• 17 Apr
    1. LA SPERANZA


    1. a.   Fondamento psicologico della speranza

    La vita che cresce, in nessun momento è intera, è un progredire incessante. Le singole parti tuttavia non hanno senso se non alla luce dell’intero organismo. Dunque anche al nostro organismo spirituale, in tutte le sue dimensioni, appartiene necessariamente la prospettiva del futuro, la speranza.

    La disperazione fa parte dell’inferno, dove non vi è nessun tipo di progresso. Dante pone sulla sua porta delle parole emblematiche: “Lasciate ogni speranza voi che entrate”. Chi ha mancato il fine definitivo della vita, non ha speranza, non attende la beatitudine. In cielo la speranza è compiuta, tuttavia il dinamismo della carità sarà sempre in movimento.

    Il dinamismo della speranza rientra nello stesso sviluppo psicologico dell’essere umano. Nell’adolescenza, il ragazzo apre gli orizzonti, avverte grandi desideri e amori. Si coltivano svariati progetti, tutti presi sul serio. Ma la vita quotidiana, frattanto, rimane dentro limiti ristretti. Diventa difficile il rapporto con il mondo reale e quello del desiderio. È in questi anni che si vive profondamente l’eterna contraddizione fra ideale e realtà. È una contraddizione che comunque deve essere risolta. Questo può avvenire in modo maturo o immaturo creando problemi o anche serie patologie. Il carattere del futuro uomo si formerà a seconda del modo in cui è stata risolta questa fondamentale questione posta nell’adolescenza.

    Più o meno si possono suddividere quattro possibili soluzioni. La prima è descritta magistralmente dal don Chisciotte di Cervantes. Il cavaliere è un idealista incorreggibile, per non dover rinunciare ai suoi ideali, rinuncia a vedere la realtà. Combatte giganti che in realtà sono mulini a vento, una contadina vista di sfuggite diviene un’irraggiungibile principessa di nome Dulcinea. Una seconda possibilità è rappresentata dal suo compagno Sancho Panza invece è il tipico realista, che non ha alcun sogno, ha perduto completamente gli ideali. È il rappresentante di coloro che si sono riconciliati con la realtà eliminando gli ideali. Una terza categoria sono i rivoluzionari. Essi vedono che il mondo non corrisponde ai loro ideali e allora decidono di cambiare le strutture del mondo. Questa scelta è stata il detonare di tanti drammatici momenti della storia. La cosa triste è che sempre la società che fuoriesce da una rivoluzione non corrisponde mai agli ideali, per cui ispirerà nuove rivoluzioni. Una quarta possibilità è data dagli eclettici. Sono coloro che fra tanti ideali ne hanno scelto uno solo buttandoci a capofitto. Tutto il resto è sacrificato. Si gioca con una sola carta: o si guadagna molto, ad esempio nel campo dell’arte o altro, o si perde tutto.

    Tutte queste categorie cercano di risolvere lo stesso problema in modo diverso.

    L’opposizione fra ideale e realtà è insolubile. Questo appare evidente anche nella storia della filosofia. Platone risolve il problema trasferendo gli ideali nel “mondo delle idee”. Aristetele più pragmatico invita ad un sano realismo capace di “accontentarsi del poco”. La felicità sta nel non coltivare desideri impossibili. Anche il buddismo affronta il problema professando che la via della felicità consiste nella rinuncia a qualsiasi desiderio: esso è sempre fonte di infelicità.

    E nel campo biblico e cristiano? San Paolo non per nulla definisce i popoli pagani come coloro che “non hanno speranza” (1Ts 4,13). La dimensione biblica ha come supporto essenziale della rivelazione il dono delle “promesse” da parte di Dio, che i cristiani riconoscono adempiute in Cristo (Gal 3,16). Per noi dunque Cristo è la pienezza della nostra speranza.

    In Cristo si sono incarnati tutti gli ideali, tutto il bene, tutta la verità, tutta la bellezza. Per la nostra fede dunque il dilemma tra ideale e realtà non è impossibile: tutto sarà ricapitolato in Cristo e raggiungerà la sua pienezza e il suo compimento alla fine del tempo. Con questa promessa il cristianesimo differisce da tutte le altre religioni. Queste promettono “un’altra vita”, Cristo invece ci assicura il ritorno su questa terra nel corpo glorioso, una cielo e una terra nuova, ma su questa terra. La speranza dunque per noi è costitutiva ed essenziale.

    1. b.   Oggetto della nostra speranza

    Le speranze umane il più delle volte risultano ingannevoli. Anche gli apostoli dopo la morte del maestro avevano perso le loro speranze (Lc 24,13s). Ma dopo la resurrezione la speranza del cristiano acquista un solido fondamento, per cui la Chiesa può invocare con certezza: “Maran Athà! Vieni Signore Gesù” (Ap 22,20).

    La teologia quindi esprime l’oggetto della speranza cristiana con una formula breve: Christus totus, il Cristo intero. Cristo verrà in questo mondo e insieme a lui tutto cià che è legato alla sua venuta, cioè la santità, la glorificazione della Chiesa, la vittoria della verità, la realizzazione di tutti i veri ideali dell’umanità e della creazione. San Tommaso dice la medesima cosa in altri termini: “Non dobbiamo, quindi, sperare, nulla di inferiore a Dio stesso. I beni che egli distribuisce alle sue creature non sono altro che il suo essere. Per questo il proprio e principale oggetto della nostra speranza è la felicità eterna”. San Tommaso afferma questo perché: 1. Dio non può dare che ciò che è ovvero somma beatitudine 2. I desideri dell’uomo sono improntati dal progetto divino 3. Beatitudine dell’uomo non potrà dunque essere che la beatitudine, il possesso di Dio.

    Questo è dono di Dio, ma anche frutto della nostra collaborazione. Noi abbiamo la certezza che Dio non ci fa mancare l’occasione di acquisire meriti per ottenere il premio della felicità eterna.

    Ma possiamo essere già pienamente felici su questa terra? L’ “Imitazione di Cristo”[1] ci avverte: “Non prometterti ciò che non promette Cristo”. La croce farà parte sempre del nostro cammino. Tuttavia se cresce in noi la comunione con Dio, di corrispondenza cresce anche la nostra beatitudine: una pace che il mondo non potrà mai togliere. Tuttavia per ora la nostra visione della felicità è vista “nello specchio, in maniera confusa”.

    1. c.   Motivo della speranza

    Ci domandiamo non solo dell’oggetto della speranza ma anche su che cosa essa si basi. Ovvero ci domandiamo: possiamo avere realmente sicurezza nella vita?

    Da questo punto di vista ovviamente appaiono molto labili le sicurezze immediate, di tipo sociale, economico, fisico, ecc… Non per nulla il profeta Geremia ammoniva: “Maledetto l’uomo che pone la sua fiducia in un altro uomo” (17,15).

    Il credente ha invece un appoggio sicuro per la sua speranza: Dio. Diceva san Tommaso d’A.: “Speriamo quel bene che viene da Dio, solo da lui lo possiamo ottenere”. Per cui non riponiamo la nostra ultima speranza né in noi stessi, nelle cose, neppure negli altri. In questo a tutti allora è dato di poter riporre speranza in Dio: anche ai deboli e ai peccatori.

    E’ pessimismo? Sempre san Tommaso afferma: “Non possiamo fidarci di nessun uomo e di nessuna creatura se essi vengono considerati come causa prima, capace di fare beata la nostra anima. Possiamo, però, fidarci degli uomini se li consideriamo come causa seconda, come strumento con il quale la nostra anima raggiunge quel bene che appartiene al fine ultimo”.

    La nostra speranza poggia sulla fede nelle promesse di Dio. In questo senso Abramo è prototipo dell’uomo che vive una piena speranza perché vive una salda fede: “Sperò contro ogni speranza” afferma san Paolo.

    1. d.    Speranza in Dio e nel nostro lavoro

    Non aspettiamoci per la nostra speranza di vedere successi secondo i criteri mondani. Come ci ricorda il CCC  non dobbiamo aspettarci un enerome successo esteriore della Chiesa, ma piuttosto, un entrare nel mistero della passione di Cristo. Quindi un apparente fallimento, fatto di persecuzione, di minoranza. Dentro questo cammino pasquale la Chiesa deve passare.

    Da parte nostra tuttavia l’atteggiamento giusto è di ancorarci nel vivere con fedeltà il momento presente, guardando con serenità il futuro nonostante le apparenze contrarie. Per il presente è di grande valore un altro aspetto della speranza cristiana: la ferma convinzione nell’efficacia dei nostri sforzi compiuti nella grazia di Dio, di tutti i mezzi normali che la vita cristiana ci offre per raggiungere il nostro fine.

    Certamente la nostra speranza è riposta unicamente in Dio. Ma bisogna far attenzione a non cadere in una sorta di quietismo nel quale noi saremmo esentati di fare tutta la nostra parte. Sappiamo che uno dei più difficili problemi teologici tratta proprio della relazione fra l’opera di Dio e la nostra collaborazione. Nella vita pratica è meglio attenersi al consiglio di sant’Ignazio di L. che dice: “Pregate così, come se tutto dipendesse solo da Dio, ma lavorate come se tutto dipendesse solo da voi”. L’unione dell’opera di Dio e della nostra azione si manifesta in modo esplicito nei sacramenti: è certo che Dio perdona i peccati eppure chiede a noi il gesto di inginocchiarci al confessionale.

    Così siamo certi che Dio coopera sempre in ogni opera buona, anche se in misura e modalità differenti. Quindi siamo certi che le nostre opere buone sono efficaci, non sono perse. Con esse collaboriamo con Dio alla costruzione del suo Regno.

    1. e.    Le circostanze nelle quali bisogna rafforzare la speranza
    1. Nello sforzo per la perfezione. Il primo entusiasmo passa presto. Bisogna essere pronti all’aridità, alla tempesta, al vento contrario.
    2. Nella preghiera. La preghiera si irrobustisce non per la moltitudine delle parole ma per la fiducia che la anima (Mt 17,20). Una fiducia che non è facile. Ogni rafforzamento della speranza rende la preghiera più efficace.
    3. Nelle circostanze in cui siamo tentati dallo scoraggiamento. La speranza è simbolizzata dall’àncora (Ebr 6,9). Vi sono momenti nella vita in cui l’unica forza che rimane all’uomo è una silenziosa speranza. Possiamo anche dire che Dio stesso purifica i sentimenti della nostra speranza con delusioni, fallimenti…
    4. Nelle tentazioni quando temiamo di cadere. Sembra che le abitudini cattive appaiono insuperabili solo nei casi in cui il “paziente” non riesce a convincersi che è in grado di superarle: “Vorrei tanto, ma…”. Scriveva un autore spirituale: “Smettiamo di enumerare a Dio la lunga e monotona serie delle nostre indegnità e delle nostre miserie, se lo scopo di questo elenco è solo quello di giustificare l’inquietudine e l’insicurezza che portiamo dentro di noi”.  Talvolta il Signore per consolarci e rafforzarci ci concede delle consolazioni. Sono doni da accogliere con gioia senza però la pretesa di trattenerli (cfr Pietro sul Tabor!). I maestri dello spirito ammoniscono di non ricercare gli stati di consolazione e di non nutrire i desideri per visioni e rivelazioni. La speranza cristiana è rivolta verso il futuro che è il mistero di Dio. I ricercatori della consolazione vogliono godere il tempo presente; allora, in un certo senso, rigettano ciò che rende la speranza cristiana così meritevole: la piena fiducia in Dio, anche nell’incertezza.

    [1] La Imitazione di Cristo (titolo originale in latino: De Imitatione Christi) è, dopo la Bibbia, il testo più diffuso di tutta la letteratura cristiana occidentale.  Il testo è stato scritto in latino e ne è sconosciuto l’autore. La rosa di nomi a cui attribuire l’opera è, sostanzialmente, ridotta a tre figure: il monaco agostiniano Tommaso da Kempis, a Jean Gerson o a Giovanni Gersen. La mancanza dell’autore, secondo l’uso certosino, ha fatto propendere ultimamente per l’attribuzione a quest’ambiente. L’analisi contenutistica sembra confermare questa ipotesi.  È un testo tuttora considerato di riferimento per tutte le Chiese cristiane (cattolica, protestante e ortodossa).

     

  • 16 Apr

    4.  LA VITA SPIRITUALE

    1. a.   La perfezione è di tutti

    Siccome tutti sono chiamati a salvezza, la vocazione alla perfezione è di tutti: “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48). Dunque la perfezione non è privilegio di pochi. I primi monaci non vollero costituire una casta di perfetti, vollero semplicemente, alla luce del vangelo, creare le condizioni che facilitassero il cammino della perfezione.

    Tutti perciò devono avere piena fiducia nella Provvidenza di Dio (obbedienza), tutti devono custodire la purezza del cuore (castità), stimare la grazia di Dio più di tutte le realtà terrene (povertà).

    Non si può dunque parlare della vita religiosa come di uno stato particolare che percorre un itinerario diverso da quello che devono percorrere tutti i cristiani. Essa si deve porre nella Chiesa come un faro che indica la direzione verso cui tutti sono chiamati seppur in modalità diverse a indirizzarsi. Lo Spirito, che santitifica tutti è uno solo, uno è il Vangelo e unici sono i mezzi per raggiungere la perfezione che vengono offerti a tutti. Il tratto peculiare dei religiosi è che si obbligano con voti ad utilizzare questi mezzi in una forma specifica secondo una regola di vita approvata dalla Chiesa.

    1. b.   Lo stato di perfezione

    I religiosi venivano definiti come coloro che sceglievano lo “stato di perfezione”. L’espressione va intesa bene perché come detto la perfezione-santità è dovere di tutti i battezzati. Per il religiosi lo sforzo per la perfezione diventa l’obbligo del loro stato di vita: essi sono chiamati a far risplendere a beneficio di tutti la santità che è di tutti.

    Il termine “religioso” deriva dalla “regula” ovvero il testo normativo che stabilisce mezzi e strumenti per facilitare il cammino di perfezione.

    Il termine “monaco” deriva invece dal greco “monos” ovvero colui che è solo.

    Nella chiesa greca esiste solo lo stato monastico che viene chiamato “vita angelica”: ovvero coloro che anticipa la realtà del regno dei cieli, il paradiso.

    In questo senso i religiosi cercano già nel tempo presente di raggiungere quella perfezione alla quale debbono pervenire tutti coloro che si salveranno. È il compito di profezia escatologica riservata alla vita religiosa.

    In occidente la vita religiosa si suddivide in ordini di vita attiva e contemplativa. Quelli di vita attivi sono dediti a servizi peculiari e diretti alla chiesa, quelli di vita contemplativa vivono una vita di clausura che permette loro di darsi completamente alla preghiera e alla testimonianza silenziosa. E’ una vita più strettamente legata anche al concetto di penitenza.

    Il concilio vaticano II afferma: “Le società religiose, nate nella Chiesa, aiutano i loro membri a pervenire alla perseveranza e offrono loro una buona guida per raggiungere la perfezione”.

    1. c.   I tre voti

    La continenza sessuale, come scrive san Paolo (1Cor 7,33) ha come scopo che il cuore dell’uomo non sia diviso. Il marito e la moglie si concedono reciprocamente il diritto sulla propria persona e anche sul corpo. A coloro che hanno ricevuto una particolare chiamata lo Spirito suggerisce di essere segno di una totale consacrazione a Cristo sposo. Si tratta di una sorta di sposalizio spirituale che esige la stessa fedeltà della promessa matrimoniale.

    La povertà religiosa assume diverse sfumature a seconda delle varie tipologie di vita consacrata. Nella sua essenza è la rinuncia a possedere qualcosa come di proprio ad immagine di Cristo che “spoglio totalmente se stesso” per farci ricchi della sua povertà. Con questa scelta il consacrato esprime concretamente il suo distacco dal mondo e nello stesso tempo la ricchezza della comunione con Dio unico vero bene.

    Con il voto di obbedienza il consacrato rinuncia alla propria volontà, ad immagine di Cristo che ritiene suo cibo il “fare la volontà del Padre”. Concretamente essa si esprime nell’obbedienza ai propri legittimi superiori. Certamente è questo sacrificio della libertà il più esigente di tutti. Ma nello stesso tempo esso rientra nell’essenza stessa della struttura della Chiesa.

    I voti religiosi sono quindi espressione concreta delle virtù cristiane alla quali tutti, sebbene in diversa forma, sono chiamati: la fede nella provvidenza, la speranza, la purezza della mente, l’umiltà e soprattutto la carità (1Cor 13,4). Senza quest’ultima non avrebbe valore l’esercizio dei voti religiosi stessi.

    1. d.   Il demone meridiano

    La stagnazione, il disgusto di continuare, la perdita di interesse è un pericolo che si incontra in ogni scelta di vita. L’entusiasmo iniziale pur necessario e il fervore dell’inizio sembrano lentamente scemare se non scomparire.

    Gli antichi monaci parlavano di questa fase come della tentazione del “demone meridiano”: pigrizia, scoraggiamento, disgusto assalgono il monaco al fine di distoglierlo dalla sua chiamata. Anche la psicologia conosce questa esperienza che viene collocata come fase tipica dei 40-45 anni. In certo qual modo può avere tratti simile alla depressione.

    Ma nella vita spirituale essa assume un significato di purificazione e crescita spirituale in cui si è chiamati a fare un salto unicamente nella fede nella provvidenza di Dio non basandoci sulle nostre forze.

    San Bernardo[1] scrive ad un suo monaco: “Monaco, vuoi progredire? No? Vuoi tornare indietro? No? Allora cosa desideri? Voglio restare quello che sono, né megliore né peggiore. Allora cerchi una cosa impossibile. Non può esistere a questo mondo qualche cosa che non subisca cambiamenti, tranne Dio solo in cui non vi è ombra di mutamento”. Anche san Gregorio Magno usa il paragone con il battello nel fiume che viene spinto indietro dal momento in cui il navigatore smette di remare. Giovanni Cassiano[2] scrive: “Nella virtù dobbiamo continuamente progredire e non smettere mai. Bisogna sforzarsi ogni giorno altrimenti, al momento di fermarsi, ci accorgeremo della perdita subita. Lo spirito non può rimanere fisso in un luogo, non può accorgersi dell’aumento o della diminuzione della virtù. Non guadagnare significa perdere. Se sparisce il desiderio di migliorarsi, appare il pericolo di peggiorare”.

    Anche il gesuita Alfonso Rodriguez[3] esorta coloro i quali si “sono arenati sulla sabbia” dicendo: “Avete fatto, fratello, una bella corsa. Chi vi impedisce di proseguire verso la verità. Avete cominciato bene il vostro cammino e ora vi siete fermato nella virtù… Credete di essere troppo anziano o troppo stanco per farvi bastare ciò che possedete? Guarda, alzati e mangia perché la via davanti a te è ancora lunga. Ti troverai in certe occasioni in cui avrai bisogno di maggiore umiltà e pazienza, di maggiore dominio su te stesso, di maggiore mortificazione delle cose terrene. In quel momento, quando il bisogno sarà maggiore scoprirai, all’improvviso la tua miseria e arretratezza”.

    1. e.   Fame e sete di giustizia

    La beatitudine promessa a chi ha fame e sete di giustizia è indirizzata anche a tutti coloro che ricercano la perfezione, che desiderano conformarsi alla volontà di Dio.

    Affinché il giusto progredire non si spenga san Gerolamo consiglia di non stare troppo a considerare il passato. Egli dice: “Ogni santo mira sempre verso ciò che gli sta davanti e dimentica il passato. Beato chi progredisce ogni giorno e non pensa a ciò che ha fatto ieri, ma, piuttosto, a ciò che deve fare oggi per andare avanti”.[4] L’esperienza ci insegna che le persone anziane parlano volentieri di ciò che hanno fatto e visto. È un segno della vecchiaia e di una senilità che non dovrebbe manifestarsi nella vita spirituale. Infatti il cammino per la perfezione è lunghissimo e mai consluso. Dice san Gregorio M.[5] :”A cosa serve percorrere un bel pezzo di strada se poi non si arriva alla fine?”.

    San Bernardo ribadisce a coloro che abbandonano il desiderio di progredire sulla via della perfezione l’esempio dei “figli di questo mondo”: “diventiamo come i commercianti del mondo. Li vedi come sono continuamente preoccupati e come lavorano per aumentare la loro fortuna. Anche i ladri e i truffatori non smettono facilmente. È davvero vergognoso per noi ch essi nutrano un desiderio per le cose dannose maggiore del nostro per le utili. Sono più costanti loro nel cammino della morte che noi su quello della vita”.

    Allora quali sono i segni che in certo qual modo ci assicurano di essere in stato di grazia. Secondo san bernardo “Non vi è segno più sicuro della presenza di Dio nell’anima, che il desiderio di progredire nella grazia”. Il desiderio di progredire spiritualmente, la fame e la sete di giustizia e di perfezione, sono il riflesso dell’infinitezza di Dio che se è in noi non può non spingerci se non in questa direzione.



    [1] Terzo di sette fratelli, nacque da Tescelino il Sauro, vassallo di Oddone I di Borgogna, e da Aletta, figlia di Bernardo di Montbard, anch’egli vassallo del duca di Borgogna. Studiò solo grammatica e retorica (non tutte le sette arti liberali, dunque) nella scuola dei canonici di Nôtre Dame di Saint-Vorles, presso Châtillon-sur-Seine, dove la famiglia aveva dei possedimenti. Ritornato nel castello paterno di Fontaines, nel 1111, insieme ai cinque fratelli e ad altri parenti e amici, si ritirò nella casa di Châtillon per condurvi una vita di ritiro e di preghiera finché, l’anno seguente, con una trentina di compagni si fece monaco nel monastero cistercense di Cîteaux, fondato quindici anni prima da Roberto di Molesmes e allora retto da Stefano Harding. Nel 1115, insieme con dodici compagni, tra i quali erano quattro fratelli, uno zio e un cugino, si trasferì nella proprietà di un parente, nella regione della Champagne, che aveva donato ai monaci un vasto terreno sulle rive del fiume Aube, nella diocesi di Langres perché vi fosse costruito un nuovo monastero cistercense: essi chiamarono quella valle Clairvaux, Chiara valle. Ottenuta l’approvazione del vescovo Guglielmo di Champeaux e ricevute numerose donazioni, l’Abbazia di Clairvaux divenne in breve tempo un centro di richiamo oltre che di irradiazione: già dal 1118 monaci di Clairvaux partirono per fondare altrove nuovi monasteri, come a Trois-Fontaines, a Fontenay, a Foigny, a Autun, a Laon; alla morte di Bernardo le abbazie cistercensi erano 343, di cui 66 fondate o riformate da lui stesso. Per tutta la sua vita Bernardo fu strenuo difensore dell’ortodossia religiosa, della lotta contro le eresie e dell’autorità assoluta della Chiesa. Nel concilio di Sens del 1140, si scagliò contro le dottrine di Pietro Abelardo, che furono condannate; lottò inoltre contro Gilberto Porretano e Arnaldo da Brescia. La seconda crociata del 1147 fu opera della sua predicazione. I punti fondamentali della dottrina di Bernardo consistono nella negazione del valore della sola ragione, contrapposta all’esaltazione della vita mistica, considerata come la via dell’umiltà e della rinuncia ad ogni autonomia umana.  Bernardo si pronuncia senza riserve contro la ragione e la scienza: il desiderio di conoscere gli appare come «una turpe curiosità”.  Inoltre Il santo nega il valore dell’uomo, spingendolo a riconoscere il proprio nulla, al fine di ottenere la liberazione da tutti i legami corporei e di abbandonare completamente la sua volontà ai voleri divini.[3] I concetti di Bernardo riguardanti la mistica e l’ascesi, come anche le tematiche politiche della plenitudo potestatis del pontefice e delle due spade, condizionarono profondamente tutto il Medioevo. Nella Lettera 1, spedita verso il 1124 al cugino Roberto, Bernardo mostra di considerare la vita monastica dei benedettini di Cluny, allora all’apogeo del loro sviluppo, come un luogo che negava i valori della povertà, dell’austerità e della santità; egli rifiuta la teoria della regola benedettina della stabilitas – ossia del legame permanente e definitivo che dovrebbe stabilirsi fra monaco e monastero – sostenendo la legittimità del passaggio da un convento cluniacense a uno cistercense, essendovi in quest’ultimo professata una regola più rigorosa e più aderente alla Regola di San Benedetto, pertanto una vita monastica perfetta. La polemica fu da lui ripresa nell’ Apologia all’abate Guglielmo, sollecitata da Guglielmo, abate del monastero di Saint-Thierry, che ebbe una risposta dall’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, nella quale l’abate rivendicava la legittimità della discrezione nell’interpretazione della regola benedettina. Nel 1130, alla morte di Onorio II, furono eletti due papi: uno, dalla fazione della famiglia romana dei Frangipane, col nome di Innocenzo II e un altro, appoggiato dalla famiglia dei Pierleoni, con il nome di Anacleto II; Bernardo appoggiò attivamente il primo che, nella storia della Chiesa, per quanto eletto da un minor numero di cardinali, sarà riconosciuto come autentico papa, grazie soprattutto all’appoggio dei maggiori regni europei (Anacleto II verrà considerato un antipapa). Numerosi furono i suoi interventi in questioni che riguardavano i comportamenti di ecclesiastici: accusò di scorrettezza Simone, vescovo di Noyon e di simonia Enrico, vescovo di Verdun; nel 1138 favorì l’elezione a vescovo di Langres del proprio cugino Goffredo della Roche-Vanneau, malgrado l’opposizione di Pietro il Venerabile e, nel 1141, ad arcivescovo di Bourges di Pietro de La Châtre, mentre l’anno dopo ottenne la sostituzione di Guglielmo di Fitz-Herbert, vescovo di York, con l’amico cistercense Enrico Murdac, abate di Fountaine. Il 15 febbraio 1145, a Roma, nel convento di san Cesario, sul Palatino, il conclave eleggeva papa Eugenio III, abate del convento romano dei Ss. Vincenzo e Anastasio; il nuovo papa, Bernardo Paganelli, conosceva bene Bernardo, per averlo incontrato nel concilio di Pisa del 1135 e per essere stato ordinato cistercense proprio a Chiaravalle nel 1138. Bernardo, felicitandosi per l’elezione, gli ricordava curiosamente che si diceva «che non siete voi a essere papa, ma io e ovunque, chi ha qualche problema si rivolge a me» e che era stato proprio lui, Bernardo, ad «averlo generato per mezzo del Vangelo». Eugenio III incaricò Bernardo di predicare a favore della nuova crociata che si stava preparando, e che avrebbe dovuto essere composta soprattutto da francesi, ma Bernardo riuscì a coinvolgere anche i tedeschi. La crociata fu un completo fallimento che Bernardo giustificò, nel suo trattato La considerazione, con i peccati dei crociati, che Dio aveva messo alla prova. Questo trattato, finito di comporre nel 1152, si occupava anche dei compiti del papato e Bernardo lo mandò a papa Eugenio che si dibatteva con le difficoltà procurategli dall’opposizione dei repubblicani romani, guidati da Arnaldo da Brescia. Le sue condizioni di salute cominciano a peggiorare alla fine del 1152: ebbe ancora la forza di intraprendere un viaggio fino a Metz, in Lorena, per mettere fine ai disordini che travagliavano quella città. Tornato a Chiaravalle, apprese la notizia della morte di papa Eugenio, avvenuta l’8 luglio 1153 e morì il mese dopo. Rivestito con un abito appartenuto al vescovo Malachia, del quale aveva appena finito di scrivere una biografia, venne sepolto davanti all’altare della sua abbazia.

    [2] Si sa poco di lui: pare che il suo nome originario fosse semplicemente Cassianus; il nome Johannes gli sarebbe stato aggiunto in onore a San Giovanni Crisostomo. Soggiornò lungamente in Terrasanta, a Betlemme, e in Egitto, prima di venir ordinato presbitero dal Crisostomo. Dopo un breve soggiorno a Roma si trasferì nelle Gallie, a Marsiglia.  Quivi fondò a nel 415 due monasteri: uno per gli uomini, l’abbazia di San Vittore, l’altro per le donne, sull’esempio di quelli egiziani. Visse in Provenza per il resto della sua vita, scrivendo i suoi due libri: De institutis coenobiorum, e le Collationes, che San Benedetto da Norcia raccomandò come autorevoli trattati per la formazione dei monaci. I suoi scritti ebbero una notevole influenza su CassiodoroMorì nel 435. Le sue spoglie erano nel monastero di San Vittore, da lui fondato, e andato distrutto durante la rivoluzione francese.

    [3] L’umile Alfonso Rodriguez abbracciò la vita religiosa dopo varie traversie. Fu educato in un collegio gesuita ad Alcalá, che abbandonò per prendere il posto del padre come mercante di tessuti, attività in quel momento fiorente. A 27 anni si sposò e dal matrimonio nacquero due figli. Nel 1567 dapprima la morte della moglie poi quella dei due figli provarono duramente Alfonso.  A queste tremende sventure fecero seguito anche quelle finanziarie, gettandolo nelle ristrettezze. Tornò a studiare frequentando un corso di grammatica e retorica all’università di Valencia, con scarso successo. Trovò allora conforto nei libri di devozione. Decise di entrare, come fratello coadiutore, dai Gesuiti. Dopo il noviziato venne inviato nel collegio di Monte Sion a Palma di Majorca, dove rimase fino alla morte, avvenuta il 31 ottobre 1617.  La fama della sua santità e i carismi di cui Dio l’aveva dotato (visioni, preveggenza, miracoli) avevano attratto alla scuola dell’umile frate, che aveva dovuto interrompere gli studi universitari per scarso profitto, un folto gruppo di discepoli, fra i quali il futuro grande missionario, San Pietro Claver, a quel tempo studente di filosofia, del quale aveva predetto la vasta attività apostolica.  Il santo è indicato dalla Chiesa come esempio di tenera devozione mariana, espressa con la recita quotidiana del Rosario e dell’Ufficio dell’Immacolata, devozione che spesso otteneva amabili e straordinari interventi della Vergine nella sua vita. Questa dedizione e questi doni ne fecero un grande mistico della Spagna del suo tempo.  Tra i suoi molti scritti ricordiamo le memorie autobiografiche scritte per ordine dei suoi superiori dal 1604 al 1616, e alcuni scritti che trattano argomenti di ascetica di lucida penetrazione, frutto di una sapienza non attinta dai libri. La sua memoria liturgica si celebra il 31 ottobre.

    [4] Studiò a Roma, nel 379, ordinato presbitero dal vescovo Paolino, si recò a Costantinopoli dove poté perfezionare lo studio del greco sotto la guida di Gregorio Nazianzeno (uno dei “Padri Cappadoci“). Risalgono a questo periodo le letture dei testi di Origene e di Eusebio. Dopo tre anni di vita monastica tornò a Roma nel 382 dove divenne segretario di Papa Damaso I e conseguì un notevole successo personale, ma alla morte del Papa il suo prestigio scemò e Girolamo tornò in Oriente, dove fondò alcuni conventi femminili e maschili, in uno di questi trascorse gli ultimi anni. Morì nel 420. Le sue reliquie sono conservate nell’urna di porfido dell’altare papale della Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma. I resti pervennero alla Basilica nel XII secolo e furono riposti all’ingresso dell’ Antrum Praesepi; nel 1409 la famiglia Guaschi li fece collocare in un altare appositamente costruito. Nel 1424, per mezzo di un lascito del cardinale Pietro Morosini, le ossa furono riposte in una cassetta d’argento del costo di 100 fiorini. Per la costruzione della cappella Sistina o del Santissimo Sacramento, papa Sisto V fece demolire la precedente, dedicata a San Girolamo, al cui altare quattrocentesco si veneravano i resti. Secondo una leggenda il canonico Ludovico Cerasola, per evitare un’eventuale loro traslazione alla chiesa di S. Girolamo degli Schiavoni, li nascose nel pavimento a destra del presbiterio. In seguito il cardinale Domenico Pinelli riesumò la cassa d’argento contenente il corpo di San Girolamo e la pose sotto la confessione. Rinvenuta la cassetta nel 1747 fu collocata definitivamente all’altare del Papa.  Una sua reliquia si espone nella chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo.[1]

    [5] Gregorio nacque verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anici e alla morte del padre Gordiano, fu eletto, molto giovane, Prefetto di Roma.  Grande ammiratore di San Benedetto da Norcia, decise di trasformare i suoi possedimenti a Roma (sul Celio) e in Sicilia in altrettanti monasteri e di farsi monaco, quindi si dedicò con assiduità alla contemplazione dei misteri di Dio nella lettura della Bibbia. Non poté dimorare a lungo, nel suo convento del Celio poiché il Papa Pelagio II lo inviò come nunzio, presso la corte di Costantinopoli, dove restò per sei anni, e si guadagnò la stima dell’imperatore Maurizio I, di cui tenne a battesimo il figlio Teodosio.  Al suo rientro a Roma, nel 586, tornò alla quiete del monastero sul Celio, vi rimase però per pochissimo tempo, perché il 3 settembre 590 fu chiamato al soglio pontificio dall’entusiasmo del popolo e dalle insistenze del clero e del senato di Roma, dopo la morte di Pelagio II di cui era stato segretario.  In quel tempo Roma era afflitta da una terribile pestilenza. Per implorare l’aiuto divino, Gregorio fece andare il popolo in processione per tre giorni consecutivi alla basilica di Santa Maria Maggiore. Roma fu liberata dal morbo e più tardi si disse che, durante la processione, era apparso sulla mole Adriana l’arcangelo Michele che rimetteva la spada nel suo fodero come per annunziare che le preghiere dei fedeli erano state esaudite. Da allora la tomba di Adriano mutò il nome in quello di Castel Sant’Angelo, e una statua dell’angelo vi fu posta sulla cima.  Come papa si dimostrò uomo di azione, pratico e intraprendente (chiamato “l’ultimo dei Romani”), nonostante fosse fisicamente abbastanza esile e la sua salute fosse sempre cagionevole. Fu amministratore avveduto ed energico, sia nelle questioni sociali e politiche per provvedere alle popolazioni bisognose di aiuto e di protezione, sia nelle questioni interne della Chiesa universale.  Ebbe a trattare con molti paesi europei; con il re visigoto Recaredo di Spagna, convertitosi al Cattolicesimo, Gregorio Magno fu in continui rapporti e fu in eccellente relazione con i re franchi. Con l’aiuto di questi e della regina Brunchilde il pontefice riuscì a tradurre in realtà quello ch’era stato il suo sogno più bello: la conversione della Britannia, che affidò a Sant’Agostino di Canterbury, priore del convento di Sant’Andrea.  A questo proposito si racconta che un giorno, scendendo dal suo convento sul Celio e vedendo sul mercato alcuni giovani schiavi britannici esposti per la vendita, bellissimi di aspetto ed ancora pagani, esclamasse rammaricato: “…Non Angli, ma Angeli dovrebbero esser chiamati…”.  In meno di due anni diecimila Angli, compreso il re del Kent, Edelberto, si convertirono. Era questo un grande successo di Gregorio Magno, il primo della sua politica che mirava ad eliminare i naturali avversari della Chiesa e ad accrescere l’autorità del Papato con la conversione dei barbari.  Si dedicò con sollecitudine anche ai problemi dell’Italia provata da alluvioni, carestie, pestilenze, amministrando la cosa pubblica con puntigliosa equità, supplendo all’incuria dei funzionari imperiali. Organizzò la difesa di Roma minacciata da Agilulfo, re dei longobardi, coi quali poi riuscì a stabilire rapporti di buon vicinato e avviò la loro conversione. Ebbe cura degli acquedotti, favorì l’insediamento dei coloni eliminando ogni residuo di servitù della gleba.  Riorganizzò a fondo la liturgia romana, ordinando le fonti liturgiche anteriori e componendo nuovi testi, e promosse quel canto tipicamente liturgico che dal suo nome si chiama gregoriano. L’epistolario (ci sono pervenute 848 lettere) e le omelie al popolo ci documentano ampiamente sulla sua molteplice attività e dimostrano la sua grande familiarità con la Sacra Scrittura.  Morì il 12 marzo 604.

  • 14 Apr

    Io sono la vite vera

    Giovanni 15, 1-8


    Lectio

    Il contesto del capitolo 15 è l’insieme dei discorsi d’addio che occupano un quarto di questo vangelo (capp. 13-17). Il capitolo 15 segna una cesura nel racconto e appare come una ripresa (e un ulteriore sviluppo) dei temi presenti nei capitoli 13-14, forse con un accento più caldo; il nostro testo è occupato dalla similitudine della vite; prima esposta (1-6) e poi spiegata (7-17). Il testo di questa domenica dunque è strettamente unito a quello della prossimo (9-17).

    L’immagine della vite è di derivazione biblica (cfr. Is 5,1-7; 27,2-5; Ger 5,10; 12,10s; Ez 15,1-8; Sal 80), quasi sempre applicata ad Israele, tranne che in Ez 17,5-10 dove ci si riferisce al Messia. Ci sono altri testi interessanti con riferimento all’attività di coltivazione delle vigne, caratteristico del popolo ebraico, come Gn 9,20; Nm 13,23; Ct 1,14; 2,15; 8,12; 1Re 5,5; e anche nel N. T. abbiamo dei riferimenti come in Mt 21,33-43 e paralleli Mc 12,1-12; Lc 20,9-19 (cfr. Mt 20,1-16). All’interno di questo panorama possiamo accostare la pericope proposta per questa domenica, mantenendola in tensione con il tema della IV domenica e con i temi generali del testo giovanneo.

    1 Io sono la vite vera, e il Padre mio è l’agricoltore.

    Gesù si autorivela, notare la formula solenne io sono, come la vera (alethinè) vite e l’accento della frase cade su di lui, anche se nello stesso tempo si parla del Padre che è definito l’agricoltore, colui che si prende cura della vite (tema molto presente nell’A.T.). Ancora una volta al centro sta la persona di Gesù, vera vite; cogliamo qui, come nel capitolo 10 del buon pastore o al capitolo 6 con il vero pane, un sottinteso confronto tra Gesù e quanti l’hanno preceduto nella storia di Israele, in particolare coloro che dovevano esserne le guide.

    2 Ogni tralcio in me che non porta frutto, lo toglie, e ogni tralcio che porta frutto, lo monda affinché porti più frutto. 3 Voi siete già puri per la parola che vi ho detto.

    Con un riferimento al lavoro dei contadini Gesù ricorda che in un primo tempo è necessario tagliare i rami infruttuosi (marzo-aprile) e poi, in estate (agosto), potare o mondare i germogli superflui. A cosa si riferisce il portare frutto sarà chiarito dall’applicazione successiva (vv. 9-17); per il momento è introdotta l’idea dello stretto legame tra Gesù, la vite, e i discepoli, i tralci. I discepoli a cui Gesù sta parlando hanno già avuto modo di essere purificati (kathatoi’ con riferimento a 13,10) o potati attraverso la sua parola; il testo passa dall’esposizione della similitudine ad una prima tringata applicazione, il rapporto tra Gesù e i credenti. Infatti la parola entra in gioco nella relazione personale.

    4 Rimanete in me, e io in voi. Come il tralcio non può portar frutto da sé se non rimane nella vite, così neppure voi se non rimanete in me.

    Rimanete in me, è la parola chiave del nostro testo (ripetuta 8 volte in 4 versetti), ed ha un forte legame con la prima lettera di Giovanni dove pure ricorre spesso questa espressione. La formula di immanenza reciproca con cui si apre questo versetto è sorprendente e conferma che l’orizzonte del testo è l’Alleanza dell’A.T.; l’esortazione a rimanere è proposta sia in modo reciproco, come qui, sia in modo esortativo, rivolta ai discepoli, e questo crea il ritmo del nostro testo. Riprendendo il paragone con la vite Giovanni chiarisce il senso dell’imperativo iniziale: l’unità tra Gesù e i credenti è spiegata con questa immagine vegetale, in certo senso più forte di quella del pastore e del suo gregge, suggerendo un legame più vitale e intimo. Infatti benché Gesù e i discepoli siano chiaramente distinti, sono presentati da questa immagine come strettamente uniti, come i tralci esistono solo per e nella vite, che li porta (cfr. 1Gv 3,24).

    5 Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, questi porta molto frutto, poiché senza di me non potete far nulla.

    Con un richiamo al v. 1 Gesù definisce di nuovo se stesso come la vite e poi i discepoli come i tralci,

    indicando esplicitamente il suo rapporto personale e vitale con i credenti. L’affermazione finale di questo versetto è molto forte (possiamo coglierne un’eco nel testo di Paolo Fil 4,13: tutto posso in colui che mi dà forza); non si tratta di una negazione delle capacità umane, ma di sottolineare l’importanza per il discepolo di accogliere in sé l’attività stessa di Gesù e di permettere al suo amore, che si diffonde per sua stessa natura, di suscitare vita in lui. L’insistenza sul frutto da portare, si ricollega alla potatura dei vv. 2-3; ma di quale frutto sta parlando Gesù? Della fede del credente o della sua testimonianza? O dell’amore reciproco che è il tema del brano successivo del capitolo (cfr. vv. 9-17)? Viviamo in Cristo se abbiamo, o cerchiamo di avere, in un implacabile rinnovamento interiore, l’apertura universale dei figli di Dio. La linfa di Gesù alimenta un’umanità di uomini e donne forti e liberi che da lui hanno non solo una legge, ma un principio vitale di apertura e di comunione (cfr. G. Vannucci).

    6 Se uno non rimane in me, viene gettato fuori come il tralcio e si dissecca; e questi (tralci) si raccolgono e si gettano nel fuoco, e bruciano.

    Una nuova ripresa del tema nel v. 6 presenta una variante: la sorte dei tralci che non restano in Cristo è la morte (il fuoco, cfr. Ez 15,2-5; anche Mt 3,10 e paralleli; 25,41). La risposta personale del discepolo/tralcio non conosce vie intermedie: o si porta frutto o si muore. Questo versetto sembra fare riferimento ad un momento di fragilità e crisi della comunità giovannea, come nella sua prima lettera, (1Gv 5,16 parla del peccato che conduce alla morte). La prospettiva di questo versetto è universale e si può applicare ai credenti di tutti i tempi: quelli che rifiutano di credere in Gesù, nel Figlio, non sono innestati nella vite, l’invito a rimanere in Lui è rivolto a tutti.

    7 Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete, e vi sarà fatto.

    Abbiamo un rinvio al v. 3 dove pure si citavano le parole o parola di Gesù; e di nuovo l’invito a rimanere, nel senso della reciprocità come nei vv. 4.5; l’esaudimento della preghiera era stato anticipato il 14,13 (cfr. 16,23) dove pure si parla della gloria del Padre. Anche qui il soggetto attivo è, indirettamente, Dio Padre che esaudisce le preghiere rivolte a lui (cfr. Mt 18,19).

    8 In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

    La glorificazione di Dio avviene quando si compie il suo progetto di salvezza, quando si manifesta il suo amore e quindi quando i discepoli lo accolgono pienamente restando uniti a Gesù, il Figlio (cfr. Mt 5,16). Sorprende che Gesù dica diventiate, perché si rivolge a coloro che sono già suoi discepoli. Il senso del verbo greco gignomai indica in genere una trasformazione, ma qui significa mantenersi e manifestarsi come discepoli; la condizione di discepoli è infatti dinamica, si realizza nell’agire che a sua volta esprime la condizione di unità con Gesù. Il significato sacramentale del testo è solo secondario: sebbene il discorso sia inserito nel contesto dell’ultima cena e l’immagine della vite rimandi al vino e dunque al sangue di Gesù, il messaggio dell’evangelista non è diretto principalmente alla comunione eucaristica, ma all’inabitazione di Gesù nei suoi discepoli (X. Léon-Dufour).

     

    Meditatio

    – Cosa dice alla mia esperienza di comunione con Gesù l’immagine della vite proposta da questo testo evangelico?

    – Qual è il frutto che Gesù si attende dai suoi discepoli e da noi?

    – La comunità dei credenti e Cristo condividono la stessa vita come i tralci e la vite: quale idea di chiesa veicola questa immagine?

  • 13 Apr
    1. 2. LA VITA DIVINA

     

    1. a.   La vita della SS.ma Trinità partecipata all’uomo

    Se vita spirituale vuol dire presenza e attività dello Spirito santo nel nostro cuore, possiamo dire anche che possediamo la vita di Dio, la vita divina. In questo senso la teologia orientale parla di “divinizzazione dell’uomo”. La teologia  occidentale invece ha preferito parlare di “vita di grazia”. Sia l’uno che l’altro modo di dire ha i suoi vantaggi e incompletezze: il dono di grazia lascia intuire innumerevoli differenze da parte del donatore e del ricevente, vita divina apre alla dimensione trinitaria della vita spirituale. Come si riflette nella nostra vita questo sublime mistero divino? Secondo l’espressione di s. Cirillo d’A. “ogni bene discende da Dio Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo”. Al contrario, la nostra ascesa a Dio si realizza “nello Spirito santo, per mezzo del Figlio, al Padre”.

    1. b.   “In Cristo Gesù”

    Il riferimento della nostra vita spirituale è Cristo Gesù: in lui crediamo come il Figlio che rivela pienamente il volto del Padre (cfr Gv 1,18): lui via, verità e vita è l’unica porta che conduce al Padre (Gv 10,7). Non potrà esservi mai un’altra perfezione se non quella in Cristo e secondo Cristo. Dice s. Gregoria di Nazianzio: “Ogni fatto e ogni parola del salvatore è una regola di pietà”. E s. Giovanni Crisostomo: “sei cristiano per imitare Cristo e ubbidire ai suoi comandamenti”. Qui alcuni vorrebbero fare una distinzione tra “imitazione di Cristo” di impianto più morale e volontaristico e “vita in Cristo” dalla dimensione più misterica. Ma l’obiezione non è poi tanto profonda: chi vive in Cristo e possiede la sua grazia potrà imitarlo, ma anche colui che si sforza di seguire i suoi passi riceve la sua grazia. Scrive N. Cabasilas[1]: “Chi si è deciso a vivere in Cristo, dovrà naturalmente unirsi con il suo cuore e la sua testa; ciò senza l’unione della volontà sarebbe impossibile”. Vivere in Cristo e imitarlo significa lasciarci plasmare da Lui: avere la “mente di Cristo” direbbe Paolo apostolo. Dobbiamo saperci porre delle questioni e risolvere i problemi della vita in quest’ottica: “Cosa farebbe Cristo, o che cosa mi consiglierebbe, in questa situazione?”. Per questo non basta leggere il Vangelo: bisogna cominciare a viverlo. L’asse della nostra vita cristiana deve essere: vedere Cristo in tutto e tutti, e considerare tutti gli avvenimenti della vita come tappe di un cammino incontro a lui. In questo senso il nostro impegno sarà quello di imparare a conoscere sempre più Cristo per poterlo amare, e più lo ameremo più lo conosceremo.

    1. c.   Ad immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,27)

    Già Platone diceva che lo scopo della vita è imitare Dio a seconda di quanto sia possibile alle nostre forze. È logico. Chi cerca la bellezza, cerca di avvicinarsi a ciò che è bello, chi ama il bene, cerca solo ciò che è buono. Ma questo non è un ideale facilmente raggiungibile. Come potrebbe un uomo “imitare” Dio? Eppure, dicono i padri, questo è realizzabile per il fatto che Dio dipinse la sua prima immagine in Gesù Cristo, il quale è “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15). Essi leggendo il testo della genesi: “Facciamo l’uomo secondo la nostra immagine e somiglianza” conclusero: la prima e perfetta immagine di Dio è Cristo, l’uomo è stato creato secondo la sua immagine”. Sempre la teologia orientale distingue l’immagine che riceviamo nel momento del nostro battesimo, che paragonano ad uno “schizzo” iniziale, dalla “somiglianza” cui si perviene con lo sforzo di tutta la vita di perfezionare l’immagine stessa. Quanto più una persona e riempita dallo Spirito più rassomiglia a Dio. In slavo la parola “santo” (“prepodobnyi”) significa “simile a Dio”. Maria santissima è la “similissima”. Secondo san Gregorio Magno la santità è l’immagine di Dio impressa nell’animo umano, come un sigillo nella cera, con la forza dello spirito e così “un uomo terreno diviene celeste”. Il peccato insudicia l’immagine di Dio, la deturpa e la maschera con l’immagine della Bestia. La penitenza lava, pulisce l’immagine, la restaura; le virtù la abbelliscono.

    1. d.   La beatitudine perfetta e la salvezza dell’anima

    Le filosofie antiche consideravano la beatitudine il fine della vita. Anche la fede cristiana è d’accordo sul fatto che la perfezione conduce alla beatitudine, alla pace, alla contentezza, non solo nell’eternità, ma in qualche misura sin da ora. La fede cristiana di questo è convinta in quanto crede in un Dio che ha liberato l’uomo dal male, dal peccato e dalla morte. Dunque solo in  Dio l’uomo troverà autentica beatitudine: “Ci hai creati per te – scrive Agostino – e il nostro cuore non ha pace fino a ché non troverà riposo in te”. A livello di linguaggio ciò che noi definiamo “beatitudine”, nella scrittura è detta “salvezza”. Salvezza promessa nell’AT, e attuata nel NT: “è apparsa la grazia del nostro Salvatore” (Tt 2,11). Che differenza c’è tra salvezza e beatitudine? La felicità denota piuttosto uno stato psicologico, la circostanza per cui si sta bene. La salvezza (soteria): significa pienezza globale di vita in tutte le sue dimensioni. Esprime perciò uno stato ontologico non solo psicologico. Possedere la grazia di Dio è sperimentare la salvezza, ovvero la vita piena e dunque anche la gioia.

    1. e.   Vita eterna

    La vita ascetica – scrive san Basilio – non ha altro scopo che quello di salvare l’anima”. Il termine anima ha nella s. Scrittura, un senso primitivo, completo, senza determinazioni psicologiche: l’anima è il principio della vita stessa.

    Il termine “vita eterna” può essere inteso in doppio senso:

    1. Escatologico ovvero la vita eterna dopo la morte
    2. Più che di vita eterna come durata dovremmo parlare di “vita divina” di cui l’eternità è una componente.

    In questo senso la vita eterna/divina iniziamo già a viverla ora. La portiamo dentro di noi come un seme che già spunta, ma che deve crescere per poi sbocciare nell’eternità di Dio. Potremmo definire la vita eterna/divina come “vita nuova”. Di cui il principio è lo Spirito vivificante.

    Correlate sono anche altre immagini:

    –       Ricompensa eterna: non sembra piacere molto perché sa di mercantilismo, tuttavia la Scrittura promette una ricompensa a chi condurrà una retta via. Fa bene quindi il cristiano che aspetta da Dio la sua ricompensa.

    –       Osservanza dei comandamenti: ovvero una vita moralmente evangelica vissuta in quanto buona in se stessa al di là della ricompensa. Anche questa è buona (Gv 14,15).

    –       Altri invece sperimentando la loro debolezza e incapacità di vivere i comandamenti sanno che se Dio dovesse ricompensarli per i loro meriti finirebbero male. Mettono quindi tutta la loro fiducia nella misericordia di Dio. Anche questo è buono, basta che non si vive così per superficialità e disimpegno.

    La “vita nuova, la vita in Cristo, la vita nello Spirito, assume tutte queste sfaccettature. Comporta l’atteggiamento morale, sa speranza della ricompensa, la fiducia nella misericordia divina ed altre disposizioni interiori che sono riflessi della “multiforme sapienza di Dio”. San Cirillo d’A.[2] paragona la forza vivificante dello Spirito all’acqua che nel giglio diviene bianca, nella rosa purpurea, nella viola violacea. Così anche la vista spirituale si manifesta esteriormente, nelle diverse persone, sotto diversi aspetti.

    1. f.     La vita secondo la natura

    Spesso la gente scusa le proprie debolezze dicendo: “E’ la natura!”. Ma è davvero essa? Se gli uomini vivessero secondo la primigenia natura uscita dalle mani di Dio nel mondo non ci sarebbe peccato, dice Dante nella Divina Commedia. Il termine “natura” ha la stessa radice del verbo “nascere”. Dio ha dato all’uomo la vita divina, la carità, la fede e tutte le virtù. Così egli è nato, quindi tale è la sua vera natura (natura integra). In questo senso il peccato, le passioni sono “contro natura”. Tuttavia in occidente il termine “natura” non ha conservato il suo significato originale. I teologi hanno distinto ciò che è relativo alla nostra struttura umana da ciò che è divino. Perciò chiamarono l’intelletto, la volontà e i sentimenti, doni “naturali”, mentre la grazia è “soprannaturale”. Carità, fede e speranza sono perciò doni soprannaturali. L’uomo da solo non potrebbe possederli perché non appartengono alla “pura natura”. Concludendo teniamo conto della effettiva realtà dell’uomo come ci è stata rivelata. Riconosciamo che dopo il peccato la natura umana è stata corrotta. L’intelletto si è ottenebrato, la volontà è divenuta debole e tendente al male, le passioni hanno invaso il cuore. Lo stato effettivo dell’uomo è questo: tale è la nostra “natura corrotta e decaduta”. E questa “carne” lotta continuamente contro lo “Spirito”.

    1. g.   Errori nel comprendere la vita spirituale

    Gli errori nella vita spirituale si verificano quando dimenticando il tutto si accentua indebitamente un aspetto. La perfetta vita spirituale è una collaborazione armoniosa di tutti i componenti della nostra persona: il corpo, l’anima, lo spirito, la dimensione sociale, culturale. Tutto deve essere al suo posto e nella giusta misura. L’accentuazione unilaterale di uno o dell’altro componente conduce ad errori. Ne elenchiamo alcuni.

    1. Materialismo:  non possiamo accettare la teoria secondo la quale l’attività dell’anima, spirituale non è altro che il risultato delle condizioni materiali. Questo condizionamento è indegno dell’uomo libero. Tuttavia occorre riconoscere una componente materiale anche nella vita spirituale, purché non sia negata la precedenza dell’anima e il privilegio della libertà umana.
    2. Psicologismo: una certa psicologia vorrebbe dimostrare come la spiritualità dell’uomo vada a ricercarsi nei meccanismi della nostra psicologia risolvendosi in alla fin fine ad essa, anzi in funzione di essa. Certo la vita spirituale usa anche gli strumenti della psicologia e può essere aiutata in certa misura dai suoi supporti (soprattutto in caso di nevrosi e psicosi). Ma questa visione è limitata perché nega la presenza e l’azione di un terzo: lo Spirito di Dio. Chi conosce le profondità del nostro cuore in verità e solo Dio: la psicologia può solo aiutare a leggere ed eliminare alcuni condizionamenti che possono limitare la sua azione.
    3. Razionalismo: Alcuni credono che il cristianesimo non sia altro che uno dei grandi programmi, dei sistemi di verità, di filosofia di vita. Si coglie la dimensione etica del cristianesimo e nulla più (e per la maggior parte sino ad un certo punto!). Ma la fede cristiana non si risolve anzitutto in una dottrina religiosa, la sua pienezza e significato risiede nella carne di Cristo vero Dio e vero Uomo, nella sua stessa vita comunicata a noi dallo Spirito. Soloviev accusò Tolstoy di essere una sorta di Anticristo a causa della sua erronea concezione del cristianesimo come una raccolta di ottimi consigli di vita morale. Da questo versante d’altronde il cristianesimo non sarebbe neppure così nuovo. Sant’Ireneo[3] affermò che: Cristo portò “tutta la novità” perché “portò se stesso”.
    4. Volontarismo: La volontà certamente occorre nella vita spirituale. Agostino dice: “Dio ti ha creato senza di te ma senza di te non ti salverà”. Tuttavia occorre tener presente che la sola volontà non basta. Questo era l’errore del pelagianesimo[4]. Neppure la perfezione cristiana deve essere stimata e valutata solo secondo l’efficacia, soprattutto esteriore.
    5. Moralismo: Una forte volontà aiuta ad osservare i comandamenti e le varie prescrizioni. Certo l’osservanza dei comandamenti santifica. Ma il fatto che Gesù durante la sua vita si sia opposto al fariseismo dimostra che l’osservanza esteriore delle leggi può essere benissimo una maschera che copre altri valori che alla fin fine sono più importanti. Soprattutto l’osservanza fine a se stessa può illudere ad una falsa giustizia che nasconde la pretesa di fare a meno della grazia di Dio.
    6. Sentimentalismo: L’azione dello Spirito purifica non solo il cuore ma anche le nostre facoltà, dunque anche i sentimenti. Esso provoca gioia, consolazione, pace… Gli autori spirituali si ponevano la domanda se questi stati siano o meno necessari e, quando avvengono, se siano segno infallibile della presenza dello Spirito. Come giudicare lo stato di un uomo che non li possiede e che al contrario si sente desolato, tentato, disgustato di tutto? Bisogna evitare errori come nel messalianesimo[5] nel quale si affermava che si possiede la grazia solo quando la si avverte e che desolazione e inquietudine sono frutto di peccato. In realtà bisogna affermare che non si può misurare la grazia secondo i sentimenti che si avvertono (cfr le aridità), anche se normalmente la presenza dello Spirito porta con sé la pace e la gioia. Quando vi sono accogliamo con riconoscenza tali doni senza però che essi costituiscano il fine della vita spirituale. Diceva s. Francesco di Sales[6] che: “bisogna cercare il Dio delle consolazioni e non le consolazioni di Dio”.
    7. Spiritualismo: La vita spirituale è vita nello Spirito santo. Questi “spiritualizza” tutta la nostra persona. In questo senso riceve un vero senso tutto ciò che viene disperezzato dallo “spiritualismo” esasperato, ovvero la normale umile vita di ogni giorno, le sue preoccupazioni, le attività quotidiane. La realtà terrena è il luogo dove già si costruisce la “Gerusalemme celeste” verso la quale tutti tendiamo. Spiritualismo è ricerca del sovrannaturale ad ogni costo, miracoli, apparizioni tralasciando quelli che sono i mezzi ordinari attraverso la quale entra in noi la grazia. Spiritualismo era il difetto della corrente quietista[7] che ricercava ad ogni costo la grazia presente nel cuore a prescindere dall’attività umana. Dimenticava però che Dio è “attività pura”, perciò anche la vita divina nel cuore non deve soffocare l’attività umana, ma al contrario, la stimola. La vita spirituale non deve portare alla passività e all’inerzia.
    1. Sociologismo: alcuni sostengono che la vera esperienza cristiana deve giocarsi a livello di impegno sociale e politico. Certamente la Chiesa non può e non deve tenersi lontana dalla vita pubblica, sociale e culturale. Tuttavia non bisogna dimenticare le parole di Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36). Il Vangelo non deve essere ridotto a un semplice programma sociale (cfr teologia della liberazione).Ui u

     


    [1] Nicola Cabasilas nasce tra il 1320 e il 1322 a Tessalonica (Salonicco), in un’epoca di intensa attività culturale. Dall’epistolario giovanile e dalle testimonianze contemporanee egli appare come un fervido umanista. Compie brillanti studi classici, letterari e filosofici; si lega d’amicizia con Demetrio Cidone, suo compatriota e cancelliere degli imperatori, convertito alla Chiesa romana, il quale gli fa conoscere le opere di Tommaso d’Aquino; è coinvolto nella guerra civile del 1341 a Tessalonica. Divenne monaco forse negli ultimi anni. Le ultime menzioni di Cabasilas vivente si hanno in due lettere del 1391. Nella sua vasta opera filosofica, agiografica e teologica emergono la “Vita in Cristo”, in sette libri e il “Commento della divina liturgia.”

    [2] Fu patriarca di Alessandria e teologo, coinvolto nelle dispute cristologiche della sua epoca. Si oppose a Nestorio durante il concilio di Efeso del 431 (del quale fu la figura centrale). In tale ambito, per contrastare le tesi di Nestorio che negava la maternità divina di Maria, sviluppò una teoria dell’Incarnazione, che gli valse il titolo di doctor Incarnationis e che è considerata ancora valida dai teologi cristiani contemporanei. Perseguitò i novaziani, gli ebrei e i pagani, sino a quasi annientarne la presenza nella città. Divenuto vescovo e patriarca di Alessandria nel 412, secondo lo storico Socrate Scolastico acquistò «molto più potere di quanto ne avesse avuto il suo predecessore» e il suo episcopato «andò oltre i limiti delle sue funzioni sacerdotali». Cirillo giunse a svolgere anche un ruolo dalla forte connotazione politica e sociale nell’Egitto greco-romano di quel tempo. Le sue azioni sembrano essersi ispirate al criterio della difesa dell’ortodossia cristiana a ogni costo: espulse gli ebrei dalla città; chiuse le chiese dei novaziani, confiscandone il vasellame sacro e spogliando il loro vescovo Teopempto di tutti i suoi possedimenti; ed entrò in grave conflitto con il prefetto imperiale Oreste.

    [3] Nato a Smirne in Asia Minore, cresciuto in una famiglia già cristiana, ricevette alla scuola di Policarpo vescovo di Smirne (discepolo dell’apostolo Giovanni), di Papia, di Melitone di Sardi ed altri, una buona formazione, religiosa, filosofica e teologica. Fu vescovo della città di Lugdunum (attuale Lione) dal 177, in seguito alla morte, per martirio sotto Marco Aurelio, del primo vescovo della città san Potino, insieme ad altri 47 martiri. Fu anche inviato a Roma presso papa Eleuterio per dirimere questioni di ordine dottrinale. Secondo la tradizione della Chiesa fu martire a sua volta, anche se scarse sono le notizie storiche sulla sua vita e morte. Venne sepolto nella chiesa di San Giovanni, che più tardi venne chiamata di Sant’Ireneo. La sua tomba e i suoi resti vennero distrutti nel 1562 dagli Ugonotti durante le guerre di religione. Il suo pensiero e le sue opere furono direttamente influenzati da Policarpo, che fu a suo tempo discepolo diretto di Giovanni Evangelista. Essi sono una testimonianza della tradizione apostolica, a quei tempi impegnata contro il proliferare di varie eresie, in particolare lo gnosticismo di cui Ireneo fu un forte oppositore. Delle sue opere ci sono pervenute per intero:- Adversus haereses (in 5 libri, Contro le eresie): testo in latino che tenta di confutare le principali espressioni dello gnosticismo. In sintesi, l’interesse del Vescovo era quello di confutare l’esistenza di due Cristi, uno di natura divina e l’altro di natura umana originati da due diversi eoni, idea questa molto cara alla gnosi. Di conseguenza, Ireneo di Lione insisterà sull’unicità ed unità della figura del Cristo.
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    Demonstratio apostolicae praedicationis (Dimostrazione della predicazione apostolica), sintetica e precisa esposizione in armeno della dottrina cattolica. oltre a diversi frammenti, nelle edizioni moderne in genere pubblicati in appendice alle stesse. I curatori italiani delle sue opere sono Vittorino Dellagiacoma, Ubaldo Faldati, Ermanno M. Toniolo, Enzo Bellini, Elio Peretto, Giorgio Maschio o Augusto Cosentino. Uno dei suoi discepoli più noti è Ippolito di Roma.

    [4] Il Pelagianesimo è una teologia cristiana che prende il nome da Pelagio, che ne è considerato il fondatore, sebbene, ad un certo punto della sua vita, negasse molte delle dottrine legate al suo nome. Il cuore del Pelagianesimo è la credenza che il peccato originale non macchiò la natura umana e che la volontà dell’essere umano è ancora in grado di scegliere il bene o il male senza uno speciale aiuto divino; la conseguenza è che il peccato di Adamo fu quello di portare un “cattivo esempio” alla sua progenie, ma le sue azioni non hanno altra conseguenza. Nel Pelagianesimo, il ruolo di Gesù è quello di presentare un “buon esempio” in grado di bilanciare quello di Adamo e di fornire l’espiazione per i peccati degli esseri umani. L’umanità ha dunque la possibilità di obbedire ai vangeli e dunque la responsabilità piena per i peccati; i peccatori non sono vittime, ma criminali che hanno bisogno dell’espiazione di Gesù e di perdono. Le teorie pelagiane furono combattute da Agostino d’Ippona e furono definitivamente condannate come eretiche nel Concilio di Efeso del 431. Ciononostante continuò per un certo periodo ad avere influenza in ambito ecclesiastico.

    [5] Fu una setta eretica del IV secolo, che credeva che, in seguito al peccato originale d’Adamo, ognuno avesse un demone unito alla propria anima e che esso non fosse stato espulso con il battesimo: l’unica maniera di espellerlo era la continua ed incessante preghiera con lo scopo di eliminare ogni passione e desiderio. Il nome messaliani, infatti, deriva dall’aramaico mètzalin = preganti, e la stessa etimologia aveva la versione greca del loro nome, euchiti da euchetai. Comparvero intorno al 360 in Mesopotamia, come setta fondata da un certo Adelfio (da cui il nome adelfiani), espulso da Antiochia nel 376 dal vescovo Flaviano e autore del testo base della setta, Asceticus. Un’ulteriore condanna fu loro inflitta dal sinodo di Side del 390 ca. e dal concilio di Efeso del 431(dove venne condannato il loro libro Asceticus).  Eppure la setta continuò ad esistere: alla metà del V secolo, il loro capo era il prete Lampezio (da cui un’ennesima versione del loro nome), il quale scrisse un loro nuovo testo, chiamato Il testamento. In Armenia la setta, pur combattuta anche dalla Chiesa Nestoriana, continuò a prosperare fino al IX secolo. I m. influenzarono alcune eresie medievali come i pauliciani, i bogomilie i fratelli del Libero Spirito. Essi, come si diceva, consideravano inutili i sacramenti e la mediazione della Chiesa, praticando invece la preghiera incessante e la danza estatica, durante le quali erano posseduti dallo Spirito Santo (da cui, letteralmente, il nome di entusiasti, cioè “posseduti da Dio”), si rifiutavano di lavorare, vivendo nelle piazze e vagando da una città all’altra e prendendo, secondo loro, ad esempio la vita itinerante di Gesù e gli apostoli. Secondo Sant’Epifanio, esisteva, infine, un’altra setta molto simile, non cristiana, ma che adorava un unico Dio onnipotente. I seguaci di questa setta erano chiamati anche eufemiti e furono considerati i precursori dei messaliani, con i quali furono spesso confusi.

    [6] Francesco fu il figlio primogenito del signore di Boisy, nobile di antica famiglia savoiarda e ricevette una raffinata educazione. Il padre, che voleva per lui una carriera giuridica, lo mandò all’Università di Padova, dove Francesco si laureò, ma dove decise di divenire sacerdote. Ordinato il 18 dicembre 1593, fu inviato nella regione del Chiablese, dominata dal Calvinismo, e si dedicò soprattutto alla predicazione, prediligendo il metodo del dialogo: inventò i cosiddetti «manifesti», che permettevano di raggiungere anche i fedeli più lontani. San Francesco di Sales, vescovo di Ginevra e dottore della Chiesa, è il più importante e celebre santo della Savoia. È stato proclamato santo nel 1665 da papa Alessandro VII ed è uno dei Dottori della Chiesa.Fu un grande scrittore di testi di dottrina spirituale tra i quali occorre ricordare: “Filoteo, ovvero trattato della vita devota”.

    [7] Il quietismo è una dottrina mistica, che ha lo scopo di indicare la strada verso Dio e la perfezione cristiana, consistente in uno stato di quiete passiva e fiduciosa dell’anima. Attraverso uno stato continuo di quiete e di unione in Dio, l’anima raggiunge una specie di indifferenza mistica, fino ad arrivare a negare le pratiche e le liturgie comuni della religione tradizionale. Opposto ad ogni forma di spiritualismo, il quietismo appare come una reazione al giansenismo, dal momento che l’itinerario mistico proposto rende Dio più accessibile all’anima umana, lontano dai rigorismi e dalle dure ascesi giansenistiche. La dottrina quietista nasce in Italia alla fine del XVII secolo grazie ad un teologo spagnolo, Miguel Molinos, e alla sua opera principale, la Guida Spirituale (1675). Essa è condannata dal papa Innocenzo XI con la bolla Caelestis Pastor del 20 novembre 1687. Le idee quietiste, combattute aspramente dal Bossuet, riprendono vigore in Francia con Madame Jeanne Guyon e la sua opera Moyen court et très facile de faire oraison (1685). Nel dibattito teologico si inserisce anche Fénelon con la sua opera Explications des maximes des saints sur la vie intérieure. Il 12 marzo 1699 papa Innocenzo XII, con il breve Cum alias, condannava 23 tesi tratte dall’opera di Fénelon.

     

  • 11 Apr

    Starec Silvano dell’Athos

    LA PACE

     Che fare per conoscere la pace nel proprio cuore e nel proprio corpo? Bisogna amare tutti gli uomini come se stessi ed essere pronti a morire in ogni istante. Se pensi alla morte, diventi umile, ti lasci guidare interamente da Dio, desideri essere in pace con tutti e amare tutti. Quando la pace di Cristo entra in te, ti rallegri di essere come Giobbe, seduto sulla spazzatura (cf. Gb 2,8). Gli altri conoscono gli onori, tu invece sei lieto di essere il più maltrattato. L’umiltà di Cristo è una grande cosa, così misteriosa che non si può spiegarla agli altri. Nel tuo amore, ti auguri il bene degli altri più del tuo. Sei felice quando vedi gli altri star meglio di te e sei triste quando vedi gli altri soffrire (cf. Rm 12,15).

    Ogni uomo desidera la pace, ma non sa come ottenerla. Un giorno abba Paissios cadde in preda all’ira e invocò il Signore: “Ti prego, liberami dall’ira!”. Il Signore gli apparve e gli disse: “Paissios, se non vuoi adirarti, non desiderare nulla, non giudicare il fratello, non detestare nessuno: così non sarai più preda dell’ira”. Così è infatti: chi rinuncia alla volontà propria per seguire quella di Dio e degli altri avrà sempre la pace nel cuore. Chi invece obbliga gli altri a fare ciò che vuole, non conoscerà mai la pace.

    Se qualcosa ti rattrista, pensa: “Il Signore conosce il mio cuore: se questa è la sua volontà, tutto concorrerà al bene mio e degli altri” (cf. Rm 8,28). Così dimorerai sempre nella pace. Se invece cominci a lamentarti e a dire: “Questo non va, non è cosa buona”, allora, per quanto tu digiuni e preghi, il tuo cuore non conoscerà mai la pace.

    Vuoi custodire la pace nel cuore? Vigila sul tuo spirito: custodisci i pensieri graditi a Dio e allontana quelli malvagi. Presta attenzione a quanto avviene nel tuo cuore. Chiediti sempre se il tuo cuore è in pace. Se non lo è, chiediti cosa hai fatto di male. Sii sobrio perché il tuo cuore dimori in pace: infatti la pace si perde anche per colpa del corpo.

    A volte succede di parlare male di qualcuno che non si conosce e che è un amico di Dio. Preòccupati solo di ciò che riguarda te, di quanto ti viene ordinato dall’igumeno o dal padre spirituale. Allora il Signore ti darà la sua forza perché tu possa obbedire, e sentirai in te i frutti dell’obbedienza: la pace e la preghiera continua. Vivendo in comunità perdiamo la pace di Dio perché non abbiamo imparato ad amare il fratello come ci chiede il Signore. Per esempio: tuo fratello ti insulta e tu lasci che l’ira s’impadronisca del tuo cuore. Lo giudichi e arrivi a detestarlo: allora senti che l’amore ti abbandona e non hai più la pace. Se vuoi avere la pace del cuore, prendi l’abitudine di amare chi ti fa del male e di pregare subito per lui (cf. Mt 5,44). Vuoi la pace del cuore? Chiedi con tutte le forze al Signore: “Concedimi di amare tutti gli uomini”.

    Il Signore sa che se non amiamo i nostri nemici non avremo mai la pace del cuore. Per questo ci ha lasciato il comandamento di amare i nemici (cf. Mt 5,44). Se non amiamo i nemici, avremo magari dei momenti di calma, ma non potrà durare. Se invece li amiamo, la pace resterà nel nostro cuore, giorno e notte. Quando lo Spirito ti concede la pace, guarda di non perderla occupandoti di cose senza importanza. Se dai la pace al fratello, il Signore te ne darà ancora di più. Ma se fai soffrire tuo fratello, la tristezza si impadronirà anche di te.

    Per conoscere la pace, medita la legge del Signore, giorno e notte (cf. Sal 1,2). È lo Spirito che ha scritto questa legge, e lo Spirito passerà dalla sacra Scrittura al tuo cuore. Proverai allora una dolcezza così grande che non sentirai più alcun gusto per le cose materiali. Se ami i beni terreni, il tuo cuore si svuota, tu diventi triste, indurito e non hai più voglia di pregare. L’avversario vede che non dimori più in Dio, ti attacca e semina liberamente nel tuo spirito ciò che vuole (cf. Lc 11,24‑25). Ti suggerisce un pensiero dopo l’altro e così tu passi tutta la giornata senza quiete e non riesci a contemplare Dio con cuore puro. Se un pensiero impuro ti si affaccia alla mente, caccialo immediatamente: così conserverai la pace del cuore. Se invece lo accogli, perderai l’amore di Dio e non potrai più pregare con fiducia.

    Quando perdi la pace?

    Quando pensi, anche per un attimo,

    di aver fatto qualcosa di buono;

    quando ti credi migliore del fratello;

    quando giudichi qualcuno (cf. Mt 7,1‑5);

    quando rimproveri senza dolcezza

    e senza amore;

    quando mangi molto;

    quando preghi senza zelo.

    Se perdi la pace, piangi i tuoi peccati e il Signore te li perdonerà. La gioia e la pace prenderanno nuovamente dimora nel tuo cuore e sentirai lo Spirito stesso dirti: “Ti sono perdonati i tuoi peccati!” (Lc 7,48). Non hai bisogno di altri testimoni: l’odio per il tuo peccato è la prova che il Signore l’ha perdonato.

    Come può conservare la pace un igumeno se i fratelli non gli obbediscono? È faticoso per lui, ed è motivo di sofferenza (cf. Eb 13,17). Per conservare la pace deve pensare: “Questi fratelli non mi obbediscono, ma il Signore li ama ugualmente: ha sofferto fino alla morte per la loro salvezza. Allora io devo pregare per loro con tutte le mie forze”. Il Signore concederà poi la pace a colui che prega. Tu sai per esperienza che chi prega si accosta a Dio con fiducia e amore, eppure anche tu sei un uomo peccatore. Ma il Signore ti farà gustare i frutti della preghiera. Prendi l’abitudine di pregare così per coloro che ti sono affidati da Dio: la tua anima conoscerà una pace profonda e un grande amore.

    Se sei responsabile degli altri e devi giudicare qualcuno per le sue cattive azioni, prega prima il Signore: “Donami un cuore pieno di bontà” (cf. 1Re 3,9‑12). Il Signore ama un cuore così. Allora potrai giudicare con giustizia. Se invece giudichi considerando solo le azioni, sicuramente ti sbaglierai e non sarai gradito al Signore.

    Un fratello può conservare la pace quando ha un igumeno violento e malvagio? Chi si adira con frequenza soffre molto anche lui: è abitato da uno spirito malvagio e soffre a motivo del proprio orgoglio. Devi essere cosciente di questo e pregare molto per il tuo igumeno che soffre di questo male. Il Signore vede la tua pazienza: perdonerà i tuoi peccati e ti concederà la preghiera ininterrotta.

    Pregare per quanti ci odiano e ci fanno soffrire è un’azione molto bella agli occhi di Dio. Il Signore allora ti darà la sua forza, giungerai alla sua conoscenza nello Spirito santo e, nel suo nome, sopporterai ogni dolore con gioia.

    Su questa terra siamo tutti inquieti e cerchiamo di essere liberi. Ma che cos’è la libertà? E come diventare liberi? Pochi lo sanno. Anch’io anelo alla libertà e la cerco giorno e notte. Io so che è presso Dio. Dio fa dono della libertà a chi ha il cuore umile e piange i propri peccati. Costui non desidera più fare ciò che gli piace, ma ciò che piace a Dio. Quando uno piange i propri peccati, il Signore gli concede la sua pace e lo rende libero di amare. Non c’è nulla di meglio al mondo che amare Dio e gli altri.

    Il Signore non vuole la morte del peccatore (cf. Ez 33,11). Quando questi piange le proprie colpe, il Signore gli dà la forza dello Spirito santo. Questa forza produce la pace e l’uomo è libero di essere in Dio con lo spirito e con il cuore. Quando lo Spirito santo perdona i nostri peccati, ci dà la libertà di pregare Dio con uno spirito puro. Allora contempliamo Dio liberamente e in lui troviamo la pace e la gioia. Questo significa essere veramente liberi. Ma senza Dio non si può essere liberi.

  • 10 Apr

    Evagrio Pontico

    ANTIRRHETIKOS

    GLI OTTO SPIRITI MALVAGI

    Capitolo 1

    La gola

     L’origine del frutto è il fiore e l’origine della vita attiva è la temperanza chi domina il proprio stomaco fa diminuire le passioni, al contrario chi è soggiogato dai cibi accresce i piaceri. Come Amalec è l’origine dei popoli così la gola lo è delle passioni. Come la legna è alimento del fuoco così i cibi sono alimento dello stomaco. Molta legna anima una grande fiamma e un’abbondanza di cibarie nutre la cupidigia. La fiamma si estingue quando viene meno la legna e la penuria di cibo spegne la cupidigia. Colui che ha potere sulla mascella sbaraglia gli stranieri e scioglie facilmente i vincoli delle proprie mani. Dalla mascella gettata via sgorga una fonte d’acqua e la liberazione dalla gola genera la pratica della contemplazione. Il palo della tenda, irrompendo, uccise la mascella nemica ed il lògos della temperanza uccide la passione. Il desiderio di cibo genera disobbedienza e una dilettosa degustazione caccia dal paradiso. Saziano la strozza i cibi fastosi e nutrono l’insonne verme dell’intemperanza. Un ventre indigente prepara ad una preghiera vigile, al contrario un ventre ben pieno invita ad un lungo sonno. Una mente sobria si raggiunge con una dieta molto scarna, mentre una vita piena di mollezze tuffa la mente nell’abisso. La preghiera del digiunatore è come il pulcino che vola più alto dell’aquila mentre quella del crapulone è avvolta nelle tenebre. La nube nasconde i raggi del sole e la grassa digestione dei cibi offusca la mente.

    Capitolo 2

    Uno specchio sporco non riflette distintamente la forma che gli si pone di fronte e l’intelletto, ottuso dalla sazietà, non accoglie la conoscenza di Dio. Una terra incolta genera spine e da una mente corrotta dalla gola germogliano cattivi pensieri. Come il brago non può emanare fragranza neppure nel goloso sentiamo il soave profumo della contemplazione. L’occhio del goloso scruta con curiosità i banchetti, mentre lo sguardo del temperante osserva i simposi dei saggi. L’anima del goloso enumera i ricordi dei martiri, mentre quella del temperante imita il loro esempio. Il soldato vigliacco rabbrividisce al suono della tromba che preannuncia la battaglia, ugualmente trema il goloso di fronte ai proclami di temperanza. Il monaco goloso, sottomesso a sferzate dal proprio stomaco, esige il suo tributo giornaliero. Il viandante che cammina di buona lena raggiungerà presto la città e il monaco temperante arriverà presto ad uno stato di pace; il viandante lento si fermerà solo, all’aperto, ed il monaco ghiottone non raggiungerà la casa dell’apàtheia. L’umido vapore del suffumigio profuma l’aria, come la preghiera del temperante delizia l’olfatto divino. Se ti concedi al desiderio dei cibi nulla più ti basterà per soddisfare il tuo piacere: il desiderio dei cibi, infatti, è come il fuoco che sempre accoglie e sempre avvampa. Una misura sufficiente riempie il vaso mentre un ventre sfondato non dirà mai: «basta!». L’estensione delle mani mise in fuga Amalec e una vita attiva elevata sottomette le passioni carnali.

    Capitolo 3

    Stermina tutto ciò che ti ispirano i vizi e mortifica fortemente la tua carne. In qualunque modo, infatti, sia ucciso il nemico, esso non ti incuterà più paura, così un corpo mortificato non turberà l’anima. Un cadavere non avverte il dolore del fuoco e tantomeno il temperante sente il piacere del desiderio estinto. Se percuoti un egiziano, nascondilo sotto la sabbia, e non ingrassare il corpo per una passione vinta: come infatti nella terra grassa germina ciò che è nascosto così nel corpo grasso rivive la passione. La fiamma che illanguidisce si riaccende se viene aggiunta della legna secca e il piacere che si va attenuando rivive nella sazietà dei cibi; non compiangere il corpo che si lagna per lo sfinimento e non rimpinzarlo con pranzi sontuosi: se infatti lo rinforzerai ti si rivolterà contro muovendoti una guerra senza tregua, finché renderà schiava la tua anima e ti menerà servo della lussuria. Il corpo indigente è come un docile cavallo e mai disarcionerà il cavaliere: questo, infatti, costretto dal freno, arretra e obbedisce alla mano di chi tiene le briglie, mentre il corpo, domato dalla fame e dalle veglie, non recalcitra per un cattivo pensiero che lo cavalca ne nitrisce eccitato dall’impeto delle passioni.

    Capitolo 4

    La lussuria

    La temperanza genera l’assennatezza, mentre la gola è madre della sfrenatezza; l’olio alimenta il lume della lucerna e la frequentazione delle donne attizza la fiaccola del piacere. La violenza dei flutti infuria contro il mercantile mal zavorrato come il pensiero della lussuria sulla mente intemperante. La lussuria accoglierà come alleata la sazietà, la congederà, starà con gli avversari e combatterà alla fine con i nemici. Rimane invulnerabile alle frecce nemiche colui che ama la tranquillità, chi invece si mescola alla folla riceve in continuazione percosse. Vedere una femmina è come un dardo velenoso, ferisce l’anima, vi intrude il tossico e quanto più perdura, tanto più alligna la sepsi. Chi intende difendersi da queste frecce sta lontano dalle affollate riunioni pubbliche e non gironzola a bocca aperta nei giorni di festa; è infatti assai meglio starsene a casa passando il tempo a pregare piuttosto che compiere l’opera del nemico credendo di onorare le feste. Evita la dimestichezza con le donne se desideri essere saggio e non dar loro la libertà di parlare e neppure fiducia. Infatti all’inizio hanno o simulano una certa cautela, ma in seguito osano di tutto spudoratamente: al primo abboccamento tengono gli occhi bassi, pigolano dolcemente, piangono commosse, l’atteggiamento è grave, sospirano con amarezza, pongono domande sulla castità e ascoltano attentamente; le vedi una seconda volta e alzano un poco il capo; la terza volta si avvicinano senza troppo pudore; hai sorriso e quelle si sono messe a ridere sguaiatamente; in seguito si fanno belle e ti si mostrano con ostentazione, cambia il loro sguardo annunciando l’ardenza, sollevano le sopracciglia e ruotano gli occhi, denudano il collo e abbandonano l’intero corpo al languore, pronunciano frasi ammollite nella passione e ti sfoggiano una voce fascinosa ad udirsi finché non espugnano completamente l’anima. Accade che questi ami ti adeschino alla morte e queste reti intrecciate ti trascinino alla perdizione; e dunque non farti neppure ingannare da quelle che si servono di discorsi ammodo: in costoro infatti si occulta il maligno veleno dei serpenti.

    Capitolo 5

    Accostati al fuoco ardente piuttosto che ad una giovane donna, soprattutto se sei giovane anche tu: quando infatti ti avvicini alla fiamma e senti un bel bruciore, ti puoi allontanare rapidamente, mentre quando sei lusingato dalle ciarle femminili, difficilmente riesci a darti alla fuga. L’erba cresce quand’è vicina all’acqua, come germina l’intemperanza bazzicando le femmine. Colui che si riempie il ventre e fa professione di saggezza è simile a chi afferma di frenare la forza del fuoco nella paglia. Come infatti è impossibile contrastare il mutevole guizzare del fuoco nella paglia, così è impossibile colmare nella sazietà l’impeto infiammato dell’intemperanza. Una colonna poggia sulla base e la passione della lussuria ha le fondamenta nella sazietà. La nave preda delle tempeste si affretta a raggiungere il porto e l’anima del saggio cerca la solitudine: l’una fugge le minacciose onde del mare, l’altra le forme femminili che portano dolore e rovina. Una fattezza abbellita di donna affonda più di un maroso: ma l’uno ti dà la possibilità di nuotare se vuoi salva la vita, invece la bellezza muliebre, dopo l’inganno, ti persuade a disprezzare anche la vita stessa. Il rovo solitario si sottrae intatto alla fiamma e il saggio che sa tenersi lontano dalle donne non si accende d’intemperanza: come infatti il ricordo del fuoco non brucia la mente, così neppure la passione ha vigore se manca la materia.

    Capitolo 6

    Se avrai pietà per il nemico esso ti sarà nemico, e se farai grazia alla passione essa ti si ribellerà contro. La vista delle donne eccita l’intemperante, mentre spinge il saggio a glorificare Dio; se in mezzo alle donne la passione sta tranquilla non prestare fede a chi ti annuncia che hai raggiunto l’apàtheia. E infatti il cane scodinzola quando è lasciato in mezzo alla folla, mentre, quando se ne allontana, mostra la propria malvagità. Solo quando il ricordo della donna affiorerà in te privo di passione, allora ritieniti giunto ai confini della saggezza. Quando invece la sua immagine ti spinge a vederla e i suoi strali accerchiano la tua anima, allora ritieniti fuori dalla virtù. Ma non devi perdurare così in tali pensieri né la tua mente deve per molto familiarizzare con le forme femminili, la passione è infatti recidiva e ha accanto il pericolo. Come infatti accade che un’appropriata fusione purifichi l’argento, ma, se prolungata, facilmente lo distrugga, così una insistente fantasia di donne distrugge la saggezza acquisita: non avere infatti familiarità a lungo con un volto immaginato affinché non ti si appicchino le fiamme del piacere e non bruci l’alone che circonda la tua anima: come infatti la scintilla, rimanendo in mezzo alla paglia, sprigiona le fiamme, così il ricordo della donna, persistendo, incendia il desiderio.

    Capitolo 7

    L’avarizia

    L’avarizia è la radice di tutti i mali e nutre come maligni ramoscelli le rimanenti passioni e non permette che inaridiscano quelle fiorite da essa. Chi vuole recidere le passioni ne estirpi la radice; se infatti poti per bene i rami e l’avarizia permane, non ti gioverà a nulla, perché essi, nonostante siano stati recisi, subito fioriscono. Il ricco monaco è come una nave troppo carica che viene sommersa dall’impeto di un fortunale: come infatti una nave che imbarca acqua è messa alla prova da ogni onda, così il ricco è sommerso dalle preoccupazioni. Il monaco che nulla possiede è invece un agile viaggiatore e trova dimora ovunque. Egli è come l’aquila che vola in alto e scende giù a cercare cibo quando vi è costretta. È superiore ad ogni prova, se la ride del presente e si leva in alto allontanandosi dalle cose terrene e accompagnandosi a quelle celesti: infatti ha ali leggere mai appesantite dalle preoccupazioni. Sopraggiunge l’oppressione ed egli lascia il luogo senza dolore; la morte arriva e quegli se ne va con animo sereno: infatti l’anima non è stata legata da vincolo terreno di sorta. Chi invece molto possiede soggiace alle preoccupazioni e, come il cane, è legato alla catena, e, se viene costretto ad andarsene, si porta dietro, come un grave peso e un’inutile afflizione, i ricordi delle sue ricchezze, è punto dalla tristezza e, quando ci pensa, soffre molto, ha perso le ricchezze e si tormenta nello scoramento. E se arriva la morte abbandona miseramente i suoi averi, rende l’anima, mentre l’occhio non tralascia gli affari; a malincuore viene trascinato via come uno schiavo fuggiasco, si separa dal corpo e non si separa dai suoi interessi: poiché la passione lo trattiene più di ciò che lo trascina via.

    Capitolo 8

    Il mare non si riempie mai del tutto pur ricevendo la gran massa d’acqua dei fiumi, allo stesso modo il desiderio di ricchezze dell’avaro non è mai sazio, egli le raddoppia e subito desidera quadruplicarle e non cessa mai questo raddoppio, finché la morte non mette fine a tale interminabile premura. Il monaco assennato baderà alle necessità del corpo e sopperirà con pane e acqua allo stomaco indigente, non adulerà i ricchi per il piacere del ventre, né asservirà la sua libera mente a molti padroni: infatti le mani sono sempre sufficienti a servire il corpo e soddisfare le necessità naturali. Il monaco che non possiede nulla è un pugile che non può essere colpito in pieno e un corridore veloce che raggiunge rapidamente il premio dell’invito celeste. Il monaco ricco gioisce per i molti proventi, mentre quello che non ha nulla gode per i premi che gli vengono dalle cose ben riuscite. Il monaco avaro lavora duramente mentre quello che non possiede nulla usa il tempo per la preghiera e la lettura. Il monaco avaro riempie d’oro i penetrali, mentre quello che nulla possiede tesoreggia in cielo. Che sia maledetto colui che foggia l’idolo e lo nasconde, simile a colui che è affetto da avarizia: l’uno infatti si prostra di fronte al falso e all’inutile, l’altro porta in sé l’immagine della ricchezza, come un simulacro.

    Capitolo 9

    L’ira

    L’ira e una passione furente e con facilità fa uscir di senno quelli che hanno la conoscenza, imbestialisce l’anima e degrada l’intero consorzio umano. Un vento impetuoso non piegherà la torre e l’animosità non trascina via l’anima mansueta. L’acqua è mossa dalla violenza dei venti e l’iracondo è agitato dai pensieri dissennati. Il monaco iracondo vede qualcuno e arrota i denti. La diffusione della nebbia condensa l’aria e il moto dell’ira annebbia la mente dell’iracondo. La nube procedendo offusca il sole e così il pensiero rancoroso ottunde la mente. Il leone in gabbia scuote continuamente i cardini come il violento nella cella (quando è assalito) dal pensiero dell’ira. È deliziosa la vista di un mare tranquillo, ma non è certo più dilettosa di uno stato di pace: infatti i delfini nuotano nel mare in bonaccia e i pensieri volti a Dio si immergono in uno stato di serenità. Il monaco magnanimo è una fonte tranquilla, gradevole bevanda offerta a tutti, mentre la mente dell’iracondo è continuamente agitata ed egli non darà l’acqua all’assetato e, se gliela darà, sarà intorbidata e nociva; gli occhi dell’animoso sono sconvolti e iniettati di sangue e annunziano un cuore in tumulto. Il volto del magnanimo mostra assennatezza e gli occhi benigni sono rivolti verso il basso.

    Capitolo 10

    La mansuetudine dell’uomo è ricordata da Dio e l’anima mite diviene il tempio dello Spirito Santo. Cristo reclina il capo in spirito mite e solo la mente pacifica diviene dimora della Santa Trinità. Le volpi allignano nell’anima rancorosa e le fiere si appiattano nel cuore sconvolto. Fugge l’uomo onesto l’alloggio malfamato, e Dio un cuore rancoroso. Una pietra che cade in acqua la agita, come un cattivo discorso il cuore dell’uomo. Allontana dalla tua anima i pensieri dell’ira e non bivacchi l’animosità nel recinto del tuo cuore e non lo turbi nel momento della preghiera: infatti come il fumo della paglia offusca la vista così la mente è turbata dal livore durante la preghiera. I pensieri dell’animoso sono prole di vipera e divorano il cuore che li ha generati. La sua preghiera è un incenso abominevole ed il salmodiare dà un suono sgradevole. Il dono del rancoroso è come un’offerta che brulica di formiche e di certo non si avvicinerà agli altari aspersi di acqua lustrale. L’animoso avrà sogni turbati e l’iracondo si immaginerà assalti di belve. L’uomo magnanimo ha la visione di consessi di santi angeli e colui che non porta rancore si esercita con discorsi spirituali e nella notte riceve la soluzione dei misteri.

    Capitolo 11

    La tristezza

    Il monaco affetto dalla tristezza non conosce il piacere spirituale: la tristezza è un abbattimento dell’anima e si forma dai pensieri dell’ira. Il desiderio di vendetta, infatti, è proprio dell’ira, l’insuccesso della vendetta genera la tristezza; la tristezza è la bocca del leone e facilmente divora colui che si rattrista. La tristezza è un verme del cuore e mangia la madre che l’ha generato. Soffre la madre quando partorisce il figlio, ma, una volta sgravata, è libera dal dolore; la tristezza, invece, mentre è generata, provoca lunghe doglie e, sopravvivendo, dopo i travagli, non porta minori sofferenze. Il monaco triste non conosce la letizia spirituale, come colui che ha una forte febbre non avverte il sapore del miele. Il monaco triste non saprà muovere la mente verso la contemplazione né sgorga da lui una preghiera pura: la tristezza è un impedimento per ogni bene. Avere i piedi legati è un impedimento per la corsa, così la tristezza è un ostacolo per la contemplazione. Il prigioniero dei barbari è legato con catene e la tristezza lega colui che è prigioniero delle passioni. In assenza di altre passioni la tristezza non ha forza come non ne ha un legame se manca chi lega. Colui che è avvinto dalla tristezza è vinto dalle passioni e come prova della sconfitta viene addotto il legame. Infatti la tristezza deriva dall’insuccesso del desiderio carnale poiché il desiderio è congiunto a tutte le passioni. Chi vincerà il desiderio vincerà le passioni e il vincitore delle passioni non sarà sottomesso dalla tristezza. Il temperante non è rattristato dalla penuria di cibo, né il saggio quando raggiunge una folle dissolutezza, né il mansueto che tralascia la vendetta, né l’umile se è privato dell’onore degli uomini, né il generoso quando incorre in una perdita finanziaria: essi evitarono con forza, infatti, il desiderio di queste cose: come infatti colui che è ben corazzato respinge i colpi, così l’uomo privo di passioni non è ferito dalla tristezza.

    Capitolo 12

    Lo scudo è la sicurezza del soldato e le mura lo sono della città: più sicura di entrambi è per il monaco l’apatheia. E infatti spesso una freccia scagliata da un forte braccio trapassa lo scudo e la moltitudine dei nemici abbatte le mura mentre la tristezza non può prevalere sull’apatheia. Colui che domina le passioni signoreggerà sulla tristezza, mentre chi è vinto dal piacere non sfuggirà ai suoi legami. Colui che si rattrista facilmente e simula un’assenza di passioni è come l’ammalato che finge di essere sano; come la malattia si rivela dall’incarnato, la presenza di una passione è dimostrata dalla tristezza. Colui che ama il mondo sarà molto afflitto mentre coloro che disprezzano ciò che vi è in esso saranno allietati per sempre. L’avaro, ricevuto un danno, sarà atrocemente rattristato, mentre colui che disprezza le ricchezze sarà sempre indenne dalla tristezza. Chi brama la gloria, al sopraggiungere del disonore, sarà addolorato, mentre l’umile lo accoglierà come un compagno. La fornace purifica l’argento di bassa lega e la tristezza di fronte a Dio il cuore preda dell’errore; la continua fusione impoverisce il piombo e la tristezza per le cose del mondo sminuisce l’intelletto. La caligine indebolisce la forza degli occhi e la tristezza inebetisce la mente dedita alla contemplazione; la luce del sole non raggiunge gli abissi marini e la visione della luce non rischiara un cuore rattristato; dolce è per tutti gli uomini il sorgere del sole, ma anche di questo si dispiace l’anima triste; l’ittero toglie il senso del gusto come la tristezza che sottrae all’anima la capacità di percepire. Ma colui che disprezza i piaceri del mondo non sarà turbato dai cattivi pensieri della tristezza.

    Capitolo 13

    L’acedia

    L’acedia è una debolezza dell’anima che insorge quando non si vive secondo natura né si fronteggia nobilmente la tentazione. Infatti la tentazione è per un’anima nobile ciò che è il cibo per un corpo vigoroso. Il vento del nord nutre i germogli e le tentazioni consolidano la fermezza dell’anima. La nube povera d’acqua è allontanata dal vento come la mente che non ha perseveranza dallo spirito dell’acedia. La rugiada primaverile accresce il frutto del campo e la parola spirituale esalta la fermezza dell’anima. Il flusso dell’acedia caccia il monaco dalla propria dimora, mentre colui che è perseverante se ne sta sempre tranquillo. L’acedioso adduce quale pretesto la visita degli ammalati, cosa che garantisce il proprio scopo. Il monaco acedioso è rapido a svolgere il suo ufficio e considera un precetto la propria soddisfazione; la pianta debole è piegata da una lieve brezza e immaginare la partenza distrae l’acedioso. Un albero ben piantato non è scosso dalla violenza dei venti e l’acedia non piega l’anima ben puntellata. Il monaco girovago, secco fuscello della solitudine, sta poco tranquillo e, senza volerlo, è sospinto qua e là di volta in volta. Un albero trapiantato non fruttifica e il monaco vagabondo non dà frutti di virtù. L’ammalato non è soddisfatto da un solo cibo e il monaco acedioso non lo è da una sola occupazione. Non basta una sola femmina a soddisfare il voluttuoso e non è abbastanza una sola cella per l’acedioso.

    Capitolo 14

    L’occhio dell’acedioso fissa le finestre continuamente e la sua mente immagina che arrivino visite: la porta cigola e quello balza fuori, ode una voce e si sporge dalla finestra e non se ne va da lì finché, sedutosi, non si intorpidisce. Quando legge, l’acedioso sbadiglia molto, si lascia andare facilmente al sonno, si stropiccia gli occhi, si stiracchia e, distogliendo lo sguardo dal libro, fissa la parete e, di nuovo, rimessosi a leggere un po’, ripetendo la fine delle parole, si affatica inutilmente, conta i fogli, calcola i quaternioni, disprezza le lettere e gli ornamenti e infine, piegato il libro, lo pone sotto la testa e cade in un sonno non molto profondo, e infatti, di lì a poco, la fame gli risveglia l’anima con le sue preoccupazioni. Il monaco acedioso è pigro alla preghiera e di certo non pronuncerà mai le parole dell’orazione; come infatti l’ammalato non riesce a sollevare un peso eccessivo, così anche l’acedioso di sicuro non si occuperà con diligenza dei doveri verso Dio: all’uno infatti difetta la forza fisica, all’altro viene meno il vigore dell’anima. La pazienza, il far tutto con molta assiduità e il timor di Dio curano l’acedia. Disponi per te stesso una giusta misura in ogni attività e non desistere prima di averla conclusa, e prega assennatamente e con forza e lo spirito dell’acedia fuggirà da te.

    Capitolo 15

    La vanagloria

    La vanagloria è una passione irragionevole e facilmente s’intreccia con tutte le opere di virtù. Un disegno tracciato nell’acqua si confonde, come la fatica della virtù nell’anima vanagloriosa. Diviene candida la mano nascosta in seno e l’azione che rimane celata risplende di una luce più smagliante. L’edera s’avvinghia all’albero e, quando giunge in alto, ne dissecca la radice, così la vanagloria si origina dalle virtù e non si allontana finché non avrà reciso la loro forza. Il grappolo d’uva, buttato a terra, marcisce facilmente e la virtù, se si appoggia alla vanagloria, perisce. Il monaco vanaglorioso è un lavoratore senza salario: si impegna nel lavoro e non riceve alcuna paga; la borsa bucata non custodisce ciò che vi è riposto e la vanagloria distrugge i compensi delle virtù. La continenza del vanaglorioso è come il fumo del camino, entrambi si disperderanno nell’aria. Il vento cancella l’orma dell’uomo come l’elemosina del vanaglorioso. La pietra lanciata non raggiunge il cielo e la preghiera di chi desidera piacere agli uomini non salirà fino a Dio.

    Capitolo 16

    La vanagloria è uno scoglio sommerso: se vi urti contro rischi di perdere il carico. Nasconde il suo tesoro l’uomo prudente quanto il saggio monaco le fatiche della sua virtù. La vanagloria consiglia di pregare nelle piazze, colui che invece vi si oppone prega nella sua stanzetta. L’uomo poco assennato rende nota la propria ricchezza e spinge molti a tendergli insidie. Nascondi invece le tue cose: durante il cammino ti imbatterai in lestofanti finché non arriverai alla città della pace e potrai usare i tuoi beni tranquillamente. La virtù del vanaglorioso è un sacrificio consunto e non è certo offerto all’altare di Dio. L’acedia dissolve il vigore dell’anima, mentre la vanagloria fortifica la mente che dimentica Dio, rende robusto l’astenico e il vecchio più forte del giovane, solo finché sono molti i testimoni che assistono a tutto questo: allora saranno inutili il digiuno, la veglia e la preghiera, è infatti la pubblica approvazione che eccita lo zelo. Né metterai in vendita le tue fatiche per la fama, né rinuncerai alla gloria futura per essere acclamato. Infatti l’umana gloria si accampa in terra e sulla terra la sua fama si estingue, mentre la gloria della virtù rimane in eterno.

    Capitolo 17

    La superbia

    La superbia è un tumore dell’anima pieno di sangue. Se matura scoppierà, emanando un orribile fetore. Il bagliore del lampo annuncia il fragore del tuono e la presenza della vanagloria annuncia la superbia. L’anima del superbo raggiunge grandi altezze e da lì cade nell’abisso. Si ammala di superbia l’apostata di Dio ascrivendo alle proprie capacità le cose ben riuscite. Come colui che sale su una tela di ragno precipita, così cade colui che si appoggia alle proprie capacità. Un’abbondanza di frutti piega i rami dell’albero e un’abbondanza di virtù umilia la mente dell’uomo. Il frutto marcio è inutile al contadino e la virtù del superbo non è accetta a Dio. Il palo sostiene il ramo carico di frutti e il timore di Dio l’anima virtuosa. Come il peso dei frutti spezza il ramo così la superbia abbatte l’anima virtuosa. Non consegnare la tua anima alla superbia e non avrai terribili fantasie. L’anima del superbo è abbandonata da Dio e diviene oggetto di gioia maligna per i demoni. Di notte egli si immagina branchi di belve che l’assalgono e di giorno è sconvolto da pensieri di viltà. Quando dorme facilmente sussulta e quando veglia lo spaventa l’ombra di un uccello. Lo stormire delle fronde atterrisce il superbo e il suono dell’acqua spezza la sua anima. Colui che infatti poco prima si è opposto a Dio respingendo il suo soccorso, viene poi spaventato da volgari fantasmi.

    Capitolo 18

    La superbia precipitò l’arcangelo dal cielo e come un fulmine lo fece piombare sulla terra. L’umiltà invece conduce l’uomo verso il cielo e lo prepara a far parte del coro degli angeli. Di che ti inorgoglisci, o uomo, quando per natura sei melma e putredine, e perché ti sollevi sopra le nuvole? Guarda alla tua natura poiché sei terra e cenere e fra un po’ tornerai alla polvere, ora superbo e tra poco verme. A che pro sollevi il capo che tra non molto marcirà? Grande è l’uomo soccorso da Dio; una volta abbandonato egli riconobbe la debolezza della natura. Nulla possiedi che tu non abbia ricevuto da Dio. Perché dunque ti scoraggi per ciò che appartiene ad altri come se fosse tuo? Perché ti vanti di quel che viene dalla grazia di Dio come se fosse una tua personale proprietà? Riconosci colui che dona e non ti inorgoglire tanto: sei creatura di Dio, non disprezzare perciò il creatore. Dio ti soccorre, non respingere il beneficatore. Sei giunto alla sommità della tua condizione, ma lui ti ha guidato; hai agito rettamente secondo virtù ed egli ti ha condotto. Glorifica chi ti ha innalzato per rimanere al sicuro nelle altezze; riconosci colui che ha le tue stesse origini perché la sostanza è la medesima e non rifiutare per iattanza questa parentela.

    Capitolo 19

    Umile e moderato è colui che riconosce questa parentela; ma il demiurgo plasmò sia lui sia il superbo. Non disprezzare l’umile: infatti egli è più al sicuro di te: cammina sulla terra e non precipita; ma colui che sale più in alto, se cade, si sfracellerà. Il monaco superbo è come un albero senza radici e non sopporta l’impeto del vento. Una mente senza boria è come una cittadella ben munita e chi vi abita sarà imprendibile. Un soffio di vento solleva la festuca e l’insulto porta il superbo alla follia. Una bolla scoppiata svanisce e la memoria del superbo perisce. La parola dell’umile addolcisce l’anima, mentre quella del superbo è ripiena di millanteria. Dio si piega alla preghiera dell’umile, è invece esasperato dalla supplica del superbo. L’umiltà è la corona della casa e tiene al sicuro chi vi entra. Quando salirai al sommo delle virtù allora avrai molto bisogno di sicurezza. Colui infatti che cade sul pavimento rapidamente si rialza, ma chi precipita da grandi altezze, rischia la morte. La pietra preziosa si addice al bracciale d’oro e l’umiltà umana risplende di molte virtù.

     

  • 05 Apr

    Ascolta il mio grido, mio Dio!

    Lectio di Es 2,23-25; 3,7-12

     

     a cura di p. Attilio franco fabris

     

    Morte, disastri naturali e bellici, catastrofi, percorrono non solo le pagine dei nostri giornali e la TV ma anche le pagine della Bibbia, e raccontano il lacerante grido del povero che in ogni tempo e luogo si innalza fino al cielo invocando una risposta, un senso a ciò che la vita sembra imporre talvolta spietatamente. Questa dimensione del dolore umano è un dato così costante nella Scrittura da aver dato origine a un preciso genere letterario: quello della “lamentazione”. Il sangue di Abele grida verso Dio (Gn 4,10), Israele grida in Egitto (Gn 41,55; Es 1,23s), i profeti gridano contro i tiranni che sfruttano e schiacciano il povero, gridano i figli di Israele esiliati a Babilonia (Es 14,10; Gdt 3,9). Anche la maggior parte dei salmi sono testi di lamentazione da parte di chi è circondato da nemici, o si trova sull’orlo della morte: “A te grido, Signore; non restare in silenzio, mio Dio, perché, se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa” (Sal 27,1);  “Nella mia angoscia ho invocato il Signore… dal profondo degli inferi ho gridato” (Giona 2,3). Questa litania di sofferenza si prolunga con le grida del cieco Bartimeo lungo la strada polverosa di Gerico (Mc 10,47) e con quelle insistenti e quasi fastidiose della donna cananea (Mt 15,23). Per giungere alle stesse “forti grida e alle lacrime” (Ebr 5,7) di Gesù dinanzi alla prospettiva della sua morte violenta. Lo Spirito vinca ogni nostra sordità dinanzi alla voce della Parola. Intenerisca il nostro cuore rendendolo capace di compassione. Questa consiste proprio nell’aprire il nostro sguardo e il nostro orecchio a colui che ci si presenta dinanzi con tutta la sua povertà spirituale e materiale. Nel suo grido sapremo riconoscere la voce stessa di Dio che per primo l’ascolta?

    Lectio

    “Gemettero… alzarono grida….“: sono due verbi intensissimi per descrivere l’angoscia degli ebrei che subiscono la vessazione della schiavitù egiziana. Israele si trova in un vicolo cieco, senza scappatoie, né possibili compromessi. La sua sofferenza provoca un grido di aiuto che  si configura non tanto come un’esplicita supplica a Dio, un’invocazione che esprime una preghiera, quanto piuttosto come un “gemito disperato” che diventa “grido” di dolore. E’ come il pianto di Agar l’egiziana e di Ismaele suo figlio dispersi nel deserto del Negheb che vedono dinanzi a sé solamente la prospettiva della morte (cf Gn 21,17), o come il pianto della madre vedova che a Naim sta portando l’unico figlio alla sepoltura e muove a compassione il cuore di Gesù (cf Lc 7,13).

    Tutte queste grida di dolore hanno la forza di “salire a Dio” (cfr 2,23): “Giunga fino a te il gemito dei prigionieri; con la potenza della tua mano salva i votati alla morte” (Sal 78,11; Sal 55,9).  È Dio che per primo “ascolta” il gemito del povero.

    Il testo dell’esodo afferma che Dio “guardò” alla sofferenza del suo popolo: non ha mai distolto lo sguardo come invece faranno il levita e il sacerdote della parabola, ma come il buon samaritano egli “vede” la sofferenza del povero e se ne prende cura (cfr Lc 10,33; Sal 9,35). Anzi il testo dice che Dio “se ne prese pensiero” (2,25) il che equivale a decidere di entrare in azione, di agire in ordine alla salvezza del suo popolo schiavo. 

    Ma perché Dio ascolta, guarda, si prende pensiero? La risposta è racchiusa unicamente nel mistero della fedeltà di Dio alle sue promesse che non vengono meno: “Si ricordò dell’alleanza” (2,24; 1Sm 1,20; Ez 16,60; Sal 74,2.18-22; 89,51;…). Ricordarsi” in ebraico significa non solo un richiamare alla memoria il passato ma anche un intervenire nel presente e nel futuro a motivo di una preciso impegno assunto (1Sm 25,31; Lc 1,54; cfr Sal 105,45). L’azione divina non è perciò motivata da obiettivi filantropici, o da una promozione di giustizia sociale, neppure dal fatto che Israele sia migliore degli altri popoli e meriti il suo intervento.

    Ma come Dio interviene? Non usa la strada del “miracolo”, quasi che con una bacchetta magica si ribalti le situazioni! Questo è il dio del nostro immaginario! La sua azione invece si avvale sempre di una mediazione e collaborazione umana: in questo caso Mosè. Dio costruisce la storia della salvezza non malgrado l’uomo, ma insieme all’uomo.

    Mosè, dopo il fallimento dei suoi ideali giovanili di liberazione, è fuggito dall’Egitto, ha messo su famiglia, è divenuto pastore delle greggi del suocero. In questi lunghi anni di pausa Dio lo sta preparando alla missione che Mosè un tempo credeva sua. Questo Mosè è ormai ben diverso da quello degli anni giovanili: ha conosciuto la sconfitta, l’esilio, il mistero. Ora è solo un anonimo pastore di greggi e capre in mezzo al deserto,  un povero emigrato, non è più di certo un emergente della società, un uomo di palazzo, un “e-gregio”!  Ha preso coscienza finalmente della sua povertà che lo rende capace, ora sì, di udire realmente e in modo diverso il grido dei suoi fratelli perché è nella loro stessa condizione di esilio.

    Nel dialogo tra JHWH e Mosè, sul monte Sinai alla luce del roveto che brucia e non si consuma, ad un certo punto Dio dice: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti. Conosco infatti le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese, verso un paese bello e spazioso, dove scorre latte e miele. Ora il grido degli Israeliti è arrivato fino a me ed io stesso ho visto l’oppressione con cui gli egiziani li tormentano”. È Dio dunque che per primo ha “visto”, ha “udito” e “conosce” le sofferenze del popolo ebreo. L’opera della salvezza è già iniziata con questo dialogo, il verbo infatti è al passato “sono sceso per liberarlo (la traduzione più esatta sarebbe “per strapparlo” che indica un’azione faticosa e impegnativa, quasi Dio dovesse “faticare”. Ma questa fatica è dovuta alla resistenza dell’uomo non solo del faraone ma dello stesso Israele).

    Attraverso queste parole Dio vuole chiarire a Mosé un aspetto importante della missione che sta per affidargli: “Finora hai pensato di essere stato solo tu a udire il grido del tuo popolo, di dovertene prendere cura e di volerlo salvare. Credevi che l’iniziativa fosse tua con l’illusione forse di volermi poi coinvolgere in essa. Mosè non avevi capito che i tuoi progetti invece provenivano da me e perciò hai sbagliato metodo e sei andato incontro al fallimento: adesso comprendi che sono io per primo che vedo, sento, provo compassione per il grido del mio popolo.  Se in te ora vi è la stessa compassione sono io che te l’ho suscitata, se c’è in te il desiderio della libertà per i tuoi fratelli, sono ancora io che te l’ho posto nel cuore”. Il primato, l’iniziativa, della missione spetta dunque sempre a Dio ed è stolto colui che crede di essere lui il protagonista e l’interprete principale.

    E’ solo a questo punto  che Dio può affidare ufficialmente la missione a Mosè: Ora va!”. Mosè è scelto da Dio come suo mediatore proprio per quell’opera che tanti e tanti anni prima aveva creduto fosse sua e si era trasformata perciò in terribile fallimento: “Ora và! Io ti mando dal faraone; fa uscire il mio popolo dall’Egitto”. Nel discorso dinanzi al sinedrio Stefano proclama il suo stupore per questa inusuale e umanamente incomprensibile inventiva di Dio: “Questo Mosè che avevano rinnegato dicendo: Chi ti ha nominato capo e giudice? proprio lui Dio aveva mandato per esser capo e liberatore, parlando per mezzo dell’angelo che gli era apparso nel roveto” (At 7,35).

    L’incontro con il Signore nella vita di un uomo non lascia spazio ad intimismi inutili o illusori protagonismi: ogni esperienza di Dio si trasforma sempre in una chiamata ad una missione di annuncio e liberazione nei confronti dei “poveri”. Sarà la scelta fatta da Gesù stesso:Egli allora chiamò a sé i Dodici e diede loro potere e autorità su tutti i demòni e di curare le malattie. E li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi” (Lc 9,1).

    Meditatio

    Mi piace introdurre la nostra meditazione con un breve passaggio tratto dalle “Lettere” di san Vincenzo de’ Paoli, l’apostolo della carità (1581-1660). Egli scrive alle sue Figlie: “Sforziamoci di diventare sensibili alle sofferenze e alle miserie del prossimo. Preghiamo Dio, per questo, che ci doni lo spirito di misericordia e di amore, che ce ne riempia e ce lo conservi. Il servizio dei poveri deve essere preferito a tutto. Non ci devono  essere ritardi. Se nell’ora dell’orazione avete da portare una medicina o un soccorso a un povero, andatevi tranquillamente. Offrite a Dio la vostra azione, unendovi l’intenzione dell’orazione. Non dovete preoccuparvi o credere di aver mancato, se per il servizio dei poveri avete lasciato l’orazione. Non è lasciare Dio, quando si lascia Dio per Iddio”. Il nostro santo invita le sue religiose a non essere sorde, insensibili al grido del povero. Il motivo è che in esso devono riconoscervi la stessa voce di Cristo ultimo e povero che con questi si identifica: “Quel che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”.

    Essere, come dice il nostro santo, “sensibili alle sofferenze e alle miserie del prossimo” oggi sta diventando difficile. Sembra che nella cultura occidentale così precaria e violenta ciascuno tenti in modo egoistico anzitutto di “salvare se stesso”. Non è senza significato se diminuisce ad esempio il numero delle persone che dedicano parte del loro tempo al volontariato. Anche il livello e la qualità di ascolto vicendevole sembra diminuire sempre di più: non ci si ascolta, non si ha tempo di fermarsi di ascoltare l’altro (qualche volta anche nelle nostre comunità cristiane!) si corre con l’orologio in mano perché si hanno i propri impegni sempre guarda caso improrogabili. Assistiamo ad una sorta di massiccio ripiegamento nel privato, ad un rincorrere soprattutto nel mondo giovanile una virtuale piazza di incontro – le “migliaia” (sic!) di amici in Facebook! – rifugiandosi dinanzi allo schermo del PC o del cellulare dove il volto e la voce la presenza dell’altro si smaterializza nel gelido linguaggio informatico, dove in verità la comunicazione si consuma ma non si ascolta.

    È una società violenta la nostra che vorrebbe mettere a tacere il grido dell’ammalato terminale e dei disoccupati che non sanno come far fronte alla vita,  le grida silenziose di milioni di innocenti bambini a cui è negato il diritto alla vita. Una società dove si mettono a tacere le grida di tante popolazioni che vivono nella guerra, nella fame e di cui i mass media non parlano per non suscitare uno scomodo problema…facendo così il gioco sfruttatore delle nazioni potenti.

    E ancora quante solitudini nascoste e grida inascoltate si annidano nelle vie delle nostre città. Trascrivo un brano significativo: “Solo, come solo ha passato tutta la sua esistenza, andava lento sotto la pioggia. Quell’andatura ciondolante di chi ormai da troppo tempo ha imparato che la pioggia che cade lava e disseta la terra, che il sole scalda e da vita, che i suoi unici problemi sono quelli di vivere in un mondo che non lo guarda. In un mondo che lo considera un problema. Invisibile agli occhi della gente. Che quando per sbaglio gli sbatte davanti gli da quasi noia perché la obbliga a vederlo, a pensare, a fargli un gesto…magari solo un cenno con la mano. La macchina inarrestabile lo sorpassa e lo lascia indietro. Lo cerco ancora nello specchietto retrovisore, ma ormai la pioggia e la notte lo hanno risucchiato. Ed io mi riimmergo nei miei piccoli e insignificanti problemi quotidiani”. 

    Urge diventare persone capaci di ascolto. Sono necessari luoghi, le nostre comunità, le nostre famiglie, in cui ritrovare il calore del contatto della mano, della voce, di un viso che sorride e accoglie, perché vi possa nascere un ascolto vero e fecondo di gioia e di speranza.

    Se ciò ancora non accade è perché il cuore si è indurito e di conseguenza si è indurito l’orecchio. E ogni indurimento è segno della presenza del male, del peccato che ci rende estranei e nemici gli uni gli altri. Caino replicherà indispettito alla domanda di Dio: “Sono forse io il guardiano di mio fratello?” (Gn 4,9).

    Imparare ad obbedire – “ob-audire” – al grido del fratello è obbedire –“ob-audire” alla Parola che ci spinge a farcene carico. Per i profeti e per Gesù questa è la condizione della vera religione: Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue…imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1,15.17). Perché troppo spesso “il grido del povero sale fino a Dio, ma non arriva alle orecchie dell’uomo” (Felicité-Robert de Lamennais).

    Ora va!” dice JHWH a Mosè sul Sinai. La missione è opera di Dio, è lui che manda, e ciò non nasce dai nostri ideali, ma dal cuore stesso di Dio. Il nostro rispondere al grido del povero è sorretto dal fondamento della fede: ci riconosciamo non estranei gli uni agli altri ma fratelli di uno stesso Padre, figli amati da sempre e in egual modo e per ciascuno dei quali Gesù ha donato la sua vita: non ci è permesso, se viviamo in questa consapevolezza, di “passare oltre” come il sacerdote e il levita facendo finta di non vedere né udire.

    Certo è una decisione scomoda, pericolosa, spesso comporta ostilità, persecuzione, talvolta il dare la stessa vita.  E’ dell’ottobre dello scorso anno la notizia dell’assassinio di padre Fausto Tentorio, missionario del PIME, ucciso perché scomodo “ascoltatore” della povertà di intere popolazioni indigene delle Filippine. Così fu ed è di tanti e tante altri. Costoro come Mosè si sono lasciati mettere in gioco da Dio, che per primo, attraverso loro, ascolta il grido del suo popolo e manda i suoi collaboratori.

    Che il nostro farci capaci di ascolto del grido dell’uomo non sia elemosina fatta a denti stretti, con un sorriso forzato chiedendoci in cuore se ne val la spesa, che sia invece pura, anche se talvolta faticosa,  gioia di una condivisione della vita stessa che nasce dalla fede di un Dio che non ci vuole indifferenti ma fratelli gli uni agli altri. La salvezza che Dio opera in questo nostro povero mondo inizia quando ciascuno diventa attento al grido di colui che gli sta a fianco (a volte è più facile essere attenti a grida lontane e sconosciute!), quando ha il coraggio di aprire la sua porta al malato, al pellegrino e allo straniero, quando sfama l’affamato, quando nella preghiera porta davanti a Dio tutto il grido dell’umanità!

    Una frase del teologo e martire luterano Dietrich Bonhoeffer potrebbe concludere e riassumere quanto sinora detto: “Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Come l’amore per Dio comincia con l’ascoltare la sua Parola,  così l’inizio dell’amore per il fratello sta nell’imparare ad ascoltarlo” (La vita comune).

    Oratio

    Udire il grido del povero, raccoglierlo facendolo nostro, “farcene carico” non è facile. Siamo presi dalla paura perché temiamo di dover confrontarci con il nostro stesso grido spesso nascosto, la nostra povertà, il nostro limite, il nostro peccato.  La paura ci può bloccare e irrigidire rischiando di renderci insensibili al grido dell’uomo fatto anch’esso di speranze, sofferenze, miserie, peccato. Preghiamo perché soprattutto i consacrati divengano “icona dell’orecchio di Dio” che con tenerezza porge il suo orecchio al grido dell’ultimo, facendosi loro stessi ultimi. Non è questa la strada tracciata per noi dal Signore nostro Gesù?

    È veramente giusto renderti grazie, Padre misericordioso: tu ci hai donato il tuo Figlio, Gesù Cristo, nostro fratello e redentore. In lui ci hai manifestato il tuo amore per i piccoli e i poveri, per gli ammalati e gli esclusi. Mai egli si chiuse alle necessità e alle sofferenze dei fratelli. Con la vita e la parola annunziò al mondo che tu sei Padre e hai cura di tutti i tuoi figli. Per questi segni della tua benevolenza noi ti lodiamo e ti benediciamo, e uniti agli angeli e ai santi cantiamo l’inno della tua gloria (Preghiera eucaristica V/C).

     

     

     

  • 19 Mar

    “Detto questo…”

    Gv 18,1a

    di p. Attilio Franco Fabris

     

     “Detto questo…”. L’evangelista inizia il racconto della Passione allacciandolo immediatamente con quanto Gesù ha detto in precedenza nel Cenacolo durante l’ultima cena.

    Gesù ha tenuto tre ultimi importanti discorsi che possono essere letti come il suo testamento alla sua comunità. Nel terzo Gesù afferma: “Ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (17,26). Gesù ha già iniziato a far conoscere, durante il suo ministero, il nome del Padre suo ma è un’opera che non è ancora conclusa: “lo farò conoscere.  Ricordiamo che il nome, nel mondo ebraico, indica la realtà più profonda di una persona. Far conoscere il nome di Dio equivale dunque a far conoscere il suo mistero: Qui Gesù avanza la pretesa di far conoscere il nome del Padre suo. Questo un semplice uomo non lo può fare. Come ciò è possibile? Gesù ne dà la motivazione: perché il Padre conosce il Figlio e viceversa:come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore” (10,15). Nel prologo questo è già asserito chiaramente: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (1,18). Desiderio di Gesù,e sua missione, è consegnare alla sua comunità, a ciascuno di noi, questa sua “conoscenza”, è rivelare il volto di Dio in modo da divenirne partecipi.

    Ma vediamo perché è importante questo aggancio a ciò che precede la Passione. Il capitolo 13, che corrisponde all’inizio dell’ultima cena, era iniziato in una maniera molto solenne che si rivela poco dopo sconcertante. Scrive l’evangelista che “conoscendo Gesù che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò fino alla fine”. Gesù sapendo che ormai sta per andare incontro alla morte vuole manifestare al massimo (“fino alla fine) il suo amore, ed anticipare il significato della sua morte violenta.

    Ci immagineremmo chissà quale grande discorso, o gesto straordinario! Invece Gesù “si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto” (13,4-5). Gesù ci rivela il volto di Dio lavando i piedi ai discepoli. Non è un esercizio di umiltà da parte di Gesù ma un segno di rivelazione del suo mistero che apre al mistero di Dio.

    A Mosé che lo chiede non è concesso di vedere il volto di Dio: JHWH concede una visione “parziale”: “toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (Es 33,22s). Pertanto la Legge non è incapace di aprimi alla visione del volto di Dio. Solo il Figlio che è nel seno del Padre “lui lo ha rivelato” (letteralmente solo lui ne può fare l’ “esegesi”). È come se l’evangelista ci avvertisse: “Da questo momento fissa la tua attenzione su quanto Gesù dice e fa e tutto quello che credi di sapere e di conoscere di Dio verificalo, confrontalo con quanto vedi e senti in Gesù”. Perché non è Gesù è uguale a Dio ma è Dio che è uguale a Gesù.  Se noi diciamo che Gesù è uguale a Dio significa che Dio già lo conosciamo, che sappiamo già che è. Ogni teologia deve far sempre e solo riferimento a Gesù: lui solo ne è piena e definitiva rivelazione.

    L’affermazione del prologo (1,18), viene riformulata nel capitolo 14, quando Filippo chiede a Gesù: “Mostraci il Padre e ci basta”. Gesù risponde: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre?” (14,9). Ora il desiderio espresso da Mosè è finalmente esaudito, ma attraverso una strada che l’uomo non avrebbe mai sospettato.

    La religione – adopero il termine religione sempre in senso riduttivo ovvero come sforzo dell’uomo di porsi in contatto con Dio il che è diametralmente opposto alla fede cristiana che riconosce che è Dio a farsi incontro all’uomo – inevitabilmente proietta in Dio paure, frustrazioni, desideri e ambizioni dell’uomo rendendo Dio lontano, inaccessibile, soprattutto temibile. Ora la religione fabbrica sempre un idolo: un dio fatto ad immagine dell’uomo. Se la religione insegna che l’uomo impuro deve purificarsi per essere degno di avvicinarsi al Signore. Gesù dimostra il contrario: accogli il Signore e sarà lui a purificarti.

    Così Gesù nella lavanda dei piedi ribalta totalmente la concezione “religiosa” che l’uomo coltiva nei confronti di Dio. Lavare i piedi era compito dello schiavo pagano: la gente andava in giro scalza e quindi calpestava sterco, immondizie, polvere. I piedi erano perciò la parte dell’uomo la più impura. Gesù non pretende che i discepoli si purifichino per essere da lui accolti ma è lui che si mette al loro servizio, e cominciando dalla parte più impura. Questo è il volto di Dio: un Dio che non arretra di fronte alla sporcizia che c’è nell’uomo.

    Dopo la lavanda dei piedi Gesù dice: “ho fatto conoscere loro il tuo nome”.  Il nome di Dio che Gesù ha fatto conoscere ai suoi è “Agape : un Dio che si mette a servizio degli uomini gratuitamente, totalmente, a fondo perduto. Un Dio che si mette a servizio completo dell’uomo: disposto a deporre la sua stessa vita per il suo bene. È questo il leit motiv che percorre la prima lettera di Giovanni: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore (agape); chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,16). Non è vero dunque come afferma la religione che gli uomini devono servire Dio in qualità di schiavi, nella paura, perché Dio non è un tiranno e non ha bisogno di niente. È Dio, che è Padre, che prende invece l’iniziativa di scendere in mezzo all’umanità, di abitare in essa, di servirla. Il Signore si fa servo, perché coloro che erano considerati servi entrino nella categoria di signori. (Panis angelicus fit panis hominum; dat panis caelicus figuris terminum; O res mirabilis: manducat Dominum pauper, servus et humilis – trad. Il pane degli angeli diventa pane degli uomini; il pane del  cielo dà fine a tutte le prefigurazioni: qual meraviglia! il servo povero e umile mangia il Signore: sequenza Panis Angelicus).

    Ma non basta. Gesù aggiuge “E lo farò conoscere”. Qui si accenna alla “esegesi” più gloriosa del volto di Dio che avverrà nella sua passione e morte, scandalosa per l’uomo religioso, stoltezza per l’uomo chiuso nel suo ragionamento: entrambi rifiuteranno questa rivelazione (cfr 1Cor 1,23).  Il nome di Dio che Gesù farà conoscere nel brano della Passione sarà quello di Dio che è amore fedele e gratuito all’uomo ad ogni costo, che fino all’ultimo farà una proposta incessante d’amore per l’uomo nonostante egli “paghi” tutto questo con il dono della propria vita.

     

    Per la meditazione:

    Mi pongo davanti alla croce: quale il Nome di Dio che Gesù mi rivela?
    Sono disposto a farmi lavare i piedi da Gesù? Ovvero a lasciarmi amare da Lui? Oppure come Pietro avrò paura di questa rivelazione? Chiedo allo Spirito di liberarmi dalle false immagini di Dio e di imparare a non temere la gratuità dell’amore incondizionato di Dio, a lasciarmi abbracciare dalla gratuità da lui.

     

  • 15 Mar

    SIGNORE MIO E DIO  MIO
    Lectio di Gv 20,19-31

                               

                        

    Se al mattino il sepolcro vuoto dominava il racconto, alla sera lo domina la presenza di Gesù in mezzo ai suoi discepoli. Ma la ripresa delle relazioni é solo un primo passo.  Il seguente è l´invio dei discepoli.  Il terzo passo è il dono dello Spirito. L´ultimo passo è il potere di perdonare i peccati.  A partire dal v. 24 il racconto continua con il racconto di Tommaso, “uno dei dodici”.

    Apparizione agli apostoli e presentazione delle piaghe

    19.La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!».20 Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.

    Il luogo è uno spazio chiuso per la paura. Gesù si fa presente in quello spazio, e la sua presenza comunica pace e infonde gioia. Al posto della paura, la pace. Il saluto pasquale produce la trasformazione, l´identificazione grazie alle ferite allontana il dubbio e il turbamento. La scena racchiude l´abbozzo di una celebrazione domenicale: il giorno del Risorto, la presenza di Gesù nella comunità, la riconciliazione per il perdono dei peccati, la memoria della passione, il dono dello Spirito. È la Pasqua settimanale.

    Il dono dello Spirito per la missione 

    21. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». 22.Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. 23. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

    Per la seconda volta offre la pace. E con essa la missione. Non si tratta di una missione nuova, ma della stessa missione di Gesù, che si estende a tutti quelli che sono i suoi discepoli: essere testimoni dell´amore del Padre. Per realizzare questo compito ricevono la forza dello Spirito.

    Così come nella creazione dell´uomo, Dio gli trasmise la vita, così anche l´alito di Gesù comunica la vita alla nuova creazione.

    Cristo, che morì per togliere il peccato del mondo, già risuscitato, lascia ai suoi il potere di perdonare.

    In questo modo, il Signore non istituisce solo un sacramento; condivide il suo trionfo sul male e sul peccato. Dopo la risurrezione è possibile credere nel perdono perché il potere delle tenebre non è più il dominatore assoluto del mondo. Il risorto è il Signore, perché ha vinto la morte. Credere questo e lavorare di conseguenza è essere cristiano. Di lì che il perdono dei peccati sia per i discepoli di Cristo la ricchezza più grande della Chiesa. La capacità di perdonare è l´immagine più vera del Padre e la forza che permette di risolvere le grandi tensioni dell´umanità. Chi non sa perdonare, non sa amare. Nella riconciliazione si mostra l´amore più autentico.

    I dubbi di Tommaso

    24. Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. 25. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».26. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c´era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!».

    Tommaso, uno dei protagonisti del quarto vangelo, mostra il suo carattere dubbioso e facile allo sconforto. Si era dato una certa importanza invitando i compagni a morire con il Maestro (11,16), non sapeva dove andasse Gesù (14,5) e adesso rifiuta l´omaggio della sua fede nella risurrezione affermata dagli apostoli. Abbiamo visto il Signore! All´inizio del vangelo (Gv 1,41.45), Andrea, Giovanni e Filippo, quando incontrarono il messia, corsero ad annunciarlo ad altri. Adesso l´annuncio è ufficiale da parte dei testimoni oculari. Ma Tommaso non riesce a credere attraverso a dei testimoni. Vuole fare la  sua esperienza. Il vangelo è cosciente della difficoltà di qualunque persona per  aderire al Kerygma. Tommaso è disposto a  credere, ma vuole  risolvere personalmente  ogni dubbio. Gesù non vede in lui uno scettico  indifferente, ma un uomo alla ricerca della verità e  gli offre piena  soddisfazione.

    Gesù e Tommaso, otto giorni dopo

    27. Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere più incredulo, ma credente!». 28. Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». 29. Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

    Gesù ripete le parole di Tommaso, entra in dialogo con lui, comprende i suoi dubbi e lo vuole aiutare. Gesù sa che Tommaso lo ama ed ha compassione per lui, perché non gode ancora della pace, che viene dalla fede. Lo aiuta a progredire nella fede. Signore mio e Dio mio! E´ la professione di fede nel Risuscitato e nella sua divinità come è proclamata anche all´inizio del vangelo di Giovanni (1,1) È la professione di fede pasquale nella divinità di Gesù, la più chiara e diretta. Gesù non corregge le parole di Tommaso, come aveva corretto quelle dei Giudei che lo accusavano di voler essere “uguale a Dio” (Gv 5,18ss), approvando così il riconoscimento della sua divinità. “Perché mi hai visto hai creduto? Beati quelli che credono senza aver visto”. Da un lato Giovanni pone in chiaro che aver convissuto fisicamente con Gesù non è criterio sufficiente per conoscerlo in profondità. D´altra parte, anticipa che questa conoscenza di Gesù si può dare anche in coloro che non hanno convissuto fisicamente con Lui. Si tratta di una realtà sentita intensamente nelle prime comunità cristiane. Questo testo ci offre la grande gioia di sapere che, oggi, possiamo cononoscere Gesù perfino meglio di quelli che vissero con Lui. Ci troviamo realmente nel tempo pasquale.

    Finalità del Vangelo di Giovanni

    30. Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. 31. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù é il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

    Con queste parole terminava il quarto vangelo. La sua finalità non era quella di scrivere la vita completa di Gesù, ma di dimostrare che Gesù era il Messia, il Figlio di Dio. Credendo in Lui abbiamo la vita eterna. L´autore dà così conto della doppia finalità del suo scritto. La frase “perché crediate” non è diretta ai non credenti, per cercare di convertirli, ma ai credenti, per rafforzare la fede che già hanno. La finalità che riguarda Cristo si completa con l´altra che riguarda la salvezza: “perché abbiate la vita”. Il quarto Vangelo è essenzialmente un messaggio di salvezza, con l´annunzio esplicito di Cristo, come vero Salvatore. L´autore sa che questa non è una realtà assolutamente evidente. Per questo, forse, nel suo vangelo, non parla di miracoli, ma di segni. Il segno bisogna saperlo scoprire. Credere in Gesù non è un processo facile, perché esige sempre un rinnovamento nel modo di pensare e di agire da parte di colui, che si dice credente.

    Alcune domande

    – E´ possibile che qualcuno si professi cristiano, ma non creda nella Risurrezione di    Gesù? È  così importante credere in essa? – Che cosa cambierebbe se solo ci fermassimo agli insegnamenti e alla   testimonianza di vita di Gesù?
    – Che significato ha per me il dono dello Spirito per la missione?
    – Come continua, dopo la Risurrezione, la missione di Gesù nel mondo?

  • 09 Mar

    Sono ancora “malata d’amore”?

    Lectio di Ct 5,2-8

    Il concilio ebraico di Jamnia del 90 d.C. inserì il Cantico dei Cantici, dopo notevoli dispute, nel Corpus degli “Scritti” ispirati. Le dispute erano causate dalla apparente profanità del testo in cui non compare mai il nome di Dio. Rabbì Aqiba, principale difensore dell’ispirazione del Cantico, disse in quell’occasione che “il mondo intero non vale il giorno nel quale fu dato ad Israele il Cantico dei Cantici. Tutti i libri della Bibbia sono santi, ma il Cantico è il più santo di tutti”. Infatti la tradizione biblica sia ebraica che cristiana riconobbe sempre, senza alcun timore, il piccolo libro del Cantico dei Cantici come ispirato perché vi lesse non solo la bontà e la bellezza dell’amore umano creato da Dio (cfr Gen 1), bensì il suo rimando al grande tema dell’alleanza sponsale che intercorre tra Dio e Israele, e di riflesso tra Cristo e la sua Chiesa, tra il Signore e l’anima di ciascun credente. In quel libretto, per usare l’espressione di san Tommaso d’A., la fede vi vede racchiusa “la ricchezza dell’amore divino” per l’intera umanità.
    Un’autentica vita di consacrazione vive e cresce unicamente se attinge incessantemente alla sorgente dell’amore sponsale di Dio per noi. Senza amore la vita, per tutti, diventa solo peso e incubo, routine malamente sopportata e sempre bisognosa di scappatoie più o meno nevrotiche. Affermare che il nostro essere discepoli ha la sua radice nell’esperienza dell’amore sponsale di Dio per noi significa ricordarci sempre che non viviamo di un ideale, di un progetto, o di una filosofia: viviamo dentro una relazione che ha un volto ben preciso sempre vivo e presente: quello di Gesù di Nazaret. Il documento vaticano “Ripartire da Cristo” (CIVCSVA, 2002) è un forte richiamo a questa realtà:  “Ripartire da Cristo significa ritrovare il primo amore, la scintilla ispiratrice da cui è iniziata la sequela. È suo il primato dell’amore. La sequela è soltanto risposta d’amore all’amore di Dio. Se «noi amiamo» è «perché egli ci ha amato per primo» (1 Gv 4, 10.19). Ciò significa riconoscere il suo amore personale con quella intima consapevolezza che faceva dire all’apostolo Paolo: «Cristo mi ha amato e ha dato la sua vita per me» (Gal 2, 20)” (n.23).
    Ci domanderemo alla luce della Parola: il mio rapporto con Dio sgorga dalla sorgente del sentirmi amato da lui (cfr Gal 2,20)? Questo suo innamoramento riempie e scalda il mio cuore, lo rende vigilante affinché non venga meno la mia risposta alla sua offerta? Oppure la mia relazione con Dio, venendo meno l’amore, si sta trascinando sull’onda del dovere, della legge, delle cose da fare, quasi che ormai Dio fosse assente? Non è che mi ritrovo così preoccupato di me stesso da lasciarmi sfuggire di mano l’essenziale ritrovandomi così spaesato e vuoto, incapace di “correre nella notte” perché non attendo più nulla? E infine: il mio cuore è ancora “malato di amore” per il Cristo sposo di sangue?
    Invochiamo lo Spirito santo perché apra mente e cuore all’ascolto della Parola di vita e riaccenda in ciascuno il desiderio di ritrovare la “fiamma del primo amore”: “Lo Spirito Santo effettuerà in me una continua incarnazione del Verbo: io posso dare al Verbo un cuore umano per amare ancora nel tempo i fratelli e il Padre, gli posso dare le mie membra e il mio spirito perché vi compia “ciò che manca alla passione per il Corpo di Lui che è la Chiesa”. Lasciar vivere Gesù in me: lui la mia umiltà, la mia purezza, la mia carità, la mia pazienza, la mia forza, la mia amabilità. Sparire per lasciar regnare lui; non devo imitare Gesù ma rimanere io; devo sparire e lasciar vivere lui divenire il mio io, le specie trasparenti che nascondono Cristo” (Maria Gubbi).

    Lectio

    Dopo l’esultanza gioiosa dell’ “incontro nel giardino” (c.1), il testo ci riporta in un’atmosfera profondamente diversa: alla solarità si sostituisce un notturno non privo di incubi e sofferenze, all’abbraccio subentra l’esperienza della solitudine, alla dolce presenza dell’amato quella di un’angosciosa assenza.
    E’ notte tarda e tutti dormono. Anche la ragazza ci si presenta “addormentata” (v.2) nel suo letto. Eppure ella ribadisce che “il suo cuore rimaneva sveglio”: il ricordo dell’amato non viene mai meno in lei, neppure durante il sonno. Il cuore rimane vigilante a motivo dell’amore che continuamente vi pulsa: esso è come un fuoco sempre acceso (cfr 8,6), come il cuore che incessantemente pulsa la vita.  E’ motivo insistente nella Scrittura (soprattutto nella tradizione deuteronomista) l’invito alla “sposa” Israele a non dimenticare mai l’amore del suo sposo Jhwh: “Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti dò, ti stiano fissi nel cuore; (Dt 6,4-6). Il farne incessante memoria è condizione perché l’alleanza con JHWH rimanga viva e non venga dimenticata (cfr Gr 2,32).
    Nel cuore della notte “un rumore” improvviso fa sobbalzare la giovane: è il suo innamorato che sta bussando alla porta chiedendo di entrare. È una visita inaspettata come tante visite di Dio che non possono essere programmate (cfr Gv 20,19). Gesù amerà paragonare la venuta del Figlio dell’Uomo alla sortita di “un ladro nella notte” (Lc 12,39; Gv 10,1; 1 Tess 5,2…).
    L’innamorato alla porta insiste: «Aprimi, sorella mia, amica mia, colomba mia, mio tutto!». Usa una cascata di vocativi a cui si aggiunge (come in 6, 9) l’appellativo tipico che sta ad indicare l’unicità dell’amore vero: «Mio tutto». Come non riandare al testo dell’Apocalisse dove il Risorto si presenta mendicante alla porta chiedendo di entrare? “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). L’entrare nel talamo o il cenare insieme sono immagini che dicono in fondo la stessa realtà: il desiderio della condivisione, la passione di una comunione vicendevole.
    La scusa addotta dal giovane per entrare  è che la notte è fredda e i suoi capelli sono “madidi di rugiada” (cfr Gdc 6,37-40). L’amato porta con sé la rugiada che nella Scrittura simboleggia il dono della grazia – la vita – che JHWH riversa continuamente su Israele sua sposa ( “sarò come rugiada per Israele” Os 14,6; cfr Sal 109,3; Dt 33,28).
    Al bussare del giovane, la donna si fa desiderare mostrandosi quasi indifferente (v. 3). Si tratta forse di una capricciosa ritrosia tipicamente femminile, una tipica schermaglia d’amore. Ella avanza scuse banali per farlo attendere alla porta: è già a letto e poiché deve scendere e andare alla porta si sporcherebbe i piedi. Mentre l’innamorato le offre il suo capo coronato di riccioli e pregno di rugiada l’amata sembra preoccupata dei suoi piedi! Queste scuse e rimandi sono il sale dell’amore, ma possono degenerare nell’incomprensione, nella gelosia, nell’allontanamento. L’amore infatti raramente ammette troppi ritardi e lungaggini! Nel sottofondo udiamo la voce del Dio innamorato che chiede alla sua sposa-Israele un’alleanza senza troppi rimandi: “Ascoltate oggi la sua voce: Non indurite il cuore” (Sal 94,8); “Egli dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! (2Cor 6,2).
    Dinanzi a questa ritrosia della fidanzata il giovane innamorato non si rassegna e tenta un’ultima strada per entrare cercando di forzare la serratura della porta che lo tiene lontano dal suo amore (v. 4). Con la mano cerca, attraverso una fessura, di sollevare il chiavistello. È un modo furtivo per ribadire la sua passione e il suo ardente desiderio di entrare e risvegliare nell’amata il desiderio amoroso. Dio non desiste mai, non si arrende, nei suoi tentativi per rinnovare la sua alleanza con la sua sposa e la storia della salvezza ne è chiara testimonianza (cfr Is 5,1ss; Ebr 1,1).
    La ragazza, appena sente che la mano del suo amato armeggia al chiavistello viene percorsa da un fremito d’amore e di gioia (le sue viscere fremono). È lo stesso sentimento di tenerezza che è applicato nelle Scritture vetero e neotestamentarie alle “viscere” misericordiose di Dio per il suo popolo (cfr Gr 4,19; 31,20; Is 16,11; Mt 15,32; Mc 8,2…).
    Subentra però improvviso il silenzio: la ragazza capisce che è successo qualcosa di grave. Si alza immediatamente dal letto senza più alcuna tergiversazione per aprire all’amato (v.5). Nell’armeggiare la serratura le sue mani si ungono di unguento di preziosa mirra profumata. L’amato ha lasciato la sua impronta, quasi un alone della sua presenza: il profumo è segno dell’intimità, e soprattutto della gratuità dell’amore (1,13; 4,6; cfr Gv 12,23). La sapienza, nel libro dei Proverbi, predispone il talamo per i suoi amanti preoccupandosi che non manchi “il profumo di mirra” (17,7).
    La porta spalancata si apre solo sul buio e sul silenzio  della notte (v. 6). L’innamorato si è dissolto come un’ombra (cfr Sal 144,4). E mentre poco prima la fidanzata si sentiva quasi svenire di gioia e di emozione, ora: “viene meno per la sua scomparsa”. Ella chiama per nome l’amato: silenzio e vuoto la circondano.
    L’innamorata non si può ormai dar pace, non si rassegna alla perdita: violando tutte le norme del buon senso, superando i condizionamenti sociali, mossa solo dal suo desiderio di ritrovare il suo amore, esce sola dalla sua casa e inizia a percorrere nella notte fredda e pericolosa  vicoli e piazze della città alla ricerca affannosa del suo amore (v.7, cfr Gr 31,22 in cui la figlia di Israele infedele diventa vagabonda). È una ricerca disperata che non porta a nulla di fatto. È il dramma dell’assenza, della solitudine che sperimentiamo nelle nostre relazioni, ma è anche il dramma del silenzio di Dio che percorre tante pagine della Scrittura: “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. Di te ha detto il mio cuore: «Cercate il suo volto»; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” (Sal 26,6-8) ; “Perché, Signore, stai lontano, nel tempo dell’angoscia ti nascondi?” (Sal 9,22).
    Ma è un’assenza che costringe a cercare, a porsi in cammino verso colui che ci viene incontro. Ad un andare sempre oltre, come “oltre” è sempre il mistero dell’Altro: “Voi mi cercherete, e non mi troverete; e dove sono io, voi non potrete venire” (Gv 7,34).
    All’improvviso appare una ronda delle guardie della città (v.7) e la ragazza viene scambiata per una prostituta in cerca di chissà quali avventure. È la stessa scena presentata in 3,3-4 ma qui c’è un particolare nuovo: ella ora viene ferita mentre le viene strappato di dosso il velo che la nasconde. La ricerca dell’amore non è mai senza dolore e sofferenza!
    Ma nonostante l’umiliazione e le ferite l’innamorata ancora non si arrende (v. 8). Lancia un appello alle  «figlie di Gerusalemme» perché si associno a lei nella ricerca del suo amato di cui non può far a meno. E nel caso lo trovino ella dice di riferirgli da parte sua un unico messaggio, quello stesso che aveva già loro affidato in un momento più felice (2,5): «Sono malata d’amore, io!» (v.8; nei LXX “sono ferita dall’amore”).
    Così una notte serena, piena di attese e di emozioni amorose, è approdata alla tragedia di una scomparsa e di una ricerca affannosa e disperata: ma questa forse è la condizione per una riscoperta della preziosità dell’amore ancora più profonda e appassionata.

    Meditatio

    San Bernardo abate di Clairvaux, fu uno dei più grandi commentatori medievali del Cantico dei Cantici. Un testo altamente amato da tutta la tradizione monastica. In un passo egli afferma una realtà di fondamentale importanza per la vita religiosa:  “grande cosa è l’amore se si rifà al suo principio, se ricondotto alla sua origine, se riportato alla sua sorgente. Di là sempre prende alimento per continuare a scorrere”. In altre parole: se l’amore vuole continuare a divampare come fuoco deve alimentarsi alla sua sorgente, altrimenti si spegne.
    Nella vita cristiana e di consacrazione questa sorgente è nella fede, nella certezza che Dio ti ha amato e ha donato il suo Figlio per te perché ti desidera in comunione con lui per tutta l’eternità (cfr Gv 3,16). Non per nulla il Concilio Vaticano  dichiara che “i religiosi davanti a tutti i cristiani evocano quel mirabile connubio voluto da Dio e che si manifesterà pienamente nel secolo futuro, il connubio per la cui la Chiesa ha Cristo come suo unico sposo”  (PC 25).
    La memoria di questo “mirabile connubio” deve rimanere ben sveglia in te: “Io dormo ma il mio cuore veglia” (v.2). Hai bisogno di un cuore che non si addormenti; e ogni aspetto della tua vita dovrebbe aiutarti a raggiungere questo scopo: “I consigli evangelici hanno senso in quanto aiutano a custodire e favorire l’amore per il Signore in piena docilità alla sua volontà; la vita fraterna è motivata da lui che raduna attorno a sé ed è finalizzata a goderne la sua costante presenza; la missione è il suo mandato e muove alla ricerca del suo volto nel volto di quelli a cui si è inviati per condividere con loro l’esperienza di Cristo” (Ripartire da Cristo, n.22).
    Lo sposo dalla mano trafitta “bussa” discretamente e incessantemente alla tua porta, di certo non la sfonda con la violenza perché è rispettoso della tua libertà, perché questa è condizione essenziale alla gratuità dell’amore su cui si fonda la tua vita: “Benché sia capace di entrare non vuole introdursi con forza. Non vuole costringere coloro che si rifiutano. Beato dunque colui alla cui porta il Cristo bussa. Ma ascolta colui che bussa, ascolta colui che desidera entrare in modo che lo sposo al momento della sua venuta non si ritiri perché la casa è chiusa per lui” (Sant’Ambrogio).
    Hai bisogno di lasciar entrare lo sposo nell’intimità della tua vita se vuoi gioire dell’amicizia con lui: se non accadesse perderesti il senso della tua scelta, perderesti il senso del tuo servizio, il senso della tua stessa vita. Tutto alla fine ti apparirebbe vuoto e tu sprofonderesti in una interminabile notte senza alcuna attesa. Ricorda che la tua sequela non consiste soltanto e anzitutto in una imitazione esterna dei gesti e delle parole del tuo Signore e sposo, bensì necessita di una stretta unione nuziale con lui. E’ questa la condizione di una vita consacrata feconda di frutti: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me” (Gv 15,4; cfr Rm 6,5).  A chi spalanca la porta allo Sposo che bussa all’improvviso egli promette la gioia della sua amicizia: “Io cenerò con lui ed egli con me” (cfr Ap 6,23).
    Sarebbe inutile per te avere occhi vigili alle tante cose da fare, ai compiti e ruoli da svolgere, l’indaffararti a volte frenetico nelle tue mille attività e accorgerti ad un certo punto d‘avere un cuore spento, in cui non pulsa l’amore per l’Amato, che chiedeva di entrare per dare senso ad ogni cosa. Siano vere per le parole della “Perfectae Caritatis”: “Quanto più fervorosamente si uniscono a Cristo con la donazione che abbraccia tutta la vita, tanto più rigogliosa diventa la vita della Chiesa e il suo apostolato si fa vigorosamente fecondo” (n.12).
    Potresti portare la scusa di non avere tempo, di aver tante cose da fare “per lui”, ma di non aver tempo per stare “con lui”.  Se ciò accadesse lentamente sprofonderesti in una sorta di “addormentamento” in cui i tuoi riflessi interiori non più vigili divengono sempre più lenti, intorpiditi e alla fine incapaci di cogliere la visita della grazia. Come la ragazza del Cantico faresti fatica ad acconsentire – lei così troppo occupata, civettuola e centrata su se stessa – ad alzarti immediatamente al bussare dell’amato. Invece di lasciarti prendere dal desiderio dell’amore per stare finalmente e totalmente accanto all’amato nudo e bagnato com’è dalla rugiada del suo sangue, vorresti ancora ricoprirti della “tua” veste, quella dei suoi desideri, della stima dinanzi al mondo ritardando così l’incontro. Non dimenticare che il tuo unico desiderio è di “seguire nudo Cristo nudo” (s. Gerolamo). I tanti rimandi, le pigrizie, i ripiegamenti su di te fanno sì che il tuo “io” abbia il sopravvento sul desiderio e la bellezza dell’unione sponsale a cui un giorno ti ha chiamato. Nella tua vita interiore c’è sempre il rischio di divenire col tempo accomodante, facile al compromesso. Nulla di più pericoloso di una sublimazione che mascheri la non voglia di piegarsi a tutte le esigenze concrete di una relazione autentica che va coltivata con somma cura. Scrive san Giovanni della Croce che ha amato in particolar modo il Cantico dei Cantici: “Chi rifiutasse di uscire nella notte in cerca dell’amato ed essere spogliato e mortificato della sua volontà, e volesse cercarlo nella tranquillità del suo letto, come faceva la sposa, non lo troverebbe” (s. Giovanni della Croce, Notte oscura). Non dare per scontato una relazione sponsale con Cristo: essa va coltivata, protetta e rinnovata ogni giorno con somma cura.
    Troppe volte invece purtroppo accade che la presenza dell’Amato si dissolva dalla vista e al suo posto subentri un vuoto insopportabile. Se si vuole uscire da questa insopportabilità che oggi assale talvolta la vita di singoli consacrati e di intere comunità vi è una sola via di guarigione. Uscire nuovamente da noi stessi e metterci, anche se è notte, in cammino. Il “mendicante dell’amore” (Sant’Agostino) va cercato e inseguito di nuovo. Allora l’amata imparerà, nel dolore dell’assenza e in una dolorosa ricerca, non solo a conoscere nuovamente l’Amore, ma anche a misurarne l’unicità e quando gli sia impossibile farne a meno.
    Questo è grazia! L’amore viene così a scuoterti dal tuo intorpidimento quasi obbligandoti nuovamente alla sequela “Egli veglia, anzi non dorme, ma riposa sempre accanto al nostro cuore e, insistentemente, lo ferisce per dirgli: Aprimi!” (Luis de Lèon). Inizia così per te una corsa “senza indugio” (Lc 24,33.
    Per metterti alla ricerca dovrai lasciare la tua comoda stanza e metterti in cammino sopportando incertezze, umiliazioni, percosse e forse il disonore. Ti esporrai al rischio del buio della strada e delle sue incognite. Sarà un andare sempre oltre le tappe già raggiunte. Ma nel tuo cuore arderà nuovamente il desiderio dell’essenziale, se non ti lascerai sopraffare dallo scoraggiamento. D’altra parte non si misura l’amore se non nella fedeltà e nella perseveranza con cui lo si cerca:  “Ti ho consacrato tutta la mia vita: ora, mio sposo, vengo a te con la lampada accesa” (Liturgia delle Ore).
    La notte del carnevale del 1367 ad una giovane senese, Caterina Benincasa, appare Cristo accompagnato dalla Vergine e da una folla di santi. A Caterina in quel tempo provata e umiliata in ogni modo, ma assetata dell’amore di Cristo, il Signore in veste di sposo dona un anello nuziale. La visione sparisce, Cristo sembra dissolversi, ma l’anello rimane visibile a lei sola quale testimone silenzioso di un amore che mai viene meno.

    Oratio

    Terminiamo la nostra lectio con una preghiera tratta dalla divina liturgia dei nostri fratelli d’oriente. Ringraziamo con essa il Cristo sposo per la sua alleanza nuziale con ciascuno di noi. A lui nudo sulla croce chiediamo di essere spogliati della nostra pigrizia, dimenticanza, e superficialità nel vivere la nostra consacrazione che è patto d’amore con lui che per primo ci ha amato. Che il cuore non si raffreddi nell’attesa della sua venuta e rimanga vigile e desideroso d’incontrarlo quando egli busserà alla porta. Sia Lui stesso allora a rivestirci della veste nuziale, quella stessa di coloro che seguono l’Agnello.
    O Sposo bellissimo,
    che ci hai invitato al convito spirituale del tuo talamo,
    spogliami della veste dei peccati con la partecipazione alle tue sofferenze
    e, ornandomi con la veste di gloria della tua bellezza,
    rendimi splendido commensale del tuo Regno,
    “Andiamogli incontro…” .
    Stringiamoci attorno “al più Bello tra i figli dell’uomo” con i segni della bellezza.
    Santo Dio, Santo forte, Santo immortale abbi pietà di noi.

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