici

    Nella storia del cristianesimo si constata che, in numerose tradizioni, esisteva un insegnamento sull’importanza del corpo e delle posizioni corporee per la vita spirituale. Grandi santi ne hanno parlato, come Domenico,Teresa d’Avila, Ignazio di Loyola… Inoltre, fin dal IV secolo, incontriamo consigli a questo propo­sito nei monaci d’Egitto. Più tardi, gli ortodossi hanno proposto un insegnamento sull’attenzione al ritmo del cuore e sulla respirazione. Se ne è parlato soprattutto a proposito della «preghiera del cuore» (o la «preghie­ra di Gesù», che si rivolge a lui).

    Questa tradizione tiene conto del ritmo del cuore, della respirazione, di una presenza a se stessi per esse­re più disponibili a Dio. È una tradizione molto antica che attinge dagli insegnamenti dei Padri del deserto egi­ziano, monaci che si sono dati totalmente a Dio in una vita eremitica o comunitaria con un’attenzione parti­colare alla preghiera, all’ascesi e al dominio sulle pas­sioni. Essi possono essere considerati i successori dei martiri, grandi testimoni della fede all’epoca delle per­secuzioni religiose, che cessarono quando il cristianesi­mo divenne religione di Stato nell’impero romano. A partire dalla loro esperienza, si sono impegnati in un la­voro di accompagnamento spirituale ponendo l’accen­to sul discernimento di ciò che si viveva nella preghie­ra. In seguito, la tradizione ortodossa ha valorizzato una preghiera in cui alcune parole tratte dai Vangeli so­no accostate al respiro e ai battiti del cuore. Queste pa­role sono state pronunziate dal cieco Bartimeo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!» (Mc 10,47) e dal pub­blicano che prega così: «Signore, abbi pietà di me, pec­catore» (Lc 18,13).

    Questa tradizione è stata riscoperta di recente dalle Chiese d’Occidente, benché risalga a un’epoca ante­riore allo scisma tra i cristiani d’Occidente e d’Orien­te. E’ dunque un patrimonio comune da esplorare e da gustare, che ci interessa in quanto mostra come possia­mo associare il corpo, il cuore e la mente su un cammi­no spirituale cristiano. Ci possono essere convergenze con alcuni insegnamenti provenienti da tradizioni dell’Estremo Oriente.

     La ricerca del Pellegrino russo

     I Racconti di un pellegrino russoci permettono di accostarci alla preghiera del cuore. Attraverso quest’o­pera l’Occidente ha riscoperto l’esicasmo. In Russia esisteva un’antica tradizione secondo la quale certe persone, attirate da un cammino spirituale esigente, parti­vano a piedi attraverso la campagna, come mendican­ti, ed erano accolte nei monasteri, Come pellegrini, an­davano di monastero in monastero, alla ricerca di ri­sposte alle loro domande spirituali. Questa specie di ri­tiro peregrinante, nel quale avevano un ruolo impor­tante l’ascesi e le privazioni, poteva durare diversi anni.

    Il Pellegrino russo è un uomo vissuto nel XIX seco­lo. I suoi racconti furono pubblicati verso il 1870. L’au­tore non è chiaramente identificato. Era un uomo che aveva un problema di salute: un braccio atrofizzato, ed era assillato dal desiderio d’incontrare Dio. Andava da un santuario all’altro. Un giorno, egli ascolta in una chie­sa alcune parole tratte dalle lettere di san Paolo. Inizia allora un pellegrinaggio di cui ha scritto il racconto. Ec­co come egli si presenta:

    “Per grazia di Dio sono cristiano, per le mie azioni un grande peccatore, per condizione un pellegrino senza di­mora e del genere più umile, che vaga da un luogo all’al­tro. Tutti i miei averi consistono in una bisaccia di pan sec­co sulle spalle, e la Sacra Bibbia sotto la camicia. Nient’al­tro. Durante la ventiquattresima settimana dopo il gior­no della Trinità entrai in chiesa durante la liturgia per pre­gare un pò; stavano leggendo la pericope della lette­ra ai Tessalonicesi di san Paolo, in cui si dice: «Pregate in­cessantemente» (1Ts 5,17). Questa massima mi si fissò particolarmente nella mente, e incominciai dunque a ri­flettere: come si può pregare incessantemente, quando per ogni uomo è inevitabile e necessario impegnarsi anche in altre faccende per procurarsi il sostentamento? Mi rivol­si alla Bibbia e vi lessi con i miei occhi quello che avevo udito, e cioè che bisogna pregare «incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito» (Ef 6,18), pregare «alzando al cielo mani pure senza ira e sen­za contese» (1Tm 2,8). Pensavo e pensavo, ma non sape­vo che cosa decidere. «Che fare?», riflettevo. «Dove tro­vare qualcuno che possa spiegarmelo? Andrò per le chiese dove parlano celebri predicatori, forse sentirò qualco­sa di convincente». E andai. Udii molte prediche eccel­lenti sulla preghiera. Ma erano tutti insegnamenti sulla preghiera in genere: che cos’è la preghiera, com’è neces­sario pregare, quali sono i suoi frutti; ma nessuno diceva come progredire nella preghiera. Ci fu sì una predica sul­la preghiera nello spirito e sulla preghiera continua; ma non vi si indicava come arrivarci (pp. 25-26).

     Il Pellegrino è dunque molto deluso, perché ha sen­tito quest’appello a una preghiera continua, ha ascol­tato le prediche, ma non ha ricevuto risposta. Dobbia­mo riconoscere che questo è un problema ancora at­tuale nelle nostre chiese. Sentiamo dire che bisogna pre­gare, siamo invitati a imparare a pregare, ma, in con­clusione, la gente pensa che non ci siano luoghi dove ci si possa fare iniziare alla preghiera, particolarmente a pregare incessantemente e tenendo conto del proprio corpo. Allora, il Pellegrino comincia a fare il giro delle chie­se e dei monasteri. E arriva da uno starec – un monaco accompagnatore spirituale – che lo riceve con bontà, lo invita a casa sua e gli propone un libro dei Padri che gli permetterà di capire chiaramente che cos’è la preghie­ra e di impararla con l’aiuto di Dio: la Filocalia, che si­gnifica in greco l’amore della bellezza. Gli spiega quel­la che si chiama la preghiera di Gesù.

    Ecco quel che gli dice lo starec:

    La preghiera interiore e perpetua di Gesù consiste nell’invocare incessantemente, senza interruzione, il nome divino di Gesù Cristo con le labbra, la mente e il cuore, immaginando la sua presenza costante e chiedendo il suo perdono, in ogni occupazione, in ogni luogo. in ogni tem­po, persino nel sonno. Essa si esprime con queste parole: «Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!». Chi si abitua a questa invocazione ne riceve grande con­solazione, e sente l’esigenza di recitare sempre questa pre­ghiera, tanto che non può più farne a meno, ed essa stes­sa fluisce spontaneamente in lui. Adesso hai capito che cosa sia la preghiera continua?

     E il Pellegrino esclama colmo di gioia: «Per amor di Dio, insegnatemi come arrivarci!».

    Lo Starec prosegue:

     «Impareremo la preghiera leggendo questo libro, che si intitola Filocalia». Questo libro raccoglie testi tradi­zionali della spiritualità ortodossa.

    Lo starec sceglie un brano di san Simeone il Nuovo Teologo:

    Siedi in silenzio e appartato; china il capo, chiudi gli oc­chi; respira più lentamente, guarda con l’immaginazione dentro il cuore, porta la mente, cioè il pensiero, dalla te­sta al cuore. Mentre respiri, di’: «Signore Gesù Cristo, ab­bi pietà di me», sottovoce con le labbra, oppure solo con la mente. Cerca di scacciare i pensieri, sii tranquillo e pa­ziente, e ripeti spesso questo esercizio.

    Dopo avere incontrato questo monaco, il Pellegrino russo legge altri autori e continua ad andare di mona­stero in monastero, da un luogo di preghiera a un altro, facendo ogni specie di incontri lungo il cammino e ap­profondendo quel suo desiderio di pregare incessante­mente. Egli conta il numero di volte che pronunzia l’invocazione. Fra gli ortodossi la corona del rosario è co­stituita di nodi (cinquanta o cento nodi). È l’equiva­lente del rosario, ma qui non vi sono il Padre nostro e l’Ave Maria rappresentati da grani grossi e piccoli, più o meno distanziati. I nodi sono invece della stessa di­mensione e disposti uno dopo l’altro, con l’unico intento della ripetizione del nome del Signore, pratica che si ac­quisisce progressivamente.

    Ecco come il nostro Pellegrino russo ha scoperto la preghiera continua, a partire da una ripetizione molto semplice, tenendo conto del ritmo della respirazione e del cuore, cercando di uscire dalla mente, per entrare nel cuore profondo, quietare il proprio essere interiore e rimanere così in preghiera permanente.

    Questa storia del Pellegrino contiene tre insegnamen­ti che alimentano la nostra ricerca.

    Il primo pone l’accento sulla ripetizione. Non abbia­mo bisogno di andare a cercare dei mantrafra gli indù, noi ne abbiamo nella tradizione cristiana con la ripeti­zione del nome di Gesù. In numerose tradizioni reli­giose, la ripetizione di un nome o di una parola in rap­porto con il divino o il sacro è il luogo di concentrazio­ne e di acquietamento per la persona e di relazione con l’invisibile. Allo stesso modo, gli ebrei ripetono più vol­te al giorno lo Shemà (la proclamazione di fede che co­mincia con «Ascolta, o Israele…», Dt, 6,4). La ripeti­zione è stata ripresa dal rosario cristiano (che provie­ne da san Domenico, nel XII secolo). Questa idea di ri­petizione è dunque classica anche nelle tradizioni cri­stiane.

    Il secondo insegnamento verte sulla presenza al cor­po, che si riallaccia ad altre tradizioni cristiane. Nel XVI secolo, sant’Ignazio di Loyola, che è stato all’origine della spiritualità dei gesuiti, segnala l’interesse di pre­gare al ritmo del cuore o della respirazione, dunque l’im­portanza di un’attenzione al corpo (cfr. Esercizi spirituali, 258-260). In questa maniera di pregare, si pren­dono le distanze riguardo a una riflessione intellettua­le, a un approccio mentale, per entrare in un ritmo più affettivo, perché la ripetizione non è solamente este­riore, vocale.

    Il terzo insegnamento si riferisce all’energia che si sprigiona nella preghiera. Questo concetto di energia – che si incontra spesso attualmente – è molte volte am­biguo, polisemico (vale a dire che ha significati diffe­renti). Trattandosi della tradizione nella quale si inscri­ve il Pellegrino russo, si parla di un’energia spirituale la quale si trova nel nome stesso di Dio che viene pronun­ziato. Questa energia non rientra nella categoria dell’energia vibratoria, come nella pronuncia della sacra sillaba OM, che è materiale. Sappiamo che il primo man­tra, il mantra originario per l’induismo è la sillaba mi­stica OM. È la sillaba iniziale, che viene dalle profon­dità dell’uomo, nella forza dell’espirazione. Nel nostro caso, si tratta di energie increate, l’energia divina stes­sa, che viene nella persona e la pervade quando essa pronunzia il nome di Dio. L’insegnamento della Filocalia permette dunque di ricollegarsi all’esperienza della ripetizione, del respiro e del corpo, dell’energia, ma assunta in una tradizione cristiana in cui non si tratta di un’energia cosmica, ma spirituale.

    Ritorniamo alla trasmissione della tradizione della preghiera del cuore, dell’invocazione incessante del no­me di Gesù, che si localizza nelle profondità del cuore. Essa risale alte tradizioni dei Padri greci del Medioevo bizantino: Gregorio Palamàs, Simeone il Nuovo Teolo­go, Massimo il Confessore, Diadoco di Fotice; e ai Pa­dri del deserto dei primi secoli: Macario ed Evagrio. Alcuni la riallacciano persino agli apostoli… (nella Filocalia). Questa preghiera si è sviluppata soprattutto nei monasteri del Sinai, al confine dell’Egitto, a partire dal VI secolo, poi sul monte Athos nel XIV secolo. Lì vi­vono ancora centinaia di monaci completamente isolati dal mondo, sempre immersi in questa preghiera del cuore. In alcuni monasteri si continua a mormorarla, come un ronzio di alveare, in altri la si dice interior­mente, in silenzio.

    La preghiera del cuore fu introdotta in Russia verso la metà del XIV secolo. Il grande mistico san Sergio di Radonez, il fondatore del monachesimo russo, la co­nosceva. Altri monaci in seguito l’hanno fatta conoscere nel XVIII secolo, poi essa si è diffusa progressivamen­te al di fuori dei monasteri, grazie alla pubblicazione della Filocalia, nel 1782. Infine, la diffusione dei Racconti del Pellegrino russo a partire dalla fine del XIX secolo l’ha resa popolare.

    La preghiera del cuore ci permetterà di progredire nella misura in cui possiamo appropriarci l’esperienza che abbiamo cominciato, in una prospettiva sempre più cristiana. In quello che abbiamo finora imparato, ab­biamo insistito soprattutto sull’aspetto affettivo e cor­poreo della preghiera e della ripetizione; adesso, fac­ciamo ancora un altro passo. Questo modo di riappro­priarsi un tale procedimento non implica un giudizio o una disistima delle altre tradizioni religiose (come il tantrismo, lo yoga…). Abbiamo qui l’occasione di collocarci nel cuore della tradizione cristiana, a proposito di un aspetto che si è tentato di ignorare nel secolo scor­so nelle Chiese d’occidente. Gli ortodossi sono rimasti più vicini a questa pratica, mentre la tradizione catto­lica occidentale recente si è evoluta piuttosto verso un approccio razionale e istituzionale del cristianesimo. Gli ortodossi sono rimasti più vicini all’estetica, a ciò che si prova, alla bellezza e alla dimensione spirituale, nel senso dell’attenzione all’opera dello Spirito Santo nell’umanità e nel mondo. Abbiamo visto che la paro­la esicasmo significa quiete, ma essa rimanda anche al­la solitudine, al raccoglimento. 

    La potenza del Nome 

    Perché nella mistica ortodossa si dice che la preghiera del cuore è al centro dell’ortodossia? Tra l’altro, perché l’invocazione incessante del nome di Gesù si collega al­la tradizione ebraica, per la quale il nome di Dio è sa­cro, poiché c’è una forza, una potenza particolare in questo nome. Secondo questa tradizione è proibito pronunziare il nome di Jhwh. Quando gli ebrei parlano del Nome, dicono: il Nome o il tetragramma, le quattro let­tere. Essi non lo pronunziavano mai, salvo una volta l’anno, al tempo in cui il tempio di Gerusalemme esi­steva ancora. Soltanto il sommo sacerdote aveva il di­ritto di pronunziare il nome di Jhwh, nel santo dei santi. Ogni volta che nella Bibbia si parla del Nome, si par­la di Dio. Nel nome stesso, c’è una presenza straordinaria di Dio.

    Si ritrova l’importanza del nome negli Atti degli Apo­stoli, il primo libro della tradizione cristiana dopo i Van­geli: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo» (At 2,21).  Il nome è la persona, il nome di Gesù salva, guarisce, scaccia gli spiriti impuri, purifica il cuore. Ecco che cosa dice a questo proposito un sacerdote or­todosso: «Portate costantemente nel cuore il dolcissi­mo nome di Gesù; il cuore è infiammato dal richiamo incessante di questo nome diletto, di un ineffabile amo­re per lui».

    Questa preghiera si fonda sull’esortazione a pregare sempre e che abbiamo ricordato a proposito del Pelle­grino russo. Tutte le sue parole provengono dal Nuovo Testamento. È il grido del peccatore che chiede aiuto al Signore, in greco: «Kyrie, eleison». Questa formula è utilizzata anche nella liturgia cattolica. E ancora oggi viene recitata decine di volte negli uffizi ortodossi gre­ci. La ripetizione del «Kyrie, eleison» è dunque impor­tante nella liturgia orientale.

    Per addentrarci nella preghiera del cuore, non siamo obbligati a recitare tutta la formula: «Signore Gesù Cri­sto, abbi pietà di me (peccatore)»; possiamo scegliere un’altra parola che ci commuove. Bisogna tuttavia com­prendere l’importanza della presenza del nome di Gesù, quando vogliamo penetrare a fondo il significato di questa invocazione. Nella tradizione cristiana, il nome di Gesù (che in ebraico si dice Jehoshua) significa: «Dio salva». È un modo di rendere presente il Cristo nella nostra vita. Ritorneremo a parlarne. Per il momento, è possibile che un’altra espressione ci si addica meglio. L’importante è prendere l’abitudine di ripetere rego­larmente questa espressione, come un segno di tene­rezza che si esprime a qualcuno. Quando siamo avviati su un cammino spirituale e accettiamo che sia un cam­mino di relazione con Dio, scopriamo dei nomi particolari che rivolgiamo a Dio, nomi che amiamo in mo­do particolare. Sono talvolta nomi affettuosi, pieni di tenerezza, che possono essere detti secondo la relazio­ne che si ha con lui. Per alcuni, sarà Signore, Padre; per altri, sarà Papà, oppure Diletto… Una sola parola può bastare in questa preghiera; la cosa principale è non cambiare troppo spesso, ripeterla regolarmente, e che sia per chi la pronuncia una parola che lo radica nel suo cuore e nel cuore di Dio.

    Alcuni di noi possono essere riluttanti di fronte alle parole «pietà» e «peccatore». La parola pietà disturba perché ha preso spesso una connotazione doloristica o umiliante. Ma se la consideriamo nel suo primo signifi­cato di misericordia e di compassione, la preghiera può anche voler dire: «Signore, guardami con tenerezza». La parola peccatore evoca il riconoscimento delle no­stre povertà. Non vi è in ciò nessun senso di colpa in­centrato su una lista di peccati. Il peccato è piuttosto uno stato in cui percepiamo fino a che punto facciamo fatica ad amare e a lasciarci amare come vorremmo. Peccare significa «fallire il bersaglio»… Chi non rico­nosce di fallire il bersaglio più spesso di quanto vor­rebbe? Rivolgendoci a Gesù, gli chiediamo di avere compassione delle difficoltà che abbiamo a vivere al li­vello del cuore profondo, nell’amore. È una richiesta di aiuto per liberare la sorgente interiore.

    In che modo si fa questa respirazione del Nome, del nome di Gesù? Come racconta il Pellegrino russo, si ri­pete l’invocazione un certo numero di volte utilizzan­do il rosario a nodi. Il fatto di recitarla cinquanta o cen­to volte sul rosario permette di sapere a che punto si è, ma non è questa certamente la cosa più importante. Quando lo starec ha indicato al Pellegrino russo come doveva procedere, gli ha detto: «Tu cominci dapprima con mille volte e poi duemila volte…». Con il rosario, ogni volta che si dice il nome di Gesù, si fa scorrere un nodo. Questa ripetizione fatta sui nodi permette di fis­sare il pensiero, ricorda quello che si sta facendo e aiu­ta così a rimanere consapevoli del procedimento di pre­ghiera. 

    Respirare lo Spirito Santo 

    Accanto al rosario, il lavoro della respirazione ci dà il segno migliore di riferimento. Si ripetono queste pa­role al ritmo dell’inspirazione, poi dell’espirazione in modo da farle penetrare progressivamente nel nostro cuore, come vedremo negli esercizi pratici. In questo caso, i nodi non sono necessari. In ogni modo, anche in questo, non cerchiamo di fare prodezze. Appena ci inol­triamo su un cammino di preghiera con l’obiettivo di ottenere risultati visibili, seguiamo lo spirito del mon­do e ci allontaniamo dalla vita spirituale. Nelle tradi­zioni spirituali più profonde, siano esse giudaiche, in­duiste, buddhiste o cristiane, esiste una libertà in quan­to ai risultati, perché il frutto è già nel cammino. Ab­biamo dovuto farne già l’esperienza. Oseremmo forse affermare: «Sono arrivato»? Tuttavia, senza dubbio, rac­cogliamo già buoni frutti. Lo scopo è di arrivare a una libertà interiore sempre più grande, a una comunione sempre più profonda con Dio. Ciò viene dato imper­cettibilmente, progressivamente. Il solo fatto di essere in cammino, di essere attenti a quel che viviamo, è già il segno di una continua presenza al presente, nella li­bertà interiore. Il resto, non abbiamo bisogno di ricer­carlo: è dato in sovrappiù.

    Gli antichi monaci dicono: soprattutto non bisogna esagerare, non cercare di ripetere il Nome fino a ine­betirsi completamente; lo scopo non è quello di anda­re in trance. Esistono altre tradizioni religiose che pro­pongono metodi per arrivarci, accompagnando il ritmo delle parole con un’accelerazione della respirazione. Ci si può aiutare battendo sui tamburi, o con movimenti rotatori del tronco come in certe confraternite sufi. Si provoca così una iperventilazione, dunque un’iperossigenazione del cervello che determina una modifica­zione dello stato di coscienza. La persona che parteci­pa a queste trances è come trascinata dagli effetti dell’accelerazione della sua respirazione. Il fatto di essere in molti a dondolarsi insieme accelera il processo. Nel­la tradizione cristiana, quel che viene ricercato è la pa­ce interiore, senza nessuna manifestazione particolare. Le Chiese sono sempre state prudenti a proposito del­le esperienze mistiche. Normalmente, nel caso dell’estasi, la persona quasi non si muove, ma ci possono es­sere leggeri movimenti esterni. Non si ricerca nessuna agitazione né eccitazione, la respirazione serve unica­mente da supporto e da simbolo spirituale alla preghiera.

    Perché collegare il Nome al respiro? Come abbiamo visto, nella tradizione giudeo-cristiana, Dio è il soffio dell’uomo. Quando l’uomo respira, riceve una vita che gli viene data da un Altro. L’immagine della discesa della colomba – simbolo dello Spirito Santo – su Gesù al momento del battesimo è considerata nella tradizione cistercense come il bacio del Padre a suo Figlio. Nella respirazione, sì riceve il soffio del Padre. Se in quel mo­mento, in questo respiro, si pronuncia il nome del Fi­glio, sono presenti il Padre, il Figlio e lo Spirito. Nel Van­gelo di Giovanni si legge: «Se qualcuno mi ama, osser­verà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui» (Gv 14,23). La re­spirazione al ritmo dei nome di Gesù dà un senso par­ticolare all’inspirazione. «La respirazione serve da sup­porto e da simbolo alla preghiera. “Il nome di Gesù è un profumo che si effonde” (cfr. Cantico dei cantici, 1,4). Il soffio di Gesù è spirituale, guarisce, scaccia i de­moni, comunica lo Spirito Santo (Gv 20,22). Lo Spiri­to Santo è Soffio divino (Spiritus, spirare), spirazione di amore in seno al mistero trinitario. La respirazione di Gesù, come il battito del suo cuore, doveva essere in­cessantemente legata a questo mistero di amore, come pure ai sospiri della creatura (Mc 7,34 e 8,12) e alle “aspi­razioni” che ogni cuore umano porta in sé. È lo Spirito stesso che prega per noi con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26)» (Serr J.).

    Ci si potrebbe basare anche sul battito del cuore per ritmare la recitazione. E’ questa la tradizione più anti­ca per la preghiera del cuore, ma ci rendiamo conto che ai nostri giorni, con gli attuati ritmi di vita, non abbia­mo più il ritmo cardiaco che aveva il contadino o il mo­naco nella sua cella. Inoltre, bisogna fare attenzione a non concentrarsi esageratamente su quest’organo. Sia­mo molto spesso sotto pressione, dunque non è consi­gliabile pregare al ritmo dei battiti del cuore. Certe tec­niche in rapporto con il ritmo del cuore possono esse­re pericolose. E’ meglio attenersi alla profonda tradi­zione del respiro, ritmo biologico fondamentale quan­to quello del cuore e che ha anche il significato mistico di una comunione con una vita che è data e accolta nella respirazione. Negli Atti degli Apostoli san Paolo di­ce: «In lui viviamo, ci muoviamo e siamo» (At 17,28) Secondo questa tradizione noi siamo dunque creati ad ogni istante, siamo rinnovati; questa vita viene da lui e un modo di accoglierla è di respirare coscientemente.

    Gregorio il Sinaita diceva: «Invece di respirare lo Spi­rito Santo, noi siamo riempiti dal respiro degli spiriti malvagi» (sono le cattive abitudini, le «passioni», tutto ciò che rende complicata la nostra vita quotidiana). Fis­sando la mente sulla respirazione (come abbiamo fat­to finora), essa si quieta, e noi sentiamo una distensio­ne fisica, psicologica, morale. «Respirando lo Spirito», nell’articolazione del Nome, possiamo trovare il ripo­so del cuore, e questo corrisponde al procedimento dell’esicasmo. Esichio di Batos scrive: «L’invocazione del nome di Gesù, quando è accompagnata da un deside­rio pieno di dolcezza e di gioia, riempie il cuore di gioia e di serenità. Saremo allora ricolmi della dolcezza di sentire e di provare come un incanto questa esultanza beata, perché cammineremo nella hesychia del cuore con il dolce piacere e le delizie di cui essa riempie l’anima».

    Ci si libera dall’agitazione del mondo esterno, si cal­ma la dispersione, la diversità, la corsa frenetica, per­ché noi tutti siamo spesso sollecitati in maniera molto faticosa. Quando arriviamo, grazie a questa pratica, a una maggiore presenza a noi stessi, in profondità, co­minciamo a sentirci bene con noi stessi, nel silenzio. Do­po un certo tempo, scopriamo che siamo con un Altro, perché amare è essere abitati e lasciarsi amare è lasciarsi abitare. Ritroviamo quello che dicevo a proposito del­la trasfigurazione: il cuore, la mente e il corpo ritrova­no la loro unità originaria. Siamo presi nel movimento della metamorfosi, della trasfigurazione del nostro es­sere. E’ questo un tema caro all’ortodossia. Il nostro cuore, la nostra mente e il nostro corpo si quietano e tro­vano la loro unità in Dio.

    CONSIGLI PRATICI

    Trovare la distanza giusta

    La nostra prima cura, quando ci fermiamo per impara­re la «preghiera di Gesù», sarà di ricercare il silenzio del­la mente, di evitare ogni pensiero e fissarsi nelle profon­dità del cuore. Per questo il lavoro sul respiro è di grande aiuto.

    Come sappiamo, servendoci delle parole: «Io mi la­scio andare, io mi dono, io mi abbandono, io mi ricevo» il nostro scopo non è di arrivare alla vacuità come nella tradizione zen, per esempio. Si tratta di liberare uno spa­zio interiore nel quale possiamo fare l’esperienza di essere visitati e abitati. Questo procedimento non ha nulla di magico, è un’apertura del cuore a una presenza spiritua­le dentro di sé. Non è un esercizio meccanico o una tec­nica psicosomatica; possiamo anche sostituire queste pa­role con la preghiera del cuore. Nel ritmo delta respira­zione, si può dire nell’inspirazione: «Signore Gesù Cristo», e nell’espirazione: «Abbi pietà di me». In quel momento, io accolgo il respiro, la tenerezza, la misericordia che mi sono dati come un’unzione dello Spirito.

    Scegliamo un luogo silenzioso, quietiamoci, invochiamo lo Spirito perché ci insegni a pre­gare. Possiamo immaginare il Signore vicino a noi o in noi, con la fiduciosa certezza che egli non ha altro desiderio che di colmarci delta sua pace. All’inizio, possiamo limitarci a una sillaba, a un nome: Abbà (Padre), Gesù, Effathà (apriti, rivolto a noi stessi), Marana-tha (vieni, Si­gnore), Eccomi, Signore, ecc. Non dobbiamo cambiare troppo spesso la formula, che deve essere breve. Giovanni Climaco consiglia: «che la vostra preghiera ignori ogni mol­tiplicazione: una sola parola è bastata al pubblicano e al figliol prodigo per ottenere il perdono di Dio.. La prolissità nella preghiera riempie spesso di immagini e distrae, mentre spesso una sola parola (monologia) favorisce il raccoglimento”.

    Prendiamola con calma sul ritmo della nostra respirazione. La ripetiamo in piedi, seduti o coricati, trattenendo il respi­ro per quanto è possibile, per non respirare a un ritmo troppo rapido. Se restiamo in apnea per un pò di tempo, la nostra respirazione rallenta. Diventa più distanziata, ma siamo ossigenati respirando attraverso il diaframma. Il respiro raggiunge allora un’ampiezza tale che si ha bi­sogno di respirare meno spesso. Inoltre, come scrive Teo­fane il Recluso: «Non preoccupatevi del numero delle pre­ghiere da recitare. Abbiate cura unicamente che la pre­ghiera scaturisca dal vostro cuore, zampillante come una sorgente di acqua viva. Allontanate completamente dal­la vostra mente l’idea di quantità». Anche in questo ca­so, ciascuno deve trovare la formula che gli si addice: le parole da usare, il ritmo del respiro, la durata della recitazione. All’inizio, la recitazione sarà fatta oralmente; a poco a poco, non avremo più bisogno di pronunziarla con le labbra nè di utilizzare un rosario (qualsiasi rosario può andar bene, se non si ha quello fatto di nodi di lana). Un automatismo regolerà il movimento della respirazione; la preghiera si semplificherà e giungerà fino al nostro sub-conscio per pacificarlo. Il silenzio ci pervaderà dall’interno.

    In questa respirazione del Nome, il nostro desiderio si esprime e si approfondisce; a poco a poco entriamo nella pace dell’hesychia. Situando la mente nel cuore – e pos­siamo localizzare un punto fisicamente, se questo ci aiu­ta, nel nostro petto, o nel nostro hara (cfr. tradizione zen), noi invochiamo il Signore Gesù incessantemente; cercando di fare in modo di allontanare tutto ciò che può distrarci. Quest’appren­dimento richiede tempo e non bisogna cercare un risul­tato rapido. C’è dunque da fare uno sforzo per rimanere in una grande semplicità e in una grande povertà, acco­gliendo quello che viene dato. Ogni volta che le distra­zioni ritornano, concentriamoci di nuovo sul respiro e sul­la parola.

    Quando avete preso questa abitudine, quando cammi­nate, quando vi sedete, potete riprendere la vostra respi­razione. Se a poco a poco questo nome di Dio, qualunque sia il nome che gli date, è associato al suo ritmo, sentirete che la pace e l’unità della vostra persona cresceranno. Quando qualcuno vi provoca, se provate un sentimento di collera o di aggressività, se sentite che state per non controllarvi più o se siete tentati di commettere atti che vanno contro le vostre convinzioni, riprendete la respira­zione del Nome. Quando sentite un impulso interiore che si oppone all’amore e alla pace, questo sforzo di ritrovar­vi nelle vostre profondità mediante il respiro, mediante la presenza a voi stessi, mediante la ripetizione del Nome, vi rende vigilanti e attenti al cuore. Questo vi può permet­tere di calmarvi, di ritardare la vostra risposta e di darvi il tempo di trovare la distanza giusta riguardo a un avve­nimento, a voi stessi, a qualcun altro. Può essere un me­todo molto concreto per placare i sentimenti negativi, che sono talvolta un veleno per la vostra serenità interiore e impediscono una relazione in profondità con gli altri.

    LA PREGHIERA DI GESÙ

    La preghiera di Gesù è chiamata preghiera del cuo­re perché, nella tradizione biblica, al livello del cuore si trova il centro dell’uomo e della sua spiritualità. Il cuo­re non è semplicemente l’affettività. Questa parola rimanda alla nostra identità profon­da. Il cuore è anche il luogo della saggezza. Nella mag­gior parte delle tradizioni spirituali, esso rappresenta un luogo e un simbolo importanti; talvolta è collegato al tema della grotta o al fiore del loto, o alla cella interiore del tempio. A questo propo­sito, la tradizione ortodossa è particolarmente vicina al­le fonti bibliche e semitiche. «Il cuore è il signore e il re di tutto l’organismo corporeo», dice Macario, e «quan­do la grazia si impadronisce dei pascoli del cuore, essa regna su tutte le membra e su tutti i pensieri; perché lì è l’intelligenza, lì si trovano i pensieri dell’anima, da lì essa attende il bene». In questa tradizione, il cuore è al «centro dell’essere umano, la radice delle facoltà dell’intelletto e della volontà, il punto da cui proviene e verso il quale converge tutta la vita spirituale. È la sor­gente, oscura e profonda, da cui scaturisce tutta la vita psichica e spirituale dell’uomo e mediante la quale que­sti è vicino e comunica con la Sorgente della vita». Di­re che nella preghiera bisogna passare dalla testa al cuo­re, non significa che testa e cuore si oppongano. Nel cuo­re, c’è ugualmente il desiderio, la decisione, la scelta dell’azione. Nel linguaggio corrente, quando si dice che una persona è un uomo o una donna di gran cuore, si ri­manda alla dimensione affettiva; ma quando si parla di «avere un cuor da leone» si accenna al coraggio e alla determinazione.

    La preghiera di Gesù, con il suo aspetto respiratorio e spirituale, ha lo scopo di far «scendere la testa nel cuo­re»: si arriva così all’intelligenza del cuore. «E’ bene scen­dere dal cervello nel cuore – dice Teofane il Recluso –. Per il momento non ci sono in voi che riflessioni tutte ce­rebrali su Dio, ma Dio stesso rimane all’esterno». È stato detto che la conseguenza della rottura con Dio è una specie di disintegrazione della persona, una perdi­ta dell’armonia interiore. Per riequilibrare la persona con tutte le sue dimensioni, il procedimento della pre­ghiera del cuore mira a collegare la testa e il cuore, per­ché «i pensieri turbinano come fiocchi di neve o sciami di moscerini in estate». Possiamo quindi raggiungere una comprensione molto più profonda della realtà uma­na e spirituale.

    L’illuminazione cristiana

    Poiché pronunciare il nome di Gesù libera il suo sof­fio in noi, l’effetto più importante della preghiera del cuore è l’illuminazione, che non è una manifestazione sentita fisicamente, benché possa avere effetti sul cor­po. Il cuore conoscerà il calore spirituale, la pace, la lu­ce, così bene espresse nella liturgia ortodossa. Le Chie­se d’Oriente sono decorate di icone, ciascuna con il suo lumicino che vi si riflette, segno di una presenza miste­riosa. Mentre nella teologia mistica occidentale si è in­sistito, tra l’altro, sull’esperienza della notte oscura (con le tradizioni carmelitane, come quella di san Giovanni della Croce), in Oriente sono messe in risalto l’illumi­nazione, la luce della trasfigurazione. I santi ortodossi sono trasfigurati più che se ricevessero le stigmate (Nella tradizione cattolica alcuni santi come Francesco d’Assisi hanno ricevuto nella loro carne le tracce delle piaghe della crocifissione, unendosi così alla sofferenza del Cristo crocifisso). Si parla della luce taborica, perché sul mon­te Tabor, Gesù è stato trasfigurato. La crescita spirituale è un cammino di tra­sfigurazione progressiva. E’ la luce stessa di Dio che fi­nisce col riflettersi sul viso dell’uomo. Per questo siamo chiamati a diventare noi stessi icone della tenerezza di Dio, sull’esempio di Gesù. Nella misura in cui ritrovia­mo la nostra sorgente nascosta, a poco a poco la luce interiore traspare nel nostro sguardo. C’è una grazia di commossa partecipazione che imprime una grande dol­cezza nello sguardo e sul viso dei religiosi dell’Oriente.

    È lo Spirito Santo che realizza l’unità della persona. Lo scopo ultimo della vita spirituale è la deificazione dell’essere umano secondo la tradizione ortodossa, va­le a dire una trasformazione interiore che ristabilisce la somiglianza ferita dalla rottura con Dio. L’uomo diventa sempre più vicino a Dio, non con le sue forze, ma per la presenza dello Spirito che favorisce la preghiera del cuore. C’è una grande differenza tra le tecniche di me­ditazione, in cui si cerca di raggiungere un certo stato di coscienza attraverso sforzi personali, e un metodo di preghiera cristiana. Nel primo caso, il lavoro su se stes­si – che è certamente necessario per ogni cammino spi­rituale – è realizzato unicamente da se stessi, eventual­mente con un aiuto umano esterno, per esempio quel­lo di un maestro. Nel secondo caso, anche se ci si ispira ad alcune tecniche, l’approccio è vissuto in uno spirito di apertura e di accoglienza a una Presenza trasfor­mante. A poco a poco, grazie alla pratica della preghiera del cuore, l’uomo ritrova un’unità profonda. Quanta più si radica questa unità, tanto meglio egli può entrare nella comunione con Dio: è già un annuncio della risurre­zione! Tuttavia, non bisogna farsi illusioni. Non c’è nul­la di automatico né di immediato in questo procedi­mento. Non basta essere pazienti, è ugualmente im­portante accettare di essere purificati, vale a dire rico­noscere le oscurità e le deviazioni in noi che impedi­scono l’accoglimento della grazia. La preghiera del cuo­re stimola un atteggiamento di umiltà e di pentimento che ne condiziona l’autenticità; è accompagnata da una volontà di discernimento e di vigilanza interiore. Di fronte alla bellezza e all’amore di Dio, l’uomo prende coscienza del suo peccato ed è invitato a incamminar­si sulla via della conversione.

    Che cosa dice dell’energia divina questa tradizione? Il corpo può risentire anch’esso fin da ora gli effetti dell’illuminazione della risurrezione. Fra gli ortodossi esi­ste un dibattito sempre attuale a proposito delle ener­gie. Sono create o increate? Sono l’effetto di un’azione diretta di Dio sull’uomo? Di quale natura è la deifica­zione? In che modo Dio, trascendente e inaccessibile nella sua essenza, potrebbe comunicare le sue grazie all’uomo, al punto di «deificarlo» con la sua azione? L’interesse dei nostri contemporanei per la questione dell’energia obbliga a soffermarsi brevemente su tale do­manda. Gregorio Palamàs parla di una «partecipazio­ne» a qualche cosa tra il cristiano e Dio. Questo qual­cosa, sono le “energie” divine, paragonabili ai raggi del sole che apportano luce e calore, senza essere il sole nella sua essenza, e che noi tuttavia chiamiamo: sole. So­no queste energie divine che agiscono sul cuore per ri­crearci a immagine e somiglianza. Con ciò, Dio si dona all’uomo senza cessare di essere trascendente a lui. Attraverso questa immagine, vediamo come, mediante un lavoro sul respiro e sulla ripetizione del Nome, pos­siamo accogliere l’energia divina e permettere che si realizzi progressivamente in noi una trasfigurazione dell’essere profondo.

    Il Nome che guarisce

    A proposito del pronunciare il Nome, è importante non porsi in un atteggiamento che rientrerebbe nell’ambito della magia. La nostra è una prospettiva di fe­de in un Dio che è il pastore del suo popolo e che non vuole perdere nessuna delle sue pecore. Chiamare Dio con il suo nome vuol dire aprirsi alla sua presenza e al­la potenza del suo amore. Credere nella forza dell’evo­cazione del Nome, significa credere che Dio è presen­te nelle nostre profondità e aspetta solamente un segno da parte nostra per colmarci della grazia di cui abbia­mo bisogno. Non dobbiamo dimenticare che la grazia è sempre offerta. Il problema viene da noi che non la chiediamo, non l’accogliamo, oppure non siamo capaci di riconoscerla quando essa opera nella nostra vita o in quella degli altri. La recitazione del Nome è dunque un atto di fede in un amore che non cessa di donarsi, un fuoco che non dice mai: «Basta!».

    Adesso forse comprendiamo meglio come, oltre al lavoro che abbiamo iniziato sul corpo e il respiro, è pos­sibile, per quelli che lo desiderano, introdurre la di­mensione della ripetizione del Nome. Così, a poco a po­co, lo Spirito si unisce alla nostra respirazione. In con­creto, dopo un apprendimento più o meno lungo, quan­do abbiamo un momento di calma, quando camminia­mo per strada o quando stiamo nella metropolitana, se entriamo nella respirazione profonda, spontaneamen­te, il nome di Gesù può visitarci e ricordarci chi siamo noi, figli diletti del Padre.

    Attualmente, si ritiene che la preghiera del cuore pos­sa sollecitare il subcosciente e attuare in esso una for­ma di liberazione. Infatti, lì giacciono dimenticate realtà cupe, difficili e angosciose. Quando questo Nome be­nedetto pervade il subcosciente, scaccia gli altri nomi, che sono forse distruttori per noi. Ciò non ha nulla di automatico e non sostituirà necessariamente un pro­cedimento psicanalitico o psicoterapeutico; ma nella fe­de cristiana, questa visione dell’opera dello Spirito fa parte dell’incarnazione: nel cristianesimo, lo spirito e il corpo sono inseparabili. Grazie alla nostra comunione con Dio, che è relazione, pronunciare il suo Nome può liberarci dalle oscurità. Si legge nei Salmi che quando un povero grida, Dio risponde sempre (Sal 31,23; 72,12). E l’amata del Cantico dei Cantici dice: «Io dormivo, ma il mio cuore era desto» (Ct 5,2). Possiamo qui pensare all’immagine della mamma che dorme, ma sa che il suo bimbo non sta molto bene: lei si sveglierà al minimo ge­mito. È una presenza dello stesso genere che si può spe­rimentare nei momenti importanti della vita amorosa, della vita parentale, filiate. Se amare è essere abitati, lo stesso può dirsi anche per la relazione che Dio intrat­tiene con noi. Scoprirlo e viverne è una grazia da chie­dere.

    Quando prepariamo un incontro importante, ci pen­siamo, ci predisponiamo ad esso, ma non possiamo as­sicurare che sarà un incontro riuscito. Ciò non dipende del tutto da noi, ma dipende anche dall’altro. Nell’incontro con Dio, quel che dipende da noi è preparare il nostro cuore. Anche se non conosciamo nè il giorno nè l’ora, la nostra fede ci assicura che l’Altro verrà. A tal fine è necessario che noi ci poniamo già in un approc­cio di fede, anche se è una fede ai primi passi. Avere l’audacia di sperare che effettivamente c’è qualcuno che viene a noi, anche se non sentiamo nulla! È un mettersi continuamente in presenza, cosi come respiriamo ad ogni istante, e il nostro cuore batte senza fermarsi. Il nostro cuore e il nostro respiro sono vitali per noi, così questo mettersi in presenza diventa vitale da un punto di vista spirituale. Progressivamente, tutto diventa vita, vita in Dio. Certamente, non lo sperimentiamo in permanenza, ma in certi momenti possiamo intuirlo Quei momenti ci incoraggiano, quando abbiamo l’im­pressione di perdere tempo nella preghiera, cosa che, senza dubbio, ci accade spesso…

    Attendere l’inatteso

    Noi possiamo attingere dalla nostra propria espe­rienza di relazione, dal ricordo dei nostri stupori da­vanti a ciò che abbiamo scoperto di bello in noi e negli altri. La nostra esperienza ci rivela l’importanza della capacità di riconoscere la bellezza sul nostro cammino. Per alcuni sarà la natura, per altri l’amicizia; in poche parole, tutto ciò che ci fa crescere e ci fa uscire dalla ba­nalità, dal tran tran quotidiano. Attendere l’inatteso ed essere ancora capaci di meravigliarsi! «Attendo l’inat­teso», mi diceva un giorno un giovane in cerca di voca­zione, incontrato in un monastero: allora gli ho parlato del Dio delle sorprese.

    È un cammino che richiede tempo. Ricordiamoci che abbiamo detto che la risposta è già presente nel cam­mino stesso. Siamo tentati di porci la domanda: quan­do arriverò e quando avrò la risposta? L’importante è esserci messi in cammino, bevendo ai pozzi che incon­triamo, pur sapendo che ci vorrà molto tempo per ar­rivare. L’orizzonte si allontana quando ci si avvicina al­la montagna, ma c’è la gioia del cammino che accompagna l’aridità della fatica, c’è la vicinanza dei compa­gni di cordata. Non rimaniamo soli, siamo già rivolti verso la rivelazione che ci aspetta sulla vetta. Quando siamo consapevoli di questo, diventiamo pellegrini dell’assoluto, pellegrini di Dio, senza ricerca del risultato.

    È molto difficile per noi occidentali non mirare all’efficacia immediata. Nel celebre libro indù Bhaga­vadgita, Krishna dice che bisogna lavorare senza desi­derare il frutto della nostra fatica. I buddhisti aggiun­gono che bisognerebbe liberarsi dal desiderio che è il­lusione, per raggiungere l’illuminazione. Molto più tar­di, in Occidente, nel XVI secolo, sant’Ignazio di Loyo­la insisterà sull’«indifferenza», che consiste per lui nel conservare una giusta libertà interiore riguardo a una decisione importante, finché il discernimento conferma la scelta opportuna. Tuttavia, come abbiamo visto, nel cristianesimo il desiderio rimane una realtà importan­te per il cammino spirituale. Esso unifica nell’impulso che ci fa uscire da noi stessi in direzione di una pienez­za, e tutto questo in una grande povertà. Infatti, il de­siderio ci produce un vuoto nell’anima, perché possia­mo desiderare solo ciò che non abbiamo ancora, e dà il suo slancio alla speranza.

    Questo ci aiuta a pensare «giusto», perché il nostro pensiero è anche un pensiero del cuore, e non soltanto un esercizio unicamente intellettuale. La rettitudine del pensiero illuminato dal cuore e gli stati del nostro cuo­re ci dicono qualcosa della rettitudine delle nostre re­lazioni. Lo vedremo presto nella tradizione ignaziana, quando parleremo della «mozione degli spiriti». Que­sta espressione di sant’Ignazio di Loyola è un altro mo­do di parlare degli stati del cuore, che ci dicono come noi viviamo la nostra relazione a Dio e agli altri. Noi occidentali viviamo soprattutto al livello dell’intelletto, della razionalità, e riduciamo talvolta il cuore all’emo­tività. Siamo allora tentati sia di neutralizzarlo, sia d’i­gnorarlo. Per alcuni di noi, quel che non si misura non esiste, ma questo è tuttavia in contraddizione con l’e­sperienza quotidiana, perché la qualità della relazione non si misura.

    Nel mezzo della scissione dell’uomo, della dispersio­ne causata dalla distrazione, la recitazione del Nome al ritmo della respirazione ci aiuta a ritrovare l’unità del­la testa, del corpo e del cuore. Questa preghiera conti­nua può diventare veramente vitale per noi, nel senso che segue i nostri ritmi vitali. Vitale anche nel senso in cui, nei momenti nei quali la nostra vita è messa in di­scussione, minacciata, noi viviamo le esperienze più in­tense. Allora, possiamo chiamare il Signore con il suo Nome, renderlo presente e, a poco a poco, entrare nel movimento dell’illuminazione del cuore. Non siamo ob­bligati ad essere per questo dei grandi mistici. In certi momenti della nostra vita, possiamo scoprire che sia­mo amati in un modo assolutamente indescrivibile, che ci riempie di gioia. È questa una conferma di quel che c’è di più bello in noi e dell’esistenza dell’Essere ama­to; può durare soltanto pochi secondi, e diventare tut­tavia come una pietra miliare sul nostro cammino. Se non c’è una causa precisa a questa gioia intensa, sant’I­gnazio la chiama una «consolazione senza causa». Per esempio, quando non è una gioia che proviene da una buona notizia, da una promozione, da una gratificazio­ne qualunque. Essa ci pervade all’improvviso, e questo è il segno che viene da Dio.

    La preghiera di colui che veglia

    Infine, possiamo parlare brevemente di un metodo di preghiera praticato in ambienti cattolici, non estra­neo a quel che abbiamo considerato finora. Ai giorni nostri, alcuni trappisti americani (cfr. La preghiera centrica del padre trappista  B. Pennington) propongono dì prati­care la «preghiera del vegliante». E’ una preghiera che mira a favorire la concentrazione ed è ripresa da una tradizione, molto antica, conservata in un libro intito­lato LA NUBE DELLA NON-CONOSCENZA. Questo libro è sta­to scritto in Inghilterra nel XIV secolo ed era molto conosciuto alla fine del Medioevo; l’autore è rimasto ano­nimo. Quest’opera viene riscoperta attualmente, grazie a nuove traduzioni. Vi si legge, a proposito dell’uso di una sola parola nella preghiera: Se vuoi ripiegare e avvolgere l’attenzione in una sola parola così da tenerla più saldamente, prendi una parola corta, meglio se di una sola sillaba: più è corta, più si in­tona all’opera dello spirito. Una tale parola può essere «Dio» o ancora «Amore». Scegli una di queste due o un’al­tra di tuo gradimento. E questa parola legala stretta al tuo cuore, così che non se ne stacchi più, qualunque cosa ac­cada. Questa parola sarà il tuo scudo e la tua lancia, sia in pace che in guerra. Con questa parola picchierai sulla nu­be e sull’oscurità che ti sovrasta. Con questa parola sop­primerai ogni pensiero sotto la nube dell’oblio. A tal pun­to che se qualche pensiero ti metterà sotto pressione chie­dendoti cosa mai stai cercando, gli risponderai se non con questa semplice parola. E se si farà avanti con la sua scien­za per spiegarti il significato di quella stessa parola ed esporne le varie proprietà, gli dirai che vuoi conservarla intatta nella sua interezza, e non intendi ridurla in briciole

    I monaci di cui stiamo parlando ripetono parole co­me: alleluia, salvatore, Marana-tha (vieni, o Signore); Kyrie, Signore, Gesù, Padre, Abbà, Spirito Santo, ecc. Ecco le loro regole per questa pratica che è simile a quel che abbiamo visto precedentemente: Scegliamo un luogo relativamente tranquillo dove non saremo interrotti, sediamoci ben dritti, con i piedi posati in piano per terra, chiudiamo gli occhi e rilassiamoci; pre­stiamo attenzione particolarmente alle parti del corpo che sentiamo troppo tese. Possiamo anche appoggiarci su un piccolo banco o un cuscino; l’essenziale è stare comodi (sic) per non muoverci e non disturbare la nostra preghiera.  Cominciamo a ripetere la nostra parola e continuiamo per tutto il tempo della preghiera. Quando ci rendiamo conto di una distrazione ripetiamo la nostra parola dolcemente. Terminato il tempo della preghiera distacchiamocene piano piano recitando il Padre nostro e rialziamoci tranquillamente

    Questi monaci propongono una durata di venti minu­ti, una volta al giorno, di preferenza al mattino. In tale proposta manca la respirazione; non si parla del respiro. Peccato, perché per conservare l’immobilità e per rilas­sare il corpo, la consapevolezza del respiro è molto im­portante. Indichiamo tuttavia una pista per quelli che vo­gliono adeguarsi al lavoro che abbiamo finora fatto se­condo un procedimento più esplicitamente occidentale.

    Nell’uso dei mantra, si utilizza il nome di una divinità o un’altra parola che ha una qualità di vibrazione par­ticolare; si tratta ancora di “energetismo”. Nel nostro pro­cedimento, il nome serve da supporto alla concentra­zione; noi guardiamo soprattutto a un atteggiamento interiore, il suono fisico è secondario. Il nome di Dio è un vero luogo di comunicazione con Qualcuno che è vivo ed esiste. Questo nome agisce in noi per il fatto che siamo stati creati da lui e che da lui riceviamo il re­spiro a ogni momento. E’ dunque molto più di un sup­porto: è una realtà mistica.

    CONSIGLI PRATICI

    Pregare con prudenza e pazienza

    Nella Bibbia, c’è una scelta illimitata di nomi dispo­nibili per rivolgersi a Dio. Nell’Antico Testamento, s’incontra un gran numero di espressioni usate nei salmi: mia roccia, mio baluardo, mia fortezza, mia forza, mia luce, mia salvezza, mio liberatore. Vengono usate le im­magini del pastore, del vignaiolo, dell’amato (Cantico dei Cantici), del padre o della madre, del guerriero, del creatore, del potente, ecc. L’interesse dei Salmi consi­ste nel fatto che rispecchiano tutti i sentimenti umani possibili nei confronti di Dio, dall’abbandono fiducio­so del bambino fino alla collera e al mercanteggiamento affinché Dio agisca. Quanto al Nuovo Testamento, il più frequente è senza dubbio l’appellativo di Padre, ma le parabole presentano aspetti diversi di Dio, provenienti dall’Antico Testamento, Alphonse e Rachel Goettmann propongono anche alcune formule come «da me verso te» nell’espirazione, «tutto, in te» tra le due, e «da te» nell’inspirazione. Oppure «da me verso te» nell’e­spirazione e «da te verso me» nell’inspirazione.     im­portante è vivere intensamente attraverso le parole uti­lizzate. L’uso del Nome mobilita la persona che prega e fa agire la potenza dello Spirito. Non si tratta di ada­giarsi in un mondo chiuso e confortevole. Alphonse e Rachel Goettmann insistono sui legame tra combatti­mento ascetico e preghiera del cuore.
    La preghiera del cuore è stata oggetto di discussione e di sospetto a causa dei rischi di ripiegamento su se stessi e di illusione in quanto ai risultati. La ripetizione assidua di una formula può provocare una vera e propria vertigi­ne. La concentrazione esagerata sulla respirazione o sul ritmo del cuore può determinare malessere in certe persone fragili. C’è anche il rischio di confondere la preghie­ra con il desiderio di prodezze. Non si tratta di forzare per arrivare a un automatismo o a una corrispondenza con un certo movimento biologico. Perciò, in origine, questa pre­ghiera veniva insegnata soltanto oralmente e la persona era seguita da un padre spirituale. Ai giorni nostri, questa preghiera è di pubblico dominio; molti sono i libri che ne parlano e le persone che la praticano, senza un particola­re accompagnamento. Ragione di più per non forzare nulla. Niente sarebbe più contrario al procedimento che il voler provocare un sentimento di illuminazione, confon­dendo l’esperienza spirituale di cui parla la Filocalia con una modificazione dello stato di coscienza. Non si deve trattare né di merito, nè di psicotecnica ricercata per se stessa.

    Questa maniera di pregare non è adatta a tutti. Essa esige una ripetizione e un esercizio quasi meccanico all’i­nizio, che scoraggia alcune persone. Inoltre, sorge un fenomeno di stanchezza, perché il progresso è lento e, tal­volta, ci si può trovare davanti a un vero e proprio muro che paralizza lo sforzo. Non bisogna dichiararsi vinti, ma, anche in questo caso, si tratta di essere pazienti con se stes­si. Non dobbiamo cambiare troppo spesso la formula. Ri­cordo che il progresso spirituale non può essere raggiun­to unicamente mediante la pratica di un metodo, qualun­que esso sia, ma implica un atteggiamento di discernimento e di vigilanza nella vita quotidiana. Infine, ci sono altri modi di pregare in cui l’attenzione al respiro e la consapevolezza del corpo servono vantag­giosamente da introduzione e da preparazione.

     

     

  • 30 Nov

    Il vissuto della prima comunità cristiana:

    Atti 4,32-35

     a cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    Il v. 35 con parole lapidarie afferma: “veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno”. E’ un’affermazione di grandissima importanza. Veniva dato a ciascuno non secondo i suoi meriti o demeriti, non secondo il grado, il ruolo, il posto che occupa nella comunità, non secondo la sua anzianità o la sua santità, ma secondo il suo bisogno. Si tratta di una gratuità che guarda al bisogno dell’altro.

    Noi saremmo tentati di dare “secondo giustizia” il che sta a significare in base ad una giustizia puramente distributiva (a tutti in parti uguali), o in base ad una giustizia meritocratica (a ciascuno secondo il suo merito). Dare a ciascuno invece secondo il suo bisogno è un’affermazione folle!

    Allo scandalo del buon senso mondano la tradizione biblica offre l’unica risposta possibile: la vita è dono, tutto è dono…Non temere dunque di vivere la gratuità. Il Signore è fedele!

    E’ questo il compimento della promessa biblica contenuta in Deuteronomio 15,7ss. La comunità cristiana si pone come il prolungamento e l’adempimento della Legge e della Promessa. Ecco la buona notizia! Le promesse di Dio finalmente si adempiono nella comunità di Gerusalemme.

    Ma qual è il fondamento di tutto questo, di questo adempimento?

    Esso si colloca nell’esperienza battesimale (cfr v 35 dove “deporre” sta ad indicare un vocabolario battesimale che dice una comune esperienza). In Atti 4,35.37 si “depongono” i beni che si possiedono: essi sono dono di Dio.

    Allora la condivisione dei beni si radica nella condivisione battesimale dell’essere. Cioè: io non depongo i miei beni ai piedi della croce, se prima, ai piedi della croce, non mi sono deposto io stesso.

    Alcuni tuttavia commenteranno: “Mah, sarà vero? Luca non parlerà probabilmente di un ideale mai raggiunto?”. Dobbiamo rispondere: se quella di Atti 2,42-47 3 32-37 è soltanto una prospettiva ideale, e non la certezza e la speranza che l’ideale biblico della fraternità proprio nel nome di Gesù, per dono di Dio, si può realizzare, al cristianesimo che cosa resta? Per rilanciare l’ideale di Dt 15 c’era bisogno che Gesù morisse? Non valeva la pena restare ebrei? L’interpretazione riduttiva di questa testimonianza chiave degli Atti demolisce la novità della prospettiva evangelica, cioè la stessa Buona Notizia.

    In questa interpretazione ci giochiamo la nostra identità ecclesiale.

    Quella comunione instaurata nella primitiva comunità ha un fondamento. Questo fondamento è la condivisione dell’essere.

    Quando si parla di condivisione ricordiamo che il primo bene da mettere in comune è la vita. Questo vuol dire il nostro tempo, il che vuol dire un progetto di vita, il che significa giocare in questo la propria libertà.

    Ma come si fa?

    E’ un dono del Signore che scaturisce dal fare “memoria” ogni giorno della sua Passione. Quando accogliamo, ai piedi della croce, questa gratuità dell’amore di Dio, allora l’amore circola fra di noi e noi diventiamo un cuor solo e un’anima sola. Ecco il segreto della comunità cristiana primitiva, la sua “grande forza”.

    Piste di riflessione

     ∑    La primitiva comunità vive la condivisione: “A ciascuno veniva dato secondo il suo bisogno”. Si mette in atto una giustizia che va al di là dell’equa distribuzione e del merito. E’ la folla “giustizia” della croce. Nelle nostre comunità è possibile parlare di condivisione? Se sì in quale senso? Se no in quale senso?

    ∑    Il fondamento della condivisione dell’avere è la condivisione dell’essere. Il che significa disponibilità a condividere la vita, il tempo, le energie, i progetti, la propria libertà. Ti sembra che in questi anni la provincia abbia camminato in questa direzione, ovvero di una sempre maggior proposta di una condivisione dell’essere?

    ∑    Questa condivisione dell’essere scaturisce dal deporre ai piedi della croce la propria vita. E’ dunque fondamentale la “memoria passionis” affinché nelle nostre comunità scaturisca una autentica comunione di vita. Questo significa accogliere incessantemente nella nostra vita la buona notizia. La proposta del primo annuncio ha trovato concretamente spazio nella vita personale e comunitaria come richiesto dalla programmazione capitolare?

  • 29 Nov

    Una comunità con dei problemi: Atti 6,1-6

     

     a cura di p. Attilio Franco Fabris

    Il capitolo 6 ci offre un quadro della comunità primitiva. Una comunità che ha cura di tutti; ha organizzato un servizio mensa quotidiano per coloro che sono in difficoltà. E’ bello! In questa comunità la parola fraternità non è una parola vuota, non è una dimensione puramente spirituale. Fraternità significa preoccuparsi del necessario per il fratello accanto.

    Ma la fraternità non è perfetta. Il bisogno di tutti viene sì soddisfatto, ma non in maniera equa. I membri provenienti dalla diaspora, senza alcun appoggio, sono discriminati. Ciò suscita malcontento.

    E’ una questione seria, perché viene messa in gioco l’autenticità della fraternità.

    E i responsabili sono investiti in prima persona della questione: sono infatti responsabili dell’unità e della fraternità. Essi non si barricano dietro a scappatoie o autogiustificazioni del tipo: “Ma sì, va tutto bene, sì, certo, sono problemi ma l’importante è… si rimedierà…”. Non cadono nel rischio di minimizzare o di dribblare la realtà. E’ l’autorità dei fatti! La disponibilità si vede dal realismo, dalla libertà interiore, dal senso di responsabilità con cui i fatti vengono accolti e assunti.

    Spesso invece accade che di fronte alle problematiche delle nostre comunità ci accontentiamo di soluzioni di facciata, artificiali: quelle soluzioni che fanno credere di aver aver risolto il problema, mentre non è risolto nulla, perché le cause dei problemi non sono risolte. La fraternità va curata perché è una creatura di Dio, va curata con tutte le nostre forze.

    I Dodici dunque prendono atto del problema, e di questo coinvolgono tutta la comunità: avanzano una soluzione concreta. La comunità avrebbe potuto indietreggiare, giocare allo scaricabarili, delegare. Invece no: tutti si sentono coinvolti in prima persona. Al bene comune dobbiamo provvedere insieme. Si decide per l’istituzione dei sette diaconi.

    Si procede ad una elezione. Non è improvvisata. Avviene in un clima di ascolto e di preghiera, di dialogo comunitario.

    Cosa ricavarne? Anzitutto ci viene detto che i bisogni della comunità, quando vengono assunti responsabilmente da tutti, vengono soddisfatti dal Signore. La risposta che il Signore offre ai bisogni della comunità si chiama “carisma”. Ad ogni bisogno il carisma adatto. Più la comunità cresce, più aumentano i bisogni, più crescono i carismi.

    Ma perché i carismi crescano e fioriscano in seno alla comunità è necessario che i carismi esistenti siano fedeli al signore e collaborino fra di loro. L’integrazione dei carismi è condizione di fecondità della comunità, perché, attraverso questa integrazione, si realizza l’unità.

    A Gerusalemme vi fu in quell’occasione una splendida integrazione di carismi: di vertice, di base, di servizio. Da quella situazione conflittuale nacque la splendida istituzione del diaconato.

    Le imperfezioni della fraternità vanno assunte, riconosciute, ma nel Signore. In una ricerca di integrazione di carismi esse divengono sorgente di fecondità.

    Certamente oggi dobbiamo assumere molte situazioni problematiche nelle quali domandare al Signore la nascita di nuovi carismi, e questo in ordine a:

    – la definizione dell’identità ecclesiale nel mondo

    – per attualizzare la vocazione e il carisma della vita religiosa e passionista

    – per avviare iniziative apostoliche conformi alle esigenze del nostro tempo.

    Piste di riflessione

    ∑    La fraternità è un dono che va curato. Essa non è perfetta. In essa esistono difficoltà, conflitti, tensione in ordine alla sua realizzazione. Tutto questo va riconosciuto e affrontato da tutti, indistintamente, nelle modalità proprie legate alla propria funzione. Nessuno dovrebbe giocare allo scaricabarili o alla delega. Ti pare che questo accada? Avverti una corresponsabilità nell’affrontare le difficoltà della provincia e delle singole comunità?

    ∑    Le soluzioni adottate per risolvere i problemi delle nostre comunità ti sembrano appropriate? Sono soluzioni che raggiungono il cuore del problema, o sono di facciata? Puoi fare qualche esempio.

    ∑     La nascita di carismi è possibile dove i carismi esistenti sono fedeli al Signore e collaborano ed interagiscono tra loro: solo da questa mutua interazione può nascere l’apertura ad ulteriori carismi vitali per la chiesa e le nostre comunità. Esiste questa accoglienza e collaborazione fra i diversi carismi? Cosa fare per incrementarla?

  • 26 Nov

    Una consegna vicendevole
    all’iniziativa dello Spirito: Atti 13,1-5

     a cura di p. Attilio Franco Fabris

    Siamo nella comunità di Antiochia.

    Gli Atti ci descrivono una comunità ricca di carismi profetici, dottorali e magistrali.

    Il testo ci racconta che durante la “celebrazione del culto del Signore” lo Spirito santo dice: “Riservate per me Barnaba e Paolo per l’opera alla quale io li ho chiamati”.

    Quale opera? Non si sa. Sicuramente a servizio dell’annuncio della buona notizia. Ma dove? Come? Quando? Questo non viene detto. Perché questa non precisazione?

    Essa fa parte della pedagogia di Dio. Infatti la tradizione biblica ci insegna che il Signore vuole educare l’uomo a camminare sulla sua parola “hic et nunc”. Del domani, domani se ne parla. Il Signore pone alla scuola dell’ascolto (cfr Gn 12).

    Il Signore chiama ad una missione senza dire ancora di che cosa si tratta, né quali saranno le modalità della sua realizzazione.

    Questo sicuramente avrà fatto problema alla comunità di Antiochia. Si sarà domandata: “Abbiamo ascoltato bene? Il Signore queste precisazioni, indispensabili dal punto di vista organizzativo, logistico, funzionale le dovrà pur dare! Se non sono ancora venute, evidentemente è perché non abbiamo ancora ascoltato abbastanza”.

    Quante incertezze nel nostro programmare. Quante  esitazioni. Dobbiamo interrogarci: certe incertezze che accompagnano i nostri discernimenti, sono dovute alla nostra sordità, o sono dovute alla pedagogia che il Signore adotta nei nostri confronti? La tradizione biblica attesta che certe cose il Signore non ce le dice di proposito, e non le dirà mai, fin quando non ci metteremo in cammino davvero. Questa fedeltà del Signore alla sua pedagogia può essere una chiave per comprendere molte delle nostre attuali difficoltà in ordine alla programmazione. Quando noi ci cimentiamo con una programmazione apostolica vorremmo vedere tutto chiaro. Questo è ragionevole. Ma rischiamo di dimenticarci della pedagogia del Signore.

    Un altro punto di riflessione è questo: perché lo Spirito non dà questa missione direttamente subito a Barnaba e Paolo? Perché la “profezia” deve passare attraverso la comunità?

    La “missio” non appartiene a Barnaba o a Paolo. Essa è della chiesa. E’ necessario che essi la ricevano dalla comunità. E’ la “missio” di tutta la comunità.

    Un terzo punto: gli Atti ci descrivono che tutto questo avviene mentre si “celebra il culto del Signore”. Cosa significa? Celebrare il culto è riconoscere la presenza del Signore nella comunità. In Israele la prima forma di culto era l’ascolto della Parola. L’ascolto è rendere culto al Signore: che nella comunità cristiana giunge al suo vertice nel memoriale eucaristico. La “fractio verbi” diviene “fractio panis”. La comunità di Antiochia è certamente una comunità in cui l’ascolto della Parola è posto al primo posto come atto di culto al Signore.

    A questa forma di culto la comunità associa il digiuno. Non è il digiuno ascetico: ma è il digiuno che richiama Israele che non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Il Signore è disposto a rispondere al bisogno dell’uomo quando l’uomo lo ascolta e cammina sulla sua parola. In questa direzione Israele riconosce che tutto è dono. Imparare a digiunare significa giungere alla libertà di spirito di rimettere tutto ciò che siamo e tutto ciò che abbiamo a Colui dal quale tutto abbiamo ricevuto, senza nulla trattenere.

    In questo atteggiamento la comunità è disposta a consegnare Barnaba e Paolo alla loro missione. E Barnaba e Paolo sono disposti a consegnarsi a ciò che il Signore domanda loro.  I due apostoli e la comunità di Antiochia si consegnano vicendevolmente all’iniziativa del Signore.

    Il tutto termina con il gesto dell’imposizione delle mani. Un gesto caro alla tradizione biblica che sta a significare l’investitura da parte della comunità per la missione richiesta dallo Spirito.

    Piste di riflessione

    ∑    la pedagogia del Signore domanda all’uomo l’affidamento alla promessa. A mettersi in cammino fidandosi della parola, anche quando il futuro appare incerto, nebuloso… Noi vorremmo però vedere subito tutto chiaro, evidente, programmato. Ti sembra che nelle nostre scelte comunitarie e provinciali teniamo presente questa pedagogia? Secondo te perché a volte poniamo resistenza ad adottarla? Perché tante incertezze nel nostro programmare? Quale atteggiamento dovrebbe assumere il prossimo Capitolo?

    ∑    La “Missio” passa attraverso la mediazione della comunità. Nessuno se la può attribuire o rivendicare. A volte invece si ha l’impressione che questo non accada. Ciascuno si appropria della Missio che ritiene sua, gestendola come bene personale in cui gli altri non hanno il diritto di interferire. E’ un  problema che può affliggere il nostro ministero apostolico. Lo avverti? Quali le cause? Quali i rimedi?

    ∑    La parola dello Spirito su Paolo e Barnaba si manifesta mentre si “celebra il culto del Signore”, ovvero mentre la comunità è protesa all’ascolto della parola di Dio. E’ solo da questo “culto” che può scaturire una parola autorevole che trascende le nostre misere visuali e orizzonti ristretti. Nelle nostre comunità le scelte da farsi scaturiscono da un ascolto della Parola o adottiamo altri criteri, quali ad esempio? E con quali frutti?

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