• 03 Mar

    La trasfigurazione Pasqua anticipata
    Mc 9,2-10

    Lectio

    Con Gesù non si finisce mai… Appena sei giorni fa’, a Cesarea di Filippo, i Dodici hanno riferito al Maestro le opinioni della gente sul suo conto – chi pensa che sia il Battista ritornato in vita, chi Elia, chi uno dei profeti – ma lui li ha subito spiazzati con quella domanda tagliente: “Ma voi chi dite che io sia?”. Solo Pietro ha detto le parole giuste, che il Padre gli ha messo nel cuore e sulle labbra: “Tu sei il Messia”. La risposta è vera – è l’unica esatta – ma l’idea di Messia che il primo dei Dodici si porta in cuore non combacia affatto con quella di Gesù. L’idea di Gesù prevede per il Messia una dolorosa passione e addirittura una morte ignominiosa. Pietro invece sogna successi, vittorie e trionfi e, al solo sentire di un Messia sconfitto, si è subito ribellato con violenza brutale, al punto che la sua “confessione” o riconoscimento di Gesù come Cristo si è risolta in una drammatica “sconfessione” da parte dello stesso Cristo: “Via da me, satana! Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.

    Chi è dunque Gesù? La trama del testo di Marco è tessuta sull’ordito di un filo tanto sottile quanto tenace, il filo di quell’interrogativo ricorrente: ma chi è veramente Gesù di Nazaret? Ora siamo al settimo giorno dall’incontro-scontro di Cesarea di Filippo. Questo dettaglio a prima vista puramente cronologico, acquista un emblematico colore teologico: vi si intravede in filigrana l’esperienza di Mosè al Sinai: “Mosè salì sul monte e la nube coprì il monte. La gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube” (Es 24,13-16).

    Dunque sei giorni dopo i fatti di Cesarea di Filippo, ebbe luogo la trasfigurazione. Ci è stato proclamato il racconto nella versione di Marco, ma l’evento viene riportato anche da Matteo e da Luca: si tratta di testi “di una tale ricchezza che, se fanno la gioia del contemplativo, spesso mettono in imbarazzo l’esegeta e lo storico” (Léon-Dufour). Conviene quindi scomporre il brano nei vari elementi che lo strutturano, prima di contemplare l’evento in una visione unitaria. Il primo è il particolare cronologico dei “sei giorni dopo”, appena evidenziato.

    Il secondo elemento è il monte alto. Nella storia delle religioni è sulle montagne che gli dèi hanno la loro residenza ed è lì, sulle alte cime, che il cielo incontra la terra. Il monte Sinai è il luogo della rivelazione per eccellenza, in cui Mosè ricevette le tavole della Legge, e dove anche Elia salì, a ritemprare la sua fede alle sorgenti della rivelazione del Signore (cfr. 1Re 19). Il monte della trasfigurazione viene identificato dalla tradizione nel Tabor, ma l’assenza di localizzazione nei sinottici è eloquente: la montagna in cui Dio viene a parlare al Figlio suo trasfigurato è il nuovo Sinai. Va colta anche una intenzione neanche troppo velatamente polemica: scegliendo questo monte anonimo, Dio ha rigettato la piccola collina su cui era costruita Gerusalemme, il santo monte di Sion. Secondo la topografia teologica degli evangelisti, non sarà Gerusalemme il luogo dell’ultima rivelazione di Dio, ma la Galilea delle genti, anzi è l’al di là della Galilea che riceve ora la visita di Dio.

    Il terzo elemento è la gloria: Gesù “si trasfigurò davanti a loro. Le sue vesti divennero splendenti, bianchissime”. Non si tratta tanto della tonalità di un colore, ma dello splendore della gloria divina che fa risplendere il volto di Gesù come il sole e fa brillare le sue vesti come la luce (Matteo). La gloria che Gesù, sei giorni prima, aveva appena annunciato a Cesarea per la fine dei tempi, quando “il Figlio dell’uomo verrà con gli angeli santi nella gloria del Padre” (Mc 8,38), viene ora anticipata sotto lo sguardo abbagliato dei tre testimoni. Se è vero che la gloria appartiene a Dio, unico essere glorioso in senso proprio, perché unico veramente santo, ora essa risplende sul volto di Gesù, non come un semplice riflesso della gloria di YHWH – come per Mosè – ma come lo splendore che rivela l’intima sua identità: egli è lo stesso Dio.

    Accanto a Gesù appaiono Mosè ed Elia: è il quarto dettaglio della teofania. Rappresentano rispettivamente la Legge e i Profeti. In particolare, Mosè, il portavoce di Dio, viene a salutare il profeta definitivo, da lui stesso annunciato (Dt 18,15); Elia doveva essere il precursore del Messia. Ambedue erano saliti al Sinai; con la loro apparizione su questo monte – il nuovo Sinai – annunciano che è giunto il tempo della nuova ed eterna alleanza.

    Con la sua proposta di fare tre tende – è il quinto particolare – Pietro conferma il senso escatologico della visione: la tenda infatti era un segno della visita di Dio che viene ad abitare in mezzo al suo popolo (cfr. Os 12,10). Pietro vorrebbe quindi inaugurare il cielo sulla terra, perché l’apparizione di un giorno duri per sempre. Ma l’evangelista Marco annota: “non sapeva cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento”. Ora questa frase rassomiglia stranamente all’osservazione che segue il terzo tentativo, da parte di Gesù, di trovare conforto al Getsemani nei discepoli addormentati: “non sapevano che cosa rispondergli” (Mc 14,40). Le due scene sono affini: gli stessi testimoni privilegiati, lo stesso sbalordimento, qui davanti alla gloria, là davanti all’umiliazione di Gesù. Nei due casi i tre discepoli rimangono in presenza di un mistero incomprensibile.

    Il sesto particolare della scena è la nube: “e venne una nube che li avvolse nella sua ombra”. La nube è il segno inequivocabile della manifestazione di Dio, come lo era stata sul Sinai, sulla tenda del convegno durante la marcia nel deserto, e sul tempio di Salomone, all’atto della consacrazione del nuovo edificio. La nube, che ricopre e protegge, è in qualche modo una tenda per Dio stesso: delle nubi, infatti, egli fa la sua tenda (cfr. Sal 18,12).

    Infine, come ultimo elemento, va registrata la voce dalla nube: è la stessa voce già ascoltata al Giordano, che aveva presentato Gesù come il Figlio e il Servo del Signore. Ora a quelle parole si aggiunge il comando: “Ascoltatelo!”. Ai discepoli dubbiosi e timorosi, Dio in persona parla e dice che essi possono, devono ascoltare e obbedire, devono e possono avere fiducia in Gesù e seguirlo sulla via che ha intrapreso: è la via della croce che prevede la tappa del Golgotha, ma poi culminerà nella risurrezione.

    Meditatio

    L’evento della trasfigurazione “ha inaugurato un giorno ciò che rimane ogni giorno il compito del cristiano: lasciar irradiare il mistero pasquale nel presente del suo cammino doloroso, già prima della sua consumazione nella gloria (…)” (Léon-Dufour). Grazie a tale anticipazione della gloria definitiva in una esperienza precaria, continuamente minacciata, il cristiano sa bene che il cielo è disceso sulla terra, l’eternità è entrata nel tempo, mentre la tela della felicità viene intessuta con il filo del dolore, vissuto con fede.

    Prima di concludere, non possiamo non fissare almeno alcune domande:
    –    c’è stato nella mia vita un momento in cui ho sperimentato una “trasfigurazione” di Gesù ai miei occhi, in cui l’ho visto finalmente per quello che egli veramente è: il Figlio di Dio, mio salvatore?
    –    da allora si è fatta sempre più frequente e intensa nella mia vita l’esperienza dell’ascolto della sua parola?
    –    vado via via assimilando il “pensiero di Cristo”, per vedere la storia come Lui, per giudicare la vita come Lui, per scegliere e amare come Lui, per vivere in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo?
    –    E agli altri dico solo quello che so su di Lui o soprattutto quello che ho imparato da Lui?
    –    Chi mi incontra, vede in me almeno qualche tratto di somiglianza con Gesù?

    Ora, dopo aver ascoltato il Signore che ci ha parlato, siamo invitati ad incontrarlo nel segno del pane condiviso. La realtà del Cristo rimane ancora velata. Tuttavia l’eucaristia ci fa partecipare al movimento della sua vita: entriamo nella sua morte per accedere – nell’attesa della sua venuta – alla luce della sua risurrezione. Ed è già Pasqua.

    Oratio

    È veramente cosa buona e giusta,
    nostro dovere e fonte di salvezza,
    rendere grazie sempre e in ogni luogo
    a te, Signore, Padre santo,
    Dio onnipotente ed eterno,
    per Cristo nostro Signore.
    Egli, dopo aver dato ai discepoli
    l’annunzio della sua morte,

    sul santo monte manifestò la sua gloria
    e chiamando a testimoni la legge e i profeti
    indicò agli apostoli che solo attraverso
    la passione possiamo giungere
    al trionfo della risurrezione.
    E noi, uniti agli angeli del cielo,
    acclamiamo senza fine la tua santità,
    cantando l’inno di lode:
    Gloria al Padre…….

  • 24 Feb

    Il pianto di Pietro:
    una illuminazione pasquale.
    Marco: 14, 66-72


    Proviamo a fare un’ipotesi per capire un po’ questo brano prima di entrarvi. Pietro aveva detto poche ore prima che era disposto a morire per Gesù, che se tutti gli altri lo avessero rinnegato, lui no. Supponiamo che Pietro a questo punto fosse stato così bravo da andare li a morire per Gesù e non l’avesse rinnegato. Cosa sarebbe successo? Pietro non avrebbe sperimentato la salvezza che è il sentirsi amato e perdonato, perché quel che mi salva non è il mio morire per Dio, Dio non vuole che io muoia per Lui, è che Lui ha dato la vita per me e mi ama: è questa la salvezza, è questo che Pietro non ha capito.

    In Pietro vediamo evidenziato la radice delle nostre tristezze, preoccupazioni, ansie, paure di perdere. Perché? io voglio vivere della mia bravura, voglio essere protagonista. Per questo sono disposto anche a morire per Dio. Ma Dio non vuole che tu capisca che Lui ti ama e dà la vita per te.

    Per cui questo brano è il passaggio necessario dalla legge al Vangelo. La legge può portarmi fino a dar la vita per Dio; è il meglio della legge; cosa vuoi più di così? Ma Dio non vuole la vita di nessuno, non è una sanguisuga! Dio dà la vita a tutti e ama tutti. E Pietro deve capire di essere amato gratuitamente; non perché è bravo come pensava lui, ma perché è povero peccatore come noi.

    E allora capisce cos’è il battesimo: essere amati, accettati gratuitamente nel proprio male e la mia identità è l’amore che Lui ha per me, non la mia bravura reale o presunta e questo vuol dire nascere figli amati e accettarsi. E’ lasciarsi immergere nell’oceano dell’infinita gratuità dell’amore di Dio che Lui stesso ci ha rivelato donandoci il suo Figlio.

    Quindi questo brano rappresenta il punto più delicato del Vangelo che riporta il racconto di Pietro, il suo battesimo che è il battesimo del cuore, il pianto, dove Pietro scopre la propria identità.

    Pietro vuoi dire pietra. Ma Pietro è una frana, ma proprio franando tutto questo fa sì che rimanga la solida pietra che è la fedeltà di Dio. La cosa da capire è che noi viviamo della fedeltà e dell’amore di Dio, non della nostra fedeltà e del nostro amore, se no poveri noi.

    Ed è questa la conversione di Paolo che era perfettissimo, irreprensibile nell’osservanza della legge. E’ la conversione più difficile: «Ma come, allora?». Allora è così, il battesimo è vivere di grazia, cioè dell’amore gratuito del Signore e Pietro è il primo che sperimenta questo e lo prova, dove il suo peccato non è come quello di Giuda che è addirittura è pentito e vuole mettere a posto i conti ma quando questo non è più possibile rimane solo posto per la disperazione; difatti il peccato di Giuda non è tanto l’aver tradito Gesù ma il voler rimettere a posto i conti; ed è lo stesso di Pietro che vorrebbe pagare in anticipo dando la vita per Cristo, invece non ci riesce, grazie a Dio. Ci potrà essere così il suo battesimo, il lasciare entrare negli occhi del cuore lo sguardo del Signore che dà la vita per me.

    66 E mentre Pietro era da basso nel cortile, viene una delle serve del sommo sacerdote 67 e vedendo Pietro che si scalda, guardandogli dentro dice: «Anche tu eri col Nazareno Gesù».

    Pietro è coi servi e cosa deve fare? Prima di tutto nessuno gli ha detto di venire, e poi è venuto perché si è ricordato che aveva detto «Anche se gli altri ti abbandonassero, io non ti abbandonerò mai!». É un uomo serio e di parola, vuol mostrare a Gesù che lui è bravo. «Se no, si è sbagliato a chiamarmi Pietro, gli altri sono tutte frane; io invece son Pietro e gli devo mostrare che sono migliore e che dunque ha riposto bene la sua fiducia. Poi presto o tardi Lui se la cava, perché so chi è… ». Era lì per mostrare che era bravo e anche per affetto per Gesù, perché gli vuol bene, per proteggerlo, per dirgli: «Guarda, io sono qui, puoi contate su di me! Non ho parlato a vanvera».

    Allora c’è una serva, anzi una servetta che dice «Tu eri col Nazareno». Come fa a dirlo? Negli ultimi cinque giorni Gesù è stato sulla spianata del tempio e Pietro era davanti a lui. Gesù ha messo a tacere scribi, farisei, sadducei, erodiani e Pietro era li davanti che diceva: «Bravo il maestro! Io sono il successore». Si metteva in mostra ovviamente. E avevano litigato poco prima su chi sarebbe stato a desta e chi a sinistra; Pietro era in vista, la serva l’ha riconosciuto: «Tu eri lì con Lui».

    Ora “essere con” Gesù il Nazareno è l’essenza dell’apostolo. Gesù fece i dodici per essere con Lui (Marco 3, 14). Quindi la sua domanda non è solo per dire: eri in compagnia sua? No, essere con Gesù è la definizione del discepolo in Marco; essere con Lui vuoi dire essere in sua compagnia, fare le stesse scelte, aver gli stessi criteri. Questa è la domanda definitiva al discepolo, la domanda fatta a ogni discepolo a questo punto del Vangelo: tu sei con Gesù? Col Nazareno? Pensi come Lui? Desideri le cose che desidera Lui? Hai gli stessi obiettivi? Cosa vuol dire “essere con”? Sei solidale con Lui? Fai lo stesso cammino? Fai le stesse scelte? Questo vuoi dire “essere con”.

    In realtà Pietro era stato con Gesù, ma con quale Gesù? Con quello che desiderava Lui. E quando ad un certo punto Gesù ha fatto balenare che la storia era un po’ diversa al centro del Vangelo, Pietro dice «Non sia mai! Ti sbagli, ascolta me che sono Pietro, infallibile». Come accadde al primo annuncio della passione! Ma vediamo un poco la risposta.

    68 Ma egli negò dicendo: «Né so, né capisco che tu dici». E uscì fuori nell’atrio e un gallo cantò.

    Ci fermiamo un po’ qui. Noi siamo abituati a dire che qui Pietro ha mentito, invece qui Pietro è la prima volta che dice la verità: «Io non so e non capisco quello che dici». Non so cosa vuoi dire essere con Gesù il Nazareno, anzi per essere sincero io ero con un altro, non con questo qui. E stato uno scambio di persona. Ero con Gesù Nazareno che moltiplicava il pane, che risuscitava i morti, che tutti osannavano, che tutti cercavano. Ero con quello li. Questo qui, arrestato, legato, sputacchiato, deriso, debole come tutti, fragile, stolto io non lo conosco; non so e non lo capisco. «Ha sbagliato a fare quel che ha fatto, perché se avesse ascoltato me, sarebbe andata meglio».

    Ma ancora dopo duemila anni, la domanda è: con quale Gesù sto? Gesù è la proiezione dei miei deliri di potere? Tant’è vero che quando non mi esaudisce lo abbandono, me ne invento un altro. Il problema della fede cristiana è accogliere Gesù il Nazareno nella sua passione e morte per poter sperimentare la forza del suo amore e resurrezione. Allora capisco:
    – chi è Dio: amore assoluto e gratuito per me,
    – e chi sono io: amato in modo assoluto e gratuito da Dio.
    E accetto di vivere di questo.

    Ed è qui che Pietro non sa e non capisce (e non può ancora capire): perciò crollano le sue certezze.  «… Uscì nell’atrio e un gallo cantò».

    Il gallo canta prima del sorgere del sole, comincia la prima luce in Pietro, la prima Luce è capire che lui non capisce questo Cristo, comincia l’illuminazione di Pietro. Il battesimo è l’illuminazione. Il principio di illuminazione è capire che «non so e non capisco quello che tu dici». Io capivo le cose che pensavo io. Gesù era un brav’uomo, anche Dio se vuoi, comunque tutto restava intatto e tutto consisteva nel fatto di imitarlo, nell’essere bravi come Lui, dar la vita per Lui in modo da essere importanti come Lui. E’ l’ottica nella quale credeva di vedere.

    Ma l’ottica di Gesù è un’altra: è che Lui dà la vita per me, non vuole la vita di nessuno, ama gratuitamente me e vuole che io viva. Non è che desiderasse morire perché io vivessi, l’ho ammazzato io se è per questo, Lui desiderava vivere, ammazzato dal mio non riconoscimento.

    È difficile passare da quel rapporto con Dio che è radicato nell’uomo, tipico di ogni religione, del Dio esigente, del Dio giusto comunque, anche amorevole, ma col quale devi sempre sdebitarti, devi pagare e dar la vita. No, non devo dare la vita, la vita è un dono da ricevere dicendo si grazie. Anche con i miei genitori non sono in debito, anche se devo loro tutto, ma non è un debito.
    Così, con Dio non abbiamo alcun debito. E’ Lui che ha dei debiti con noi; ha il debito di un amore infinito e siccome noi non crediamo a questo amore infinito, poveretto non sa più come pagare questo debito; le ha dovute inventare tutte nella storia, fino a morire in croce per pagare questo debito nei nostri confronti, per farci capire che siamo amati gratuitamente e totalmente.

    Ed è questo il peccato: il non capire questo, è il male.

    69 E la serva vedendolo cominciò di nuovo a dire ai presenti: “Costui è di quelli… 70 Ma egli di nuovo negava.

    Ecco la prima domanda è sapere se si è con Gesù. E’ il centro della fede. Essere credente vuol dire essere in compagnia di Gesù, non con il Gesù che mi invento io, ma con quel Gesù che mi ha amato e ha dato se stesso per me e che è il mio Signore e mio Dio.

    Poi, secondo esame della fede cristiana: va bene tu dici che non sei con Gesù, ma è chiaro che sei di quelli. “Di quelli” vuol dire comunità. Tu appartieni alla comunità cristiana?

    Non appartieni alla comunità se non sei con Lui. Appartenenza è essere con Lui, stando con Lui siamo tra noi in modo corretto. Posso avere tutte le etichette possibili e non essere di fatto… cristiano.   

    Essere cristiano è essere con Gesù, che mi ha amato e ha dato se stesso per me, non col Gesù che voglio andare a salvare io. Quindi l’immergersi, l’essere battezzati nel suo amore per me: è questo che mi fa esistere e mi permette di essere poi di quelli che vivono, sperano e amano a partire da questo evento di trasformazione.

    L’appartenenza alla Chiesa viene dopo: perché son cristiano e appartengo alla Chiesa? Perché sono con Gesù. Tant’è vero che uno che non è battezzato non appartiene alla Chiesa.

    Il battesimo cos’è? É l’essere immersi in Gesù, battezzati in Cristo. E l’essere battezzato in Cristo mi rende fratello degli altri, mi mette nella Chiesa. Ma se non sono in Lui, non sono nella Chiesa, anche se ho tutte le appartenenze, anche se faccio parte del Consiglio Pastorale, e anche se di mestiere annuncio la parola di Dio, non sono cristiano. Perché l’essere cristiano è l’essere con Lui, con Lui che è cosi con me. Quindi non basta l’appartenenza alla comunità cristiana.

    C’è tanta gente anche impegnatissima che fa tante cose e fatte bene. Attenti: non sono le cose che fai e l’organizzazione a cui appartieni che ti fanno credente, è il tuo rapporto personale col Signore Gesù; è questo che ti forma e ti costituisce. Anche come prete e religioso, oltre che come uomo della strada. Io posso essere prete e religioso e far tante cose belle e paradossalmente non essere credente. Mi fa credente il mio rapporto con Gesù. E accettare il suo amore per me e vivere di quell’amore. E’ questo il nocciolo della fede che ci fa tutti fratelli e tutti liberi, la nostra identità.

    E Pietro non appartenendo a Cristo non può che rispondere negativamente alla seconda domanda: sei di quelli? Pietro nega, no non sono di quelli; se non sono con lui, non posso essere “di quelli”.

    E dopo un po’ di nuovo i presenti dicevano a Pietro: “Veramente sei di quelli, infatti sei anche galileo

    Essere galileo voleva dire forse anche essere sovversivo, comunque qui chiaramente essere galileo, essere di quelle parti, vuol dire che il tuo linguaggio ti rende manifesto – dice Matteo. Ora è chiaro che tu sei cristiano…. Ma non è detto che sono cristiano. Mi fa cristiano il mio essere con Gesù; non sono tutti i titoli né culturali, né cultuali, né le appartenenze che ti fanno cristiano: è il mio rapporto personale con Gesù. E’ questo il battesimo, sapere che il mio Signore mi ha amato e ha dato se stesso per me. E io vivo rispondendo a questo amore che è la mia identità. E’ questo il battesimo, e vivo quindi nella libertà di figlio, quindi di fratello di tutti e posso essere “di quelli”, della comunità. Ma non è né il mio modo di parlare, né la mia cultura, né le mie appartenenze che mi fanno cristiano. E qui Pietro dà la terza risposta.

    71 Ma egli cominciò a imprecare, a giurare: «Non conosco quell’uomo di cui dite». 72 E subito per la seconda volta un gallo cantò».

    Ecco Pietro si dissocia totalmente per la terza volta, come Gesù che, tre volte interrogato, confessa. Pietro alla fine si dissocia totalmente da “quell’uomo che voi dite” addirittura neanche lo nomina. E qui il gallo canta per la seconda volta. Ora vediamo cosa avviene.

    E ricordò Pietro la parola che disse Gesù: “Prima che il gallo canti due volte, tre volte mi rinnegherai”. E si gettò a piangere.

    In Luca 22, 61 c’è un dettaglio interessante che ci può interessare: 60 Ma Pietro disse: «O uomo non so quello che dici». In quell’istante mentre ancora parlava un gallo cantò. 61 Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi, mi rinnegherai tre volte». E, uscito, pianse amaramente.

    Ecco ci sono due dettagli di più in Luca; Gesù che guarda dentro il cuore di Pietro. Anche qui è Gesù che guarda dentro come prima la servetta. Il Signore guarda dentro Pietro. Come l’avrà guardato? «Te l’avevo detto! Hai visto? Anche tu come gli altri! Sei proprio.. chi credevi d’essere… Io ti ho chiamato Pietro perché hai la testa dura, di pietra».
    Se Gesù l’avesse giudicato, Pietro si sarebbe sentito un po’ tranquillo, almeno pago, in qualche modo avrebbe pagato. Ho sbagliato, scusa, è giusto che paghi.

    Mettiamoci sotto questo sguardo. Gesù lo riconosce, lo guarda dentro e lo accoglie nella sua povertà, non si era sbagliato a chiamarlo. Non è che l’abbia chiamato perché era bravo, infallibile o generosissimo; no, no, «lo sapevo che eri così: ti voglio bene come sei e non mi sono sbagliato a chiamarti». Non ha detto Gesù: «Sai io sono di parola, pensavo tu fossi bravo, tu mi hai tradito, ma io non ti tradisco perché io son di parola». No: «sapevo che eri cosi, che è così e ti amo». Il suo io “ideale” si fa in pezzi. Non sono quello che credevo. E il peggio è che Lui lo sapeva già, non l’avesse saputo almeno! Ma lo sapeva già e mi voleva bene lo stesso e continua a volermelo.
    C’è questo sguardo che fa vivere anche se trafigge. Pietro deve accettare, a questo punto, o di vivere di questo sguardo di accettazione e perdono assoluti – allora nasce come uomo libero – oppure non gli resta che ammazzarsi, come Giuda. E avrebbe infiniti modi per “ammazzarsi”: espierà questo peccato, farà sempre di più il bravo, cercherà di non sbagliare più, cercherà di essere infallibile…. Invece no.

    Qui si pone nell’alternativa di vivere o di un’accettazione assoluta gratuita dell’Altro – e questa è la condizione per vivere – o di pagare in qualche modo questo debito, ed è la condizione per morire. Il battesimo è accettare la grazia, la gratuità, il dono, l’amore incondizionato e assoluto.

    Io di cosa vivo, di che sguardo vivo? Di quello della servetta che mi giudica e degli altri che mi condannano? Del mio sguardo su di me? Che diventa l’inferno su questo punto, perché, se mi giudico, mi condanno.

    Pietro  sotto lo sguardo di Gesù perde la sua falsa identità. Quella che si era costruita. Pietro uscì e fuggì da Gesù: il che vuol dire – è il primo modo – che io rifiuto di essere accettato così. Mi è più facile pagare personalmente, mi sembra più onesto.

    Accettare un amore gratuito e incondizionato – che è l’unico modo per poter vivere – è la vera morte di ogni falso io ed è più duro di qualunque altra cosa e bisogna passarci per vivere della libertà di uno che è amato e che capisce che la sua identità è li, non era quel che pensava.

    È davvero la fine di tutto un mondo. Quando si parla del battesimo come nascita dell’uomo nuovo nella libertà dei figli, si dice qualcosa di preciso. Quando si parla di Illuminazione si dice qualcosa di preciso. Questa illuminazione non è la mia bravura, non è la mia presunzione, né quell’immagine di Dio che avevo, né l’immagine dell’io che avevo, né la mia sconfitta, né la mia vittoria. E’ qualcos’altro: è la scoperta di un amore incondizionato, gratuito e a fondo perduto che Cristo ha per me.

    Ed è lento il cammino per arrivare a questa scoperta e a questo pianto battesimale. Prima deve uscire tutta l’amarezza, la sconfitta anche del falso io che deve scomparire perché sperimenta l’incapacità di autosalvezza. Ma da quel pianto purificatore verrà la Luce che mi permetterà di “vedere” il Crocifisso Risorto che mi accoglie e mi dona la sua vita: il suo Spirito.

  • 22 Gen

    PERCHÉ DIVENTI VITA VISSUTA

    E. CITTERIO: in L. GUCCINI, Vita consacrata: le radici ritrovate, EDB, Bologna, 2006, pp. 225-240

        La costatazione di fondo che si rileva guardando oggi in generale l’esperienza e la pratica cristiana nella chiesa sembra questa: la santità non fa più sognare. Oserei dire: la santità cristiana non fa più sognare. Il Concilio Vaticano II, con il capitolo V della Lumen Gentium, consacrava come acquisito in modo nuovo alla coscienza ecclesiale il dato tradizionale della universale vocazione alla santità nella chiesa. Paradossalmente, negli anni successivi, si registrava nettissimo il declino del culto dei santi a favore, giustamente, della centralità della Parola di Dio e della figura di Cristo, ma con la conseguenza o, forse meglio, la concomitanza, della messa in sordina dello stesso ideale di santità, come se la possibilità dell’esperienza stessa di Dio, tratto peculiare della santità, non fosse più percepito come costitutivo dell’essere cristiani e dell’essere chiesa. La VC nel suo insieme lo registrava in modo marcato. E quello che si può dire riferito all’ideale di santità lo si può estendere alla VC nel suo insieme.     
    Sembra che le immagini tradizionali di santità che agiscono come clichés mentali non interessino più le energie vive della coscienza moderna, che si direbbe alimentarsi altrove. Se ci si interroga su chi sia un santo o su come ce lo si immagina oggi,  emerge l’immagine stereotipa, ingombrante, senza più presa sull’immaginario interiore, del santo come dell’uomo ‘perfetto’, al di sopra delle fragilità e dei tormenti dell’esistenza, un modello impossibile da imitare o comunque tanto distante che non concerne più la nostra vita vera. E’ l’immagine a sfondo moralistico che tiene ancora banco nelle pieghe della coscienza cristiana. Santità confusa con perfezione, dove perfezione è intesa riduttivamente come ideale morale e basta. Di contro, si vorrebbe suggerire la figura possibile di un santo nei termini di un ideale che la modernità ha evidenziato con prepotenza e che si presenta con la forza di ciò a cui non si può rinunciare, l’ideale della autenticità, della realizzazione di se stessi, della fedeltà a se stessi nella totalità di un impegno di vita, figura, questa, che ispira fascino e ammirazione. A differenza di cinquant’anni fa, non ci si stupisce di trovare un ‘santo’ oltre i confini della chiesa o della propria chiesa; non fa problema ammirare esperienze e persone in contesti differenti, nelle più disparate situazioni di vita e in religioni diverse. E ciò accresce la difficoltà di riconoscersi globalmente e significativamente in quelle esperienze, spesso in contrasto con le proprie radici. Di qui il senso di frammentazione e confusione dell’umanità nella nostra società e nell’esperienza della stessa VC.
        La vita consacrata, in tutte le sue forme, nella chiesa, ha sempre comportato un ‘magistero spirituale’, vale a dire ha offerto alla chiesa il dono di quel ‘supplemento’ d’anima all’esperienza cristiana lasciando presagire la potenza dello Spirito che lavora i cuori aprendoli al regno di Dio e aprendo il regno di Dio ai cuori. Ma dire ‘magistero spirituale’ significa alludere alla possibilità concreta di una santità che parli ai cuori, che riverberi lo splendore della presenza di Dio vicino al suo popolo. Essenzialmente a questo mi sembri rimandi il ritorno al vangelo invocato per la vita consacrata.
        Ritornare al vangelo esprime assai bene la legge costante che ha caratterizzato, nella storia, ogni ripresa spirituale nella chiesa per ridare vitalità e profondità alla sua azione : il ritorno alle fonti. E’lo stesso principio che ha guidato la riforma del Concilio Vaticano II. Non è tipica di oggi; è tipica dei passaggi ‘significativi’ della storia della chiesa, di tutte le chiese. Ecco dunque la prima questione: cosa significa per noi, oggi, ritornare al vangelo? Non è poi così immediato da assimilare il mistero del regno dei cieli annunciato dal vangelo, sebbene non sia per nulla complicato. La domanda vera allora credo possa suonare così: come fare, come disporci per assimilare la ‘potenza’ del vangelo? E’ la questione delle radici, del fondamento, da non confondersi con quella degli ideali. L’ideale è più una questione di investimento psichico, il fondamento riguarda le energie del cuore. L’ideale ha bisogno di entusiasmo, il fondamento di intelligenza spirituale. E mi sembra che oggi manchi più l’intelligenza spirituale che l’entusiasmo.
        Porre la questione delle radici significa, in altre parole, introdurre il discorso sulla santità possibile, vale a dire sull’amabilità e la possibilità di vivere senza vergogna e senza illusione, in comunione con Dio, nella grazia di una ritrovata fraternità allargata a tutti e scaturita da una visione teologica di chiesa come comunione, secondo la rivelazione e la responsabilità che scaturiscono dal Vangelo. La santità non risponde ad un ideale, ma riguarda il fondamento. Se non diventano vere per noi stessi le parole di Paolo: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e famigliari di Dio” ( Ef. 2,19), se Dio per noi risulta straniero, riusciremo mai a far sentire a casa sua un fratello nel nostro cuore? Quando si riceve un’afflizione, un’ingiustizia, vera o presunta, come accogliere in pace il fratello se non mi sono mai sentito accolto dalla dolcezza del perdono di Dio per me? A partire da questa esperienza personale con Dio possiamo sperare di sanare i nostri rapporti con il prossimo e con il mondo.
        Ogni discorso sulla vita consacrata non può che svilupparsi a partire da qui. Così, la distinzione delle varie forme di vita nella chiesa, tra ‘vita monastica’ e ‘vita nel mondo’,  tra ‘vita religiosa’ e ‘vita laica’, risulta del tutto relativa rispetto all’unica cosa fondamentale, cioè la vocazione alla santità, alla vita nello Spirito. Se nella tradizione latina parliamo, rispetto alla vita religiosa, di ‘consigli evangelici’, nelle fonti orientali si parla di ‘comandamenti evangelici’, di ‘comandamenti del Signore’, valevoli per tutti e che, evidentemente, ciascuno è chiamato a vivere nel proprio stato di vita.

    Porre la domanda sulla santità che parli ai cuori da dentro la nostra storia, significa rispondere a queste tre interrogazioni:
    1) quale  porta di accesso al mistero di Dio
    2) quali attese dei cuori
    3) quale responsabilità specifica

    1) Quale porta di accesso al mistero di Dio.
        E’ la questione del clima in cui vivere i rapporti, in cui verificare i propositi e i desideri, in cui assolvere gli impegni, in cui crescere sani. Se nell’esperienza dell’amore di Dio e del prossimo confluisce ogni atto buono, allora, nel concreto della vita quotidiana fraterna, la porta che introduce più direttamente a quella esperienza non è che l’obbedienza reciproca, come dicono i Padri: “Io non vedo in tutte le Scritture che Dio abbia altra volontà sull’uomo se non che si umilii in tutto davanti al suo prossimo, che rinunci in tutto alle sue volontà, che supplichi incessantemente il Suo soccorso e custodisca i suoi occhi dal sonno della dimenticanza” (Isaia di Scete). Non che la cosa sia facile, ma risulta profondamente vera. Quando preghiamo, nel Padre Nostro, che sia fatta la volontà di Dio, domandiamo prima di tutto di fare esperienza dell’amore di benevolenza del Padre nei nostri confronti, di fare esperienza dell’amore di salvezza che Dio ha per gli uomini, che si esprime nella grazia della fraternità realizzata. Senza questo non si può vivere con gioia, non si potrà praticare nessun comandamento con gioia e gustare il regno di Dio.
    L’obbedienza è intesa come sottomissione a Dio, alla vita, ai fratelli, in pacatezza e umiltà,  prima ancora che alla regola e al superiore. L’obbedienza evidentemente non è fine a se stessa; essa tende come tutta l’ascesi all’intimità della preghiera e, come quest’ultima, esige un lungo lavorio del cuore. Comporta anche un frutto, sboccia cioè nell’amore. E l’amore verifica la sincerità di cuore nell’obbedienza. In effetti la rinuncia alla volontà propria tende a far spazio alla mitezza, ad allargare il cuore all’amore verso Dio e verso i fratelli. E’ la vittoria sull’ira. Chinare la testa davanti a Dio insegna a chinarla davanti ai fratelli e viceversa. L’aspetto straordinario di questo clima di obbedienza è costituito dal fatto che crea comunione nel rispetto di ciascuno: è il primato della persona sull’organizzazione. Ecco perché é così importante che la comunità non si regga su giudizi o mire umane sia da parte del superiore che dei fratelli; sarebbero in qualche modo sacrificate le persone. Una comunità evangelica è sempre e sopra tutto una comunità di persone, che cresce se ciascuno cresce. Far valere questo principio, anche nel lavorare, significa salvaguardarsi da agitazione e affanno, mantenere un clima di comunione che promuove l’umano levandogli quell’opacità che gli impedisce di riflettere il divino. L’importante è scoprire che cercando di vivere così, giorno per giorno, dentro le difficoltà e le gioie quotidiane, il cuore non sta allo stretto, i confini sono spaziosi e le energie dell’anima si rinnovano. Avere un cuore totalmente remissivo alla rivelazione di Dio, questo è l’anelito. E la rivelazione di Dio che costituisce il grande annuncio della nostra fede non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo” Continuando: “se anche voi perdonerete”, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo, il mondo risplenderà ancora della Sua presenza. L’unica perfezione desiderabile è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da parte di Dio agli uomini, in Cristo, per la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “ciò che devono  desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”. La volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione, quella cioè di compiere quel mistero di riconciliazione rivelato a noi in Cristo. La santità dell’uomo non è che la volontà di compiere quel compito, la risposta a quell’ appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini.
    E per lasciare una figura di riferimento legata alle Scritture, pongo il mistero dell’obbedienza nello spazio che  intercorre tra i due versetti: “ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (1 Tm 6,14) e  “Paolo, apostolo … per annunziare la promessa della vita in Cristo Gesù” (2 Tm 1,1). Sta tutto qui il dinamismo interiore che caratterizza la VC: senza lasciar cadere o travisare o annacquare la Parola di Dio né per se stessi né per gli altri perché si manifesti al nostro cuore il volto del Signore, dentro la nostra storia, arrivare a gustare e a far gustare quella ‘promessa della vita in Cristo Gesù’. La nostra credibilità come la nostra identità interiore si gioca tutta qui.  E a questo tende anche la nostra missione, perché qui risiede tutta la consolazione della speranza che abita i credenti e li abilita a percorrere le strade del mondo per essere compagni degli uomini nel nome di Dio.

    2) Quali attese dei cuori.
        Ho l’impressione che nella chiesa ci si sforzi di aprire la parola di Dio ai cuori, ma non altrettanto di aprire i cuori alla parola di Dio. Credo anzi  che proprio questo sia il preciso compito pastorale della chiesa, lo ‘spazio’ della missione della VC oggi nella chiesa, il punto dove il ‘magistero’ spirituale dei ‘consacrati’ risulta particolarmente efficace e fecondo.     Si avverte oggi un profondo disagio interiore dovuto alla perdita di una identità e di un’armonia interiori che, né la fede così come viene vissuta e trasmessa comunemente, né la cultura con i suoi surrogati, sembrano capaci di ripristinare. Si sente vivo il bisogno di senso, di una conoscenza di se stessi che non si riduca al piano psicologico, oggi così inflazionato. Si vive in stato di perenne autodifesa, anche contro se stessi. Forse tanta arroganza o egoismo derivano semplicemente dall’incapacità di accogliersi e guardarsi con bontà, senza disprezzo, di vivere in intimità e tenerezza, qualità così essenziali all’umanità degli uomini e delle donne, all’esperienza stessa di fede dei credenti. Ci si trova in preda alla solitudine, ad una certa confusione, con la nostalgia del vigore di una fede di un tempo, al cui languore attuale però non ci si arrende. Il cuore chiede altro, sebbene non si sappia più bene cosa né come fare per soddisfarlo e pur tuttavia così sensibile a nuove suggestioni.
        Qui si situa la piacevole scoperta di un compagno di viaggio, di un fratello o di una sorella che parla la nostra lingua, si fa interprete dei nostri aneliti, ascolta e comprende, porta la consolazione di Dio, si fa ‘collaboratore della nostra gioia’ (cfr. 2 Cor 1,24). Tutti sanno di portare un infinito dentro di sé ma, più che racchiuso, è avvertito come ormai nascosto. Ora, l’atteggiamento di mitezza, che l’obbedienza reciproca favorisce, toglie ogni barriera, a chiunque, comunque si trovi, da dovunque provenga, per realizzare quella ‘vicinanza’ così fortemente sentita dai cuori, proprio perché induce all’accoglienza del mistero di Dio e dei cuori, insieme. Proviene da qui quella particolare sensibilità spirituale che, rispondendo alle attese dei cuori, suscita nuove energie e nuovi cammini di vita.
    Se chiedessimo in giro quali sono le attese degli uomini nei confronti delle persone consacrate, credo troveremmo risposte del genere:
    1) un uomo o una donna di Dio dovrebbe vedere dove i miei occhi non riescono a vedere. Dovrebbe far emergere le potenzialità di uomo e di credente in ognuno che incontra, aiutando ciascuno a viversi come una persona nuova, magari ancora sconosciuta a se stessa.  
    2) mi aspetto l’accoglienza di tutta la mia persona senza tralasciare alcun aspetto in modo che io non debba mai nascondermi dietro nulla. Per questo, deve avere un cuore grande e sconfinato quanto lo sono le debolezze di chi gli sta accanto.
    3) un uomo o una donna di Dio deve saper coniugare lucidità con bontà, verità con mitezza: diventare più amorevoli significa diventare più veri.

    4)  ‘Benedetto colui che viene nel nome del Signore’!  Una persona consacrata è colei che porta su di sé questa ‘benedizione’, questo senso di grazia, questo non essere solo se stessi, ma essere per definizione colui che viene nel nome di un altro. Quando Gesù invita: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe” (Lc 10,2), è come se ci dicesse di  pregare il Padre perché continui a farci grazia di Sé attraverso l’incontro con i suoi servi. E non è possibile riuscire benevoli al cuore dell’altro se non si viene nel nome di un Altro.

    Evidentemente, un uomo che sappia con dolcezza coltivare dentro di sé la tenerezza verso Dio  in risposta al perdono che gli viene comunicato e che guarisce la sua umanità, è certamente più prezioso, anche ai fini pastorali, di uno che si affanni ad escogitare continue strategie per attrarre i fratelli al Signore. La cosa attraente per gli uomini è proprio questo: che il cielo non sia più troppo lontano, ma si lasci gustare nella sua bontà e che qualcosa di questa bontà gustata sia percepibile nell’uomo e nella donna di Dio, al di là dei suoi limiti e delle sue fragilità. Da questo punto di vista i difetti peggiori per un uomo e una donna di Dio non possono che essere ira, pretesa, ambizione, affermazione di sé in quanto queste passioni, che rivelano un’ipertrofia dell’io, sono i più contrastanti con quel rapporto affettuoso col Signore che è condizione essenziale per vivere l’esperienza del perdono. Abbiamo come perso, nella nostra vita interiore, questo aspetto di affettuosità, di tenerezza, nel rapporto col Signore. Per cui ne paghiamo le spese anche nel rapporto con gli altri e con noi stessi.
        Del resto, se l’obbedienza reciproca è la porta di accesso all’accoglienza del mistero di Dio e dei cuori insieme, lo è anche per il fatto che, disponendo i cuori alla mitezza, induce a vivere in modo tranquillo, semplice, senza bisogno di esibire o di difendere nulla, senza sentir nessuno avversario o concorrente in nulla. La ‘serietà’ di una vita religiosa si misura da qui, perché su questo punto appare la posta in gioco: se il Signore costituisce davvero la risposta ai bisogni dei cuori. Voler disporre il proprio cuore in quel ‘clima’ significa lavorare sui punti nodali delle sue resistenze, per sé come per gli altri. In gioco è la trasmissione viva della nostra fede, il contenuto stesso della ‘missione’ della chiesa.

        I punti nodali sarebbero tre e rispondono agli atteggiamenti del cuore che strutturano la mitezza e danno ragione del mistero del Signore che si rivela ai cuori: la disponibilità che vince la non fiducia, l’accondiscendenza che vince l’asprezza, la capacità di essere solidali che vince la paura di vivere.

    a) disponibilità. Si tratta di lasciare un reale spazio alla convinzione che il Signore accoglie tutti, ognuno per se stesso, nella sua specificità, in tutta misericordia. Persone e cuori non bisognerebbe mai sacrificarli, sia pure con le più nobili intenzioni, a progetti spirituali particolari, sempre troppo terreni. La Parola del Signore ci dà coscienza di essere servi, quindi non siamo noi ad avere in proprietà o in affido i nostri fratelli. Sono piuttosto loro a possederci, noi apparteniamo a loro (cfr. 1 Cor. 3,21-23; 2 Cor 4,5). Ogni loro richiesta, espressa o inespressa, suona come un appello per noi: l’appello di Dio che vuole ‘compiere’ la sua creazione. Anche quel ‘dare la vita’, di cui ci fa comando il Signore per ritrovarla, non va compreso ponendo l’accento sul noi che vogliamo darla, ma sul dinamismo che ci consente di darla, per la potenza del suo Spirito. Dare la vita significa allora rispondere al desiderio di Dio presente in ogni uomo che chiede di essere ascoltato ed amato perché la vita si espanda in pienezza e si realizzi il regno di Dio tra noi. Ogni desiderio di comunione realizzato è infatti presenza del regno di Dio. Quindi, prima ancora che di disponibilità ad una persona o ad una comunità, si tratta in verità di disponibilità alla ‘sinergia’ con Dio che continuamente opera nei cuori e compie i suoi voleri di salvezza anche là dove nemmeno si riesce ad intuirne la presenza. Per questo la disponibilità si risolve prima di tutto in una forma di affidamento a Dio, capace per ciò stesso di suscitare a sua volta il medesimo tipo di affidamento nelle anime che possono così ritrovare se stesse e aprirsi a Dio. E’ la vittoria sulla paura di dare fiducia, sulla resistenza a fidarsi che blocca una crescita sana, soprattutto nella fede.

    b) accondiscendenza. Si traduce essenzialmente in uno sguardo costante di benevolenza, di pazienza e di tenerezza, avvertito immediatamente dalle persone che così non si sentono mai giudicate, soppesate, valutate. In effetti la vera speranza che parla al cuore è quella di accorgersi che Dio c’è ed è presente se si sente che è Lui che dà ad un uomo o a una donna la capacità di usarci tenerezza, di essere buoni con noi. Questo conforta più dell’affetto istintivo tra le creature umane in quanto si sperimenta la gratuità del rapporto, perché si riconosce  che il dono ricevuto non risponde a precondizioni o a dati meriti, allarga il cuore alla riconoscenza e lo apre alla percezione della presenza di Dio, pur senza, spesso, che si sia parlato esplicitamente di Dio. L’esperienza insegna che diventare più amorevoli significa diventare più veri e di conseguenza permettere di vedere la realtà più in verità. Nella visione cristiana la verità si coniuga con l’amore, la lucidità con la bontà. L’esperienza di questo fatto è liberante per le anime e consente di schiudere il livello psicologico alla dimensione spirituale. E’ come un accedere al mistero del cuore umano, al mistero delle sue origini divine. Un passo di s. Paolo, forse troppo sottovalutato, illustra bene questi concatenamenti: ” Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari ” (1 Tess. 2,8). Le domande da porsi allora sono le seguenti: è  possibile dare il vangelo ad una persona senza che questa ci diventi cara? Ed è possibile che questa ci diventi cara senza che in qualche modo senta di esserlo diventata?  Solo a patto che una persona ci diventi cara, il nostro linguaggio saprà essere concreto, capace di dare parola ai suoi disagi, di offrire una rivelazione vissuta e vivente che suscita una risposta, una conversione, un espandersi e un lasciarsi prendere da quella nostalgia di Dio che già portiamo racchiusa dentro di noi. E’ la vittoria sull’asprezza contro di noi, la vita, la storia, la chiesa, Dio.

    c) capacità di essere solidali.  Si tratta di imparare a vivere solidali con Dio e con l’umanità, nella coscienza di poter essere sempre e solo peccatori perdonati. L’innocenza che possiamo vantare non è che l’innocenza dell’uomo che si sa perdonato, per cui può offrire all’altro quello che lui stesso riceve. In questo senso non c’è incontro che non sia un invito a gustare la bontà del Signore. Il soggetto al quale è dato gustare e vedere la bontà del Signore è certamente tutta l’umanità dell’io nella sua concretezza e integralità, ma, all’interno di questa, è quel principio che muove tutta la propria umanità verso il compimento della sua vocazione e moralità. E’ questo principio, questo soggetto  che può diventare ‘nuovo’, ed è a tale soggetto che si rivolge la premura pastorale. E succede anche che quando si vive nel pentimento e nella mansuetudine si supera pure quella certa ostilità che registriamo da parte delle cose stesse e degli avvenimenti e che ci dà l’impressione di una specie di congiura contro di noi. Sentimento infantile, ma non di meno insidioso e persistente Un bellissimo passo di Origene, nella sua quarta omelia sul libro di Giosuè, illustra con precisione questo fatto: “Tutte le creature sono ostili al peccatore, come sta scritto a proposito degli Egiziani: la terra era contro di loro; il fiume era contro, l’aria stessa, il cielo era contro di loro. Per il giusto, invece, anche le realtà che appaiono inaccessibili diventano piane e proclivi. Il Mar Rosso il giusto lo attraversa come terra asciutta … Il giusto, anche se entra nel deserto spaventoso e immenso, viene servito del cibo dal cielo. … Non vi è assolutamente nulla che il giusto debba temere, ogni creatura infatti è al suo servizio”. Torniamo ad essere alleati della vita, viene superata la paura del vivere.
    In tal modo le domande di autenticità (che riguarda la fede e la vita in genere) e di pienezza di vita (sapere cosa è realmente desiderabile), che riassumono le attese dei cuori, incominciano a vedere una soluzione.

    3) quale responsabilità specifica.
    Ed infine la questione dello stile, che costituisce la dimensione di credibilità della missione. In un vecchio film western mi ricordo che il protagonista, buttando nel fiume da un treno in corsa colui che aveva pensato avesse potuto sostituirlo come re dei ‘viaggiatori non paganti’ dei treni di tutta l’America, esclamava concludendo il film: hai stoffa, ma ti manca lo stile. Non sei degno di succedermi!
    E’ lo stile della responsabilità dei consacrati nella chiesa e nel mondo come testimoni di un ‘mistero’ che ingloba tutti. Si tratta di una testimonianza che nasce dentro un’immagine di chiesa sancta simul et semper purificanda (Lumen Gentium, 8), riscoperta nella coscienza dei fedeli, per l’azione del concilio Vaticano II, nella sua dimensione misterica prima di ogni definizione giuridica che aveva fatto prevalere una ecclesiologia dove tutto era pensato sotto l’obbligazione della legge, facendo perdere di vista la realtà del suo costituirsi e agire nella storia dell’uomo e per l’uomo. Una chiesa che rinnovi l’esperienza della Pentecoste mediante l’annuncio del Vangelo nelle circostanze attuali della storia è una chiesa che desidera rendere prossimo il Dio santo che si rivela ‘sempre più umano’, una chiesa che rinuncia ad un sapere sicuro sulla società per lasciarsi raggiungere dalla vocazione umana che la supera, una chiesa che si dà un ruolo più modesto, ad immagine del Dio di cui è testimone. In effetti, con il Concilio Vaticano II si è operata una trasformazione di prospettiva, di orizzonte interiore e la trasformazione opera nel senso di un allargamento, di una estensione dei confini interiori. La coscienza di essere portatori per l’uomo di un’offerta che ci precede e ci ingloba rende la Chiesa più umile e attenta.
        La domanda allora pertinente quanto alla responsabilità suona: quali i criteri di autenticità dell’agire apostolico? L’autenticità a che cosa è referenziale?
    La responsabilità comporta, anzitutto, la coscienza di un mistero, quello dell’edificazione del corpo di Cristo, che è la chiesa. E la chiesa è comunione in missione di comunione nella storia. Come riportavo sopra, la rivelazione di Dio che costituisce il grande annuncio della nostra fede non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo”. Prendendo sul serio tale rivelazione, nessun incontro è privo di un significato segreto se gli occhi del cuore sono desti a cogliere l’opera di Dio che vuole condurre tutti e ciascuno a salvezza. E’ dentro la coscienza di tale mistero che la responsabilità si traduce nell’accettazione di un compito, il cui senso sta tutto nel favorire la riconciliazione con Dio e con se stessi, con i fratelli, con il mondo, liberando gli spazi del cuore e creando rapporti rinnovati. Questo fa sì che il valore dell’agire apostolico non dipenda da ciò che si fa, come se fosse più importante una cosa piuttosto che un’altra, ma più semplicemente dal vivere quello che si fa, qualunque cosa sia, nella coscienza di quel mistero. Non solo, ma un’opera risulta evangelica ed evangelizzante non tanto quanto al contenuto bensì rispetto alla modalità di compierla, in diretta dipendenza dalla trasparenza della riconciliazione vissuta. Non basta annunciare una verità, se poi la difesa di questa verità risulta mondana.
    Il primo elemento caratteristico di un compito siffatto è quello di portare alla vita. Si è tanto smarrito il senso della realtà di Dio che l’uomo è rimasto in balia delle sue ossessioni. E’ tanto difficile per l’uomo d’oggi, anche per il credente, per le stesse persone consacrate, custodire la tenerezza verso l’umano nella sua trasparenza del divino senza contrapporre o contrarre nervosamente i due poli a scapito della sanità di fondo dell’anima. Vivere senza illusioni e senza vergogna, evitare cioè di cadere nelle opposte tentazioni di idolatrare o disprezzare la carne, la dimensione umana nella sua concretezza, non è agevole. Eppure cielo e terra possono ancora essere vissuti in unità e la compagnia del ‘consacrato’ fa come da ponte, da strada vivente, nel senso che la percezione della possibilità di tale verità in lui schiude l’anima alla stessa verità. Una persona sente il desiderio di guarire se intuisce che qualcuno la conosce dal di dentro , la sta rivelando a se stessa. Di qui comincia il vero cammino, lungo e faticoso, ma gioioso, con l’energia del cuore ormai rinnovata e continuamente capace di rinnovarsi.
    L’altro elemento costitutivo del compito di responsabilità è quello che fa da fondamento stesso al primo : portare alla vita significa in sostanza dare il Signore. Non tanto però come un voler dare il Signore quanto piuttosto come uno svelare l’amore del Signore nell’essere in comunione con gli uomini. Del Signore i cuori hanno bisogno, è lui il consolatore, ma prima di tutto hanno bisogno di sentire che è solo l’amore al Signore a suggerire strategie e attenzioni nei loro riguardi. Alla fin fine ogni tipo di mediazione a livello della vita spirituale si riassume in questo: Qualcuno da mettere in rapporto più diretto e più intimo con qualcuno, Qualcuno vivente  di fronte a qualcuno vivo. Alla serietà del compito non si confanno le improvvisazioni o i sentimentalismi. Dare un buon consiglio è alla portata di tutti o quasi. Individuare i mezzi per seguirlo, questa è la cosa importante e difficile, veramente utile, ma rara. Ciò che si muove dentro l’anima è troppo grande perché noi lo si possa capire o dirigere. Nessuno vi potrebbe metter mano se non con il mandato di Dio ed anche così sempre a rischio di violare un’intimità, di forzare qualcosa di assolutamente personale. Proprio il profondo rispetto e l’amore all’uomo inducono ad umiltà e delicatezza, incapaci come siamo di cogliere la presenza dello Spirito di cui non dovremmo essere che i servi-collaboratori. Diventa essenziale perciò metterci alla scuola dei Padri e dei Santi, i maestri insostituibili di fede e di vita, per diventare più recettivi nei confronti dello Spirito, più malleabili alla sua azione, più attenti alle tracce del suo passaggio e più coinvolti nelle ‘segrete’ intenzioni divine operanti nella storia a rivelazione di quell’amore di Dio che siamo chiamati a certificare.
    Lo stile della responsabilità è fornito dall’intreccio di tre acquisizioni, di tre ‘evidenze’ che lavorano nel senso di dare una stabilità di fondo alla fraternità come alle anime:
    a) la sapienza viene dall’alto, dove sono poste le radici del cuore. E’ il problema della prospettiva, di imparare e far imparare a guardare, a decifrare, a cogliere nel segno. Secondo l’immagine tradizionale, l’uomo è paragonabile ad un albero con le radici in alto e i rami in basso, con le radici in cielo e i frutti in terra. Si tratta di scoprire la potenza di certe connessioni  insospettate, che lavorano nel profondo. Posso fare degli esempi. E’ inutile voler essere caritatevoli se non si accetta di onorare il fratello sempre e comunque. La purità non si ottiene con la propria purificazione, ma con il togliere ogni motivo di odio e di tristezza verso i fratelli. La grazia non è attirata dai nostri sforzi, ma dall’umiltà; le nostre opere non sono strumenti di contrattazione; la benevolenza non dipende dalla generosità, ma dalla mitezza raggiunta, la quale sopravviene togliendo ogni forma di autodifesa e di rivendicazione, in modo da avere un’ottica verso se stessi e verso le cose così larga che nessun’altra, di parziale, può avere presa; si progredisce più per i peccati riconosciuti che per gli atti di virtù compiuti.     
    In particolare, vale il capovolgimento di prospettiva nel sopportare le prove e le afflizioni, riconoscendo la provvidenza di Dio. Vedere il male nei fratelli è permesso da Dio perché così ci rendiamo conto che anche noi possediamo le radici dello stesso male e ci possiamo pentire;  non solo, ma se Dio permette che veda il male nel mio fratello, è  perché possa imparare ad amare il fratello nella sua concretezza: nel peccato infatti  Dio vede un bisogno e se noi lo vediamo è perché possiamo rispondere a quel bisogno; vedere il male e accorgermi che ne possiedo anch’io le radici, mi costringe a riconoscermi peccatore e stando dentro tale coscienza non ho motivo di arrabbiarmi contro il fratello perché non posso rivendicare nulla; diventa così forte la coscienza di essere peccatore, che nemmeno vedo più il male del fratello: il cuore è ormai pulito. Se un uomo davvero potesse ritirare fino in fondo il suo dito puntato,  ogni atto di accusa contro un altro uomo, non subirebbe alcuna tentazione al male. Non è poi così semplice crederci, ma la cosa resta pur tuttavia profondamente vera. Tutte le nostre esposizioni al male sono soltanto in funzione del fatto che noi impariamo a non accusare mai nessuno. Di questa sapienza che viene dall’alto i cuori hanno bisogno per rendere concreta e accessibile la via di Dio.
    b) il processo di crescita comporta l’accettazione che il mistero del regno dei cieli fiorisce nella fatica, nella lotta interiore e nell’acquisizione della conoscenza del nostro cuore. Importanza del fattore tempo, così spesso sottovalutato dalla nostra psicologia interiore! Non basta lottare per evitare il male nelle azioni, occorre lottare – ed è cosa assai più faticosa! – contro i pensieri, e nemmeno soprattutto contro quelli cattivi, piuttosto contro quelli inutili, ingombranti, illusori. Imparando a lottare contro i pensieri si può recuperare l’energia del peccato. L’antico adagio “odiare il peccato, non il peccatore” deve valere anche nei nostri confronti. Nei peccati restano come intrappolate le risorse spirituali in termini di anelito, di desiderio, che dobbiamo imparare a decifrare e recuperare attraverso il pentimento. Ogni peccato si può così trasformare in un trampolino di lancio e non tramutarsi, come spesso capita, in un ingombro della coscienza. Riconoscere il proprio peccato fino in fondo vuol dire comprendere l’esperienza interiore soggiacente, le risorse positive impiegate che non perdono il loro valore semplicemente perché sono state impiegate male. Non è poi realmente importante superare il difetto (di difetti ne avremo sempre); l’importante è riuscire a non giustificare il nostro difetto, a nessun livello. Significa accettare il principio della gradualità: ogni cosa comporta la sua concatenazione necessaria, nel tempo. Accettare questo con pace, in tutta normalità, evita rabbia e frustrazioni inutili e presuntuose.

    c) la dinamica spirituale non è duale, ma ternaria. Il contemplare non è in funzione del fare; piuttosto, è l’agire che è in funzione del vedere, nel senso che la dinamica dell’intelligenza di fede si struttura in : conoscere – fare – vedere. Come per l’intelligenza delle Scritture, la dinamica non si riduce ad un capire per poi mettere in pratica, ma più precisamente: leggere – praticare – comprendere e non come comunemente si sarebbe indotti a pensare: leggere – comprendere – praticare. Come a dire: l’azione buona non è l’ultimo obiettivo. Il fare il bene è in vista del conoscere nel senso di quel conoscere esperienziale, di quel conoscere Colui che si ama, di quel conoscere in intimità, in comunione, dal di dentro. Solo qui si ha il superamento di ogni intellettualismo o di ogni spiritualismo. Qui sta la forza del comandamento divino che non è semplicemente una istruzione etica, bensì una partecipazione ad una intimità di vita. Per questo la tradizione, a proposito delle Scritture, non insiste tanto su una comprensione da avere, ma su una potenza da assimilare.

    L’essere testimoni di quel mistero è di per sé così impegnativo e coinvolgente che non c’è bisogno di puntare ad altri obiettivi, che non siano l’attuazione concreta di quel vivere semplicemente il ‘compimento’ del regno di Dio nel fatto stesso di accogliere e camminare insieme, di suscitare e stabilire comunione, ovunque, con chiunque, amici e nemici, senza preclusione alcuna. Si tratta di una responsabilità di respiro ‘cattolico’, che risponde cioè a quella nota di ‘cattolicità’  tipica della Chiesa, come è professata nel Simbolo di fede. La  ‘cattolicità’ (secondo l’accezione greca del termine, καθ᾿ ὅλον, ‘secondo l’insieme’, tanto in estensione di spazio e tempo quanto in profondità ed interezza) è sempre da scoprire, da assumere, da vivere, da testimoniare da parte di tutti e di tutte le Chiese. Dio ha fatto grazia di Sé in Cristo (cfr. Ef 4,32), non a te o a me, ma a te come a me, a voi come a noi, a te perché possa farla scoprire a me, a tutti, vicendevolmente. L’esercizio dell’intelligenza comporta sempre un esercizio di ‘cattolicità’ e viceversa. Il dimenticarsene, permette alle nostre paure o presunzioni di avere il sopravvento. E questo non lede solamente l’intelligenza della fede, ma anche la fraternità ecclesiale e umana e mina la credibilità dell’annuncio del vangelo. Noi spesso dimentichiamo la frase di Gesù quando manda i discepoli ad annunciare il vangelo a tutte le genti (cfr. Mt 28,19). L’annuncio del vangelo non è in funzione semplicemente di un compito ricevuto, come se noi abbiamo ricevuto un qualche cosa e questo qualche cosa noi lo dobbiamo dare agli altri. Credo sia un modo piatto di interpretare la volontà del Signore e anche la storia dell’esperienza cristiana. Quello che dà consistenza a questo compito di evangelizzazione è quello di ritenere che il vangelo appartiene già alle genti; quando io l’annuncio non faccio che rivelare qualche cosa che in realtà appartiene già a chi io lo annuncio. Spessissimo noi interpretiamo la tradizione come la difesa della verità, come ‘prendere un pacco e consegnarlo’. La trasmissione della fede non è affatto questo. Nessuno che trasmette un pacco che riceve potrà arrivare, in qualche modo, a riempire il desiderio dei cuori.
    Se il Vangelo è l’eredità delle genti, vuol dire che la ‘cattolicità’ comprende anche il tempo. Anche il futuro fa parte della Tradizione. La nostra responsabilità ‘apostolica’ si estende anche al futuro. Non è forse così terribilmente e tragicamente facile ingombrare la bellezza e la verità evangeliche con l’impedire al futuro di ereditarle per la nostra miopia? Se io sono così miope che per il mio schema mentale impedisco ad un altro, che ha un’altra storia, un’altra cultura, un altro orientamento, di poter accedere al vangelo, a tutto il vangelo, sono un cattivo testimone. Evangelizzare richiede sempre un vero esercizio di intelligenza; si tratta di imparare a mettere le cose al posto giusto, secondo un’armonia globale perché “la salvezza di Dio abbraccia l’universo”. E siccome quest’armonia globale comprende anche il futuro, non c’è motivo di avere paura man mano che sorgono nuovi problemi. In effetti, più ci lasciamo prendere dalla paura e dal timore di fronte ai vari problemi che ci assillano nella nostra vita personale, comunitaria, ecclesiale, meno sapremo fornire speranza all’umanità, nostra e di tutti. Più avremo paura meno saremo testimoni gioiosi di quella speranza, che è dovuta all’umanità! Perché la speranza non viene da noi, ma dal fatto di riferirci a quel mistero di riconciliazione in atto nella storia, che è diventato il centro propulsore del nostro essere e del nostro agire.
    Così, un’ascesi del pensare è altrettanto necessaria quanto un’ascesi del volere, ma in funzione evangelizzante. Il lavoro che attende la Chiesa è quello di riflettere sul destino della verità in un mondo sempre più pluralista e di rendere amabile ciò che il vero implica, in vista di una fraternità rinnovata segnata dalla grazia della Rivelazione. Ma anche quello di imparare a volere. Più che cercare di ‘volere bene a qualcuno’, dove bene è il complemento oggetto del volere, si dovrebbe imparare a ‘volere bene qualcuno’, dove bene è un avverbio che esprime il modo adeguato di volere che qualcuno o qualcosa siano. Un’ascesi che tenda a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude. È la sapienza di una visione, capace di farsi lievito di evangelizzazione per offrire nuova speranza al mondo.
        E quale potrà essere il ruolo profetico della VC nella chiesa e nel mondo, se non quello di suggerire nuovi modi di sentire e pensare, capaci di aprire spazi nuovi, più consoni a servire nel concreto delle situazioni storiche il desiderio di Dio di comunione con gli uomini? Con la consapevolezza che tutto ha origine da quel Gesù, Signore, annunciatore e testimone della Buona novella, come la chiesa insegna a pregare: “Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell’uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere”.

  • 16 Gen

    IL CRISTIANESIMO NON E’ UN LIBRO

    di A. Maggi

    Per più di quindici secoli la dottrina della chiesa cattolica si e basata sulla Vulgata, la traduzione latina del Nuovo Testamento voluta da papa Damaso [1]. Quest’opera, per quanto ammirevole e straordinaria, non fu pero esente da errori. Le imprecisioni e gli sbagli nella traduzione e nell’interpretazione del testo originale greco determinarono, a volte tragicamente, la storia della chiesa.

    Errore fatale

    Uno degli errori di traduzione che influì negativamente nella teologia della chiesa, riguarda il discorso di Gesù sul “Buon Pastore” (Gv 10,11-16). Il traduttore confuse il termine ovile della prima parte del versetto 16 (“E ho altre pecore che non provengono da questo ovile [aules]” con il termine gregge della seconda parte (“E saranno un solo gregge [poimnê], un solo pastore”), e anziché tradurre il termine greco poimnê (gregge) con il latino grex, lo rese con ovile: “E saranno un solo ovile, un solo pastore” [2].

    Mentre il testo di Giovanni indicava che per Gesù era finita l’epoca dei recinti, per quanto sacri potessero essere, e per questo liberava le pecore dall’ovile per formare un unico gregge, secondo la traduzione latina Gesù liberava si le pecore dall’ovile del giudaismo, ma per poi rinchiuderle nuovamente nell’unico e definitivo ovile, quello della chiesa cattolica.

    Forte dell’insegnamento del suo Signore, per secoli la chiesa pretese di essere l’unico ovile voluto dal Cristo e formulo l’efficace slogan “Extra Ecclesiam nulla salus”, sancendo che “fuori della chiesa non esiste salvezza” [3]. la chiesa cattolica pertanto considerò dannati per sempre tutti i cristiani delle chiese ortodosse e protestanti, insieme agli ebrei, ai musulmani e ai credenti delle altre religioni: in pratica tre quarti dell’umanità.

    Nel secolo scorso il ritorno al testo originale greco del Nuovo Testamento, portò a una maggiore comprensione dell’insegnamento del Cristo e il Concilio Vaticano II, dichiarò che “Dio, come salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvi. Infatti, quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio, e coll’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna” [4]. Con questa importante dichiarazione, il Concilio ammise che la salvezza esisteva non solo anche nelle altre confessioni cristiane e nelle altre religioni, ma persino tra i non credenti che ascoltano la loro coscienza.

    Non potendo più rivendicare l’esclusivo primato della salvezza, la chiesa si trova ora a dover rispondere all’interrogativo: Perché Cristo? Se fino al secolo scorso si era di fatto obbligati a essere battezzati cristiani e cattolici al fine di salvarsi, ora le nuove generazioni sanno che anche nell’ebraismo e nell’islamismo, solo per citare le due religioni che sembrano essere le più affini al cristianesimo, e possibile salvarsi. Perche Cristo e non Mose o Maometto?

    Tutte le religioni sembrano essere uguali, almeno quelle monoteiste, che invitano a credere in un unico Dio e ogni religione, anche le non monoteiste, insegnano il timore e la preghiera verso Dio, l’amore per il prossimo, l’esercizio della carità e il rispetto per gli altri.

    Se è dunque vero che tutte le religioni conducono a Dio e quindi alla salvezza, perché mai si dovrebbe scegliere proprio Gesù e il suo impegnativo messaggio? E se si può scegliere, quali sono i criteri che spingono a preferire una religione piuttosto che un’altra, se in fondo sono tutte uguali?

    La novità di Gesù

    E diventato usuale definire le religioni monoteiste come le “Religioni del Libro”, in quanto queste si rifanno a un testo sacro che si ritiene rivelato da Dio stesso. Questo Libro, contenente la volontà divina, è la norma di comportamento per ogni generazione di credenti, anche se mutano i contesti sociali e le situazioni nelle quali gli uomini si trovano a vivere. Il Libro e la parola definitiva e immutabile data da Dio millenni o secoli fa ai bisogni e agli interrogativi dell’uomo, anche quando questi non riceve una risposta razionale [5].

    E possibile definire “religione del Libro” anche il cristianesimo? La novità di Gesù è che il Cristo non ha posto un Libro quale codice di comportamento dei credenti, ma l’uomo. Non è un Libro rivelato o una Legge ritenuta divina, ciò che il credente deve osservare, ma il bene dell’uomo, che per il Cristo e al di sopra di ogni norma o precetto religioso creato dagli uomini.

    Mentre nella religione conta ciò che l’uomo fa per Dio, il cristianesimo nasce da ciò che Dio fa per gli uomini [6]. Se nella religione è importante il sacrificio, nella fede lo e l’amore [7]. Quando ciò non e tenuto presente si rischia di disonorare l’uomo per onorare Dio, come fa il sacerdote protagonista della Parabola del Samaritano (Lc 10,30-37) il quale trovandosi di fronte a un ferito, non ha alcun dubbio su quel che deve fare: il rispetto del Libro divino e per lui più importante della sofferenza del moribondo. Per rispettare la Legge, che proibiva a un sacerdote di toccare un ferito (Nm 19,16), sacrifica l’uomo.

    Per Gesù non basta che un testo sia considerato sacro, occorre anche che l’uomo venga considerato sacro. Per questo mentre nelle religioni del Libro si sacralizza Dio, Gesù, Parola di Dio, ha reso sacro l’uomo. Quella di Gesù pertanto non può essere definita una religione del Libro [8]. Se il bene dell’uomo non viene messo al primo posto come valore sacro, non solo i testi dell’Antico Testamento, ma lo stesso vangelo, quando non e più a servizio del bene e della felicita degli uomini bensì strumento di potere per sottometterli, e portatore di morte anziché di vita [9].

    Testo vivente

    Coscienti di trasmettere un messaggio che comunica vita, gli evangelisti non hanno voluto tramandare un testo definitivo e immutabile dell’insegnamento del Signore, ma quello che per almeno i primi quattro secoli del cristianesimo e stato considerato un testo vivente. Ogni comunità cristiana si sentiva autorizzata, in base alla propria esperienza, di apportare quelle modifiche e quegli arricchimenti che riteneva necessari al testo evangelico [10].

    Un esempio evidente di arricchimento del testo evangelico è la fine del cap. 14 di Giovanni, dove al termine del lungo discorso seguito alla lavanda dei piedi, Gesù dice ai suoi discepoli: “Alzatevi, andiamo via di qui” (Gv 14,31). Poi, anziché il compimento dell’invito di Gesù, il Signore inizia un lungo discorso che attraversa ben tre capitoli (Gv 15-17)[11]. Queste pagine, pur non appartenendo all’estensore originale del vangelo ma a un suo redattore più tardo, esprimono la crescita dell’esperienza del Cristo vissuta dalla comunità cristiana.

    Un altro esempio di un testo, che cresce per rispondere sempre meglio alle esigenze dei credenti riguarda il tema del ripudio. Nel vangelo considerato più antico, quello di Marco, il ripudio viene escluso senza alcuna eccezione: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra commette adulterio verso di lei” (Mc 10,11). Nel vangelo di Matteo, nell’identico contesto di Marco, l’espressione di Gesù viene cosi modificata: “Chi ripudia la propria moglie, se non per porneia, e ne sposa un’altra, commette adulterio” (Mt 19,19). Il rigore espresso da Marco non aveva fatto i conti con i complessi casi che la vita poteva presentare. Per questo nella comunità di Matteo è stata posta un’eccezione al divieto del ripudio [12].

    I primi cristiani hanno compreso che non era importante la lettera del vangelo, ma il suo spirito, perché mentre “la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita” (2 Cor 3,6).

    Gesù e il Libro

    Se le comunità cristiane hanno avuto un atteggiamento di libertà creativa nei confronti dei vangeli, è perché si sono sentite in questo autorizzate da Gesù, che nell’insegnamento e nelle azioni ha messo sempre il bene dell’uomo al di sopra di ogni legge o comandamento divino [13].

    Dai vangeli emerge che ogni qualvolta si e creata una situazione di conflitto tra l’osservanza della Legge e il bene dell’uomo, Gesù non ha avuto esitazioni e ha scelto sempre il bene dell’uomo, ed è significativo che la maggior parte delle azioni e delle guarigioni operate da Gesù avvengano proprio nel giorno in cui queste non erano permesse: il sabato [14]. Infatti, tra tutti i comandamenti, il riposo del sabato era considerato il più importante, al punto che lo si riteneva osservato da Dio stesso [15]. In questo giorno la Legge proibiva di compiere qualunque attività (Es 20,8; Ger 17,21-27). L’osservanza di questo comandamento garantiva l’ubbidienza del volere di Dio, e per la sua trasgressione era prevista la pena di morte, in quanto la violazione del sabato equivaleva alla disubbidienza di tutta la Legge [16]. Per Gesù il bene dell’uomo e più importante dell’osservanza dei precetti divini, e non ha avuto alcuna esitazione a guarire le persone in giorno di sabato [17].

    Il criterio di quel che è bene e quel che è male, permesso o no, non si basa per Gesù sull’osservanza o no del Libro, ma sulla pratica dell’amore, e l’amore non conosce alcun limite che gli venga posto. Gesù non solo ha trasgredito le prescrizioni contenute nella Legge, ma ne ha relativizzato l’importanza, attribuendo a Mose e non a Dio alcune parti della stessa: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così”(Mt 19,8). Secondo la tradizione religiosa, ogni parola della Legge veniva da Dio stesso. Mose aveva avuto il semplice ruolo di esecutore della volontà di Dio, ed era inaccettabile affermare che alcune parti provenivano da Mose anziché dal Signore [18]. Per Gesù quel che e scritto nella Legge riguardo al ripudio non manifesta la volontà di Dio, ma è un cedimento alla testardaggine del popolo, e quindi non gode di alcuna autorità divina.

    Lo scontro più clamoroso tra Gesù e il Libro e stato sul tema, importantissimo per i Giudei, delle regole di purità rituali. Nel Libro del Levitico sono elencati gli animali che si possono mangiare in quanto considerati puri e quelli di cui e proibito cibarsi in quanto ritenuti immondi (Lv 11). Per Gesù la purezza o meno dell’individuo non consiste in quel che mangia, ma nelle sue azioni [19], smentendo di fatto il Levitico (“Così dichiarava puri tutti gli alimenti”, Mc 7,19).

    Il Creatore non si manifesta in un Libro, ma nella vita dell’uomo, non nei codici da osservare, ma nell’amore da accogliere; non chiede obbedienza alla Legge, ma assomiglianza al suo amore (Lc 6,35-36). Mentre la Legge non può conoscere la particolare situazione dell’individuo e la sua osservanza può essere causa di sofferenza, lo Spirito del Signore agisce in ognuno individualmente, sviluppando e potenziando quelle che sono le caratteristiche uniche e singolari di ogni individuo.

    Nei vangeli le prerogative esclusive della Legge divina, di essere fonte di vita e norma di comportamento degli uomini, vengono trasferite a Gesù. Il Cristo non promulga una Legge esterna che l’uomo deve osservare, ma comunica loro il suo stesso Spirito [20], un’energia divina interiore che rende gli uomini capaci di amare generosamente come si sentono amati (Gv 13,34).

    Per il cristiano, il codice di comportamento non riguarda una legge scritta ma l’adesione a una persona vivente: il Cristo, nuova e definitiva Scrittura per tutta l’umanità.

    Ciò appare particolarmente chiaro nel Vangelo di Giovanni nella crocifissione di Gesù. L’evangelista afferma che Pilato scrisse un cartello con la scritta “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”, e lo fissò sulla croce. Poi Giovanni specifica che il cartello “era scritto in ebraico, latino e greco”(Gv 19,19-20). L’uso di queste tre lingue, quella degli Ebrei, dei Romani e dei Greci, sta a indicare che Gesù, il Messia dei Giudei, è “il salvatore del mondo” (Gv 4,42). Le tre lingue parlate nel mondo conosciuto rimandano al tempio di Gerusalemme, dove erano collocate delle lapidi con avvisi scritti in ebraico, in latino e in greco, avvertivano i pagani di non oltrepassarle sotto pena di morte [21]. Per l’evangelista Gesù e il nuovo santuario dove splende l’amore di Dio e il cui accesso non e interdetto nessuno: avvicinarsi al Cristo non solo non provoca la morte, ma e la condizione per ricevere la vita.

    Ma i capi del popolo protestano con Pilato per la scritta posta sulla croce: “Non scrivere: Il re dei Giudei, ma: Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei” (Gv 19,21). Ad essi il Procuratore romano risponde: “Quel che ho scritto, ho scritto” (Gv 19,22). Per l’evangelista, lo scritto e ormai stato fissato e non si può più cambiare: Gesù crocefisso è la Scrittura definitiva che ogni uomo può leggere e comprendere, perchè il linguaggio dell’amore e universale. Gesù crocefisso e il nuovo Libro nel quale chi sa leggere può scoprire chi è Dio e chi è l’uomo.

    note

    [1] La Vulgata nasce dall’incarico che nel 384 Papa Damaso diede a Girolamo di rivedere il testo latino del Nuovo Testamento e di tradurre il testo ebraico dell’Antico Testamento.
    [2] “Fiet unum ovile unus pastor”.
    [3] Nel 1442, al Concilio di Firenze, decreto: “La sacrosanta chiesa romana… fermamente crede… che nessuno al di fuori della chiesa cattolica, né pagani, né ebrei né eretici o scismatici, parteciperà alla vita eterna, ma andrà al fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli” (Bulla unionis Coptorum Aethiopumque “Cantate Domino”, Decretum pro Iacobitis).
    [4] Lumen Gentium, 16.
    [5] E veramente difficile trovare la ragione per la quale mangiare la carne del maiale o della lepre rende immondo l’uomo (Lv 11,6-7), mentre e possibile cibarsi di “ogni specie di cavalletta, ogni specie di locusta, ogni specie di acridi e ogni specie di grillo” (Lv 11,22). Si osservano questi divieti perche Dio l’ha detto e non per una loro comprensione razionale.
    [6] “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio” (1 Gv 4,10; Rm 8,31-32).
    [7] “Misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 9,13; 12,7; Os 6,6).
    [8] Il termine greco che viene tradotto con religione, (gr. deisidaimonia) e composto dal verbo temere (gr. deido) e da dèmone (gr. daimon) e significa il timore degli dei/demoni, paura delle potenze celesti, degli spiriti maligni, superstizione, religione. Nei vangeli la parola religione non si trova, e nel Nuovo Testamento compare una sola volta, ma per indicare la religione ebraica (At 25,19). Piu che di “religione cristiana” sarebbe appropriato parlare di “fede cristiana”.
    [9] San Tommaso arriverà ad affermare, commentando il testo di Paolo “La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita” (2 Cor 3,6), che “per lettera si deve intendere ogni legge esterna all’uomo, precetti della morale evangelica compresi, che possono uccidere se non esistesse nell’intimo la grazia sanante della fede” (I 2a q. 106 art. 2).
    [10] I cristiani, nati da una cultura greca hanno avuto di fronte al testo un atteggiamento diverso dagli ebrei, nati in una cultura orientale, per i quali ogni lettera e sacra. Furono i cristiani a introdurre la scrittura abbreviata dei “nomina sacra”, ovvero di adoperare delle abbreviazioni per i nomi sacri: invece di kyrios (Signore) scrivevano KC, e invece di theos (Dio) ΘC, ecc. Un manoscritto dell’AT nella versione greca dei Settanta puo essere attribuito con sicurezza all’ambiente cristiano o all’ebraico a seconda che vi siano usate o no tali abbreviazioni dei nomina sacra (K. Aland – B. Aland., Il testo del Nuovo Testamento¸ (Genova: Marietti, 1987, p. 84).
    [11] Se questi capitoli vengono eliminati, l’invito di Gesu di alzarsi e andare via e in sintonia con l’inizio del cap. 18: “Dette queste cose, Gesù uscì con i suoi discepoli e andò di là del torrente Cedron” (Gv 18,1).
    [12] L’evangelista ha intenzionalmente adoperato un termine greco (porneia) che non ha un solo significato, ma si presta a un vasto ventaglio di contenuti che vanno dall’unione illegale all’adulterio, passando per la prostituzione.
    [13] La Parola di Dio si svela solo a quanti mettono il bene dell’altro al primo posto nella loro esistenza. E’ questa la verità che permette l’ascolto della voce del Signore: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv 18,37).
    [14] Mt 8,14-15; 12,1; Mc 2,23; 3,2; Lc 6,1; 13,14; 14,3; Gv 5,10; 9,14.
    [15] “Il creatore non lavora, tanto più questo vale per l’uomo” (Mekhilta Esodo XX; 11).
    [16] “Osserverete dunque il sabato, perché lo dovrete ritenere santo. Chi lo profanerà sarà messo a morte; chiunque in quel giorno farà qualche lavoro, sarà eliminato dal suo popolo. Durante sei giorni si lavori, ma il settimo giorno vi sarà riposo assoluto, sacro al Signore. Chiunque farà un lavoro di sabato sarà messo a morte” (Es 31,14-15; Nm 15,32-36).
    [17]Secondo il Talmud “In sabato non si può raddrizzare una frattura. Colui che si è slogato una mano o un piede non può tenerlo in acqua fredda” (Shabbat, 22,6).
    [18] “Chi assicura che la Torah non viene dal cielo, almeno in quel testo e che Mosè e non Dio lo ha detto.. verrà sterminato in questo mondo e nel mondo a venire” (Sanhedrin B. 99°).
    [19] “Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?… Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo” (Mc 7,19.20).
    [20] Gli evangelisti sono concordi sulla missione di Gesù: battezzare in Spirito santo (Mt 3,11; Mc 1,8; Lc 3,16; Gv 1,33).
    [21] “Nessuno straniero varchi la transenna di recinzione del tempio. Chi verrà acciuffato sarà responsabile verso se stesso della morte che ne seguirà” (Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, V, 5, 194).

  • 26 Dic

    UNA COMUNITÀ CHE ASCOLTA:  AT 2,42

    a cura du p. Attilio franco Fabris

    Il retroterra della comunità cristiana primitiva è costituito da una profonda esperienza di ascolto della Parola, e tale esperienza si svolge nel solco della tradizione di Israele. La consegna di Gesù ai suoi nel Cenacolo suona: “Ascolta il primo annuncio e contempla il mistero della passione e resurrezione del Signore”. La differenza tra l’”ecclesia” neotestamentaria e quella veterotestamentaria sta nella nuova esperienza di ascolto indotta dall’esperienza pasquale di Gesù. Ma  a questa esperienza il gruppo dei discepoli erano ben rodati dalla tradizione di fede ebraica.
    L’analogia e la distinzione tra ecclesia antico e vetero testamentaria è importante. Essa pone un interrogativo importante: siamo noi davvero ecclesia neotestamentaria? Cioè: la buona notizia è veramente, in modo vitale, al centro del nostro stare insieme, la forza che ci aggrega? Oppure è una specie di etichetta che si sovrappone dall’esterno alla nostra realtà comunitaria?
    Ma non possiamo rispondere a questa domanda se prima non ce ne facciamo un’altra: possiamo noi considerarci ecclesia dal punto di vista veterotestamentario? Possiamo cioè dire che il nostro stare insieme, il nostro fare comunità si impernia sulla Parola prepasquale e che abbiamo titolo a far concorrenza alla sinagoga, comunità di fede centrata sull’ascolto della Parola di tipo prepasquale?
    Quando ci accorgiamo che la Buona Notizia è ai margini della nostra realtà socio-religiosa, quasi confinata nella soffitta del nostro bagaglio teologico, c’è il rischio di renderci conto che noi non siamo ancora neppure una comunità ecclesiale veterotestamentaria. Se la nostra aggregazione comunitaria non è ancora ispirata, informata dalla Parola di Dio, né del nuovo né del vecchio testamento, vuol dire che abbiamo molto da imparare dalla sinagoga.
    Infatti il Gesù con cui noi ce la facciamo e che presentiamo ai fedeli il più delle volte si identifica prevalentemente con il Gesù prepasquale, ossia con il Gesù della predicazione, dei miracoli, dei segni, che non è ancora il Servo sofferente del Signore, il Kyrios crocifisso, morto e risorto. Ne segue che tutta la pastorale assume un taglio prepasquale piuttosto che pasquale, ossia propriamente evangelico, e noi finiamo col fare una pastorale di tipo più veterotestamentario che neotestamentario. Infatti il Gesù prepasquale, per il fatto che la sua Pasqua non è ancora venuta a mostrare la novità del suo servizio all’uomo, appartiene, come Giovanni Battista ancora all’economia del vecchio testamento. Ne segue che la cristologia che noi proponiamo è di fatto una cristologia prevalentemente prepasquale.

    PISTE DI RIFLESSIONE

    ∑    La Parola che ascoltiamo si impernia sulla Buona Notizia ovvero sul mistero pasquale, o è ancora una Parola improntata all’esperienza di fede veterotestamentaria?
    ∑    La predicazione, il Cristo che annunciamo, è prevalentemente quello prepasquale o pasquale? Cosa proporre per rinnovare la nostra pastorale?

  • 21 Dic

    LE TRE COMPONENTI DELL’ ATTENZIONE
    NELL’ESICASMO CRISTIANO

    di PAOLO OTTAVI  PSICOLOGO

     

     

    PREMESSA

    Quella che presentiamo in queste pagine è una teoria dell’attenzione. Quantunque sia stata estrapolata a partire dalle opere di autori appartenenti ad un contesto particolare —il monachesimo cristiano antico— essa rappresenta comunque una teoria generale —ovvero un sistema di coordinate all’interno del quale è possibile inquadrare e spiegare una serie di dati osservativi— e la cui bontà o meno deve venire valutata come quella di qualunque altra teoria, cioè in funzione della quantità di dati dell’esperienza che riescono a trovare un ordine e un senso all’interno di essa.

    1. CHE COS’È L’ESICASMO

    L’Esicasmo (dal greco esychía, ‘quiete’) è una corrente della spiritualità cristiano-orientale di stampo prevalentemente monastico. Ciò a cui ci riferiamo con questo termine è una realtà che copre un arco di tempo assai vasto: dal IV sec., l’epoca dei Padri del Deserto e dei grandi legislatori monastici, al 1870, data di pubblicazione dei ‘Racconti sinceri di un pellegrino al suo padre spirituale’ definitivo suggello dell’Esicasmo russo.

    L’Esicasmo è pertanto quella tradizione che a diritto raccoglie l’eredità del monachesimo primitivo, quel monachesimo con una spiccata vocazione ascetica che fu dei primi Padri, a partire da s. Antonio; soltanto che traduce l’ascesi corporea in un’ascesi mentale, la lotta per il controllo del corpo in una lotta per il controllo della mente. In ciò esso assorbe anche la forte tendenza mistica propria dei grandi Padri cappadoci del IV secolo (Basilio Magno, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa e soprattutto Evagrio Pontico), una mistica influenzata indubbiamente da neoplatonismo e origenismo, ma con notevoli tratti originali. Tra questi, la netta impronta ‘psicologica’ che distingue gli scritti già dei primi autori propriamente ‘esicasti’ —ovvero quelli della scuola del monte Sinai, fiorita tra il VI e VII sec. (Nilo, Giovanni Climaco, Esichio di Batos, Filoteo Sinaita)— e che si sviluppa e si arricchisce nelle varie tappe del suo lungo percorso storico.

    1. PERCHÉ L’ATTENZIONE? LA SFIDA DELLA PREGHIERA INCESSANTE

    Quali sono i motivi che portano dei monaci, dediti ad una vita solitaria, con un minimo di attività manuale di sostentamento, ad opere di pietà e al rispetto dei comandamenti, a sviluppare un interesse così forte, ipertrofico —spesso addirittura dismorfico rispetto alle stesse questioni teologiche— nei confronti dell’attenzione e dei modi per renderla il più possibile stabile, solida, orientata? Tutto ciò nasce dalla sfida, lanciata dai Padri, di prendere alla lettera l’esortazione di s. Paolo alla comunità di Tessalonica di «pregare incessantemente» (1Ts 5,17). Come mettere in pratica questo comandamento se non partendo da un efficace ‘allenamento’ e da una ristrutturazione profonda dell’attenzione tale da rendere possibile per un tempo indefinito l’orientamento della mente?

     a) ridefinizione della preghiera: orationis status

    Innanzi tutto essi pervengono ad una ridefinizione di preghiera: non si tratta di formule da recitare, o per lo meno non solo di questo; la preghiera è uno stato, una diàthesis, una disposizione stabile dell’individuo, un modo di essere-nel-mondo, costantemente orientato verso il polo divino. Chiameremo tale situazione esistenziale dell’individuo orante teotropismo. Ciò che qui ci interessa è vedere come essi giungono ad ottenere tale disposizione stabilmente orientata e cosa intendono con il termine prosoché, ‘attenzione’.

     b) La teoria tripartita dell’attenzione

     Tra i Padri, e in modo particolare tra quelli greci, vi è assoluta concordanza nel considerare l’attenzione quale strumento insostituibile ai fini dell’evitamento del peccato, della pratica dei comandamenti e delle virtù, della meditazione e della preghiera; in una parola, dell’intero cammino di autosviluppo cristiano, e specialmente di quello di stampo monastico. Praticamente in ogni autore esicasta troviamo un accenno o una definizione o un elogio dell’attenzione; forse il più famoso è quello scritto da Niceforo il Solitario, considerato l’‘inventore’ del metodo psicofisiologico dell’Esicasmo: Alcuni dei santi hanno detto che l’attenzione è sorveglianza della mente, altri che è custodia del cuore, altri, sobrietà, altri, quiete [esychía] della mente e altri altre cose. Ma tutte queste sono un’unica e medesima definizione […]. Impara bene che cosa è attenzione e che cosa sono le sue proprietà. Attenzione è indizio chiaro di conversione; attenzione è invocazione dell’anima, odio del mondo e ascensione a Dio; attenzione è rifiuto del peccato e ricupero della virtù; attenzione è piena, indubitabile certezza del perdono dei peccati; attenzione è principio, o meglio, fondamento di contemplazione, giacché per essa Dio si affaccia e si manifesta alla mente; attenzione è imperturbabilità della mente, o meglio, è lo stato di imperturbabilità [«il suo stato immobile»] data in premio all’anima, dalla misericordia di Dio. Attenzione è purificazione dei pensieri, tempio del ricordo di Dio, custode della sopportazione di ciò che sopravviene; attenzione è causa, insieme, di fede, speranza e carità.

    Ci sembra di poter individuare, all’interno dell’universo semantico dell’Esicasmo, tre dimensioni generali dell’attenzione, e, conseguentemente, tre grosse cornici entro le quali inquadrare la totalità delle pratiche di autosviluppo proprie del monachesimo antico.

    Definiamo queste dimensioni come:

    discernimento o attenzione al molteplice;

    concentrazione o attenzione al singolare;

    orientamento o attenzione al molteplice ed al singolare simultaneamente.

    Di ognuna di esse a) daremo una definizione, b) forniremo una panoramica delle tecniche atte a svilupparla e c) ne individueremo le finalità, o, meglio, illustreremo le caratteristiche dello stato (di coscienza) ultimo che discende da una perfetta padronanza di quel livello di attenzione.

    1. L’ATTENZIONE/DISCERNIMENTO

    a) definizione

    Come giustamente viene sottolineato nel Dizionario di Spiritualità non si deve concepire l’attenzione solo come un’immobilizzazione, quasi una fissazione, su un dato. Essa appare […] più spesso come una caccia, una ricerca, uno slancio orientato, come una direzione del pensiero, mobile ed attivo, alla ricerca di un oggetto. Dunque, l’attenzione come ‘potere di selezione’ e come ‘discernimento’, ‘discriminazione’ da operare sui dati di realtà, sugli stimoli, sui pensieri, sulle immagini mentali. Supporto decisivo nella lotta contro la tentazione, in ciò che i monaci chiamano ‘combattimento spirituale’.

    b) tecniche

    Le tecniche più usate a questo scopo vanno dal più generico esame dei pensieri, consistente in una guardia costante ad ogni movimento e ad ogni minima forma prodotta dalla mente —al fine, secondo le parole di Esichio di Batos, di «vedere subito, mentre si formano, le fantasie dei pensieri nella mente»— al più specifico discernimento della natura dei pensieri. Una formula classica degli Apoftegmi, recita a questo proposito: «Ad ogni pensiero che sorge in te, dì: ‘sei tu dei nostri o vieni dal nemico’? E certamente egli confesserà». Le tecniche più formalizzate, in quest’ambito, sono l’esame di coscienza, diffusa e praticata in ogni tradizione religiosa, e l’exagòreusis o manifestazione dei pensieri ad un padre spirituale . Quest’ultima viene spesso erroneamente identificata con la ‘confessione’ (exomológhesis), ma bisogna considerare che «oggetto dell’apertura del cuore al padre spirituale non sono tanto i peccati, quanto i moti dell’anima (ta kinemata), i pensieri (loghismoi), i fantasmi interiori che affiorano nel cuore e nell’immaginazione. Portati alla luce, oggettivati con l’aiuto di un padre spirituale, essi perdono poco per volta il loro carattere ossessionante, le illusioni vengono smascherate e si apprende, con il tempo la delicata arte del discernimento degli spiriti».

    c) finalità: portare allo scoperto ciò che è nascosto: ovvero l’arte del discernimento.

    Tutte queste metodiche brevemente esposte, e molte altre ancora, si propongono di creare e stabilizzare nel monaco uno stato continuo, incessante, di vigilanza sugli stimoli che influenzano il sistema e sulle reazioni individuali ad essi, una «stabile continuità dell’attenzione» (Esichio di Batos), stato che spesso viene indicato con il termine nepsis, ‘sobrietà’. Il fine quindi cui tendono tutte queste pratiche di sviluppo e ristrutturazione della componente discriminativa dell’attenzione è l’arte del discernimento: discernimento dei pensieri e di ogni moto della mente, la diakrisis noemáton, che per i monaci equivale alla perfetta conoscenza di sé.
    Discriminare per eliminare

    A questo punto, discriminati i pensieri, occorre individuare le tecniche più efficaci che permettono l’eliminazione degli stessi per lasciare spazio alla preghiera e alla preghiera incessante, punto di arrivo del percorso di autosviluppo dell’Esicasmo. Anche qui assistiamo alla definizione di metodiche particolari di allenamento dell’attenzione, ma in una nuova forma, quella che comunemente viene chiamata concentrazione.

    4. L’ATTENZIONE/CONCENTRAZIONE

    a) definizione

    Affermano i Padri che per raggiungere lo stato desiderato della mente senza forma né contenuti, che contraddistingue la ‘vera’ preghiera, cioè lo stato di orazione, la mente necessita tuttavia di un oggetto (una frase, un’idea o un’icona) di meditazione, un oggetto coerente col sistema di valori dell’individuo, cognitivamente ed emotivamente significativo, capace di stimolare la devozione dell’orante, unificare le facoltà mentali, e sul quale far convergere (cioè ‘concentrare’) l’attenzione. Ebbene quella che gli esicasti chiamano preghiera monologica contiene in sé tutte queste caratteristiche.

    b) tecniche: la preghiera monologica (monológhistos proseuché)

    Si tratta della ripetizione, per un tempo ed un numero di volte indefinito, di una frase breve, caratterizzata tipicamente dalla presenza a) del nome divino e b) di un’invocazione. Non è possibile qui neppure sfiorare il tema della ripetizione del Nome divino nella mistica di ogni tempo e luogo.

    In greco la formula fonologica consiste nelle parole: Kyrie Iesoû Christè, Yiè toû Theoû, eleisón me.

    Importanza del contenuto della preghiera

    Ci preme comunque fare una considerazione, forse banale ma sicuramente fondamentale, e cioè che il contenuto di un tale oggetto di meditazione non è per nulla indifferente rispetto agli esiti che ci si propone: vale a dire, su qualsiasi frase è possibile concentrare l’attenzione ed ottenerne quindi un qualche beneficio nei termini di un allenamento dell’attenzione; tuttavia alcuni oggetti mentali hanno un potere trasformativo sul sé e sulla coscienza che altre non hanno affatto, evidentemente in relazione principalmente al contenuto emozionale e quindi motivante delle stesse. Ritengo che, come notava padre Ancilli, la monologia «abbia un potere psicologico assai grande» proprio «in quanto invocazione di un nome e quindi di una presenza».  In altri termini, a mio avviso, la relazione che intercorre tra contenuto dell’invocazione e concentrazione è questa: la preghiera deve diventare evocazione mentale di una presenza significativa e motivante; solo così diviene possibile per l’orante fissarvi l’attenzione assai a lungo o addirittura ‘incessantemente’.

    Il metodo esicastico: tecniche psicofisiologiche

    La tradizione esicasta ha sviluppato una metodologia originale di preghiera centrata su una monologia, la cosiddetta preghiera di Gesù, e corredata di alcune tecniche psicofisiologiche che hanno attratto l’interesse di molti studiosi anche in virtù delle similitudini riscontrate con lo Yoga indiano. Riassumiamo brevemente i momenti essenziali del metodo, così come lo presentano i tre autori ‘classici’ dell’Esicasmo athonita del XIII-XIV sec.: Niceforo l’Esicasta, Gregorio Sinaita e lo pseudo-Simeone il Nuovo Teologo; essi descrivono un processo in più livelli che consistono nel:

    1. assunzione di una certa postura corporea: seduto su uno sgabello «alto una spanna», la testa inclinata ed il mento appoggiato sul petto, lo sguardo concentrato «in mezzo al ventre, ossia sull’ombelico (ómphalos

    2. rallentamento del ritmo della respirazione

    3. esplorazione mentale dell’interno del corpo: «cerca mentalmente dentro le tue viscere, per trovarvi il luogo del cuore, dove risiedono le facoltà dell’anima»

    4. unione della mente con il respiro e forzarla ad entrare con lui nel petto fino al «luogo del cuore». Rappresenta ciò che gli autori russi chiamano «stare con la mente nel cuore».

    c) finalità

    Qual è l’esito di una tale pratica? Secondo la tradizione, è contraddistinto tipicamente da una parte dal superamento del senso di sé La preghiera non è perfetta se l’uomo conserva coscienza di sé e si accorge di pregare» scrive G. Cassiano); dall’altra dall’assorbimento totale nell’oggetto di meditazione, tale che scompare il senso della distinzione soggetto contemplante/oggetto contemplato; come efficacemente si esprime Teofane il Recluso: Nello stato di contemplazione la mente e l’intera visione sono prigioniere di un oggetto spirituale così irresistibile che tutte le cose esteriori sono dimenticate e completamente assenti dalla coscienza. La mente e la coscienza sono a tal punto immerse nell’oggetto contemplato che è come se non le possedessimo più.

    linguaggio apofatico

    Termine di questa pratica, dunque, è l’abbandono della molteplicità ed il rifugio nell’unità transpersonale e trans-egoica mediante la concentrazione. La mente, «diviene senza principio, illimitata, sconfinata, senza figura e senza forma, si riveste di impotenza di parola, esercita il silenzio pieno di stupore, si riempie di diletto e subisce cose ineffabili». Qui si vuole rappresentare lo stato di unione apofatica che promana da una perfetta concentrazione dell’attenzione; è lo stato di hesychía, di quiete e di silenzio mentali, il vuoto (kénos) mistico, in cui alla più totale assenza di percezioni esterne e di rappresentazioni interne, fa da immancabile controparte la completa apertura della coscienza a ciò che la trascende.

    problemi

    In che misura un simile stato di coscienza (o di supercoscienza) può venire mantenuto? Quanto è stabile e quanto può durare questa condizione della mente? È questa la risposta definitiva al precetto di pregare incessantemente? Sembrerebbe non esserci alternativa: o l’assorbimento contemplativo, massimamente concentrato, in stato di esychía, oppure la distrazione nell’effimero.
    Ma c’è una terza via, in cui l’individuo mantiene il legame con la dimensione ‘altra’ che ha stretto durante la preghiera e la contemplazione; è un legame che orienta, che getta un solido ponte fra l’umano ed il numinoso, fra il finito e l’infinito. E, di nuovo, questa terza dimensione corrisponde ad un diverso livello di attenzione e ad una diversa modalità di esercitarla per fini autotrasformativi.

     

    1. L’ATTENZIONE/ORIENTAMENTO

    a) definizione

    Circa un secolo fa William James notava un fatto che è stato trascurato da molti e per molto tempo, cioè che l’attività umana non è tutta guidata puntualmente dalla coscienza attentiva, ma anche dalla stimolazione ambientale. È ciò che succede quando, ad esempio, guidando la nostra automobile, ci capita di essere totalmente assorti in un pensiero, in un ricordo o in una fantasia. L’esperienza comune ci insegna che se la strada che stiamo percorrendo ci è familiare, il percorso noto, riusciamo a raggiungere la nostra meta. Come può accadere che un compito così complesso come quello di guidare —che comporta una notevole quantità di azioni, ognuna delle quali richiederebbe di per sé un alto livello attenzione— possa venire eseguito senza prestargli alcuna —oppure un minimo— di attenzione? Certamente, un ruolo importante viene svolto dall’automatizzazione dei movimenti e delle procedure che intervengono nella guida del veicolo, ma rimane il problema del seguire una direzione, una rotta, avendo la mente completamente assorta altrove. È proprio qui che rileviamo l’importanza dell’intuizione di James: l’individuo è in grado di utilizzare la stimolazione ambientale (strade, semafori, curve, palazzi, ecc.) come una sorta di attenzione ausiliare, che gli permette di orientarsi in un territorio (conosciuto) e di raggiungere una meta pur non fruendo dell’attenzione cosciente, quest’ultima temporaneamente impegnata in un compito interno.Se, come abbiamo visto, questa attenzione ausiliare fornita dall’ambiente permette evidentemente un’economizzazione ed al tempo stesso un’ottimizzazione delle risorse attentive, perché allora non potenziarla mediante un’apposita tecnologia? Per i monaci, peraltro, ciò significherebbe uscire dall’impasse costituito dal problema, cui accennavo prima, del ritorno dello spirituale alla vita di ogni giorno, con le sue occupazioni, gli incontri, le molteplici relazioni. Come giustamente nota il padre Špidlík, gli esicasti, per la loro vocazione specifica, non intendevano ritornare nella vita comune. Eppure la PREGHIERA DI GESÙ di per sé rende possibile questo ritorno nel mondo. Non è un puro caso che il suo propagatore divenne un «pellegrino russo». La vita di questi stranniki significa da una parte un distacco continuo da tutti e da tutto; d’altra parte, però, essa comporta continue novità e contatti del tutto inaspettati. Ma tutte le impressioni nuove vengono avvertite e accettate con una disposizione interiore fissa, prodotta dalla giaculatoria che si ripete sempre e che accompagna ogni incontro.

    b) strumenti: preghiera di Gesù

    Vediamo dunque che la pratica tradizionale della PREGHIERA DI GESÙ rende quest’ultima particolarmente atta ad interagire con le attività della vita quotidiana. La tecnica da utilizzare, in questo contesto, non sarà più quella, descritta in precedenza, associata alle tecniche psicofisiologiche. Là, infatti, si prescriveva l’isolamento e la concentrazione assoluti. Qui, invece, il metodo sarà di tipo associativo, come suggerisce l’Abate Filemone (IV sec.): Abbi dunque questo sempre nel tuo cuore: sia che mangi, sia che beva, sia che ti trovi in compagnia di qualcuno, sia fuori di cella, sia per strada, non ti scordare di fare questa preghiera con mente sobria e intelletto stabile […] per adempiere il detto apostolico che prescrive: pregate incessantemente (1Ts 5,17). Fa’ attenzione, dunque, con cura e custodisci il tuo cuore, che non accolga pensieri cattivi o, in qualche modo, vani e inutili; ma sempre, quando dormi e quando ti alzi, quando mangi e quando bevi o sei in compagnia, in segreto, mentalmente, il tuo cuore ora mediti i salmi ora preghi: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me.

    La tradizione successiva preciserà che quello che bisogna fare, piuttosto che evitare gli stimoli esterni come distrazioni, è, al contrario, utilizzarli come segnali da associare alla ripetizione della giaculatoria.

    Il ricordo di Dio

    Preghiera incessante non significa solo ‘giaculatoria incessante’. Scrive Evagrio Pontico: «Le ore della tua giornata saranno: l’ora della lettura, l’ora dell’ufficio, l’ora della preghiera; e per tutta la vita, il ricordo di Dio». Il tema del ricordo di Dio (mnéme Theoú) è, forse, il più ricorrente fra gli autori di cui ci occupiamo; tutti ne scrivono, da Gregorio di Nazianzo a Simeone il Nuovo Teologo, dallo pseudo-Macario a Gregorio Sinaita. Ma la teoria più originale riguardo alla memoria Dei la troviamo nell’opera di Basilio Magno: Che voi mangiate, beviate, qualunque cosa facciate, fate tutto per la gloria di Dio. Sei seduto a tavola? Prega. Portando il pane alla bocca, rendi grazie a Colui che te l’ha donato. Se prendi del vino per rinvigorire il tuo corpo indebolito, ricordati di Colui che ti ha fatto questo dono […]. La fame è passata? Che il ricordo del Benefattore non passi. Quando ti metti il vestito ricordati di Colui che te l’ha dato. Quando ti avvolgi nel mantello, accresci il tuo amore per Dio che ti ha provvisto di abiti adeguati per l’inverno come per l’estate […]. La giornata volge al termine? Ricordati di Colui che ci ha dato il sole per compiere il nostro lavoro diurno e che ha messo a nostra disposizione il fuoco per illuminarci la notte e aiutarci nelle altre necessità della vita. […] Quando levi lo sguardo verso la bellezza del cielo stellato, prega il Signore delle cose visibili, adora l’artista che nella sua saggezza ha creato l’universo. Quando vedi tutta la natura animale immersa nel sonno, adora di nuovo chi, per mezzo del sonno, ci libera […] dalla catena delle fatiche, e con un po’ di riposo ricostituisce il vigore delle nostre forze. […] Così, prega senza posa; non si tratta di compiere la preghiera con parole incessanti, ma di unirti a Dio con tutto l’atteggiamento della tua vita, e tutta la tua vita sarà una preghiera continua .

    Qui Basilio sembrerebbe raccomandare un compito ancora più oneroso rispetto alla concentrazione sulla monologia; un compito che richiede un doppio sforzo di attenzione —a ciò che si sta compiendo e a Dio— una sovrapposizione permanente di discernimento e concentrazione. «Quale sistema nervoso umano può sostenere a lungo questa tensione perpetua?» si domanda I. Hausherr, dal momento che Basilio non ammette alcuna restrizione o alleggerimento. Tuttavia, in realtà «il ricordo di Dio consiste in ben altro che in un pensiero giustapposto alla nostra azione. È qualcosa che penetra, influenza, dirige e determina l’attività stessa».
    Per gli esicasti, come per tutti i mistici di ogni tempo e luogo, «Dio è presente in tutto ciò che esiste come causa della sua esistenza. Ogni realtà è quindi teofania», ogni realtà è in grado di suscitare il senso vivo e concreto della presenza di Dio, espressione, quest’ultima, che, pur non rientrando nel vocabolario proprio dell’Esicasmo, è assai vicina alla concezione basiliana della memoria Dei: La PRESENZA DI DIO costituisce l’essenza di ogni vera preghiera: è la preghiera stessa diffusa e virtualmente operante in tutta la vita. Ai momenti di pura preghiera, di ritiro, di silenzio e di arresto totale di ogni attività terrena segue, nella vita di un cristiano impegnato, la permanenza dello stato di preghiera durante tutte le sue rimanenti attività umane. La PRESENZA DI DIO è un’applicazione della mente per prendere coscienza della realtà di Dio e dei suoi misteri, affinché questi penetrino e informino di sé la vita, orientandola e sospingendola verso l’intimità divina.

    c) finalità

    orientamento

    Ci troviamo, evidentemente, in territori assai prossimi a ciò che abbiamo chiamato orientamento, uno stato dell’attenzione che non si riversa esclusivamente sulla molteplicità dei fenomeni né sul singolo oggetto di meditazione, ma opera un reale collegamento tra queste due dimensioni solo apparentemente irriducibili l’una all’altra. Ciò avviene tramite l’utilizzo —a scopo autotrasformativo e di evoluzione spirituale— dell’ambiente di vita del mistico come supporto dell’attenzione.


    preghiera incessante

    Proprio grazie a questa funzione vicaria o ausiliaria dell’ambiente—che opera come una sorta di ‘rammemoramento costante’ (cfr. sanscrito smrti)— nei confronti dell’attenzione, si realizza finalmente quel proposito che è all’origine non solo dell’Esicasmo, ma della scelta monastica in quanto tale: la preghiera incessante.

    1. CONCLUSIONI

    Siamo partiti con l’intento di fare luce sulla tecnologia autorealizzativa dell’Esicasmo cristiano, e di inquadrarne le singole tecniche all’interno di una teoria ‘trimodale’ dell’attenzione: discernimento, concentrazione e orientamento. L’ordine nel quale abbiamo focalizzato i tre temi non è casuale, ma risponde alle tappe psicologiche dell’itinerario spirituale; vediamole in breve:

    1. si inizia con un processo di purificazione e di perfezionamento mentale, che non può non passare attraverso la conoscenza di sé mediante un lavoro di discernimento sui fenomeni esterni e sul riverbero che essi provocano nel dominio della coscienza (fantasie, pensieri, ricordi, ecc.), fino alle motivazioni più profonde e nascoste; tutto ciò al fine di sperimentare uno stato di sereno dominio della volontà sulla sfera del mentale, che consente

    2. il passaggio al momento ‘positivo’ della pratica spirituale, il cui alla concentrazione sulla preghiera di Gesù ed alla sua articolazione con gli altri elementi del ‘metodo psicofisiologico’ esicastico (postura, respiro, esplorazione interiore), fa da sfondo la ferma determinazione all’estinzione dalla coscienza di qualsiasi pensiero (apóthesis noemáton), sia esso positivo o negativo o semplicemente inutile. Stato intermedio, la «discesa della mente nel cuore» o, come dice Teofane il Recluso, «restare nel cuore con attenzione». Termine di questa seconda fase, l’unione mistica, la ‘deificazione’ (théosis), la theologhía evagriana, l’extasis o excessus mentis di Cassiano, la ‘visione della luce taborica’ di Simeone il Nuovo Teologo; stiamo parlando del grado più alto della contemplazione (theoría), che, come abbiamo visto, per i Padri esicasti è eminentemente apofatica, sostanziata di ‘vuoto’ (kénos).

    3. Infine vi è un terzo momento, quello del ‘ritorno’ alla quotidianità, un ritorno che, però, non può non conservare tracce dell’esperienza estatica; avremo allora —in virtù di un quanto mai prezioso utilizzo dell’ambiente e degli stimoli della vita ordinaria in veste di attenzione ausiliariauna condotta trasformata, ri-orientata in un’ottica concretamente e pienamente religiosa, in cui non vengono mai meno il tenace ricordo di Dio e il sentimento vivo della Sua reale presenza, ed in cui, tramite la contemplazione, con occhi del tutto nuovi, della molteplicità dei fenomeni, si attua quel collegamento solido e costante con il Divino, quella preghiera incessante, che da sempre costituisce lo spirito della scelta monastica ma che, in questa forma, non è idiosincratico rispetto alla vita ‘secolare’; tranne doverla interiormente esperire come la vita di un ‘pellegrino’, cioè di uno che, pur fiorendo e radicandosi nel mondo, ne rimane tuttavia intimamente e profondamente estraneo.

     

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  • 19 Dic

    Il servizio dell’evangelizzazione di Gesù :
    Luca 24,36-49

     

    a cura di p. attilio franco fabris

    Appare evidente che Gesù nel Cenacolo si comporta esattamente come si è comportato con i due di Emmaus. E’ la pedagogia del Kerigma: offrire a chi è disposto ad ascoltare e a condividere un servizio della Parola che, alla luce della morte e della resurrezione di Gesù, permetta di rileggere tutta la storia della salvezza. Per poter offrire agli uomini questo servizio dell’evangelizzazione, Dio ha lavorato molto nella storia dell’umanità. E Gesù ha faticato molto allo stesso scopo.

    Ci spieghiamo.

    Distinguiamo l’esistenza di Gesù in tre fasi: la fase prepasquale, la fase pasquale e quella post-pasquale. Nel corso di tutte queste fasi Gesù ha sempre evangelizzato, ma non nello stesso modo. Vediamo perché.

    Il servizio di evangelizzazione del Gesù prepasquale non è molto diverso da quello dei profeti, non per nulla l’evangelizzazione di Giovanni Battista si salda con quella di Gesù e il messaggio iniziale è identico: “Il Regno di Dio è vicino. Convertitevi!”. E’ una buona notizia. La piccola comunità dei discepoli di Gesù è tutta protesa all’evangelizzazione del Gesù prepasquale. E quando questi cerca di prepararla agli avvenimenti della passione si trova sempre dinanzi all’incomprensione.

    Ma quando Gesù entra nella sua passione evangelizza? Certo, ma non più con le parole ma con i fatti. Il Gesù pasquale parla pochissimo, la sua evangelizzazione consiste nella materialità del suo consegnarsi nelle mani degli uomini. Questa consegna, semplice e totale, è in sé e per sé la Buona Notizia. Il servizio decisivo di Gesù non sta anzitutto nei grandi discorsi ch’egli ha fatto durante la sua predicazione, ma essenzialmente nella sua consegna pasquale. Sono i fatti che evangelizzano più che le parole. Allora a che servono le parole? Le parole servono prima e dopo i fatti a rendere intelligibili questi ultimi, ossia a decifrare, decodificare i fatti che l’uomo non è altrimenti capace di interpretare. Le parole del Gesù prepasquale servono a interpretare la Buona Notizia pasquale. E così le parole del Gesù post-pasquale.

    Con la sua resurrezione Gesù entra nella fase post-pasquale del suo ministero di evangelizzazione. Esso consiste nello spiegare a coloro che non hanno assistito alla sua passione e morte il significato dell’una e dell’altra. Perciò il servizio di evangelizzazione del Gesù post-pasquale costituisce il primo “primo annuncio” della storia dell’umanità. In quell’annuncio c’è tutto lui, c’è tutta la sua storia di uomo, la storia della sua relazione con Dio, il suo travaglio, il suo cammino nella speranza, il suo dolore e sofferenza, la sua consolazione e il suo riposo nell’esperienza della fedeltà di Dio.

    Il servizio che il Gesù post-pasquale rende ai suoi è di una qualità, di uno spessore culturale inimmaginabile. Esso è la chiave di comprensione del mistero di Dio e del mistero dell’uomo; è la chiave di interpretazione del mistero della creazione e della redenzione, del principio e della fine, di ciò che era prima della creazione del mondo e di ciò che sarà dopo la fine del mondo, l’eternità; è la chiave di lettura dell’escatologia, è la chiave di accesso al mistero della Trinità.

    La gloria del Signore della Buona Notizia che si manifesta al piccolo e spaurito gruppo dei discepoli nel Cenacolo non consiste nello splendore della sua onnipotenza, ma nelle piaghe di Gesù crocifisso. Questo è l’identikit del Signore della Buona Notizia. La storia dell’umanità, la vicenda della creazione e della caduta, l’avvio con Abramo della storia della salvezza, la storia di Israele, l’incarnazione, il ministero prepasquale e quello pasquale… Tutto è stato, è e sarà in funzione di questo momento. Da rivolgere a chi? A quattro gatti spauriti! Perché proprio a loro? Perché solo a loro? Perché non una manifestazione a tutto il popolo?

    La risposta è chiara: perché il “Primo Annuncio” suppone il confronto con la morte di Gesù, si radica in questo confronto. Suppone ancora che su questa morte ci si interroghi. Ora, i testimoni della morte di Gesù più diretti sono proprio i discepoli. Se Gesù si presentasse al mondo tutta la credibilità della buona notizia sarebbe legata ad un uomo che è resuscitato dai morti, ma nulla più!

    La serietà della buona notizia richiede che un prodotto così raffinato, culturalmente sofisticato come è il kerygma si rivolga proprio a coloro che si confrontano con la morte e la resurrezione di Gesù. Questa indicazione costituisce un criterio metodologico di estrema importanza per noi e per i nostri tentativi di evangelizzazione.

    La contemplazione delle apparizioni di Gesù risorto ci dice che i discepoli non lo accolgono a braccia aperte. Precisiamo che gli evangelisti non ci aiutano a comprendere questo nello stesso modo.

    Mt 28,16-17 (“Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano”); Mc 16,8 (“fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di paura”; 16,9-14 (“ Ma essi udito che era vivo ed era stato visto da lei, non vollero credere… neanche a loro vollero credere… li rimproverò per la loro incredulità”). Giovanni fa eccezione: Gv 20.19-20 (“gioirono nel vedere il Signore”), ma vi l’episodio di Tommaso: Gv 20,27 (“non essere incredulo”), e poi perché quel silenzio in cui non risuona nulla nell’episodio della colazione in riva al lago (Gv 21,9-12)? E’ normale questo comportamento?. In Luca 24,38 Gesù dice: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?”

    Capiamo che i discepoli dinanzi a Gesù risorto provano dentro di loro risonanze ambivalenti. La presenza di Gesù rinnova lo scandalo della croce e scatena nelle loro coscienze lo scandalo della resurrezione.

    Se il primo scandalo mette in discussione l’identità di Gesù come messia, il secondo scandalo, quello della resurrezione, mette in discussione la stessa identità di Dio scompaginando tutta la struttura di fede prepasquale dei discepoli. E’ per loro un trauma tremendo che mette in discussione tutta la loro fede nell’immagine di Dio fino a quel momento coltivata. Ecco le resistenze da dove nascono. Queste resistenze sono l’ultima disperata battaglia che il Separatore ingaggia contro l’evidenza della Buona Notizia. Si fa forte addirittura della fede prepasquale dei discepoli per opporre resistenza alla Buona Notizia.

    Dinanzi a queste resistenze Gesù avrà sofferto molto. E’ per lui ancora una pasqua di passione: non si sente accolto dai suoi (cfr Gv 1). Ma Gesù non si arrende e continua ad offrire ai suoi il servizio della Parola. Questa riflessione ci consente di capire che la disponibilità dell’amore di Dio alla Passione non si è esaurita con l’esperienza pasquale di Gesù, ma è una disponibilità eterna. Una “passione” che continua nel cuore di Dio dal suo essere e farsi Amore-dono. Quindi una passione che non è solo pasquale, ma anche prepasquale e postpasquale.

    Gesù consegna questo grande tesoro ai discepoli nel cenacolo. Affinché essi digeriscano, assimilino la ricchezza del primo annuncio, Gesù li affida all’azione dello Spirito. E’ un segno di “impotenza” da parte di Gesù. Egli sa che le sue parole e la sua presenza non basteranno, se il cuore dei discepoli non viene scalfito e penetrato dalla Buona Notizia. Ma questa è un’azione che solo lo Spirito può compiere (cfr Gv 14,26).

    Piste di riflessione

    ∑    Il nucleo della buona notizia è la consegna di se stesso che Gesù fa al Padre e agli uomini. Le parole di Gesù prima e dopo gli avvenimenti della passione e morte servono a spiegare, aprire l’intelligenza a questo mistero. Possiamo affermare che la nostra vita e la nostra predicazione ruoti effettivamente intorno a questo nucleo, oppure esso rappresenta uno dei tanti elementi?

    ∑    Ritieni importante il cammino che la provincia sta compiendo per incamminarci verso una consapevolezza sempre più profonda del nostro essere radicati nel “Primo Annuncio”? Cosa suggeriresti concretamente? (cfr Regole e Costituzioni, n. 5)

    ∑    Avvicinarsi ad un Capitolo significa rivivere tutte le dinamiche sinora affrontate. La Chiesa del nostro tempo, per ritrovare la sua identità, ha un bisogno disperato di riscoprire il primo annuncio, per ruminarlo, condividerlo intensamente nei vari cenacoli del nostro tempo. La Chiesa ha affidato il tesoro dell’annuncio del “primo annuncio” proprio alla nostra Congregazione. Questo percorso a ritroso circa il cammino della comunità cristiana primitiva ci porta a riscoprire le origini della nostra stessa identità passionista. E’ tempo di domandarci: la comunità passionista cosa può far di più e meglio, oggi, al servizio del Signore e della Chiesa, per coltivare il tesoro della memoria e del memoriale della Passione?

    ∑    Spesso siamo presi dall’ansia e ci preoccupiamo di convincere, di persuadere a forza di discorsi e di ragionamenti, di iniziative più o meno eclatanti. Non diamo forse sufficiente peso al fatto che  solo la potenza dello Spirito può “convincere” il cuore dell’uomo dell’autenticità della Buona Notizia che annunciamo. E’ Gesù stesso che consegna i suoi all’azione dello Spirito santo, sapendo che essa richiederà tempo, un lungo processo…. E solo dopo questo processo, fatto essenzialmente di “fractio verbi” gli apostoli arriveranno ad un docilità tale da vivere la loro Pentecoste. Solo allora il primo annuncio decolla nel mondo. Tutto questo trova riscontro nella nostra esperienza spirituale ed apostolica?

  • 18 Dic

    Gesù evangelizza i due discepoli di Emmaus:
    Luca 24,13-35

     

    a cura di p. attilio franco fabris

    Troviamo una conferma di quanto sinora detto anche nel famoso brano dei discepoli di Emmaus. Con il racconto dei due di Emmaus inizia la narrazione del ministero di evangelizzazione da parte del Gesù postpasquale. Ci basti dire che i due sanno tutto della morte di Gesù, (e non solo! Sono in possesso di tutti gli elementi: sepolcro vuoto, testimonianza delle donne…), ma essa non costituisce assolutamente per loro una buona notizia, anzi! Il loro abbandono della comunità ci dice che la comunità prepasquale dei discepoli di Gesù non ha futuro, il suo destino è la disgregazione.

    La sfiducia dei due discepoli è massima, tale da respingere ogni proposta di buona notizia. Loro al sepolcro non ci hanno preso neppure la briga di andarci: non ne valeva la pena. E’ proprio a questa coscienza comunitaria prepasquale in agonia, abortita, che si rivolge la Buona Notizia.

    Gesù si accompagna a loro, ma i “loro occhi erano incapaci di riconoscerlo”, velati dalla loro disperazione. Il viandante discretamente interroga e riceve la risposta delusa di Cleopa che svuota il sacco. Cosa fa il viandante? Ascolta e condivide, condivide e ascolta…. E a un certo punto comincia a dire la sua. Non è questo il circuito della “datio”, della “redditito”, della “fractio verbi”?

    Il viandante offre una chiave di letture degli avvenimenti di tipo biblico: “non bisognava….”. ripercorre in breve tutta la tradizione biblica: da Mosè ai profeti. Facendo questo il viandante fa il “primo annuncio”: è la Buona Notizia. Vorremmo sapere di più circa lo svolgimento di questo dialogo. Luca non lo riporta, lo accenna soltanto. Perché, se questo è il punto decisivo? Perché per la comunità cristiana Luca non sentiva il bisogno di descriverlo talmente era noto e assimilato.  L’essenziale era conosciuto e fatto proprio da tutti.

    Dopo la prima evangelizzazione lungo il cammino il viandante e i due discepoli arrivano all’albergo. “Resta con noi” è la risonanza di Cleopa e del suo compagno. Cosa vuol dire questa risonanza? Vuol dire che la “datio verbi” da parte di Gesù è divenuta “redditio verbi”, poi “fractio verbi” e infine “fractio vitae”. Attraverso il servizio della Parola offerto da Gesù si è innescata tra lui e i due discepoli di Emmaus una relazione così importante, che essi dal viandante-Gesù non vogliono separarsi. Non è questa la riprova che l’ascolto e la condivisione della Parola aggregano, cementano relazioni nuove?

    Gesù si consegna volentieri ai due di Emmaus. Non impone la sua presenza, ma si consegna volentieri. La “fractio vitae” è la condivisione dell’essere. La risonanza “resta con noi” è un invito alla condivisione ed una richiesta di condivisione. Gesù, con la sua iniziativa, condividendo se stesso con Cleopa e il suo compagno, ha risposto a questo bisogno ancor prima che essi ne prendessero coscienza. L’amore dono, sempre pronto ad amare per primo, risveglia nell’uomo il suo bisogno di essere amato e suscita una domanda di amore.

    La condivisione dell’essere fra i tre di Emmaus si completa con la condivisione dell’avere. I tre siedono insieme a mensa. Arriva il momento della “fractio panis”. Perché i due discepoli di Emmaus riconoscono Gesù proprio in quel momento. Forse perché nessuno al mondo spezzava il pane come lo spezzava Gesù, ossia con una convinzione, una partecipazione, una immedesimazione tali, da conferire a quel gesto un’eloquenza imitabile? O forse perché mentre alzava le mani al cielo per la benedizione del pane i discepoli videro ai polsi le piaghe del Crocifisso? Allora l’incontro con quelle piaghe determina la saldatura fra tutto ciò che il viandante ha detto e la morte dell’amico Gesù: quella morte acquista tutta la sua vitalità, la vitalità stessa della Buona Notizia. Ogni uomo per incontrare la Buona Notizia ha bisogno di incontrare le piaghe del Signore?

    Il viandante scompare. Perché?

    Una lettura in profondità ci fa intravedere che lo scomparire di Gesù, il suo interrompere l’esperienza di condivisione con i due discepoli, è un ulteriore dono. Egli infatti vuole offrire loro l’opportunità di ritrovare la sua presenza in seno alla comunità di Gerusalemme (cfr Mt 18,20). Proprio in quella comunità che essi hanno abbandonato in agonia nel Cenacolo. Lo scomparire di Gesù è un segno ed una promessa. Infatti i due, nonostante il buio e la stanchezza, tornano di corsa a Gerusalemme, e la risonanza che li mette in moto è: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?”. In termini teologici: ecco il frutto della condivisione della Parola, la dilatazione del cuore. Il valore sacramentale e salvifico della parola illumina l’intelligenza, pacifica e purifica il cuore, infiamma gli affetti, muove la volontà, apre alla speranza.

    Quando i due tornano al cenacolo trovano una comunità in effervescenza. Non fanno tempo ad aprire bocca che i loro compagni vanno loro incontro dicendo: “Gesù è risorto! L’ha visto Simone”. I versetti successivi raccontano, come già abbiamo visto, della nuova apparizione di Gesù nel cenacolo.

    Piste di riflessione∑    Assomigliamo sotto tanti aspetti i due di Emmaus. Stanchezza, delusione, abbandono di iniziative, dispersione …affliggono le singole persone e le comunità: Portiamo mille giustificazioni. Riscontri questi aspetti forse in te stesso o nella tua comunità, o in certi settori della vita di provincia. Quali le tue considerazioni? Quali le tue proposte?

    ∑    Gesù si fa compagno di viaggio, viandante con i viandanti, ascolta e condivide, dice la sua. Nelle nostre comunità ci rendiamo disponibili ad essere compagni di viaggio con i fratelli, durante il quale ci si ascolti e si condivida il proprio vissuto di fede? Se la condividi come pensi di fare per rendere concreta questa prospettiva?

    ∑    Dalla “fractio verbi” il viandante e i due discepoli passano alla “fractio vitae” e alla “fractio panis”: una suppone l’altra. E tutte e tre costruiscono le autentiche coordinate ecclesiali. Secondo te su quale delle tre risultiamo carenti? Su quale dovremmo insistere in vista di un rinnovamento delle nostre comunità? Cosa proporre?

    ∑    La delusione rischia di allontanarci gli uni dagli altri. Fuggiamo dal Cenacolo in cerca d’altro. E’ solo la presenza del Crocifisso Risorto che può divenire punto di aggregazione e di convergenza. Nella nostra esperienza la comunità è il luogo nel quale ci annunciamo la presenza del risorto o luogo dal quale ci “allontaniamo”?

     

     

  • 16 Dic

    Gesù evangelista del regno e il compito dello Spirito:
    Atti 1,3-5

     

    a cura di p. attilio franco fabris

     

    Ci domandiamo: nel corso del periodo di “incubazione del kerygma” i discepoli avranno proceduto tutti con lo stesso passo? Crediamo di no: ciascuno avrà avuto il suo passo più o meno veloce. Ma Luca ci suggerisce che la sapienza di Dio ha voluto che essi arrivassero insieme alla meta. Allorché, attraverso la “fractio verbi” del primo annuncio offerto da Gesù, l’intelligenza e l’accoglienza della Buona Notizia è maturata nella coscienza di tutti, il dono del Signore attiva per tutti nello stesso giorno e nello stesso momento.

    A questo punto notiamo che il Gesù postpasquale affida completamente l’efficacia e l’esito del suo servizio nel Cenacolo all’azione dello Spirito santo. Il Gesù prepasquale, esperto e fedele servitore della Parola, aveva da tempo imparato che il ruolo e la funzione dello Spirito santo nel cuore dell’uomo sono insostituibili. A Gesù compete la semina della Parola attraverso le sue parole e la sua testimonianza. Ma tocca allo Spirito far sì che tutto questo possa essere accolto e “metabolizzato” nella mente e nel cuore dell’uomo.

    Svolto il suo compito Gesù si ritira per lasciare spazio all’azione dello Spirito. Splendida testimonianza di come egli vive la sua creaturalità di strumento di Dio nella storia della salvezza.

    Soffermiamoci a contemplare la docilità dell’evangelista Gesù: egli attualizza, incarna alla perfezione le disposizioni al servizio della Buona Notizia. Potrebbe far sue le parole di Paolo: “Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione, e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza” (1Cor 2,3-4).

    Notiamo ancora che nella sua docilità allo Spirito Gesù si guarda bene dall’esercitare sui suoi pressioni di carattere culturale o affettivo. Li richiama all’ascolto, ma non prende il martello pneumatico per perforare le loro coscienze e introdurre in esse con forza la Buona Notizia.  Il seme è gettato! Sarà la collaborazione tra lo Spirito santo e i suoi amici a far germogliare e maturare quel seme.

    Le considerazioni svolte sin qui ci chiariscono perché per Gesù la consegna ai discepoli di rimanere in città sia così importante. Nella fedeltà a questa consegna si gioca il futuro della buona notizia, della comunità, della storia della salvezza. L’epicentro di tutto è la “memoria-memoriale passionis” proposto da Gesù: è da qui che tutto procede.

    Piste di riflessione

    ∑    siamo convinti che coltivare la “memoria” e il “memoriale passionis” sia la cosa più importante? In teoria certamente sì. Ma nella pratica come questo si concretizza? Non abbiamo tempo da perdere nel cenacolo, ci sono tante cose da fare per dedicarci veramente alla “memoria-memoriale passionis”. Per curare gli interessi del Regno finiamo col disobbedire alla consegna di Gesù ai suoi. Non è forse questo il motivo di base della nostra evangelizzazione così stanca e disorientata?

    ∑    L’atteggiamento di Gesù nella sua opera di evangelizzazione pre e postpasquale trova riscontro nel nostro stile apostolico? La nostra proposta di predicazione con quale atteggiamento viene offerta?

  • 15 Dic

    L’ “incubazione” del Kerygma:
    Luca 24,36-43

     

    a cura di p. attilio franco fabris

     

    Il processo di assimilazione della Buona Notizia si presenta senta a Gesù così problematico da dover egli prevedere per la sua piccola comunità un itinerario di ascolto molto laborioso. Il racconto dell’apparizione di Gesù nel cenacolo in Luca 24,36-43 sottolinea la difficoltà dei discepoli ad accogliere la presenza di Gesù risorto. Egli appare loro come un “fantasma”, ovvero una realtà irreale che non ha nulla da condividere con la nostra esperienza umana. Da dove proviene questa chiusura? Questa difficoltà? Tale difficoltà è dovuta al sovrapporsi, nella coscienza dei discepoli, allo scandalo della crocifissione, dello scandalo della risurrezione. Gesù si rende conto che la sua passione non è ancora terminata: la durezza del cuore dei discepoli, non ancora arresi alla buona notizia, gli chiede di morire ancora una volta per loro. Questo vuol dire che l’incontro fra il Gesù postpasquale e i suoi amici non è ancora una festa, ma una battaglia. A questa passione nuova Gesù si dispone con gratuità e generosità a lui consuete.

    Questo vuol dire che la “memoria passionis” che Gesù, nel Cenacolo propone ai suoi, è nel momento stesso in cui egli la propone un “memoriale passionis”: in altre parole, nel momento in cui Gesù in persona fa della “memoria passionis”, spiega cioè ai suoi il significato della sua morte e questa morte ricorda e ripresenta loro (le piaghe rimangono nel corpo di Cristo!), in quello stesso momento egli è disposto a nuovamente “morire” per loro. Questo “memoriale passionis” è necessario per  introdurre i discepoli nell’intelligenza della Pasqua di Gesù e delle Scritture. Nessuno, al di fuori di Gesù, può offrire ai discepoli il servizio di questa “memoria passionis”. Ma per offrire         questo servizio che si scontra con la durezza di cuore e l’incredulità è necessario che Gesù sia disposto nuovamente a morire .

    Ed ecco: nel Cenacolo, proprio lì, non può esserci “memoria passionis” senza “memoriale passionis”, senza che si rinnovi nuovamente la morte di Cristo. Chi c’è al mondo, se non Gesù stesso, che possa sostenere l’impegno di questo memoriale?

    Nel Cenacolo questa “memoria” e questo “memoriale” non sono elaborati dalla comunità. Non sono proposti dai testimoni della Passione, non da Giovanni, non da Pietro, neppure da Maria. Questa “memoria e memoriale” sono offerti dalla comunità solo dall’unico che li può offrire: Gesù in persona. Se fosse mancata questa auto-testimonianza la buona notizia non si sarebbe mai messa in moto.

    La comunità degli apostoli riceve da Gesù questo tesoro immenso. Un tesoro così grande che i poveri discepoli barcollano, vacillano.

    Gesù consegna questo tesoro ai suoi ripetutamente. Poi affida la comunità all’accompagnamento di Maria e da le sue due consegne alla comunità (restare in città – attendere l’adempimento del dono di Dio). Nel cenacolo a furia di ruminare la testimonianza autobiografica di Gesù la coscienza della comunità arriverà pian piano a comprendere ed accogliere la portata della Buona Notizia, ed entrerà in sintonia con quella “memoria” e quel “memoriale” che Gesù le ha affidato.

    E’ un processo di assimilazione che permette alle loro coscienze di aprirsi alla comprensione del kerygma. Potremmo definirlo il tempo di “incubazione” del primo annuncio. La coscienza si dispone così ad accogliere il dono della pentecoste: quando il cuore accoglie finalmente la Buona Notizia, allora il dono del Signore irrompe generosamente nella vita, e la comunità postpasquale diviene finalmente cristiana.

    Piste di riflessione

    ∑    Ritieni che il kerigma sia da noi già sufficientemente assimilato e annunciato? Da cosa lo deduci?

    ∑    Avverti l’esigenza di attivare tale “incubazione” del Kerygma nel nostro vissuto comunitario ed apostolico. In quale modo si potrebbe farlo?

    ∑    Perché avvertiamo la fatica di fermarci nelle nostre comunità per metterci insieme in ascolto della Parola del Crocifisso Risorto? Da che cosa dipende? Solo dall’educazione ricevuta, o forse anche da una scarsa volontà di attuare condizioni tali da permetterlo? E perché questa scarsa volontà? Forse manchiamo di fiducia in tal senso?

     

     

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