• 02 Mag

    Caino: la parola alla violenza

    (Gen 4)

    La figura di Caino ci riporta immediatamente al racconto biblico dell’omicidio di Abele, ponendoci di fronte un personaggio che lungo la storia è diventato il sinonimo di assassino. Ma liquidare la vicenda di Caino considerandola solo «una brutta storia di violenza», frutto di un animo malvagio, sarebbe molto semplicistico e soprattutto non terrebbe conto della complessa situazione che ci presenta il capitolo quarto della Genesi. Dobbiamo allora chiederci da dove venga la violenza di Caino, e perché egli arrivi a uccidere il fratello Abele.

    L’analisi delle particolarità terminologiche del testo biblico, in continuità con quanto narrato nei primi tre capitoli, ci potrà aiutare a illuminare il contesto vitale in cui si muove Caino.

    Chi è dunque Caino? È «figlio dei suoi genitori!». Questa risposta, tutt’altro che banale, ricollega la vicenda di Caino con quella di Adamo ed Eva. Caino è il frutto «genetico», ma anche «logico», delle scelte della prima coppia umana. Non si può quindi dimenticare che i genitori di Caino sono coloro che, pur avendo la possibilità di vivere nell’abbondanza dell’Eden, ne erano stati allontanati a motivo della loro avidità. Il testo ci dice che dopo essere stati cacciati dal giardino «Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino» (4,1a). Potrebbe sembrare l’inizio di un’altra storia, ma in realtà è lo sviluppo di quanto è successo precedentemente. Non si può quindi capire Caino senza tener conto dell’esperienza dei suoi genitori.

    Il testo ebraico presenta alcune sottolineature terminologiche che confermano il legame con i racconti precedenti. Innanzitutto l’azione è riferita ad «Adam» (termine usato nei primi capitoli per indicare l’essere umano prima della distinzione sessuale tra uomo e donna): è lui il soggetto, mentre la sua donna è solo l’oggetto. Il verbo usato (yada‘) letteralmente significa «conoscere». È uno dei verbi fondamentali della Bibbia, ed ha un ruolo particolare nel racconto del peccato di Genesi 3 (Adamo ed Eva volevano infatti «conoscere il bene e il male» 3,5). Solo in pochi casi nella Bibbia viene usato per esprimere il rapporto sessuale, ponendo però in evidenza una relazione non armonica, frutto del dominio di un soggetto sull’altro (è il caso dello stupro, della prostituzione o dei rapporti omosessuali). La presenza di questo verbo dà quindi una valenza negativa all’unione tra Adamo ed Eva, ponendo in evidenza la sottomissione della donna al potere dell’uomo, che non le riconosce la dignità di persona, ma solo come «oggetto» del proprio desiderio. Basterebbe già questo per comprendere meglio l’origine del disagio di Caino, ma il testo ci suggerisce ulteriori spunti.

    Infatti Eva, subito dopo aver partorito il suo primogenito, esclama compiaciuta: «Ho acquistato un uomo dal Signore» (4,1b). Con questa espressione la donna pone in evidenza due elementi: il primo è che ella ha acquistato (il nome «qajin» deriverebbe dal verbo «qanàh» che significa «acquistare») e quindi «possiede» un uomo (=maschio/marito), e così può compensare la sua sottomissione all’Adam; il secondo riguarda la paternità di Caino, attribuita inaspettatamente a Dio, lasciando l’Adam fuori dal rapporto tra la madre e il figlio. La donna che si è sentita «posseduta» dall’Adam, ora possiede e domina il proprio figlio, vedendo in lui l’alternativa al marito.

    Caino quindi è il frutto, e al tempo stesso la vittima, di una relazione umana distorta che realizza quanto aveva annunciato Dio alla donna: «verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (3,16). Il figlio viene «strumentalizzato» dalla madre per rivalersi del dominio dell’uomo, instaurando con lui un rapporto unico e privilegiato che non lascia spazio alla presenza di nessun altro.

    Il racconto prosegue poi con la nascita di Abele che conferma questa situazione: il secondo figlio non ha alcuna considerazione agli occhi della madre. Per lui non ci sono parole di compiacimento, e neppure viene riconosciuto come figlio, ma semplicemente come «fratello». Gli viene imposto un nome che esprime tutta la sua inconsistenza («Abele» significa soffio, vento, vanità), poiché il suo arrivo non rompe la relazione privilegiata tra la madre e il primogenito.

    Il testo sottolinea la diversità dei due fratelli («Abele era pastore e Caino lavoratore del suolo» 4,2), senza però affermare che questa fosse motivo di conflittualità. Il contrasto sorge invece a causa di Dio. Quando Abele e Caino offrono al Signore i frutti del loro lavoro, scoprono di essere «guardati» diversamente da LuiIl Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino» (4,4-5). Il testo non dice che l’offerta di Caino fosse indegna, ma solo che non fu gradita agli occhi di Dio.

    Ci domandiamo dunque, perché Dio guardò ad Abele e non a Caino? Dal punto di vista di Caino il comportamento del Signore risulta ingiusto, perché rifiuta la sua offerta sincera. Il suo desiderio di instaurare un rapporto privilegiato con il creatore viene frustrato dalla risposta negativa. Ma dal punto di vista di Dio, la risposta divina viene a compensare l’ingiustizia subita da Abele. Egli che è stato rifiutato come figlio dalla madre e dal fratello, viene ora «guardato» da Dio, e la sua considerazione gli ridona consistenza. Caino vale agli occhi di Eva, ma Abele vale agli occhi di Dio.

    Per questo l’azione di Dio, mentre riabilita Abele, cerca di rompere il legame asfissiante tra Caino e la madre, aprendolo ad un nuovo rapporto con il fratello. Ma Caino non capisce, anzi sente che l’azione di Dio gli pone di fronte un «altro» che egli vede come antagonista. Invece di riconoscere nel fratello un’occasione di relazione, Caino, schiavo com’è del suo desiderio infantile di essere lui l’unico figlio di Eva e di Dio, vede in Abele un ostacolo alla sua felicità. Per questo Caino «ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto» (4,5b). La traduzione letterale del testo («bruciò molto a Caino e il suo volto cadde») fa pensare non tanto ad una reazione superficiale di Caino, quanto ad un vero e proprio stato di sofferenza e depressione. Caino è chiuso nel suo dolore e soffre a motivo della sua gelosia: l’essere cresciuto in un rapporto totalizzante con la madre, gli rende ora insopportabile ogni limitazione al suo desiderio di essere l’unico.

    Nasce in lui l’idea che la causa del suo soffrire sia fuori di lui, e proietta tutto questo nella presenza di Abele. Caino si sente solo e abbandonato da Dio. Ma non è così. Infatti Dio non ignora la sua sofferenza e proprio per aiutarlo a comprendere la sua situazione gli rivolge la parola: «perché sei irritato e perché il tuo volto è abbattuto?» (4,6). La domanda invita Caino a fare luce sui motivi profondi del suo disagio e a coglierne l’origine. Dio ricorda a Caino che è lui a decidere della sua vita, presentandogli un’alternativa: egli può  fare il bene, oppure può fare il male. Il testo non esplicita cosa significhi«fare il bene», ma se lo ricolleghiamo al racconto della creazione, scopriamo che «il bene» è la relazionalità: «non è bene che l’uomo sia solo» (2,187.

    Caino quindi è invitato ad aprirsi alla relazionalità, accogliendo la presenza del fratello in modo positivo. Se egli agirà così potrà «rialzare il suo capo»: potrà quindi guardare avanti, avrà cioè un futuro, ma anche «saprà sopportare» la fatica della relazione, e la sofferenza causata dalla sua gelosia. Se invece egli non farà il bene, sarà in balia del peccato che è «accovacciato alla sua porta» (4,7). Il termine peccato (hatta’) significa innanzitutto «sbagliare bersaglio», «fallire l’obiettivo», «mancare al proprio scopo». Per Caino quindi il rischio è di non realizzare il proprio desiderio di vita. La causa di questo fallimento viene descritta come una forza istintiva presente nell’uomo, che ricorda molto da vicino il serpente del capitolo terzo. Questa forza siede alla «porta» di Caino, nel luogo di passaggio e di comunicazione tra la sua interiorità e il suo agire. Egli è chiamato a dominarla, perché non sia questo istinto a guidare le sue azione e i suoi giudizi. Se la saprà dominare allora potrà rompere con i condizionamenti del suo passato, svincolandosi dalla logica di dominio e di potere che lo ha generato.

    Per questo Dio lo invita a parlare, a «umanizzare» quella forza istintiva che la sofferenza ha risvegliato in lui. Questo sarebbe il momento per «far parlare» la propria rabbia, ed esprimere la propria recriminazione nei confronti di Dio. Ma Caino non parla. Tiene tutto dentro nel suo mutismo animalesco e la sua sofferenza si trasforma in aggressività contro Abele. In lui «parla la violenza». Il testo ebraico sottolinea questa realtà con una costruzione di difficile traduzione: «disse Caino ad Abele suo fratello e avvenne che quando furono in campagna alzò la mano contro di lui » (4,8). Il suo «dire» non è una parola umana, ma violenza animale che si scatena contro il fratello, ritenuto causa di tutto. Guidato dall’istinto sfoga la sua rabbia, pensando così di ottenere tutto per sé.

    Ma in questo modo Caino sbaglia, perché Abele non c’entrava nulla e la causa vera del suo soffrire era dentro di lui. Per questo il Signore interviene invitandolo a riconoscere la verità, cioè il valore della fratellanza e la sua responsabilità: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (4,9). A questa domanda Caino reagisce bruscamente negando di averlo ucciso e rifiutando la via del dialogo.

    Ma Dio non può non reagire di fronte alla violenza e per questo chiede conto a Caino della sua azione: «cosa hai fatto?» (4,10). Caino è chiamato a fare quello che non ha fatto prima, cioè a «dire la violenza», «umanizzando» la sua aggressività perché questa non uccida più. Dio diventa il giudice che interviene per fermare la violenza facendo verità e mostrando a Caino le conseguenze della sua azione.

    Il rifiuto della fratellanza conduce alla maledizione. Caino è intimamente segnato dalla morte che contamina tutte le dimensioni della sua esistenza. Non avrà più cibo dalla terra, non avrà un luogo dove abitare e neppure una compagnia con cui vivere; sarà «ramingo e fuggiasco» (4,12). Lui che si è fatto padrone della vita altrui, non è più padrone della propria: sarà costretto a fuggire e a nascondersi dagli altri, e soprattutto da se stesso e dal proprio senso di colpa. Il suo desiderio di vita e di felicità, accecato dalla bramosia, si è trasformato in uno strumento di morte.

    Questo era quanto Dio gli aveva preannunciato invitandolo a parlare, perché l’unico antidoto alla violenza è il dialogo, cioè la capacità di ascoltare l’altro, accogliendolo come fratello. Ma quando Caino parla è ormai troppo tardi, e non può fare altro che riconoscere la propria colpevolezza e invocare da Dio la difesa della propria vita.

    Il racconto si chiude con queste parole: «Caino uscì da davanti al Signore e abitò nel paese di Nod»  (4,16). Caino esce così da quella situazione che lo aveva generato, nel bene e nel male, e si apre ad una vita nuova segnata dal suo passato di gelosia e violenza. La sua vicenda resta per noi un monito a non lasciarci guidare dalla nostra ansia di vita, ma a riscoprire nella presenza benevola di Dio Padre un’occasione di fiducia in lui e negli altri, sapendo che la violenza non è frutto di un animo malvagio ma la distorsione del nostro desiderio di felicità.

  • 02 Mag

    GIOBBE: UN DIO MISCONOSCIUTO

     

    E’ bene cominciare dallo scuro per poi vederci chiaro, poiché la troppa luce acceca.

    Possiamo rappresentarci l’Antico testamento come il buio in cui inizia a delinearsi lentamente ma progressivamente all’orizzonte la luce, che risplenderà nella sua pienezza nel nuovo Testamento.

    Il popolo fa esperienza di camminare nelle tenebre:

    Is 9,1: Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse.

    Lc 1,78-79: grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle  tenebre e nell’ombra della morte  e dirigere i nostri passi sulla via della pace.

    Gv 8,12: Di nuovo Gesù parlò loro: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita.

    Rm 13,12: La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.

    La figura di Giobbe in questa esperienza di tenebre è di fondamentale importanza.

    PALEONTOLOGIA DELLA RIVELAZIONE

    Forse occorreva proprio domandarsi di quale fosse la relazione con Dio di un uomo pagano, che non ha conosciuto la rivelazione.

    Il libro di Giobbe si interroga su questa, ed è dunque il tentativo di un ritorno indietro, alle origini ma scoprire la situazione dell’uomo davanti al mistero di Dio.

    Ancora: il libro di Giobbe si interroga sul dolore senza ragione, il quale dà di Dio una così deturpata immagine. Esso viene composto in esilio (nel 620). Il pio israelita si interroga angosciato nella sua fede: Perché nonostante i nostri sforzi Dio ci tratta così duramente? E’ giusto tutto questo? Che senso ha? Come devo pormi dinanzi a Dio?

    Giobbe diviene il simbolo, riassume in sé la vicenda di un popolo. Lui un pagano: il pio israelita può così gridare tutto il suo scandalo attraverso di lui.

    Alle comode e ansiose giustificazioni degli amici “credenti” Giobbe non è né consolato né rasserenato. Esse appaiono solo teorie, parole, espressioni lontane e stereotipate, tentativi di difesa…

    Così il grido di Giobbe giunge sino a noi, e si fa nostro, questo grido che è Parola di Rivelazione.

    Il problema che viene affrontato nel libro di Giobbe non è l’esistenza di Dio, ma la stessa esistenza dell’uomo.

    Evidenziamo tre fasi:

    1.

    Giobbe cap. 14:

    1 L’uomo, nato di donna,

    breve di giorni e sazio di inquietudine,

    2 come un fiore spunta e avvizzisce,

    fugge come l’ombra e mai si ferma.

    3 Tu, sopra un tal essere tieni aperti i tuoi <occhi

    e lo chiami a giudizio presso di te?

    4 Chi può trarre il puro dall’immondo? Nessuno.

    5 Se i suoi giorni sono contati,

    se il numero dei suoi mesi dipende da te,

    se hai fissato un termine che non può oltrepassare,

    6 distogli lo sguardo da lui e lascialo stare

    finché abbia compiuto, come un salariato, la sua

    giornata!

    Sono enunciati alcuni grandi motivi:

    – La vita, il bene più grande, è recisa subito. Tutte le aspirazioni che l’uomo porta in sé sono tragicamente tranciate.

    – Dinanzi a questo essere così fragile ed inconsistente Dio si presenta come giudice spietato. Perché non lo lascia in pace?

    Perché uno deve vivere con il rimorso che lo attanaglia dentro?

    2.

    Gb cap. 10

    20 non son poca cosa i giorni della mia vita?

    Lasciami, sì ch’io possa respirare un poco

    21 prima che me ne vada, senza ritornare,

    verso la terra delle tenebre e dell’ombra di morte,

    22 terra di caligine e di disordine,

    dove la luce è come le tenebre.

    Dunque lasciami in pace!

    3.

    Gb cap. 7

    16 Io mi disfaccio, non vivrò più a lungo.

    Lasciami, perché un soffio sono i miei giorni.

    17 Che è quest’uomo che tu nei fai tanto conto

    e a lui rivolgi la tua attenzione

    18 e lo scruti ogni mattina

    e ad ogni istante lo metti alla prova?

    19 Fino a quando da me non toglierai lo sguardo

    e non mi lascerai inghiottire la saliva?

    20 Se ho peccato, che cosa ti ho fatto,

    o custode dell’uomo?

    Perché m’hai preso a bersaglio

    e ti son diventato di peso?

    21 Perché non cancelli il mio peccato

    e non dimentichi la mia iniquità?

    Ben presto giacerò nella polvere,

    mi cercherai, ma più non sarò!

    Perché questa sensazione di uno sguardo così penetrante, indagante, giudice di Dio?

    L’uomo non si sente mai in casa propria: è sempre osservato e giudicato. Non può mai dire: nessuno mi vede. Situazione insopportabile.

    Anche per Sartre l’angoscia venne da questa sensazione, egli definiva la relazione religiosa come un essere osservato “agli occhi di un altro”.

    L’uomo si  sente nudo e minacciato.

    L’uomo può accusare Dio, pretendendo la sua innocenza? Troviamo in questa direzione l’incubo di Elifaz che tenta di consolare Giobbe:

    Gb 4

    12 A me fu recata, furtiva, una parola

    e il mio orecchio ne percepì il lieve sussurro.

    13 Nei fantasmi, tra visioni notturne,

    quando grava sugli uomini il sonno,

    14 terrore mi prese e spavento

    e tutte le ossa mi fece tremare;

    15 un vento mi passò sulla faccia,

    e il pelo si drizzò sulla mia carne…

    16 Stava là ritto uno, di cui non riconobbi

    l’aspetto,

    un fantasma stava davanti ai miei occhi…

    Un sussurro…, e una voce mi si fece sentire:

    17 «Può il mortale essere giusto davanti a Dio

    o innocente l’uomo davanti al suo creatore?

    18 Ecco, dei suoi servi egli non si fida

    e ai suoi angeli imputa difetti;

    19 quanto più a chi abita case di fango,

    che nella polvere hanno il loro fondamento!

    Come tarlo sono schiacciati,

    20 annientati fra il mattino e la sera:

    senza che nessuno ci badi, periscono per sempre.

    21 La funicella della loro tenda non viene forse

    strappata?

    Muoiono senza saggezza!

    L’uomo un piccolo, insignificante verme, cosa può pretendere?

    Si può accampare una propria innocenza?

    Il fatto che “non sono peggio degli altri” mi può giustificare?

    DOPPIO SCANDALO

    Giobbe sperimenta un doppio scandalo.

    1.       L’assurdità di un Dio onnipotente che spinge la sua creatura verso la morte. Una creatura colma di desideri e di speranze, che “scivola verso la morte come l’acqua che si disperde e fugge dalle screpolature della cisterna” (cf Gb 12,1-8).

    2.       E perché Dio non salva? Anzi sembra che ancor più schiacci con rimorsi, angosce. Dio demolisce e condanna.

    L’augurio di Giobbe è che Dio se ne stia lontano e non venga più ad angosciare l’uomo.

    Bildad consiglia a Giobbe di non domandare i conti a Dio. Allora Giobbe pronuncia la sua “bestemmia”. Ci si addentra così ancor più nella tenebra.

    Ma a Dio saranno più gradite le parole sincere di chi ricerca e domanda pur nella apparente impudenza che le “pie raccomandazioni”, “sentenze di cenere” (13,12) delle vecchie massime.

    UNA SPERANZA

    Giobbe sa che morrà senza aver ottenuto giustizia: ma il suo grido rimane (l’ultima parte del libro probabilmente è un’aggiunta).

    Così il sangue innocente grida la sua “vendetta”.

    Ci deve essere una giustizia: ed è qui che poggia la speranza di Giobbe.

    Una speranza che non si sa né come né quando si potrà realizzare: essa è pura e nuda.

    Gb cap 16

    12 Me ne stavo tranquillo ed egli mi ha rovinato,

    mi ha afferrato per il collo e mi ha stritolato;

    ha fatto di me il suo bersaglio.

    13 I suoi arcieri mi circondano;

    mi trafigge i fianchi senza pietà,

    versa a terra il mio fiele,

    14 mi apre ferita su ferita,

    mi si avventa contro come un guerriero.

    17 Non c’è violenza nelle mie mani

    e pura è stata la mia preghiera.

    18 O terra, non coprire il mio sangue

    e non abbia sosta il mio grido!

    19 Ma ecco, fin d’ora il mio testimone è nei <cieli,

    il mio mallevadore è lassù;

    20 miei avvocati presso Dio sono i miei lamenti,

    mentre davanti a lui sparge lacrime il mio occhio,

    21 perché difenda l’uomo davanti a Dio,

    come un mortale fa con un suo amico;

    22 poiché passano i miei anni contati

    e io me ne vado per una via senza ritorno.

    E così arriviamo al passaggio centrale: allo spiraglio di luce che riesce a forare quelle fitte tenebre:

    Gb cap. 19

    23 Oh, se le mie parole si scrivessero,

    se si fissassero in un libro,

    24 fossero impresse con stilo di ferro sul piombo,

    per sempre s’incidessero sulla roccia!

    25 Io lo so che il mio Vendicatore è vivo

    e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!

    26 Dopo che questa mia pelle sarà distrutta,

    senza la mia carne, vedrò Dio.

    27 Io lo vedrò, io stesso,

    e i miei occhi lo contempleranno non da straniero.

    Le mie viscere si consumano dentro di me.

    Giobbe fa appello ad una speranza. Una risurrezione come possibilità. E’ solo questa che può ristabilire una retta giustizia.

    E così forse può profilarsi contemporaneamente una nuova immagine di Dio.

    Forse Dio non è più il giudice spietato verso l’uomo.

    Ma quando? Come? Solo Dio conosce i tempi:

    cap 14

    7 Poiché anche per l’albero c’è speranza:

    se viene tagliato, ancora ributta

    e i suoi germogli non cessano di crescere;

    8 se sotto terra invecchia la sua radice

    e al suolo muore il suo tronco,

    9 al sentore dell’acqua rigermoglia

    e mette rami come nuova pianta.

    10 L’uomo invece, se muore, giace inerte,

    quando il mortale spira, dov’è?

    11 Potranno sparire le acque del mare

    e i fiumi prosciugarsi e disseccarsi,

    12 ma l’uomo che giace più non s’alzerà,

    finché durano i cieli non si sveglierà,

    né più si desterà dal suo sonno.

    13 Oh, se tu volessi nascondermi nella tomba,

    occultarmi, finché sarà passata la tua ira,

    fissarmi un termine e poi ricordarti di me!

    14 Se l’uomo che muore potesse rivivere,

    aspetterei tutti i giorni della mia milizia

    finché arrivi per me l’ora del cambio!

    15 Mi chiameresti e io risponderei,

    l’opera delle tue mani tu brameresti.

    A questo punto però appare lecito domandarsi: perché Dio deve apparire all’uomo così duro, spietato, crudele?

    Perché l’uomo non trova istintivo l’affidarsi a Dio?

    Cosa è successo perché si sia instaurata questa sfiducia e questa diffidenza?

    E’ l’interrogativo che si propone il libro della genesi.

  • 30 Apr

    IL VALORE DEL SILENZIO

     

    di Enzo Bianchi

     

    Viviamo in un’atmosfera di rumore assordante, non solo esteriore, ma anche interiore, i cui effetti ricadono su tutta la nostra vita, sempre più vuota, superficiale, impermeabile a ciò che richiede un ascolto e un’attenzione vigilante. Siamo saturi di informazioni come di pubblicità, eccitati da impressioni molteplici ed eterogenee, e così ci sembra che l’unica difesa sia diventare a poco a poco indifferenti quasi a tutto, se non cinici. Parole, suoni, rumori, immagini vogliono calamitare la nostra attenzione e cercano l’emozione, la novità, il sensazionale, la sorpresa.
    Viviamo sovrastimolati, con tanti “fornitori di contenuti” che si preoccupano dell’audience, mentre “l’ascolto” è atteggiamento sempre più raro. E il silenzio, che all’ascolto è indispensabile, ci inquieta perché è percepito come una forma di passività, una patologia, una zona della nostra esistenza spiacevole ed estranea, nella quale ci capita magari di finire, ma dalla quale vogliamo uscire al più presto, come dal buio, dal vuoto, dal nulla.
    Poi accade che dei media potenzialmente e abitualmente “rumorosi” – il cinema e la televisione – presentino due documentari che narrano il silenzio, ed ecco l’inatteso: migliaia di spettatori, stupiti, seguono per 160 minuti le scene girate durante sei mesi dal regista tedesco Philip Groning alla Grande Chartreuse di Grenoble, con solo due brevissimi dialoghi, l’ultimo dei quali sigilla la pellicola con un anziano monaco cieco che esclama: “Sì, siamo felici”; analogo successo di spettatori lo ottiene la BBC con una serie dal titolo “The Monastery”, trasmessa in prima serata, girata nell’abazia benedettina di Worth: nessun reality show, semplicemente la vita fatta di preghiera, lavoro, pasti, letture di un ventina di monaci avvolti in un clima di silenzio e quiete.
    Cosa c’è dietro questi sorprendenti successi mediatici? Curiosità per una vita altra? Fascino dell’esoterico per un occidente secolarizzato? Bisogno di indagare su una vita di cui ormai si conosce a malapena l’esistenza? Sì, ci possono essere queste e altre ragioni, ma forse la principale è proprio l’abilità dei registi nell’aver saputo ascoltare, rappresentare, far percepire il silenzio, il grande assente nella nostra vita quotidiana: “l’uomo è diventato un appendice del rumore”, osserva Picard, e di fatto la nostra parola è agonizzante per mancanza di silenzio. Già Pascal aveva intuito che la più grande disgrazia per gli uomini deriva dal loro non saper stare in silenzio e in solitudine per un’ora: il silenzio, infatti, è il principio da cui è generata la parola, ciò che le conferisce forza e autorevolezza. Eppure oggi questa esigenza antropologica è offesa e contraddetta più che mai, si ha paura del silenzio: in casa e in auto si tende a evacuarlo con radio, televisione o stereo accesi, in aeroporti, stazioni e negozi lo si allontana con un’onnipresente musica di sottofondo. Così, perfino l’ascolto musicale è diventato un semplice riempitivo che crea un’atmosfera in cui la musica non è più una bellezza che ascoltiamo ma una sorta di basso continuo che inganna le nostre ansie. Siamo colti da fastidio quando dobbiamo attraversare spazi silenziosi, per cui accettiamo passivamente quella condizione di non-silenzio, di non-pausa che la società ci impone, senza renderci conto che, così facendo, smarriamo la nostra capacità di ascoltare e, con essa, quella di parlare.
    Il silenzio, infatti, non è un atteggiamento aristocratico, non è un elemento esclusivo della mistica, né un esercizio di nobile interiorità, ma appartiene all’arte della comunicazione, consente di vivere in modo fecondo la solitudine, favorisce l’ascolto attento, affina le nostre facoltà discriminatorie e percettive, induce alla creatività. Antidoto ai pensieri ossessivi che affollano la nostra mente, il silenzio ci aiuta a frenare le nostre passioni e aggressività e a impedire loro di produrre violenze e sopraffazioni.
    Ma proprio per imparare a vivere con fecondità il silenzio è anche necessario essere consapevoli delle ambiguità che porta con sé. Vi è, infatti, un silenzio chiuso, impermeabile alla comunicazione, gestito come ostilità, usato come strumento per creare distanza: in questo caso il silenzio diventa un muro, una fortezza che respinge tutto quanto incontra. Sì, il silenzio è un “linguaggio” – come i due documentari hanno saputo testimoniare – e come ogni linguaggio ha delle risorse nascoste che possono essere messe al servizio della comunicazione come della chiusura all’altro. Il mutismo non è silenzio: silenzio è, invece, non lasciarsi distrarre, saper restare sempre in comunione con le cose, con l’altro, con la realtà. Questa sua ambiguità fa sì che molti concepiscano il silenzio come condanna imposta loro dagli altri che si rifiutano di ascoltarli, che li escludono con il non prestar loro attenzione. Allora il silenzio può divenire luogo di disperazione, mancanza di elementi vitali: si può morire di silenzio come si muore di fame, di sete, di fatica, di dolore. Chi infatti è solo, isolato e vive nell’angoscia, diviene avido di rumore, brama il suono di una voce conosciuta, insegue tutto ciò che rompe la monotonia della giornata.
    A volte chiamiamo silenzio il mutismo di chi si trincera dietro il rifiuto di comunicare, la chiusura di chi non può o non vuole parlare della propria sofferenza, il quotidiano negarsi all’altro anche nell’intimità familiare, il progressivo smarrimento della fiducia reciproca: sono i piccoli e grandi silenzi di morte. Ma non è certo di questo silenzio che abbiamo bisogno, non è questo il tesoro perduto di cui abbiamo nostalgia: no, il silenzio cui aneliamo è lo spazio in cui ridestiamo la nostra personalità, è la condizione per porre a noi stessi le domande più essenziali, per trovare le risposte da cui dipende il senso della vita, quello che possiamo sperare. Alle domande “Da dove veniamo? Dove andiamo? Chi siamo?” possiamo tentare di rispondere solo imparando il silenzio, custodendo una vita interiore autentica, perché esistono verità inespresse e inesprimibili che solo nel silenzio possiamo percepire. E nel silenzio impariamo anche l’arte della comunicazione non solo verbale, riscopriamo il linguaggio dello sguardo, l’espressività del corpo… Stare insieme, accanto a un altro nel silenzio è una delle esperienze più forti che permettono al dialogo verbale l’approfondimento e la scoperta di altre dimensioni. Del resto, ciascuno sa per averlo sperimentato che nelle relazioni umane più intense, come quelle tra amanti o tra amici, proprio il silenzio garantisce la percezione dell’alterità, del mistero dell’altro.
    Forse quanti hanno visto scorrere sugli schermi le esigenti ma rappacificanti giornate dei monaci hanno intuito qualcosa dei tesori che il silenzio sa elargire anche a chi monaco non è: la vigilanza e l’attenzione contro l’intontimento spirituale; la possibilità di ascoltare ciò che arde nel profondo di se stessi e degli altri; la capacità di portare – e quindi anche di sopportare – l’altro nella sua sofferenza; la resistenza contro il prevalere di atteggiamenti di inimicizia; in una parola: la pace interiore.
    Una prospettiva che concerne solo i monaci? Un esercizio che riguarda solo i cristiani? No, un tesoro a disposizione di ogni essere umano che sia disposto a scavare nella propria interiorità per poterlo dissotterrare, come sapientemente invitava a fare il poeta Kavafis: “E se non puoi la vita che desideri / cerca almeno questo / per quanto sta in te: / non sciuparla / nel futile commercio con la gente, / vane parole in un viavai / frenetico. / Non sciuparla portandola in giro / in balìa del quotidiano / gioco balordo degli incontri e degli inviti, / fino a farne una stucchevole estranea”.

  • 28 Apr

    PARLARE DI DIO OGGI: COME?

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Quando ci si pone la domanda di “quale Dio” vogliamo parlare, se ne forma implicitamente un’altra:” esiste quel Dio di cui vogliamo parlare?

    Le due domande sono inseparabili, esse sono tra loro strettamente interdipendenti. Perché?

    La ragione è che alla domanda dell’esistenza di Dio  si risponde (positivamente o negativamente) in base all’immagine di Dio che si possiede.

    Questa constatazione è importante anche per chi è chiamato ad annunciare.

    E’ esperienza costante la fatica del dire Dio, e questo quasi sicuramente perché di lui si hanno immagini troppo sbiadite, frastagliate, annebbiate, forse minacciose. Penso che occorra prendere in esame serio le proprie immagini di Dio, perché il più delle volte esse contengono elementi troppo eterogenei e magari contrastanti: ne risulta un Dio enigmatico che risulta poco amabile.

    Immagini che di conseguenza certamente non affascinano l’annunciatore per primo e di conseguenza gli uditori.

    Venendo meno la spinta a parlare di Dio, ci si ripiega allora ad accontentarsi di un parlare del “‘sacro’ oggettivo e generico: parola di Dio, sacramenti, nuovissimi, comandamenti, morale…

    Eppure di Dio si deve parlare. Ma come?

    Gli uditori infatti attendono una parola che dia vitalità al loro credere, che spinga non a confrontarsi con idee o con verità, ma ad incontrarsi con una persona.

    Per noi cristiani questo è possibile, non è un’utopia, perché Dio si è rivelato. Cristo è l’ ‘esegesi’ del Padre. Una rivelazione questa nella quale siamo invitati ad entrare e a penetrare sempre più, perché è Lui, Dio, che ci invita a conoscerlo: “Dio che aveva già parlato nei tempi antichi…” (Ebr 1,1).

    Partire dalla fede

    La fede donata è il punto di appoggio dal quale è necessario partire per intraprendere la conoscenza di Dio.

    Fede intesa come luce che illumina ed è illuminata dal mistero: “Dio vi conceda uno spirito di sapienza e di rivelazione per una conoscenza più profonda di lui” (Ef 1,17).

    Lo Spirito che scruta il mistero di Dio è lo Spirito che ci è stato donato, colui che immette il dinamismo nella nostra fede il quale ci spinge ad avanzare sempre più in là nella conoscenza di Dio, senza arrestarci dinanzi alle prime immagini acquisite di lui.

    E’ questa una esperienza da attuare. Ora nell’annunciatore non si può prescindere da questa sua soggettiva esperienza, non si può dare un annunzio esclusivamente del dato oggettivo rivelato. La fede è comunicata attraverso una testimonianza.

    Esiste quindi una circolarità fra credo confessato e vissuto: circolo ermeneutico tra rivelazione storica fatta a tutti e rivelazione individuale.

    Vero annunciatore di Dio è colui che ha ascoltato e risponde alla parola che poi dovrà annunciare.

    PARTIRE DALL’ESPERIENZA

    La conoscenza oggettiva è a disposizione di chiunque, non quella soggettiva. Essa rientra nel dinamismo della grazia.

    Ma è questa esperienza che vivifica la conoscenza oggettiva (fides quae et qua creditur).

    E sulla base di questa simbiosi l’annuncio si riveste di determinate caratteristiche: a ciascuno è dato di conoscere e testimoniare un dato particolare del mistero, egli renderà esplicito un aspetto di una totalità che nella sua infinitezza rimane in-comprensibile.

    Questa differenza va accolta come dono dello Spirito nella sua varietà di espressioni di un unico mistero

    E’ DIO CHE SI RIVELA

    Ovviamente l’annuncio non è ridotto a comunicazione di esperienze soggettive.

    La religione ebraico-cristiana crede in un Dio che, nel suo amore, ha voluto parlarci di se stesso.

    E’ questa verità di fede che sorregge l’annuncio e l’esperienza. Se ciò non fosse esso sarebbe ridotto a comunicazione di dati teorici oppure di un ventaglio di esperienze perlopiù contraddittorie.

    In base a ciò riteniamo fondamentale che l’annuncio ritorni continuamente alla rivelazione che Dio ha fatto di sé. Allora la predicazione diviene testimonianza di questa passione del Dio che si comunica alle creature

    Alcuni dati rivelati appaiono particolarmente fondamentali in questo senso.

    L’Incarnazione

    Affermiamo nella fede che il Figlio di Dio, la seconda persona della ss. Trinità, si è fatto uomo.

    Questo fatto lo riceviamo dalla testimonianza dell’autocoscienza di Gesù di Nazaret.

    Se questa coscienza è vera, come afferma la fede, allora la persona di Gesù è la fonte della conoscenza di Dio. Allora non è più possibile parlare di Dio prescindendo da Gesù.

    Il vangelo non può essere accostato come “‘prontuario’ di verità o di predicabili, ma come fonte che ci permette di accostarci all’umanità di Gesù rivelatrice di Dio. E’ la sua umanità l’ ‘immagine visibile’ del Dio invisibile. Ogni atto della vicenda di Gesù di Nazaret è rivelazione del mistero divino. ‘Se il soggetto di ogni azione di Gesù di Nazaret è il Figlio eterno, allora ogni atto di quest’uomo è rivelazione del mistero divino. In Gesù di Nazaret… si offre il volto umano di Dio… L’umano è pienamente assunto e radicalmente valorizzato nella storia del Figlio dell’uomo”’ (B. Forte, Gesù di Nazaret).

    Dio si rivela nell’umano: ed è la novità della rivelazione cristiana.

    Gesù è anche il Rabbi, il Maestro, che ci parla di Dio. Il suo annuncio si riassume nel proclamare il “‘Regnare di Dio’, nell’affermare la vittoria di Dio sulle potenze del male.

    Il suo è un evangelo di una liberazione definitiva ed universale. Il Regno che con lui già possiede l’inizio e che attende alla fine dei tempi il suo pieno compimento.

    Gesù ci rivela anche che questo Dio che regna, ha un nome nuovo: Abbà. Un Dio che ama paternamente ogni uomo, soprattutto il povero e il peccatore. I cieli con Gesù si aprono su un Dio che non incute più paura, ma che accoglie l’umanità in un abbraccio di misericordia e di comunione di vita.

    La Trinità

    Alla nostra predicazione manca una vera prospettiva trinitaria. Secondo il teologo Moltmann il nostro annuncio è ancora troppo costituito da ‘un monoteismo solo debolmente cristianizzato… che Dio sia uno e trino sembra irrilevante tanto per la dogmatica che per l’etica… In realtà i cristiani vivono quasi fossero soltanto monoteisti’.

    In effetti spesso si pensa Dio in termini di uno e quindi solo. Si parla anche linguisticamente più di Dio che di Trinità.

    E’ facile comprendere come un’esperienza di Dio Trinità verrebbe moltissimo in aiuto a recuperare un giusto rapporto con il divino, facendoci superare la paura.

    Infatti un Dio solo ci appare temibile, enigmatico, chiuso in se stesso, estraneo alla nostra esperienza più determinante che è quella del dialogo e della relazione. L’annuncio trinitario viene a rompere definitivamente questa immagine della divinità; essa invece ci rivela un Dio che è comunione, relazione, dialogo, eterno gioioso di tre persone. In Dio vi è un Io, un Tu, un Noi.

    Importante per l’uomo è che davanti a tale rivelazione egli non si sente più estraneo, schiacciato, estraneo, ma anzi chiamato per vocazione ad entrare e a partecipare di questo flusso eterno di amore.

    Un ulteriore aspetto di tale discorso è la necessità di recuperare la dimensione trinitaria nella vicenda terrena di Gesù. Se vi è Trinità, allora in questa storia è implicata sempre la relazione col Padre e lo Spirito. Essi la vivono con Gesù. Padre e Spirito ‘non sono spettatori estranei della storia del Verbo fatto carne: essi la vivono con lui… Tutta la storia di Gesù è rivelazione della storia trinitaria di Dio… In Gesù si rivela contemporaneamente il volto trinitario di Dio e il rapporto del mondo al Padre’ (B. Forte, Gesù di Nazaret).

    La Croce

    La croce assume tutto il suo scandalo se si accetta che essa sia toccata a Dio, e quindi all’intera Trinità. Essa è ‘passione’ di Dio.

    Di solito nella predicazione la lettura viene fatta dal basso: la via crucis dell’innocente che sale il Calvario per offrire il suo sacrificio a Dio: il padre ne resta fuori commosso o adirato a seconda delle teologie.

    Ora, in una visione trinitaria della storia di Gesù, si considera la via crucis del Padre che scende sul Calvario per offrire, attraverso il Figlio crocifisso, il suo perdono e la sua comunione di vita all’uomo peccatore.

    L’apostolo Paolo associa sempre la sua predicazione della croce alla rivelazione di Dio, e pensa la croce in riferimento al Padre: “Ma Dio ci dà prova del suo amore per noi nel fatto che, mentre ancora eravamo peccatori, Cristo morì per noi” (Rm 5,8); “Lui, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo diede in sacrificio per tutti noi, come non ci darà in dono insieme a lui tutte le cose?” (Rm 8,32)..

    Dio si rivela nell’impotenza, nel suo prender parte alla sorte degli ultimi; ed è quindi un Dio che si lascia coinvolgere nella sofferenza dell’uomo.

    L’evangelo della grazia

    La predicazione dovrebbe testimoniare ‘l’evangelo della grazia’” (At 20,24).

    Questa grazia, che lungo il corso della storia è stata fatta oggetto di interminabili diatribe e dispute teologiche, ha perso nella predicazione il suo carattere di annuncio gioioso.

    Essa è stata circondata dalle siepi spinose e precauzionali dei se e dei come, che finiscono solo per inaridire l’annuncio di un Dio folle di amore, di un Dio che si dona subito, totalmente, eternamente, gratuitamente..

    Il nostro discorso sulla grazia ha dato adito all’immagine di un Dio che bisogna comprare (anche se a prezzi stracciatissimi… e siamo ben lontani dalla “grazia a caro prezzo di D. Bonhoffer!), e quindi di un Dio banale e umiliato.

    La sovranità di Dio si manifesta nel suo dono che attende il dono, la grazia, dell’uomo: una risposta di fede amorosa e gratuita, mai comprata!

    In questa risposta l’uomo è assolutamente libero da costrizioni, in quanto Dio stesso lo pone in uno spazio di piena libertà.

    Purtroppo per tanti credenti il fatto, o la pratica religiosa, consiste in un ‘ dare qualcosa a Dio ‘, un ‘fare qualcosa per Dio’ al fine di avere ricompensa. Al discorso della grazia si è sostituito un discorso mercenario: in quanto Dio stabilisce le regole del gioco senza coinvolgersi, e sta all’uomo il decidere sul da farsi.

    Certo, non si tratta di negare il premio al bene, ma di sganciarlo dalla pretesa di diritto di comprare nei confronti di Dio la salvezza.

    Il Dio rivelato da Gesù è un Dio che salva. Il suo agire nella storia è sempre e soltanto salvifico: ‘Piacque a Dio buono e sapiente rivelare se stesso e far conoscere il disegno della sua volontà, mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo… e nello Spirito santo hanno accesso al Padre… Con questa rivelazione il Dio invisibile, nel suo immenso amore, parla agli uomini come ad amici” ‘ (DV 2).

    ALCUNE PISTE

    Riferimento alla sacra Scrittura

    Il ritorno alla Bibbia invocato dal Concilio Vaticano II a poco servirebbe se non contribuisse a far rivedere l’immagine di Dio.

    Preghiera, prassi sacramentale, predicazione, devono continuamente rifondarsi su quel Dio che si rivela nella storia descritta nelle pagine della Scrittura.

    Si ha l’impressione che la predicazione e la prassi liturgica viaggino piuttosto in senso perlopiù orizzontale, o tuttalpiù tentino qualche sporadico slancio verso l’alto ma senza convinzione ed entusiasmo.

    Si è forse incapaci di scorgere la presenza di Dio nella storia, e non si possiedono i parametri per leggere l’esperienza di Dio in noi.

    Oltre il moralismo

    Sembra prevalere ancora il ‘Cosa devo fare?’, ovvero l’interesse operativo nel fattore religioso. Il discorso morale ha ancora, nonostante tutti gli sforzi, la predominanza, questo dando sempre per scontato che chi si accosta al discorso religioso il vangelo sia già noto.

    Occorre sempre ricordare che l’aspetto morale è importante, ma sempre subordinato al discorso della grazia, questo affinché non si rischi di restare ancora senza il vangelo della grazia di Cristo.

    Nella predicazione bisogna tornare all’annuncio di questo evangelo.

    Parlare di Dio da credenti

    La fede in Cristo ci presenta il Dio di cui parlare. Ma come parlarne?

    Anzitutto occorre parlarne da credenti: ‘Ho creduto perciò ho parlato’ (Sal 116,10); ‘Anche noi crediamo e perciò parliamo’ (“2Cor 4,13).

    Come Chiesa e come annunciatori si parla di Dio non solo perché ‘si sa’, ma perché questo ‘sapere’ scaturisce e si fonde sulla e nella fede.

    La parola che viene annunciata ad altri è anzitutto una parola rivolta prima a se stessi. Io sono il primo destinatario e il primo uditore della parola che annuncio agli altri.

    E la fede di chi annuncia si alimenta del rapporto con Dio nella preghiera. E’ lì che si radica la missione. Un annuncio privo di questo dinamismo interiore si riduce a comunicazione di dati oggettivi, privi del sostegno fondamentale della testimonianza.

    Raccontare Dio

    La passata predicazione si dilungava a parlare di Dio attraverso i suoi attributi (onnipotenza, eternità, giustizia, onnipresenza…). Ma questo approccio al discorso su Dio, benché giusto filosoficamente, è tuttavia insufficiente. Il Dio della scrittura è colui che si rivela nelle sue opere salvifiche.

    Nella bibbia non si parla in modo astratto degli attributi di Dio, essi emergono lungo la storia e sono da questa raccontati.

    Teniamo presente che la traduzione in storia degli attributi di Dio è operazione che egli stesso ha già compiuto.

    Questa metodologia di Dio dovrebbe essere seguita dalla predicazione. L’uomo si domanda se Dio esiste, se è amato da lui: la sacra scrittura risponde più volentieri al passato, raccontando. Il regno di Dio lo si racconta perché esso consiste nel suo operare.

    Evangelizzare Dio

    Forse sarebbe il caso di domandarsi sinceramente se la nostra predicazione riguardante Dio suscita lode e ringraziamento (ovvero è ‘buona notizia’), oppure lascia ancora adito all’inquietudine e al disagio.

    E’ un dato di fatto che da un lato Dio è predicato nello stesso tempo come bontà e giustizia, perdono e punizione, colui che distribuisce grazie ma anche disgrazie, colui che è presente ma anche assente… Se le cose stanno così è chiaro che l’uditorio finisca col trovarsi dinanzi ad un Dio imprevedibile ed inaffidabile.

    Nel profondo viene avvertito come essere ambiguo.

    Riconosciamo che questo sospetto  e questa diffidenza è uno dei frutti del peccato. La colpa originaria ha distorto l’immagine di Dio. Ma la grazia dell’evangelo dovrebbe farci recuperare in Cristo la sua giusta immagine.

    L’annuncio di Dio deve essere sempre ‘buona notizia’. Dio è Abba’, ed è solo questo e non un’altra cosa contemporaneamente.

    “Per un uomo religioso è insopportabile un Dio che non sia innanzitutto colui che ricompensa e castiga… L’inclinazione naturale dell’uomo è quella di non credere in un Dio come quello rivelato da Gesù, la cui giustizia e potenza sono soltanto di amare” (Six).

    Dio prova pietà e sofferenza per il peccatore, non desiderio di punirlo. La punizione del peccato è già racchiusa  nella sua natura di assenza di bene.

    Conclusione

    L’immagine di Dio in noi è sempre in mutamento. E’ immagine viva, chiamata a crescere ( o destinata per vari motivi a deformarsi sempre più sino ad essere rigettata).

    Sarà importante tenere presenti due aspetti.

    Il primo è che in quest’opera di riscoperta dell’immagine di Dio non siamo solo noi ad operare, ma anzitutto la grazia dello Spirito di Cristo che ci insegna le cose di Dio.

    Il secondo è che la nostra immagine è guida al nostro rapporto con Dio, ci fa strada nella preghiera e nell’azione.

    E proprio nella preghiera e nei sacramenti tale immagine viene incessantemente elaborata e rielaborata.

    Colui che parla veramente di Dio parla di ciò che ha ricevuto come dato di fede  e che ha accolto e assimilato nella propria esperienza.

  • 27 Apr

    Una speranza impossibile?

    La visione delle ossa aride: Ezechiele 36


    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Messaggio centrale

    Durante l’esilio di Babilonia il popolo di Israele vive l’esperienza angosciosa della disperazione e del proprio fallimento. E’ un’esperienza di “morte” che conduce ad un “vuoto di speranza”, ad una rassegnazione che allontana dal Dio della Promessa.  Il profeta Ezechiele è inviato ad annunciare una “buona notizia” umanamente impossibile: Dio può suscitare vita e futuro dove l’uomo non sperimenta che disperazione e morte.

    Nel 597, dopo una ribellione del re di Giuda Ioakim, l’esercito di Babilonia marciò su Gerusalemme e assediò la città.  Questa dovette arrendersi.  Il re di Giuda venne fatto prigioniero e deportato a Babilonia con parte delle classi dominanti, dell’esercito e degli artigiani.  Tra questi deportati c’era pure Ezechiele, che attorno al 593 in esilio venne chiamato alla profezia. Sedecia, l’ultimo re di Giuda (597-586), dopo alcuni anni di tregua tentò nuovamente di conquistare l’indipendenza.  Non si voleva assolutamente credere alla fine del regno di Giuda. Geremia ed Ezechiele combatterono questa speranza, ma le loro parole restarono senza un’eco sensibile. Il sogno di una restaurazione politica e di un avvenire di salvezza si infranse improvvisamente quando le truppe babilonesi occuparono il territorio di Giuda e assediarono la città. La città venne affamata e cadde nell’estate del 586.  Con la caduta di Gerusalemme erano crollate definitivamente anche le attese di salvezza degli esiliati del 597.  Rassegnazione e disperazione dilagarono.  Si diffuse una crisi di fede: Dio aveva ripudiato il suo popolo?  Valeva ancora la spesa sperare o era meglio rassegnarsi alla fine? È in questo contesto di “di-sperazione” che Ezechiele è raggiunto dalla profezia narrata nel cap. 37.

    La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare tutt’intorno accanto ad esse. Vidi che erano in grandissima quantità sulla distesa della valle e tutte inaridite.

    La pianura piena di ossa è una metafora, che si riferisce alla situazione storica concreta alla quale il profeta è mandato: è la realtà dell’esilio di Babilonia. La cosa risulta chiara dalla seguente affermazione: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti», qui viene detto esplicitamente che cosa sono le ossa dei morti, esse rappresentano la fine irrevocabile di Israele!  Prende voce la consapevolezza degli esuli di essere ormai in una situazione senza via di uscita.  Si insinua in essi una piatta rassegnazione, un terribile vuoto di speranza segno di morte.  Essi continuano a vivere sì fisicamente, ma non vale più per essi il «dum spiro spero», «fin che c’è vita c’è speranza».  Una possibilità di speranza appare impossibile. Ma sarà proprio una speranza “impossibile” l’oggetto della profezia di Ezechiele.

    Mi disse: «Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?». Io risposi: «Signore Dio, tu lo sai». Egli mi replicò: «Profetizza su queste ossa e annunzia loro: Ossa inaridite, udite la parola del Signore. Dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete: Saprete che io sono il Signore».

    Il profeta si vede interrogato da Dio stesso circa la situazione degli esiliati: la loro prospettiva di disperazione e di morte è l’unica?  Effettivamente secondo i criteri umani di giudizio la realtà appare già decisa (cfr v.11). Tuttavia Ezechiele non ha il coraggio di esprimere una decisione definitiva.  Egli conosce l’impotenza umana, ma sa anche che essa non esaurisce le possibilità sul versante di Dio.   Egli saggiamente affida la risposta alla potenza del Signore: «Signore Dio, tu lo sai» (v. 3).  E’ una risposta che riconosce sì l’impotenza umana ma nello stesso tempo riconosce l’onnipotenza divina: in essa prendono voce a un tempo la rassegnazione umana e l’apertura a Dio.  Ezechiele non decide sul futuro degli esiliati che credono di non avere più futuro ma lo mette nelle mani di Dio.

    Alla risposta di Ezechiele risponde ancora Dio stesso – e come potrebbe essere altrimenti? Lo fa mediante la visione che renderà il profeta atto ad annunciare in maniera credibile  e sicura una speranza impossibile (vv. 12-14).

    Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre io profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Guardai ed ecco sopra di esse i nervi, la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito in loro.

    Egli aggiunse: «Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano».

    Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato.

    Riscontriamo in questo passo importanti paralleli col racconto della creazione (Gn 2). Anche lì la creazione dell’uomo avviene in due fasi. Come il respiro di Dio, il suo soffio vitale, fa dell’uomo-Adamo ancora forma inerte di terra plasmata un essere vivente (cfr Gn 2,7), così anche in Ezechiele: “ma non c’era spirito in loro…lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi” (vv.8-10). Al Dio che all’origine ha infuso la vita al non vivente è possibile anche una nuova creazione: ciò che egli ha fatto all’origine può ripeterlo ora!

    Mi disse: «Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la gente d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti. Perciò profetizza e annunzia loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio.

    Ma vi è un  aspetto importante da prendere in considerazione. Al v. 14 si dice: “Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete”. In queste parole lo spirito inviato viene chiamato espressamente «il mio spirito». Ora lo “spirito di Dio” a cui qui si fa riferimento non si identifica con il soffio vitale dato a tutto ciò che vive sulla faccia della terra: animali e piante. E’ un dono più alto, ovvero quello dello “Spirito-soffio vitale” stesso di Dio che rende l’uomo partecipe della sua stessa vita divina. Questo dono straordinario crea un uomo nuovo capace di accogliere finalmente il dono dell’Alleanza con Dio rimanendovi fedele, e questo proprio in virtù della presenza dello “Spirito di Dio” che dimora in lui (cfr Rm 7,6; 8,2).

    Dio per bocca di Ezechiele non preannuncia dunque unicamente una rianimazione esterna del suo popolo, ma mediante l’effusione del “suo spirito”, JHWH vuole operare soprattutto un cambiamento  profondo e interiore. Senza questo cambiamento, il popolo presto o tardi ricadrebbe nel peccato, e si ripeterebbe l’esperienza della perdizione che lo ha condotto all’esilio.

    Viene fatto anche accenno alla presenza di sepolcri: “Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele”.  Questa nuova immagine esprime quanto ampia e definitiva sarà l’azione di Dio: essa spezzerà anche la prigionia del sepolcro, luogo emblematico che esprime la definitività della morte, e risveglierà a nuova vita anche quelli che sono irrimediabilmente “perduti” (cfr. v. 11).

    Ma quale la ragione di questo straordinario intervento divino? La ragione è che Israele deve imparare a “conoscere” il suo Dio:  “Riconoscerete che io sono il Signore”. Il Signore si dimostrerà fedele e la sua azione salvifica sarà la sua stessa manifestazione: Israele conoscerà chi è veramente il suo Dio! Israele non ha certamente meritato né di rivivere in una seconda creazione né di essere interiormente trasformato e abilitato dal dono dello stesso “Spirito di Dio” ad essere il popolo dell’Alleanza. Tutto è dono di Dio che solo rimane fedele a se stesso, e che per la propria gloria e per amore del suo popolo agirà restituendo speranza e vita.

    La visione termina con la più assoluta garanzia che ciò che è stato annunciato avverrà: «Io sono il Signore: l’ho detto e lo farò». Dio offre come garanzia unicamente la sua Parola che non mente.

    Nella visione di Ezechiele  il Signore appare come colui che può infrangere le catene della morte, come un Dio a cui nulla è impossibile.

    Nella morte e resurrezione di Cristo Gesù la promessa ha trovato il suo compimento inatteso e definitivo. Dal sepolcro sigillato del venerdì santo è rifiorita la speranza e la vita. Dopo la risurrezione di Gesù non c’è più alcun capolinea dell’attesa umana della vita.  La passione, la morte e la resurrezione di Gesù mostrano che il fallimento non è ancora la fine. Dio è potente; egli è in grado di suscitare vita dove l’uomo non vede che morte.

    Per noi che ascoltiamo, alla luce del mistero della morte e resurrezione di Gesù di Nazaret, si prospetta una domanda: c’è allora un vuoto umano di speranza che non possa sentirsi espresso nell’immagine delle ossa dei morti di Ezechiele?  Sui nostri campi di morte non giacciono infatti soltanto le speranze, i desideri, le attese e le promesse degli esiliati a Babilonia ma anche tutte le nostre.  Ogni nostro vuoto di speranza, ogni nostra rassegnazione e disperazione trovano qui la loro immagine, e possono legittimamente riferirsi ad essa. Il messaggio di Ezechiele parla anche al nostro tempo così bisognoso di speranza!

    Per la riflessione

    La nostra epoca fa sì che spesso sperimentiamo“vuoti di speranza” nei quali tutto sembra perduto, dove tutto sembra non aver più significato e futuro. In queste situazioni la profezia di Ezechiele, alla luce del mistero pasquale, si fa riudire in tutta la sua potenza capace di riaprire nel nostro cuore le porte ad una speranza impossibile.

    In quale misura la speranza è virtù ancora tipicamente cristiana? Possiamo affermare di testimoniarla avendo fatta nostra, mediante l’ascolto della Parola, la Buona Notizia della Morte e Resurrezione del Signore Gesù?

    Preghiera conclusiva

    Signore, tu sei la mia vita,

    senza di te il vivere non è vivere.

    Con te, Signore, oltre le cose,

    noi vediamo la vita,

    anzi, la sorgente della vita.

    Tu sarai la nostra vita anche nella morte;

    con te la vita è già in noi per sempre:

    tu sei per noi sorgente

    che zampilla nella vita eterna.

    Signore, tu sei la mia verità,

    sei la verità dell’uomo.

    Tu, o Padre del Cristo,

    ti sei fatto la mia verità

    e nello Spirito, ogni giorno,

    sei verità in me.

    Se tu vieni meno, se tu ti allontani,

    io non sono neppure uomo,

    sono come un relitto,

    come un naufrago che cerca salvezza e non la trova,

    un naufrago vicino alla morte.

    Signore, la tua grazia,

    la tua verità,

    la tua luce mi fanno uomo,

    e sono la mia grazia,

    la mia verità e la mia luce.

    (Card. C.M. Martini)

  • 25 Apr

    Una nuova Alleanza infrangibile

    la legge scritta nel cuore:

    Gr 31, 31-34


    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Messaggio centrale

    L’amore di Dio non opera solo un perdono nei confronti dell’uomo peccatore lasciandolo tale e quale ma promette una vera e propria ricreazione del suo stesso cuore.

    Geremia pronuncia questo oracolo al tempo del re Giosia, re esemplare per la sua rettitudine e fede. Era nipote del re Manasse il cui regno fu invece tra i più tragici in Israele, segnato da una grande corruzione religiosa e decadenza morale.

    Quando Giosia sale al trono è solo un bimbetto di otto anni, ma provvidenzialmente cresce ed è educato nel migliore dei modi: appena è in grado di governare egli mette tutto il suo impegno nell’attuare una delle più grandi riforme religiose, politiche e sociali che la storia di Israele ricordi. È evidente che un regno di tal sorta faccia rinascere grandi speranze al disfatto popolo di Israele. Geremia naturalmente approva le riforme del giovane sovrano.

    E’ a questi anni che risalgono i cosiddetti “Oracoli di consolazione” (cc 31-33) ai quali appartiene il brano che mediteremo.

    Al popolo che per lunghi anni ha sopportato grandi ingiustizie e decadenza religiosa e morale Geremia rivolge un invito colmo di speranza:

    Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritorneranno dal paese nemico (Gr 31,16).

    E’ la buona notizia dell’imminente ritorno degli israeliti che furono deportati a Ninive dagli Assiri nel 722. Dio dunque non si è dimenticato di Israele, gli ridona speranza e futuro.

    Ascoltiamo ora un brano che rappresenta uno dei punti cardini, se non il centrale, di tutto il ministero profetico di Geremia:

    «Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore.(31,31-32)

    Dio denuncia il peccato commesso da Israele che gli ha attirato solo distruzione e morte, esso costituisce il tradimento dell’Alleanza “che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore”.

    Dobbiamo riandare per capire quest’espressione all’esodo, immediatamente dopo l’uscita dall’Egitto, quando JHWH “prendendo per mano il suo popolo lo conduce al Sinai dove conclude con esso una solenne Alleanza (Es 24). Questa Alleanza consiste essenzialmente in una promessa da parte di Dio di comunione, condivisione di vita e protezione: “Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo” (cfr Gr 11,14). La risposta di Israele è immediata ed entusiasta.

    Ma la storia successiva fu un susseguirsi di tradimenti, dimenticanze, di “prostituzioni” ad altre divinità. Israele dimostra una costante e radicale incapacità di obbedienza alla Parola e quindi di fedeltà all’Alleanza del Sinai:

    Ma essi non ascoltarono né prestarono orecchio; ognuno seguì la caparbietà del suo cuore malvagio” (11,8).

    Dio se ne lamenta attraverso le labbra di Geremia:

    il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l’acqua” (Gr 2,13).

    Si ripropone perciò il dilemma presentato già da Isaia e Osea: che farà il Signore dinanzi all’irrimediabile tradimento della sua Alleanza? Abbandonerà il suo popolo per sempre oppure gli offrirà una nuova e insperata opportunità? Umanamente la risposta sarebbe solo  di condanna definitiva: ad un male radicale non vi può essere alcuna prospettiva di salvezza!

    A questo punto il ruolo del profeta è essenziale. Dalle labbra di Geremia scaturisce ancora una volta una Buona Notizia insperata: Dio farà una “nuova alleanzaNon come l’alleanza che egli ha conclusa con i nostri padri”. Ma in che consisterà questa “nuova alleanza”? In che cosa sarà nuova e diversa? Ascoltiamo:

    Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato (vv. 33-34)

    Sul monte Sinai Dio aveva “scritto” le “dieci parole” sulla pietra: ma queste “leggi” esterne non avevano in sé la forza per spingere-convincere il cuore dell’uomo. L’obbedienza alla “Legge” pur giusta e santissima è risultata disastrosa. Paolo apostolo leggerà quest’esperienza fallimentare nell’ottica della pedagogia di Dio il quale in tal modo “convince” il cuore dell’uomo ad aprirsi ad una giustizia diversa non più fondata sulle opere della Legge ma sulla fiducia accordata all’amore di Dio: “Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato” (Rm 3,20) e ancora: “Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!” (Rm 11,32).

    E’ per tal motivo che risulta indispensabile una nuova alleanza nella quale all’uomo sia data la possibilità di sperimentare la comunione e l’amicizia con Dio impossibile da raggiungere attraverso le “opere della legge. La diversità della nuova Alleanza non sta nei contenuti ma nel fatto che essa non sarà più “scritta” su tavole di pietra ma direttamente nel cuore dell’uomo: “Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore”. La nuova legge non è più “catapultata” sull’uomo dall’esterno come un insieme di precetti, divieti, ingiunzioni, ma inscritta da Dio stesso nel cuore consisterà essenzialmente in un “dinamismo interiore”, in una spinta interiore. Comprendiamo il significato della promessa di JHWH: “Darò loro un cuore capace di essermi fedele” (24,7; cfr Ez 36,26). A questo punto tutte le norme, i comandi, i divieti e le ingiunzioni diverranno in un certo senso superflui perché  “tutti mi conosceranno più piccolo al più grande.

    Per mettere in atto questa “nuova alleanza” la condizione essenziale è anzitutto un perdono incondizionato da parte di Dio e non qualche merito particolare acquisito dall’uomo: “poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato”. La forma verbale è all’imperfetto: si tratta di un’azione continuata, protratta nel tempo il che sta a dire come l’uomo avrà bisogno di essere sempre perdonato.

    Ma come e quando tutto questo avverrà? Ciò che è prospettato non è forse solo un ideale stupendo ma irrealizzabile? Chi di noi può dire di aver sperimentato in pienezza questo “cuore nuovo” che gli permette di entrare con docilità nella “nuova alleanza” con una fiducia e obbedienza spontanea e gioiosa? L’esperienza ci dice infatti che il più delle volte avvertiamo ancora la “Legge divina” come un peso “di pietra” che ci schiaccia e ci rende ribelli. Ci può venir incontro la parola illuminante dell’apostolo Giovanni:

    Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui e non può peccare perché è nato da Dio” (1Gv 3,9).

    La “nuova alleanza”, che è il kerygma della morte e resurrezione di Gesù, è posta nel cuore di ciascuno di noi come un “germe divino” nel momento del nostro battesimo che ci fatto “nascere da Dio” rendendoci figli. È lo Spirito che opera la semina nel cuore di questo germe, ma la sua crescita, che corrisponde a una progressiva iscrizione della Parola-Legge nel nostro cuore  non si opera in un momento. Essa esige un processo lungo e faticoso, un cammino progressivo di apertura e docilità all’ascolto e accoglienza della Parola la quale deve vincere in noi mille resistenze, ribellioni e paure. Nella Chiesa questo cammino si chiama “catecumenato”.

    Per il discepolo c’è una certezza: nel momento stesso nel quale l’uomo si pone nel cammino dell’ascolto della Parola il cambiamento  del cuore diviene un processo inarrestabile: è un seme, un “germe divino” che innesca la crescita nel cuore della “nuova alleanza”.

    Diceva: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga (Mc 4,26-28).

    Per la riflessione

    La Legge  che lo Spirito vuole scrivere, col sangue di Cristo, nel nostro cuore è la legge dell’amore,  che scaturisce dalla buona notizia della morte del Signore Gesù. La pedagogia di Dio a tale scopo offre la sua Parola, il memoriale della nuova alleanza stipulata nel sangue di Cristo sulla croce e sempre ripresentata nell’Eucaristia, l’esperienza di un cuore sempre nuovo rinnovato nel sacramento della riconciliazione…

    Preghiera conclusiva

    Noi ti lodiamo, Padre santo, per la tua grandezza:

    tu hai fatto ogni cosa con sapienza e amore.

    A tua immagine hai formato l’uomo,

    alle sue mani operose hai affidato l’universo

    perché nell’obbedienza a te, suo creatore,

    esercitasse il dominio su tutto il creato.

    E quando, per la disobbedienza,

    l’uomo perse la tua amicizia,

    tu non l’hai abbandonato in potere della morte,

    ma nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro,

    perché coloro che ti cercano ti possano trovare.

    Molte volte hai offerto agli uomini la tua alleanza,

    e per mezzo dei profeti

    hai insegnato a sperare nella salvezza.

    Padre santo, hai tanto amato il mondo

    Da mandare a noi, nella pienezza dei tempi,

    il tuo unico Figlio come salvatore.

    Egli si è fatto uomo per opera dello Spirito santo

    Ed è nato dalla Vergine Maria:

    ha condiviso in tutto, eccetto il peccato,

    la nostra condizione umana.

    Ai poveri annunziò il vangelo di salvezza,

    la libertà ai prigionieri, agli afflitti la gioia.

    Per attuare il tuo disegno di redenzione

    Si consegnò volontariamente alla morte,

    e risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita.

    E perché non viviamo più per noi stessi

    ma per lui che è morto e risorto per noi,

    ha mandato, o Padre, lo Spirito santo,

    primo dono ai credenti,

    a perfezionare la sua opera nel mondo

    e compiere ogni santificazione. (Dalla Liturgia)

  • 24 Apr

    Amore che mai s’arrende

    Un’infedeltà scandalosamente perdonata:

    Osea 11,7-9;14,2-9

     

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Messaggio centrale

    L’ultima parola sulla storia non sarà quella dell’uomo contrassegnata da ripetute infedeltà.  Essa sarà unicamente quella di Dio il quale, nella sua gratuità, rimane instancabilmente fedele alla sua Promessa di Alleanza con l’uomo.

    Dinanzi all’insistente infedeltà da parte dell’uomo, Dio risponde “scandalosamente” stendendo sempre per primo la mano e offrendo la riconciliazione. Questa rivelazione viene ci viene data attraverso il ministero profetico di Osea.

    Osea si è sposato su indicazione di Dio stesso (cfr 3,1) con Ghomer, una prostituta molto attraente e leggera, la quale forte del suo fascino non esita, anche dopo il suo matrimonio, a concedere i suoi favori ai suoi innumerevoli amanti. Questa donna infine non trova di meglio che abbandonare il povero marito Osea dandosi nuovamente alla sua attività precedente.  Osea rimane solo, abbandonato, umiliato nella sua dignità di uomo e di marito.

    Al suo dramma di uomo si aggiunge, per lui, anche il dramma del profeta: Dio tace. Passano gli anni e anche l’affascinante Gomer invecchia, la sua bellezza decade, i suoi successi amorosi iniziano a declinare. Ella inizia a ripensare agli anni trascorsi con il marito Osea (cfr 2,9) e a valutare la prospettiva di un ritorno a lui; pensa tra sé: “Ritornerò al mio marito di prima  perché ero più felice di ora (cfr Lc 15,18). Così decide di riprendere i contatti col suo vecchio marito.  Osea è nel contempo contento e turbato: esitante tra un amore che sussiste ancora e un amore offeso e ferito. E’ proprio in questa situazione che Dio finalmente gli rivolge la sua parola:  la richiesta del Signore è sconcertante: “Riprendi Gomer con te e amala nuovamente!”. Il che sta a significare in altre parole: “Vedi Osea se mi si dimentica quando tutto va bene e non ci si ricorda di me che nei momenti difficili, credi tu che io possa accettare questo? Credi che io non ne soffra? Eppure guarda: ogni volta io riaccolgo il mio popolo: Dunque anche tu Osea, abbi il coraggio di riprendere con te la tua donna, proprio quella che ti ha tradito! Questo sarà un segno per Israele del mio amore che rimane fedele nonostante le sue ripetute infedeltà e abbandoni”.

    Il testo che ora ascolteremo ci presentano delle parole, pronunciate da Dio, che aprono uno spiraglio preziosissimo nel mistero insondabile sul suo cuore: in esse risuona una sbalorditiva e appassionata dichiarazione d’amore per il “suo” popolo, un amore che giunge a lasciarsi ferire e uccidere pur di non venir mai meno alla promessa:

    Il mio popolo è duro a convertirsi:

    chiamato a guardare in alto

    nessuno sa sollevare lo sguardo.

    Come potrei abbandonarti, Efraim,

    come consegnarti ad altri, Israele?

    Come potrei trattarti al pari di Admà,

    ridurti allo stato di Zeboìm?

    Il mio cuore si commuove dentro di me,

    il mio intimo freme di compassione.

    Non darò sfogo all’ardore della mia ira,

    non tornerò a distruggere Efraim,

    perché sono Dio e non uomo;

    sono il Santo in mezzo a te

    e non verrò nella mia ira. (11,7-9)

    Di fronte al tradimento dell’alleanza da parte dell’uomo la sentenza di condanna sarebbe di per sé già inappellabile. Eppure al tradimento Dio non risponde con la vendetta ma con una sconcertante disponibilità ad offrire un perdono incondizionato di cui lui solo è protagonista. Un uomo o una donna cederebbero naturalmente alla collera dinanzi ad un tradimento ripetuto della persona amata appassionatamente; eppure Dio reagisce in modo diverso: “Non sfogherò – come sarebbe “normale” umanamente – il bollore della mia ira”.

    Israele allontanatosi da Dio “prostituendosi” ad altre divinità si ritrova  ora in una situazione di fallimento: le false speranze e attese riposte altrove si sono rivelate illusorie e inconsistenti. La reazione di Dio lascia allibiti: “Come abbandonarti?….Come?”: egli si rivolge al suo popolo in termini di tenerezza e dolcezza misti a dolore. Egli non può distruggere ( come fece con le città di Zeboim e Adma: cfr. Gn 19,25) ciò che con tanto amore ha creato e amorosamente fatto crescere; non lo può fare perché il suo cuore “si commuove” cosicché l’amore prevale sulla punizione: “Il mio intimo freme di compassione”. Questo intimo sono le viscere materne  di Dio, quelle stesse a cui i vangeli faranno riferimento parlando della compassione di Gesù per l’umanità ferita che lo circonda (cfr Mc 1,41; Mt 9,36).

    Sorge spontanea la domanda: tutto questo perché? Infatti Israele non ha alcun “merito” da rivendicare presso Dio. Il motivo dell’intervento salvifico  di Dio sta unicamente nella sua “santità”: “Perché sono Dio e non uomo, sono il Santo in mezzo a te”. Affermare la “triplice santità” di Dio è affermare la sua essenziale diversità dall’uomo, e questa si rivela eminentemente nell’amore a fondo perduto, incondizionato e gratuito che è unicamente suo. Paolo apostolo un giorno ribadirà questa certezza nella fedeltà dell’amore del Padre: se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso (2Tm 2,13).

    A questo punto Osea può rivolgere il suo accorato invito al popolo perché abbandoni le strade che lo conducono lontano dal suo Signore e sposo, ritorni a JHWH che da sempre lo ha amato e perdonato:

    Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio,

    poiché hai inciampato nella tua iniquità.

    Preparate le parole da dire

    e tornate al Signore;

    ditegli: «Togli ogni iniquità:

    accetta ciò che è bene

    e ti offriremo il frutto delle nostre labbra.

    Assur non ci salverà,

    non cavalcheremo più su cavalli,

    né chiameremo più dio nostro

    l’opera delle nostre mani,

    poiché presso di te l’orfano trova misericordia»

    (14,1-4)

    Ritornare” è il verbo tipico della conversione; si tratta di un volgersi indietro prendendo atto di aver smarrito la strada: “Tu ritorna al tuo Dio, osserva la bontà e la giustizia e nel tuo Dio poni la tua speranza, sempre” (12,7).  Il tornare a Dio implica evidentemente un riconoscere il proprio errore attraverso un pentimento sincero che fuoriesca non solo delle labbra bensì del cuore: “Preparate le parole da dire” (cfr Lc 15,18).  In questo cammino interiore di “ritorno” non saranno sufficienti solo alcuni atti di culto esterni che non intaccano la durezza del cuore: “Sia il tuo sacrificio a Dio la confessione del tuo peccato… confessare il peccato è il sacrificio che mi onora” (Sal 50,14.23; cfr Is 1,11).

    Dopo tale invito generale Osea porta alcuni esempi concreti di questi atti di pentimento: anzitutto il rifiuto di ricercare sicurezze all’infuori di Dio: “Assur non ci salverà, non cavalcheremo più cavalli”. Soprattutto Israele dovrà riconoscere la stoltezza e l’abominio del suo essersi prostituito facendosi schiavo di altri dei: “non chiameremo più Dio nostro l’opera delle nostre mani”.

    A questa umile confessione di pentimento e ai seri propositi di emendamento risponde ora Dio sempre  per bocca del profeta:

    Io li guarirò dalla loro infedeltà,

    li amerò di vero cuore,

    poiché la mia ira si è allontanata da loro.

    Sarò come rugiada per Israele;

    esso fiorirà come un giglio

    e metterà radici come un albero del Libano,

    si spanderanno i suoi germogli

    e avrà la bellezza dell’olivo

    e la fragranza del Libano.

    Ritorneranno a sedersi alla mia ombra,

    faranno rivivere il grano, coltiveranno le vigne,

    famose come il vino del Libano (14,5-8).

    Israele ha portato dinanzi al Signore l’unico frutto che poteva offrire: l’umile confessione della propria infedeltà che è malattia incurabile  causata da una insanabile durezza di orecchio e di cuore resi incapaci di ascolto della Parola e di affidamento alla Promessa. Da questa malattia si può essere tuttavia guariti solo dalla mano di Dio: “Io li guarirò dalla loro infedeltà”, e questa azione “terapeutica” è frutto di un amore che prende da se stesso l’iniziativa: “li amerò di vero cuore”.

    E’ un amore straordinario quello di Dio, capace di ricreare una nuova vita (si parla di: “rugiada… fiorire… mettere radici… germogli….”). La sposa infedele sentendosi amata, senza alcun suo merito, di un amore eterno può ora ravveduta riposare tranquilla all’ombra dello sposo. La festa può aver inizio (cfr Lc 15,23):

    Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (Os 2,21-22).

    Per la riflessione

    Osea ci annuncia un Dio appassionato e pazzamente innamorato della sua creatura, nonostante i ripetuti tradimenti. Ma il suo è un amore che non vacilla perché non si misura in base alla nostra risposta, che non vive di contraccambio: un amore che si lascia ferire, e uccidere pur di non distruggere l’oggetto della sua benevolenza.

    E’ un annuncio che ci prepara ad accogliere la stoltezza dell’amore crocifisso: “Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito… Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,6.8).

    Preghiera conclusiva

    Voglio ricordare le mie passate sozzure,

    le oscurità della mia anima,

    non perché le ami, ma per amare te,  Dio mio.

    Lo faccio per amore del tuo amore,

    rievocando le mie vecchie strade perverse.

    Il ricordo è amaro, ma spero che mi riesca dolce tu,

    dolcezza che non inganna, dolcezza felice e sicura.

    E per amore del tuo amore,

    tendo a raccogliere me stesso

    dalla dispersione in cui mi trovai,

    frantumato in mille pezzi,

    quando, allontanandomi da te,

    che sei l’Uno, mi ridussi a un nulla,

    sperdendomi nei molti. (Agostino di Ippona, Confessioni)

     

     

     

     

     

     

     

  • 23 Apr

    Tradimento inaspettato

    Il canto della vigna: Isaia 5,1-7


    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Messaggio centrale

    All’incommensurabile dono dell’Alleanza che Dio prepara e offre al suo popolo, Israele risponde in modo deludente. Siamo messi duramente dinanzi al dramma del nostro peccato, ovvero del nostro rifiuto di entrare nel progetto di Dio con la conseguente incapacità di “compiere la sua volontà”.

    Il messaggio dei profeti è una denuncia costante del peccato di Israele. Questo peccato consiste nella pretesa dell’uomo di far a meno di Dio: ma quest’atteggiamento porta sempre con sé solo sterilità, rovina e distruzione. Il peccato infatti non attenta solo ai diritti di Dio ma colpisce l’uomo stesso innescando nel suo cuore un virus di morte.

    Nel brano che ascolteremo il profeta Isaia utilizza il genere letterario della parabola utilizzando la ricca simbologia della vigna. Possiamo leggere la parabola di Isaia a tre diversi livelli: ad un primo livello essa racconta un’amara esperienza di un viticolture laborioso. Ad un secondo livello, in trasparenza, intravediamo il canto di un amante che narra il suo fallimento amoroso, infine ad un terzo livello, il più profondo, essa annuncia il fallimento della risposta d’amore del popolo eletto nei confronti del suo Signore.

    Canterò per il mio diletto

    il mio cantico d’amore per la sua vigna.

    Il mio diletto possedeva una vigna

    sopra un fertile colle.

    Egli l’aveva vangata e sgombrata dai sassi

    e vi aveva piantato scelte viti;

    vi aveva costruito in mezzo una torre

    e scavato anche un tino.

    Si tratta di una “ballata” sullo stile di quelle cantate dai contadini durante il tempo della vendemmia. Viene narrata la cura e l’amore con cui il nostro contadino si è apprestato a coltivare la sua vigna.  Il  “diletto” – è il titolo col quale il profeta indica il Signore – si è apprestato ad un lavoro paziente e faticoso. Anzitutto ha preparato il terreno, ha innalzato al centro della vigna un torchio da utilizzare per spremere l’uva, e una torre da cui vigilare contro i ladri e gli animali.  È stato un lavoro immane! Alla fine la vite è piantata: si tratta di una vite scelta fra innumerevoli altre.

    Il suo amore per la vigna è autentico, non ha lesinato nulla per giungere al suo scopo, è in tutto simile alle cure con cui l’innamorato corteggia la sua donna. Ma vogliamo sapere il resto del racconto?

    Egli aspettò che producesse uva,

    ma essa fece uva selvatica

    Nonostante tutte le premure del “diletto”, la vigna disgraziatamente non ha prodotto frutti buoni, ma uva selvatica dura e aspra, inutilizzabile. Il risultato è amaro, la delusione è cocente. Non meraviglia che l’amore si trasformi in disappunto, in stizza, risentimento.

    Or dunque, abitanti di Gerusalemme

    e uomini di Giuda,

    siate voi giudici fra me e la mia vigna.

    Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna

    che io non abbia fatto?

    Perché, mentre attendevo che producesse uva,

    essa ha fatto uva selvatica?

    La canzone d’amore si trasforma in un libello d’accusa: l’agricoltore intenta un processo contro la sua vigna. Repentinamente il profeta si rivolge al pubblico in qualità di testimone invitandolo a dare un responso. La conclusione del processo è già scontata: senza ombra di dubbio sarà di condanna.

    Ora voglio farvi conoscere

    ciò che sto per fare alla mia vigna:

    toglierò la sua siepe

    e si trasformerà in pascolo;

    demolirò il suo muro di cinta

    e verrà calpestata.

    La renderò un deserto,

    non sarà potata né vangata

    e vi cresceranno rovi e pruni;

    alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia.

    Un terribile castigo viene prospettato: la vigna viene “condannata” all’abbandono:“La renderò un deserto”. L’immagine dell’abbattimento del muro di cinta sta a significare il venir meno d’ogni protezione di cui fino a quel momento la vigna si era potuta avvantaggiare Il giardino curato si ritrasforma in arida terra di sterpi e di rovi.

    Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti

    è la casa di Israele;

    gli abitanti di Giuda

    la sua piantagione preferita.

    Egli si aspettava giustizia

    ed ecco spargimento di sangue,

    attendeva rettitudine

    ed ecco grida di oppressi

    Al termine della parabola la simbologia della vigna viene finalmente rivelata dal profeta ai suoi ascoltatori: la vigna è il popolo di Israele, il contadino premuroso è YHWH stesso. All’amore di predilezione di Dio nei suoi confronti, Israele ha risposto con l’infedeltà all’alleanza.

    Questo rifiuto si manifesta nell’ingiustizia e nel sopruso del debole, in una religione falsa che non implica un autentico ascolto della Parola. Dio aspettava dal suo popolo il “diritto” – ovvero un retto rapporto con Lui – ed ecco solo “delitto”, attendeva “giustizia” – ovvero un retto rapporto con gli altri – e ecco “grida di oppressi.

    La situazione sarebbe realmente drammatica se non apparisse, sempre per bocca di Isaia, una promessa da parte di Dio che un giorno la vigna fiorirà nuovamente e fruttificherà sotto la sua custodia vigilante:

    In quel giorno si dirà: “La vigna deliziosa: cantate di lei!». Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che venga danneggiata, io ne ho cura notte e giorno. Io non sono in collera. Vi fossero rovi e pruni, io muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme. O, meglio, si stringa alla mia protezione, faccia la pace con me, con me faccia la pace! Nei giorni futuri Giacobbe metterà radici, Israele fiorirà e germoglierà, riempirà il mondo di frutti.” (27,2-6).

    E’ Dio stesso che preparerà una nuova vite “scelta” capace di dare finalmente quei frutti invano attesi dal suo popolo.

    Nel vangelo di Giovanni, Gesù  presenterà se stesso come questa vera vigna a cui tutti dovranno innestarsi per essere capaci a loro volta di “fare frutti” buoni:

    Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto… Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me” (Gv 15,1-6).

    Gesù darà il suo frutto obbedendo al Padre “sino alla fine” e dando la propria vita per noi (Gv 15,9.13).Vera vite è Cristo ma lo siamo anche noi se siamo innestati in lui nel battesimo e vivificati dall’Eucaristia. Senza questa comunione con lui noi non potremmo fare nulla, nessun frutto riuscirebbe a maturare in noi.

    Per la riflessione

    Siamo “vigna del Signore”: la nostra esperienza ci dice che come Israele, spesso manchiamo anche noi di dare quei frutti che dovrebbero scaturire da un’autentica fede e carità. Questi fallimenti, invece di deprimerci, dovrebbero aiutarci a prendere consapevolezza della necessità di essere sempre più innestati in Cristo vera vite, attraverso la Parola e i Sacramenti, affinché ci sia data la capacità di “fruttificare” autenticamente.

    Preghiera conclusiva

    Dal Salmo 80: Pianto di un popolo distrutto

    Pastore d’Israele, ascolta!

    Guidi il tuo popolo come un gregge

    e siedi in trono sopra i cherubini:

    manifesta la tua potenza!

    Dall’Egitto hai sradicato una vite,

    hai cacciato via gli altri popoli

    per trapiantarla nella loro terra.

    Davanti ad essa hai ripulito il terreno;

    ha messo radici profonde e ha occupato tutto il paese.

    Con la sua ombra ha coperto i monti;

    più alti dei grandi cedri erano i suoi rami.

    Ha disteso i suoi tralci fino al mare

    e i suoi germogli fino all’Eufrate.

    Perché hai demolito il suo muro di cinta?

    Ogni passante ruba i suoi grappoli.

    Viene il cinghiale dal bosco e la devasta,

    vi pascolano dentro bestie selvatiche.

    Ritorna, Dio dell’universo,

    guarda dall’alto del cielo,

    vedi quello che accade,

    salva questa tua vigna.

    Proteggi ciò che tu stesso hai piantato,

    Mai più ti abbandoneremo;

    ridonaci la vita e invocheremo il tuo nome.

    Rialzaci, Signore, Dio dell’universo,

    mostra sereno il tuo volto e noi saremo salvi.

  • 20 Apr

    INTRODUZIONE


    SIAMO VIANDANTI SULLA VIA DELLA VITA


    di p. attilio franco fabris

     


    La vita: un cammino, un viaggio, una ricerca… Sono tante le simbologie adottate per dire una verità sola fondamentale: nella vita vi ci siamo trovati. E la vita stessa ci chiede di essere vissuta sino in fondo con tutta la sua fatica, i suoi rischi, la sua conclusione. E’ la vita stessa a porci in cammino.

    Vi può essere il desiderio, la paura, le reticenze, l’entusiasmo di questo porsi in viaggio… “Ricominciare ogni giorno come fosse il primo” direbbero i padri del deserto.

    Ciò talvolta è faticoso e talvolta doloroso, il cammino appare così misero, così sofferto, annoiato. Il mettersi in viaggio ti richiede di abbandonare tante cose che vorresti portare con te ma non puoi: “Nell’andare se ne va e piange portando la semente da gettare, ma nel tornare viene con giubilo portando i suoi covoni” (Sl 126,6). E’ spesso fai l’esperienza di  “portare” solo “semente da gettare”, ovvero di vivere, giorno dopo giorno, in perdita, senza nessun conforto e sicurezza.

    A tutti il cammino della vita chiede di gettare qualcosa e un giorno tutto. E allora il metterti ogni giorno in cammino, il ricominciare a gettare quella semente diviene un atto di speranza nella possibilità di  tornare un giorno nella gioia carichi di frutti insperati.

    Il porsi  in  cammino comporta l’accettazione della sfida del cambiamento; in un viaggio tante cose cambiano,  imprevisti, incontri, contrattempi, ritardi…: e questo accettare il cambiamento è faticoso, talvolta sofferto perché significa l’abbandonare  una realtà posseduta per una ricercata e creduta nella speranza.

    In questi giorni mi sembra importante il risvegliare in te la coscienza di essere persona in cammino, il saperti interrogare, e lasciare che la vita stessa ti interroghi. A livello personale il porti delle precise domande: in questo cammino della mia vita dove mi trovo? Lascia che il Dio della vita ti interroghi: Dove ti trovi? E’ la domanda che JHWH rivolge ad Adamo nascosto: “Dove sei?”.

    E’ dalla conoscenza del “dove mi trovo” che scopro una via, quella già percorsa e quella ancora da percorrere: il cammino della mia vita.

    Si tratta cioè di non lasciarti vivere, ma di imparare con umiltà e pazienza a rivedere e a riprendere in mano la tua storia, a ripossedere questo tempo che ti è stato dato in dono.

    Come credente la tua fede si basa su un Dio che con la sua creazione ha dato inizio ad una storia, che non è una storia ciclica, condannata ad un eterno ripetersi (il mito dell’eterno ritorno di Ulisse), ma una storia, come quella lineare di Abramo, che ha in Lui un avvio e una meta.

    Ti sentirai dunque viandante come Abramo verso la terra promessa, come Israele nel deserto, come Gesù nel cammino verso Gerusalemme, come la Chiesa verso il Regno.

    “ ”Via” è chiamata la vita, poiché ciascun uomo cammina verso una meta. Come coloro che durante la navigazione dormono o sono condotti spontaneamente dal vento in porto, anche se non se ne accorgono, (perché la corrente li spinge al compimento del loro viaggio), così anche noi, mentre il tempo della nostra vita scorre, ci affrettiamo, ciascuno verso il proprio fine, con il corso insensibile della nostra vita, come un movimento continuo e inesausto. Ad esempio, dormi e il tempo ti passa inosservato; vegli e sei irrequieto. Tuttavia, la via si consuma, anche se sfugge alla nostra percezione. Tutti noi uomini, dunque, corriamo una sorta di corsa, ciascuno affrettandoci verso il nostro fine. Perciò siamo in via. Così potresti intendere il significato di “via”. In questa via sei un viandante. Tutto tu oltrepassi, tutto resta dietro di te. Hai visto sulla strada un germoglio o dell’erba, o dell’acqua o qualunque altra cosa degna di essere osservata. Ne hai goduto un attimo, sei passato oltre” (Basilio, Om. sul Sal.1).

     

  • 18 Apr

    Dall’amore di sé al servizio all’altro

    Jean Vanier, La comunità luogo di festa e di perdono, Jaka Book


    Una comunità non è tale che quando la maggioranza dei membri sta facendo il passaggio da “la comunità per me” a “io per la comunità”, cioè quando il cuore di ognuno si sta aprendo ad ogni membro, senza escludere nessuno. E’ il passaggio dall’egoismo all’amore, dalla morte alla resurrezione: è la Pasqua, il passaggio del Signore, ma anche il passaggio da una terra di schiavitù a una terra promessa, quella della liberazione interiore.

    La comunità non è coabitazione, perché questo è una caserma o un albergo. Non è una squadra di lavoro e ancor meno un nido di vipere! E’ quel luogo in cui ciascuno, o piuttosto la maggioranza (bisogna essere realisti!), sta emergendo dalle tenebre dell’egocentrismo alla luce dell’amore vero. “Non concedete nulla allo spirito di partito, nulla alla vanagloria, ma ognuno per umiltà stimi gli altri superiori a sé; nessuno ricerchi i propri interessi, ma piuttosto ognuno pensi a quelli degli altri” (Fil 2,3-4).

    L’amore non è né sentimentale né un’emozione passeggera; è una attenzione all’altro che a poco a poco diviene impegno, riconoscimento di un legame, di un’apparenza vicendevole; è ascoltare l’altro, mettersi al suo posto, capirlo, interessarsene; è rispondere alla sua chiamata e ai suoi bisogni più profondi; è compatirlo, soffrire con lui, piangere quando piange, rallegrarsi quando si rallegra. Amare vuol dire anche essere felici quando l’altro è lì, tristi quando è assente; è restare vicendevolmente uno nell’altro, prendendo rifugio uno nell’altro. “L’amore è una potenza unificatrice” dice Dionigi l’Areopagita.

    Se l’amore è essere teso uno verso l’altro, è anche e soprattutto tendere entrambi verso le stesse realtà; è sperare e volere le stesse cose; partecipare della stessa visione, dello stesso ideale. E, con questo, è volere che l’altro si realizzi pienamente secondo le vie di Dio e al servizio degli altri; è volere che sia fedele alla sua chiamata, libero di amare in tutte le dimensioni dell’essere suo.

    Abbiamo qui i due poli della comunità: un senso di appartenenza gli uni agli altri ma anche un desiderio che l’altro vada oltre nel suo dono a Dio e agli altri, che sia più luminoso, più profondamente nella verità e nella pace. “L’amore è longanime; l’amore è servizievole; non è invidioso; l’amore non si gonfia, non si vanta; non fa nulla di sconveniente, non cerca il suo interesse, non si irrita, non tiene conto del male ricevuto, ma mette la sua gioia nella verità. Scusa tutto, crede tutto, sopporta tutto” (1Cor 13,4-7).

    Perché un cuore faccia questo passo dall’egoismo all’amore, dalla “comunità per me” a “io per la comunità”, e la comunità per Dio e per quelli che sono nel bisogno, occorrono tempo e molteplici purificazioni, delle morti costanti e nuove risurrezioni. Per amare, bisogna incessantemente morire alle proprie idee, alle proprie suscettibilità, alle proprie comodità. La via dell’amore è tessuta di sacrifici.

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