• 22 Ago

    Noi serviremo il Signore nostro Dio

    e obbediremo alla sua voce!


    Lectio di Gs 24,1-3.13-25

    di p. Attilio Franco Fabris

    Leggera è l’obbedienza vissuta alla luce dell’Evangelo, perché testimonia una gioiosa appartenenza e una libertà desiderata. Gioiosa appartenenza all’unico e indiviso Signore, libertà desiderata perché ci riscatta da ogni umiliante schiavitù in cui sprofondiamo ogniqualvolta vogliamo sganciarci dal nostro rapporto con il “Dio Uno” al quale solo spetta il nostro servizio di lode.

    La fede non è l’obbedienza, né è il segreto; l’obbedienza è il segno ed il frutto della fede” (J.Guillet), per cui l’obbedienza vera è la fede radicale riposta unicamente in Dio: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce!» (Gs 24,23).

    L’obbedienza biblica non è un rapporto di dipendenza, di sottomissione dell’uomo a Dio, ma un libero rapporto d’amore sollecitato da Dio stesso attraverso il dono dell’alleanza prima offerta nella Legge e poi nella carne del Figlio.

    Accogliendo questo dono veniamo liberati da ogni idolatria, mettiamo a morte l’uomo vecchio con le sue pretese di indipendenza egocentrica, ci volgiamo a Dio in una esigente relazione d’amore.

    Certo essa non è facile! Questa obbedienza domanda l’assunzione di tutta la propria responsabilità e il rifiuto di ogni scorciatoia comoda attraverso la quale rinunciarvi. La vera obbedienza non è mai disgiunta dalla responsabilità! Gesù ci insegna la via di questa obbedienza, donandoci il suo Spirito che, in lui Figlio obbediente, fa di noi altrettanti figli (cfr Rom 8,15), ed è perciò lo Spirito che dobbiamo invocare perché ci sia dato in Cristo di poter dire a nostra volta: “Abbà sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”: “Vieni, Spirito Santo, dal tuo trono celeste a consacrare i cuori dei tuoi fedeli, tu che il Cristo, la sapienza incarnata, promise di mandare da presso il Padre. Tu sei il “Dono” eterno e nuovo che il Cristo in croce fece alla sua Chiesa, quando la sposò con un’alleanza eterna, ornata di porpora dal sangue del Re. A colui che ti riceve, si aprono i misteri; nell’intimo, tu gli insegni ogni cosa. Questa è la caparra che già su questa terra il Cristo ha voluto dare alla sua Sposa”. (Rabano Mauro, PL 107,211).

    Lectio

    Il testo tratto dal cap. 24 del libro di Giosué è il resoconto del secondo solenne rinnovo dell’alleanza sinaitica (a cui stranamente qui non si accenna) celebrato da tutte le tribù d’Israele dopo la presa di possesso della terra promessa.

    Alcuni esegeti motivano a livello storico l’episodio con la volontà da parte di Giosué di radunare e stringere in un’unica confederazione tutte le tribù in quanto alcune di esse erano già stanziate in terra di Canaan allorquando Giosuè e le altre tribù vi entrarono. Per tale ragione quelle tribù non avevano conosciuta l’alleanza del Sinai.. In tal senso si può affermare che quanto Mosè aveva celebrato sul Sinai (cfr Es 24) viene ora ripetuto e riproposto nell’adunanza di Sichem.

    La struttura del brano e il suo lessico per quanto antichi denotano tuttavia un contesto liturgico con una sottostante teologia dell’alleanza tipica della tradizione “deuteronomistica”. Questa era caratterizzata dalla centralità della storia del popolo eletto letta come un continuo intervento salvifico da parte dell’iniziativa di Dio, il quale domanda una libera risposta di alleanza al “popolo che si è scelto”.

    Il testo ci si offre nella forma di un grande dialogo intessuto tra Giosuè, in qualità di portavoce di JHWH (“Dice il Signore, Dio d’Israele…” v 2), e tutti gli israeliti. Giosué, immediato successore di Mosè, ci appare come figura di mediatore alla stressa stregua del suo predecessore. Interessante come la sua funzione qui appare molto simile a quella successiva dei profeti quando richiameranno il popolo alla fedeltà all’alleanza con JWHW.

    Ma ripercorriamo ora gli elementi e i momenti fondamentali del nostro brano.

    Esso si apre solennemente con la convocazione da parte di Giosuè di “tutte le tribù…insieme agli “anziani d’Israele, i capi, i giudici, gli scribi del popolo” (v 1). L’atto ufficiale che si sta per compiere è di straordinaria importanza se esige la presenza di tutti, nessuno escluso.

    Anche il luogo della convocazione non è casuale: “Sichem” (v. 1). Tale località è centrale nella memoria di Israele: lì infatti JWHW era apparso ad Abramo la prima volta dopo che fu entrato nella terra promessa al fine di rinnovargli l’alleanza (Gn 12,6-8), lì Giacobbe aveva successivamente acquistato un terreno consacrandolo al Signore (Gn 33,18-20). A Sichem, dopo l’ingresso nella terra promessa, sempre ad opera di Giosuè, si era già svolto già un primo grande raduno con un primo rinnovo dell’alleanza (Gs 8,30-35). Sichem, molto prima di Gerusalemme, per molto tempo rivestirà l’importanza di una sorta di “capitale” della confederazione israelita e lì quasi sicuramente vi fu il primo santuario in cui risiedeva l’Arca dell’Alleanza (cfr 8,33). Logico allora che Giosuè scelga proprio Sichem come luogo simbolico strettamente collegato al tema della promessa e dell’alleanza. Ciò che sta per avvenire viene ricollegato in tal modo alla storia e una memoria di fede.

    Tutti “si presentarono davanti a Dio” (v.1): questa è un’espressione tipica utilizzata nel linguaggio liturgico per designare un’adunanza sacra e solenne. Non si tratta anzitutto e solo di un atto politico: è vera e propria azione liturgica celebrata dinanzi al Dio dell’alleanza.

    “Giosuè disse a tutto il popolo: «Dice il Signore, Dio d’Israele…»” (v, 2). Giosuè parla in modo autorevole in nome di Dio stesso, come faranno successivamente i profeti con discorsi strutturati su un identico schema.

    E il raduno assume sin dal principio l’andamento di un solenne dialogo che viene intessuto tra Giosuè e le tribù d’Israele.

    La prima fase del discorso di Giosuè ha come obiettivo il far memoria delle azioni salvifiche di JHWH (i verbi sono tutti alla prima persona singolare: Io…) nei riguardi di Israele a partire da Terach padre di Abramo sino a giungere all’”oggi” (v 15). Vengono perciò ripercorse le grandi tappe di una storia che Israele ha potuto sperimentare come liberazione/salvezza dalla schiavitù dell’idolatria. Un’azione che si apre ora al dono gratuito della terra: “Vi diedi una terra, che voi non avevate lavorata, e abitate in città, che voi non avete costruite, e mangiate i frutti delle vigne e degli oliveti, che non avete piantati” (v. 12).

    Dopo aver rievocato l’opera di Dio nel passato (vv 2-13) il discorso si traduce in un invito esplicito a corrispondere al suo dono: “Temete dunque il Signore e servitelo con integrità e fedeltà; eliminate gli dèi che i vostri padri servirono oltre il fiume e in Egitto e servite il Signore” (v.14). Importanti sono i verbi “temere” e “servire” i quali sono un condensato del rapporto di Israele con la Legge implicando l’impegno di “servire Dio” con “integrità” e “fedeltà”. Non si cada in compromessi perché si tratta di decidersi per il Dio dell’esodo e della conquista, cioè della storia, contro l’attrattiva del culto delle divinità cananee, egizie e mesopotamiche (v. 14).

    La risposta non è scontata perché l’alleanza offerta da Dio si offre nel rispetto della libertà dell’uomo: “Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire: se gli dèi che i vostri padri servirono oltre il fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel paese dei quali abitate” (v. 15): in genere il verbo “scegliere” ha come soggetto Dio nei confronti dell’uomo, ma qui appare il contrario perché alla scelta di Dio deve ora corrispondere la scelta dell’uomo.

    La risposta di Israele non tarda, essa è entusiasta ed immediata: “Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d’Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto quei grandi miracoli dinanzi agli occhi nostri e ci ha protetti per tutto il viaggio che abbiamo fatto e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Il Signore ha scacciato dinanzi a noi tutti questi popoli e gli Amorrei che abitavano il paese. Perciò anche noi vogliamo servire il Signore, perché Egli è il nostro Dio” (vv. 16-17). Queste sono parole significative perché vi si scorge che l’obbedienza di Israele all’alleanza non nasce da un dovere morale o dalla paura, ma dal semplice fatto che Israele ha sperimentato lungo la sua storia che Dio è salvatore e liberatore, fedele alla parola data e dunque affidabile. Siccome “Egli è il nostro Dio” (v. 17), non è più possibile “servire (=obbedire!) altri dei” (v. 16).

    Ma, quasi una doccia fredda, la risposta di Giosuè è un forte richiamo alla serietà di tale decisione. Sembra quasi che Giosuè voglia mettere in guardia il popolo da una risposta troppo scontata: “Se abbandonerete il Signore e servirete dèi stranieri, Egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi consumerà”(v.20). Con Dio non si gioca al compromesso: ne va della vita stessa perché l’uomo si gioca interamente nella sua libertà. L’adesione all’Alleanza di Colui che è tre volte“Santo” non può essere presa alla leggera, sull’onda dell’entusiasmo (si tratta della stessa serietà che domanderà Gesù a chi gli chiederà di porsi alla sua sequela: cfr Lc 18.58ss): va ponderata attentamente nelle conseguenze che essa comporta: “Voi non potrete servire il Signore, perché è un Dio santo, è un Dio geloso; Egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati”(v 19). La “santità” (cfr Is 6,3) e la “gelosia” (cfr Es 34,14) di Dio non sopportano contaminazioni: si tratta di una “grazia a caro prezzo” (D. Bonhoeffer)! Non è possibile “servire a due padroni” ammonirà severamente Gesù (cfr Mt 6,24)!

    La reazione delle tribù radunate è unanime al grido: “Noi serviremo il Signore” (v 21). Israele riconosce come vere le parole di Giosué e protesta la sua volontà di mantenersi a sua volta, come lui e la sua famiglia, fedele all’Alleanza. Di questa scelta tutti si rendono “testimoni” gli uni nei confronti degli altri davanti a Dio (v 22).

    Giosuè intima perciò immediatamente al popolo di a mettere in atto tale scelta: «Eliminate gli dèi dello straniero, che sono in mezzo a voi, e rivolgete il cuore verso il Signore, Dio d’Israele!» (v 23). Si allude qui con chiarezza alla presenza in quel momento di forme idolatriche all’interno delle tribù d’Israele. Non scordiamo pure i reali attestati dell’idolatria di Israele quando si trovava schiavo in Egitto (Ez 20,7-8; 23,3). Significativa allora appare l’esortazione di Giosuè a “rivolgere il cuore verso il Signore”: il cuore sta ad indicare il centro della persona, la sede della sua affettività e volontà. La scelta di sottoscrivere all’alleanza e di servire/obbedire il Signore deve procedere dal centro di se stessi, non può essere imposta dall’esterno: “Il popolo rispose a Giosuè: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce!” (v.24). E’ la stessa risposta del popolo d’Israele a Mosè al termine dell’alleanza del Sinai: “Quanto il Signore ha ordinato noi lo faremo e lo eseguiremo” (Es 24,7).

    A questo punto come gesto finale il testo afferma che Giosuè “concluse l’alleanza” (v 25) o meglio “tagliò un’alleanza”: qui si conclude il brano alludendo forse al sacrifico di animali coma parte integrante del rituale dell’alleanza, come già fece Mosè ai piedi del Sinai (cfr Es 24,3-8).

    Collatio

    Il popolo rispose a Giosuè: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce!» (v.24). Il verbo “servire” è equivalente ad “obbedire”, ora l’obbedienza suppone l’ascolto della parola nella quale Dio rivela al suo popolo il suo disegno d’amore. “Ascoltare” rappresenta così il verbo più importante della Sacra Scrittura perché l’azione più importante che Dio compie è quella di “parlare”, ovvero di comunicarsi all’uomo!

    Per parlare di “obbedienza” l’ebraico usa il verbo “sama” che significa “ascoltare”: non esiste infatti nell’ebraico una parola corrispettiva al nostro “obbedire”. La stessa radice etimologica la ritroviamo sia nel latino (da ob-audire) e nel greco (hypò =koùo). In quest’ultimo il verbo ascoltare ha come prefisso “hypò” che indica “sotto”: l’idea qui espressa è che l’ascolto-obbedienza implichi un atteggiamento di sottomissione a colui che parla.

    Da cosa si caratterizza l’ascolto autentico della Parola di Dio? Da una costante tensione “non lasciar andare a vuoto alcuna delle parole di Dio” (1Sam 2,19), a custodirle gelosamente, nella consapevolezza che esse sono il cibo di cui l’uomo ha bisogno per raggiungere la vita (cfr Mt 4,4) dalla quale si è allontanato a causa della sua disobbedienza. Questa parola si farà, in Cristo, carne da mangiare per la vita eterna (cfr Gv 6,54). Isaia esplicita bene questa tensione: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro” (Is 50,4).

    Nell’assemblea di Sichem ci viene presentato un popolo che radunato dalla Parola di Dio “non si tira indietro” , “non oppone resistenza” alla parola annunciata, ma entusiasta si rende subito disponibile all’obbedienza, riconoscendo in quella parola stessa il principio della sua sussistenza e della sua vocazione. Senza l’ascolto-obbedienza alla parola Israele cesserebbe infatti di esistere:“Oggi sei divenuto il popolo del Signore tuo Dio. Obbedirai quindi alla voce del Signore tuo Dio” (Dt 27,9-10).

    Un aspetto essenziale dell’obbedienza biblica è il fatto che essa non scaturisce da un precetto moralistico, ovvero non è norma che improvvisamente cala dal cielo imponendosi dispoticamente all’uomo. Essa rispetta la libertà dell’uomo che può anche rifiutarsi di obbedire (come accade al principio, accade e accadrà con tutte le conseguenze che questa scelta comporta). È altamente significativo rileggere il dialogo che viene intessuto tra Dio e il popolo adunato a Sichem: esso è caratterizzato dal fatto che l’alleanza non è imposta al popolo ma proposta alla libertà di tutti e di ciascuno (“se vi dispiace…”v. 15). Essa fa appello dunque a quella libertà nella quale fin dall’inizio il Creatore ha costituito l’uomo, e che ne costituisce la dignità e che sola assicura un reale rapporto d’amore (=alleanza) tra partner.

    A una libertà sganciata da qualsiasi verità e dunque impazzita come oggi purtroppo accade, l’obbedienza biblica si propone come via di accesso alla verità del disegno di Dio, il quale promuove l’autentica realizzazione dell’essere umano. Scriveva Giovanni Paolo II: “Non c’è contraddizione tra obbedienza e libertà. In effetti l’atteggiamento del Figlio svela il mistero della libertà umana come cammino d’obbedienza alla volontà del Padre e il mistero dell’obbedienza come cammino di progressiva conquista della vera libertà” (VC 91).

    Questa libertà lascia lo spazio anche al tradimento dell’alleanza, ovvero alla disobbedienza. Quando Israele viene meno all’obbedienza  sperimenta immediatamente la schiavitù come conseguenza irrimediabile: “Giusto è stato il tuo giudizio per quanto hai fatto ricadere su di noi e sulla città santa dei nostri padri, Gerusalemme. Con verità e giustizia tu ci hai inflitto tutto questo a causa dei nostri peccati, poiché noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da te, abbiamo mancato in ogni modo. Non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti” (Dn 3,28ss; cfr Es 17,7). Risuona perciò continuamente l’ammonimento del salmista: Ma il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito…Se il mio popolo mi ascoltasse, se Israele camminasse per le mie vie” (Sal 81,12.14). La disobbedienza conduce all’idolatria, all’indifferenza, ad un vuoto legalismo religioso. L’ingiunzione di Giosué appare dunque chiara: «Eliminate gli dèi dello straniero, che sono in mezzo a voi, e rivolgete il cuore verso il Signore, Dio d’Israele!».(v 23). Israele sperimenterà lungo la storia che quando questa eliminazione non è reale subentrerà il suo sgretolamento e fallimento; ovvero andrà incontro alla morte. In questo senso Giosué premunisce il popolo contro la tentazione della disobbedienza, perché qualora accadesse “egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi consumerà” (v. 20).

    L’obbedienza alla Parola è essenziale all’uomo in vista della sua libertà. Essa infatti lo preserva dall’inginocchiarsi dinanzi ai tanti idoli di ieri e di oggi, l’obbedienza al contrario restituisce l’uomo alla sua dignità di figlio, lo riapre a quella libertà per cui è stato fatto e che fa sì che senta di appartenere  a colui che lo ama: “mediante l’obbedienza si è uniti in maniera più costante e più sicura alla volontà salvifica del Padre” (PC 14).

    Un ulteriore importante aspetto dell’obbedienza che Dio chiede al suo popolo è che essa non è imposta dalla e con la paura. Al contrario essa deve rappresentare una risposta libera e gioiosa al fatto di aver toccato con mano l’azione salvifica di Dio. Gli imperativi divini non sono né dispostici,né tanto meno arbitrari e autoritari. L’obbedienza che Dio chiede è in certo qual modo. .. spiegata, motivata come conseguenza ovvia di ciò che è il Signore e del suo rapporto con il suo popolo.

    Comprendiamo allora perché il discorso di Giosuè si apra con un riepilogo della storia della salvezza che ha condotto Israele fino all’”oggi”: “Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra!” (Es 19,4-5). Anche il Decalogo suppone questo dinamismo: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù (Es 20,2).

    Nel discorso di Giosué JHWH è un Dio che si presenta al suo popolo con credenziali di tutto rispetto: “Vi diedi una terra, che voi non avevate lavorata, e abitate in città, che voi non avete costruite, e mangiate i frutti delle vigne e degli oliveti, che non avete piantati” (v.13). E quel che Dio ha fatto nel passato, lo sta compiendo in questo stesso momento e lo porterà a compimento nel futuro: questa è la convinzione di fede che sta alla base dell’alleanza, ovvero alla risposta positiva dell’uomo a ciò che Dio domanda per il suo bene. A questo punto l’uomo non potrebbe desiderare altro che obbedire: “Insegnami a compiere il tuo volere, perché sei tu il mio Dio” (Sal 142,10)!  Il fare costante “memoria” della presenza e dell’agire del Signore è essenziale perché Israele perseveri nel “servizio”, ovvero nell’obbedienza a JHWH: «Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dèi!7 Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d’Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto quei grandi miracoli dinanzi agli occhi nostri e ci ha protetti per tutto il viaggio. La nostra obbedienza deve radicarsi nel continuo memoriale di quanto Dio ha fatto, fa e farà per noi: Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti, perché se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te” (Ap 3,3). Cosicché la “Torah” dovrebbe essere vissuta da Israele non come un peso insopportabile ma come un dono, e l’obbedienza come l’occasione per entrare nel gioco d’amore con JHWH, sperimentando nella comunione con la sua volontà la beatitudine: “beato l’uomo di integra condotta che cammina nella legge del Signore” (Sal 119,1).

    L’obbedienza biblica non è dunque un’obbedienza servile, o “cieca” a dir si voglia; si tratta di un’obbedienza gioiosa, libera  che sgorga da un cuore che ha sperimentato la misura “smisurata” dell’amore di Dio: rivolgete il cuore verso il Signore, Dio d’Israele” (v.23). È questa l’obbedienza che Dio domanda al suo popolo, a ciascuno di noi: un’obbedienza adulta e matura, da figli e non da schiavi (cfr Rm 8,15).

    Ma proprio perché libera, adulta e responsabile essa comporta, ed è il terzo aspetto, forti esigenze e conseguenze: “Voi non potrete servire il Signore, perché è un Dio santo, è un Dio geloso; Egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati” (v. 20). L’amore di Dio è esigente! L’obbedienza esige un sacrificio reale di quella volontà che appartiene all’ “uomo vecchio” sospettoso, incredulo e pauroso che sfugge alla Parola nascondendosi e illudendosi di poter costruire autonomamente la propria vita: “con la professione di obbedienza i religiosi offrono a Dio la piena dedizione della propria volontà come sacrificio di se stessi” (PC 14)

    Quando l’obbedienza decade e si snatura? Quando essa invece di radicarsi nella memoria delle opere di Dio si fossilizza nella lettera perdendo in tal modo la sua vera sorgente. Quando questo accade l’obbedienza si snatura, diviene legalismo vuoto e ricerca di autoperfezione e autogiustificazione. Contro questa falsa obbedienza si scaglieranno sia i profeti (cfr Is 1,11-17) come anche Gesù: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle” (Mt 23,23)

    Il teologo protestante R. Bultmann scrive: “Dio chiede all’uomo un’obbedienza dal profondo e non dall’esterno. Sino a quando l’azione sta solo accanto all’agire, l’uomo non è totalmente obbediente. L’obbedienza esiste dove l’uomo è volto interamente a ciò che fa, dove è tutto ciò che fa, cioè dove egli non fa qualcosa ubbidendo, bensì è obbediente nel suo essere…L’obbedienza è radicale. Questo significa che l’uomo si trova nella situazione di decisione; se non si dà per lui alcuna possibilità di neutralità, allora deve decidersi tra le uniche due possibilità che ci sono nel suo essere, cioè tra il bene e il male” (R. Bultmann, Gesù).

    Che lo Spirito ci dia sempre di vivere un’obbedienza dal profondo di noi stessi che non scaturisca solo dall’esterno.

    Oratio

    Modello di obbedienza libera, responsabile e matura è Maria. È lei che, come Abramo, con “integrità” e “fedeltà” ha sempre “volto il cuore” unicamente al suo Dio in un “servizio” perfetto alla sua volontà: “eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”..

    A lei dunque affidiamo i propositi sgorgati dall’ascolto della Parola perché la nostra obbedienza si conformi sempre più alla sua perfetta discepola del Figlio: “Santa Maria, donna obbediente, Tu che hai avuto la grazia di “camminare al cospetto di Dio”, fa’ che anche noi, come Te, possiamo essere capaci di “cercare il suo volto “. Aiutaci a capire che solo nella sua volontà possiamo trovare la pace. E quando Egli ci provoca a saltare nel buio per poterlo raggiungere, liberaci dalle vertigini del vuoto, e donaci la certezza che chi obbedisce al Signore non si schianta al suolo, come in un pericoloso spettacolo senza rete, ma cade sempre nelle sue braccia”. (mons. Tonino Bello)

  • 20 Ago

    Il tempo dell’antibabele

    Lectio di Isaia 2,1-5

    di p. Attilio Franco Fabris

    Il mondo sta camminando a passi sempre più spediti verso una trasformazione globale. Sta cambiando la cultura, la vita e le strutture sociali e di comunicazione, cambia l’economia sempre più globale: il mondo è realmente diventato più piccolo, un “villaggio globale” come alcuni amano dire. Vediamo le nostre città, e non solo, trasformare il loro volto. Viviamo, volenti o nolenti, uno dei cambiamenti più grandi della storia dell’umanità che segnerà sicuramente una svolta.

    Questo cambiamento è percepito con sentimenti diversi e spesso contrastanti: se ne avvertono le immense potenzialità di bene e di sviluppo per tutti, ma d’altra parte lo si teme perché esso comporta inevitabilmente lo smantellamento di strutture economiche, sociali, politiche, che per secoli avevano assicurato un orizzonte di sicurezza e stabilità.

    Uno dei segni più evidenti di questo cambiamento è dato dal fatto che, sempre più spesso, camminando per strada, salendo sul tram o al supermercato incontriamo donne col velo islamico, volti  neri, occhi a mandorla, sentiamo parlare lingue perfettamente sconosciute, vengono aperti negozi stranieri e inaugurati nuovi luoghi di culto per le religioni più disparate. In alcune scuole e quartieri si sta ponendo il problema di una minoranza fatta di… italiani! Un grande movimento di popoli sta avvenendo sotto i nostri cuori, obbligando ad un incontro, che può purtroppo come sta avvenendo in diverse parti del mondo e anche in Italia degenerare in scontro, di culture.

    Anche il volto delle comunità cristiane e religiose sta cambiando di conseguenza. Alla messa domenicale è facile scambiare il segno della pace a destra con l’africano e a sinistra con una filippina. Tanti istituti religiosi hanno scelto di integrare (talvolta importare!), per motivi più o meno validi, vocazioni provenienti dall’Africa e dall’Asia: per cui nel paesino più sperduto delle montagne dell’Abruzzo non è difficile intravedere l’anziana suora italiana che si accompagna a una giovane consorella indonesiana per andare alla messa celebrata dal prete indiano!

    Ci domandiamo: quale il ruolo della società, della chiesa, della vita religiosa, in questo frangente storico così delicato? Cosa Dio ci sta chiedendo? Quale il segno dei tempi che ci fa scorgere?

    Il profeta Isaia ha la forza e il coraggio di aprire il credente ad una visione di straordinaria bellezza: Dio annuncia che tutti i popoli sono chiamati a percorrere una via di riconciliazione e di pace che li faccia sempre più incontrare e unificare. Si tratta di una via che non passa attraverso i meschini calcoli politici o interessi economici, ma attraverso il riconoscimento che vi è una realtà più grande di ogni singolo popolo, lingua, cultura, religione. Questa realtà noi la chiamiamo Regno di Dio verso il quale tutti siamo incamminati per raggiungerlo in pienezza alla fine dei tempi. Nel frattempo la provvidenza di Dio ci pone nella condizione di pregustarne gli anticipi.

    Nel frattempo a noi collaborare con lo Spirito che fa percorrere alla storia sentieri ancora inesplorati: “Vieni Spirito Santo,scendi come rugiada dal cielo. Fa’ sentire la tua presenza mite, dolce e forte, nel profondo della coscienza. Apri i nostri occhi, fa’ che siano fissi sul volto di Cristo. Apri le nostre orecchie perché ascoltino solo le sue parole. Rendici suoi discepoli. Prepara il nostro cuore all’incontro sempre nuovo con il Signore risorto, in attesa di conoscerlo pienamente accanto a te, con tutti i nostri fratelli nella gioia del Padre, che non avrà mai fine. Allora ogni parola del Signore ci apparirà chiara e luminosa. E noi saremo introdotti nella vita della Trinità. Per tutti i secoli dei secoli. Amen”.

    Lectio

    La cittadella di Sion raccoglie in sé il Tempio, dimora di Dio, e il palazzo del re suo luogotenente. Sia il tempio che il palazzo reale sono segni che rimandano costantemente all’elezione d’Israele da parte di JWHW e alle sue promesse.  Numerosi testi dell’AT si premurano di ricordare che JWHW abita in Sion: “Il Signore degli eserciti abita sul monte Sion” (Is 8,18), che è lui che “ha fondato Sion e in essa si rifugiano gli oppressi del suo popolo” (Is 14,32). “Sul monte della sua eredità, santuario che le sue mani hanno fondato” (Es 15,17). È da questa sede da lui scelta che JHWH vuole da sempre incontrare e parlare, tramite il profeta, al suo popolo.

    Il profeta Isaia abita proprio in Gerusalemme, e nei suoi oracoli si intravede un grande innamorato della sua città: egli è sempre pronto a decantarne tutta la bellezza che scaturisce dal fatto che Dio stesso abita in essa:“Eccelso è il Signore poiché dimora lassù; egli riempie Sion di diritto e di giustizia”  (33,5).

    Isaia ogni anno ha modo di contemplare il continuo confluire di tutti gli israeliti che in pellegrinaggio, in occasione delle grandi feste, si recano al monte di Sion cantando i “Salmi delle Ascensioni” “in mezzo ai canti di gioia di una moltitudine in festa” (Sal 42,5). Era questo certamente uno spettacolo capace di suscitare memorie antiche e speranze sempre nuove. Una speranza necessaria in quanto il tempo in cui Isaia annuncia il suo oracolo è difficile: la situazione del regno di Giuda è drammatica. Esso è aggredito e strattonato da ogni lato dalle spinte politiche dei paesi circonvicini che lo vorrebbero obbligare ad alleanze in vista di un suo coinvolgimento in una impossibile guerra contro l’Assiria (Is 7,2). Mentre le truppe nemiche si apprestano ad assediare la capitale per ridurla alla sottomissione Isaia rimane fermo nella speranza che la salvezza starà unicamente nell’affidarsi a Dio, non nei poveri e umani calcoli politici. Se Israele confiderà unicamente nel suo Dio Gerusalemme non potrà essere conquistata. Ma il suo annuncio profetico non si ferma qui; egli va oltre offrendo un’ulteriore e sconcertante promessa, quella contenuta nel nostro testo.

    “Ciò che Isaia, figlio di Amoz, vide riguardo a Giuda e a Gerusalemme” (v.1). Isaia “vede” ciò che deve dire, o meglio annuncia ciò che Dio gli mostra. La sua parola sarà perciò infallibile in quanto Parola di Dio! Ciò che Isaia dice non è una sua intuizione, un suo ragionamento ma è “visione”, ovvero capacità/dono di leggere la storia e le vicende con lo sguardo di Dio stesso. Dio stesso che “mostra” il suo disegno servendosi del profeta. E ciò che egli “vede” è in riferimento al regno di Giuda e della sua capitale: la città santa di Gerusalemme.

    “Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti” (v.2). Troviamo anzitutto una precisazione riguardante il tempo. Quando avverrà ciò che vede? “Alla fine dei giorni”. Espressione enigmatica che non comporta tuttavia necessariamente la fine della storia. Può stare ad indicare il tempo di un nuovo inizio nel quale il Regno di Dio sarà sperimentato come realtà concreta e nel quale l’umanità potrà sperimentare un cambiamento radicale.

    Una nuova era che inizierà con l’esaltazione del monte di Sion sopra tutti gli altri monti. Isaia vede il monte di Sion – sul quale si erge il grande Tempio costruito da Salomone – elevarsi divenendo il monte più alto della terra. Questo non per suoi meriti… orografici! Ma perché luogo scelto da Dio a sua dimora. Il luogo cui Dio ha legato la propria presenza verrà elevato dalla sua attuale posizione nella quale passa pressoché inosservato cosicché tutto il mondo lo potrà vedere nella sua vera realtà di “monte di Dio”.

    Immediatamente dopo il profeta scorge una folla immensa di pellegrini di ogni razza, popolo e lingua e nazione che si dirige unanimemente verso il santuario di Dio. Se in precedenti oracoli Isaia annunciava lo sterminio dei popoli ribelli (cfr 10,24-34; 17,12-14; 30,19) qui manifesta che Gerusalemme diverrà luogo di incontro per tutti i popoli (lo stesso tema verrà ripreso dal contemporaneo Michea: 4,1-5). Al termine della storia Dio non annienterà dunque i popoli pagani ma ad essi offrirà la conversione, la possibilità della loro spontanea sottomissione all’autorità di Dio: “Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe,perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore”(v.3).

    Sorge inevitabile la domanda: qual è il motivo di questa comune e inattesa attrazione? Questa fiumana di popoli diversi non si reca al monte di Dio per offrire sacrifici o sciogliere voti o per altri scopi cultuali quanto per porsi in ascolto della Parola di JHWH. Da questo ascolto potranno tutti apprendere a camminare nelle vie del Signore: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 118,105).

    Dunque la forza di attrazione, il punto di convergenza e di comunione tra tutti i popoli, sarà rappresentato dalla Parola che Dio rivela e che “esce” dal tempio, non vi rimane!, per andare incontro all’uomo. È solo la Parola che può attrarre e unificare i cuori un tempo divisi in un comune desiderio, nella misura in cui la “legge” sarà riconosciuta come verità dal cuore di ciascuno. Ciò significa che al dono della Legge deve far riscontro la disponibilità dell’orecchio all’ascolto e della volontà per realizzare la parola udita cosicché “possiamo camminanare per i suoi sentieri”.

    Il santo monte diviene centro di un duplice movimento: da un lato il concorso universale di tutti i popoli dall’altro la Parola che da esso viene a tutti indistintamente offerta. Il grande cammino umano della storia si trasforma in un cammino dell’uomo verso Dio e di un cammino “di Dio” verso l’uomo. La marcia della storia diviene “santo pellegrinaggio”:Sono canti per me le tue parole, nella terra del mio pellegrinaggio” (Sal 118,54). Le vie del mondo e della storia si trasformano in strade di Dio, nei “suoi sentieri”. La storia per la rivelazione biblica non è un  girovagare a vuoto, senza meta e direzione!

    “Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si  serciteranno più nell’arte della guerra” (v.4). Frutto del convergere al monte di Dio da parte di tutti i popoli, il che rappresenta una dinamica opposta a quella del monte/torre di Babele, è l’instaurarsi di un’era di pace, di riconciliazione: ovvero del regno di Dio. Gli strumenti di morte – spade e lance – sono trasformati in strumenti di vita: vomeri e falci-. I popoli pongono fine alla guerra, le armi sono totalmente  dimesse (forgeranno) perché non avranno più alcun senso di esistere. Le divisioni e le ostilità dell’umanità si dissipano ai piedi del monte quando la Parola è accolta da tutti!

    È utile tener presente che oracoli di questo tenore erano frequenti in tutta l’antica area mediorientale: ad ogni ascesa di un re si annunciava l’avvento di un’era di pace universale, del ritorno alla mitica età dell’oro. Ad esempio un canto che inneggia al faraone Ramses IV proclama: “Coloro che avevano fame sono stati saziati e sono allegri, coloro che erano ignudi sono vestiti di lino fine, coloro che erano in prigione sono stati liberati, coloro che litigavano in questo paese si sono rappacificati”. Ma proprio nel giorno in cui il faraone era proclamato apportatore di pace per il mondo intero egli ritualmente scagliava una freccia in direzione di ciascun punto cardinale: era un gesto simbolico violento tutto teso a scoraggiare chiunque pensasse di attentare alla sicurezza del regno. Il faraone prometteva sì la pace ma sotto l’egida della minaccia dell’impiego delle forze di guerra! Isaia annuncia invece una pace totalmente diversa che trova origine da una direzione totalmente diversa: essa non si basa sulla forza e sul potere violento, non su calcoli umani e diplomatici, ma sull’adesione di tutti i popoli – convocati in “Jerushalaim – Città della Pace” alla Parola di Dio. E’ la Parola che ha la forza di annullare la forza disgregatrice e violenta del peccato di Babele e di porre in atto una nuova creazione che riordini il caos.

    Sion ottiene così lo statuto di città in cui è possibile dissipare e annullare il titanico e drammatico episodio di Babele: in tale città l’ybris dell’uomo antagonista di Dio pretese di costruire il monte artificiale capace di giungere a competere col cielo, ovvero con Dio. Tale progetto ebbe come conseguenza l’instaurarsi del disordine e dell’ingiustizia che scaturì dal fatto che l’uomo pretese (e pretende) di scardinare l’ordine voluto da Dio. Il frutto fu l’incomprensione reciproca, una frantumazione e una dispersione generatrici solo di guerra e divisione. Ora contro questa torre-monte presuntuoso si erge il monte di Sion sul quale Dio dimora e dal quale risuona la parola ricreatrice. Contro l’incomunicabilità, la divisione, l’incomprensione a Sion è donata la Parola capace di riunificare e di far parlare tutti nell’unico linguaggio dell’amore. Coloro che accolgono la Parola cessano di costruire torri capaci di provocare solo divisione e incomunicabilità.

    “ Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore” (v. 5). Fin da ora Israele, la “Casa di Giacobbe”, ha il compito di rendere presente quell’unità che sarà donata a tutti i popoli “alla fine dei giorni”. Esso è chiamato fin d’ora a fare esperienza di ciò che il mondo potrà essere solo nel futuro. Per far questo la strada è una sola: Israele deve “camminare nella luce del Signore”, perché vi è e vi sarà sempre il rischio di deviare dal sentiero non prestando l’orecchio all’ascolto (cfr Is 50,4). Una luce (è ancora la Parola che Dio pronuncia nelle tenebre all’inizio della creazione) scaturisce da Sion capace di far intravedere in un’epoca di buio e incertezza una direzione che contiene in sé una speranza inaspettata: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse”  (9,1). Luce che indica la via all’unità di tutti noi in Dio.

    Collatio

    È faticoso dopo il fatidico 11 settembre sperare ancora nella possibilità di uno scambio di mano tra le varie razze, popoli, culture e religioni. I muri di divisione tra est e ovest che, pochi anni prima, si erano abbattuti si sono precipitosamente rialzati. Ne sono stati edificati addirittura di nuovi e proprio nella Gerusalemme in cui Isaia aveva la sua casa! Sui nostri giornali troviamo ogni giorno che l’allontanamento – se non la violenza perpetrata in tanti modi – nei confronti del “diverso”, dello “straniero” e talvolta in nome stesso di Dio, viene troppo spesso utilizzata come l’unica risposta che può garantire la sicurezza del… proprio orticello.

    Eppure in tutta Europa  l’accelerazione dei flussi migratori non si sta arrestando, anzi le dimensioni di questo movimento diviene sempre più planetarie. Ciò che sta avvenendo ci trova un po’ tutti impreparati. Sporadici i casi di una tranquilla convivenza, ancora molto lontane invece le occasioni di un vero incontro. Quasi nessuno ha piacere di avere a fianco del proprio pianerottolo la famiglia rumena, africana o il gruppetto di mussulmani. Il disagio e l’insofferenza ci sono, inutile negarli e sinora la gestione di questo incontro-scontro di culture, razze e religioni diverse è improvvisata. Si tentano normative che hanno la consistenza di un tampone. Il risultato è che, almeno per ora, la nostra società non sta diventando correttamente interculturale ma rimane tutt’al più solo plurietnica di fatto e suo malgrado.

    Le strade perché l’incontro e la fusione avvengano non possono essere dettate solo da strategie politiche od economiche. Generalmente queste sono sempre tentate dall’ybris cosmopolita e fallimentare di Babele! La radice cristiana dell’Europa si è voluta dimenticare. Su quali fondamenta profonde si costruirà la nuova Europa quando ne abbiamo divelto le radici?

    Un ruolo fondamentale l’avranno proprio le religioni. Oggi l’incontro tra le religioni ha fatto molta strada, ma ancora troppo poca a ragione di ciò che esse sono chiamate a fare. Tutte – come insisteva nel suo insegnamento e con i suoi gesti profetici Giovanni Paolo II – avranno un ruolo di primaria importanza per la costruzione di una nuova società multietnica.

    La profezia di Isaia è offerta come visione capace di aiutarci a sperare e ad intraprendere cammini di incontro e di riconciliazione. E allora ci domandiamo: in quale misura la mia fede in Dio mi sta aiutando a superare ostacoli e divisioni e a stendere la mano al fratello e alla sorella perché insieme possiamo “salire al monte del Tempio del Signore”?

    La profezia di Isaia non si è realizzata nel tempo del profeta. Ma la promessa non è stata posta in cantina ad ammuffire. Anzi! Dalla comunità dei discepoli di Gesù è stata nuovamente rilanciata e ampliata a orizzonti ancora più vasti che abbracciano l’universo e l’eternità. L’apostolo Giovanni pronuncia la stessa profezia di Isaia proiettandola alla fine dei tempi, quando tutto “sarà ricapitolato in Cristo”. Egli vede la nuova Gerusalemme, a cui sono confluiti i centoquarantaquattromila di ogni stirpe, lingua e nazione, che discende, come dono, dal cielo da Dio (cfr Ap 21,1). In questa nuova Sion, di cui la Chiesa è già ora sacramento, tutti i popoli hanno iniziato a convergere attorno alla Parola fatta carne: “Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani” (Ap 7,9).

    La Chiesa in Cristo riconosce l’inizio di tale adempimento: Matteo all’inizio del suo vangelo ci  presenta una “casa” in cui attorno a Cristo si raccolgono ebrei e pagani. Luca presenterà a sua volta la stessa “casa” all’inizio degli Atti in cui ebrei, proseliti e pagani si ritrovano accomunati nella fede in Cristo (Atti 2,8-11). All’annuncio del kerygma che scaturisce dalle labbra degli apostoli usciti di corsa dal cenacolo ecco che tutti si pongono in ascolto della Parola. È una Parola  che indica a tutti i “sentieri di Dio” capaci di operare la trasformazione del cuore e indurlo alla pace con Dio e con ogni fratello: “Che cosa dunque dobbiamo fare?”.

    La “fine dei giorni” (v.2) preannunciata da Isaia è perciò iniziata: “Il Regno di Dio è in mezzo a voi”.  Ciò significa che la grazia di Cristo, “per mezzo della sua croce” (Ef 2,16),  può infrangere ogni separazione, ogni ostilità tra uomo e uomo, tra nazione e nazione: “Egli è la nostra pace, è venuto ad annunziare la pace, pace a coloro che erano lontani e pace a coloro che erano vicini” (Ef 2,14.17).

    Quale il futuro che ci aspetta e il ruolo della Chiesa e delle comunità religiose in questo contesto sociale?

    Il futuro appare relativamente chiaro anche se ancora molto lontano: la strada dell’interculturalità sarà quella del riconoscere l’altro nella sua cultura affermando contemporaneamente la propria sicché dal mutuo riconoscimento scaturisca un processo di trasformazione che idealmente porti entrambi a superarsi per giungere ad una realtà completamente nuova, altra da entrambi. In poche parole: il futuro attende il nascere di una sorta di “meticciato culturale”, un colore completamente nuovo come quello della luce della Pentecoste che ingloba tutti i colori. Non si tratterà perciò di abolire le differenze, né di operare separazioni, bensì di far nascere un “nuovo e altro” che prendendo da entrambi va oltre. Per ora la strada percorsa sembra essere solo giunta alla formulazione di un multiculturalismo dove viene sancita e riconosciuta la differenza dando diritto ad un mosaico culturale dove però ognuno è tutelato nella misura in cui rimane rinchiuso nel suo gruppo e di nuovo separato dagli altri.

    Ecco allora il compito della Chiesa e delle altre religioni: quello di porre in atto coraggiosamente iniziative che vadano controcorrente ad un rifiuto generalizzato di questa evoluzione. Come fu capace di visione Giovanni Paolo II quando nel 1986 decise di invitare tutti i rappresentanti delle grandi religione per implorare insieme il dono della pace e della comunione fra i popoli. Ora lo si comprende!

    La chiesa e le altre religioni saranno sempre più chiamate a mostrare di favorire concretamente la pace mondiale e soprattutto di non usare il nome di Dio per dare atto a sfoghi di violenza inconsulta. Per noi cristiani, la dottrina conciliare della Chiesa come “popolo di Dio”, deve essere la forza trainante di questo impegno: e la visione di Isaia torna a rivivere: un unico popolo di diverse culture e lingue in cui le identità di ciascuno sono rispettate ma insieme trascese in quanto tutti tesi ad un “tertium” che è il regno di Dio.

    Saremo capaci come comunità del Crocifisso Risorto di presentarci al mondo in preda alla paura, al sospetto e alla violenza nei confronti del “diverso”, come segno contraddittorio e visibile di comunione? Non dimentichiamo le parole del catechismo della Chiesa cattolica dove si dice che: “la Chiesa è il luogo in cui l’umanità deve ritrovare l’unità e la salvezza. È il “mondo riconciliato”. È la nave che “spiegate le ali della croce del Signore al soffio dello Spirito santo naviga sicura in questo mondo”” (CCC845).

    E veniamo al ruolo delle comunità religiose. Ormai sembra un dato scontato che esse siano incamminate a divenire sempre più “internazionali”. Nella stessa casa troviamo persone consacrate di diverse nazionalità, colore e lingua. Al di là delle motivazioni originarie più o meno valide che hanno portato vari istituti religiosi ad optare per questa scelta, appare evidente che tale situazione appaia oggi provvidenziale visto che anche la nostra società è chiamata a percorrere la stessa strada.

    Allora perché non cogliere questa varietà all’interno delle singole comunità non come un peso che “purtroppo” ci si deve accollare per necessità ma come occasione di autentica evangelizzazione, in cui la comunità presentarsi nel suo ambiente come profezia di una realtà possibile?

    I problemi in questo cammino interculturale non mancheranno certamente ma quante opportunità sono date in essa! Che le nostre comunità divengano consapevoli che si tratta di un “segno dei tempi” di straordinaria importanza, che incalzando sta facendo incamminare l’umanità verso il Regno. La profezia di Isaia si sta realizzando sotto i nostri occhi, non ce ne accorgiamo?

    Oratio

    È veramente giusto renderti grazie,
    e innalzare a te, Signore, Padre buono,
    l’inno di benedizione e di lode.
    Per mezzo del tuo Figlio,
    splendore d’eterna gloria, fatto uomo per noi,
    hai raccolto tutte le genti nell’unità della Chiesa.
    Con la forza del tuo Spirito
    continui a radunare in una sola famiglia
    i popoli della terra,
    e offri a tutti gli uomini la beata speranza del tuo Regno.
    Così la Chiesa risplende
    come segno della tua fedeltà all’alleanza
    promessa e attuata in Gesù Cristo, nostro Signore,
    che vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
    un solo Dio per i secoli dei secoli. Amen

    (V Preghiera Eucaristica, Prefazio D).

  • 07 Apr

    CANTO DI PASQUA

     

    Ancora una volta veniamo, o Signore,
    ancora una volta per cantare la Pasqua.
    Che ostinazione!
    Per sfidare con te
    le forze delle tenebre
    e per gridare,
    per credere ancora
    che la notte non può impedire a Dio di far levare la luce.
    Ancora una volta veniamo
    per raccogliere da te la speranza,
    per trovare la gioia
    che si innalza nonostante i dubbi e le paure,
    per accogliere da te la gioia
    capace di far fronte a conflitti e difficoltà,
    per ricevere da te la vita
    che nulla può schiacciare,
    neppure la pietra del sepolcro.
    Ancora una volta veniamo
    per vedere all’opera te, Signore Dio nostro,
    il cui lavoro, fin dall’inizio dei tempi,
    consiste nel donare senza posa
    la vita per sempre. Amen.

     

    Charles Singer

     

    Il grano seminato per tre giorni
    ha germinato e riempito
    il granaio della vita.

     Sant’Efrem il Siro, Omelie in Nat. IV

  • 06 Apr
    Varie Commenti disabilitati su Maria tu sei l’annuncio

    MARIA TU SEI L’ANNUNCIO

    Maria, tu sei l’annuncio,
    Maria, tu sei il preludio,
    Maria, tu l’aurora,
    Maria, tu la vigilia,
    Maria tu la preparazione immediata,
    che corona e mette termine
    al secolare svolgimento del piano divino della redenzione;
    tu il traguardo della profezia,
    tu la chiave d’intelligenza
    dei misteriosi passaggi messianici,
    tu il punto d’arrivo del pensiero di Dio,
    “termine fisso d’eterno consiglio”.
    La tua apparizione, o Maria,
    nella storia del mondo
    è come una luce del mattino,
    ancora pallida e indiretta,
    ma soavissima,
    ma bellissima;
    la luce del mondo, Cristo,
    sta per arrivare;
    il destino felice dell’umanità,
    la sua possibile salvezza,
    è ormai sicuro.
    Tu, o Maria, lo porti con te.

    Paolo VI

     

    All’uomo contemporaneo, non di rado tormentato tra l’angoscia e la speranza…
    la Vergine Maria, contemplata nella sua vicenda evangelica e nella realt�
    che già possiede nella Città di Dio,
    offre una visione serena e una parola rassicurante:
    la vittoria della speranza sull’angoscia, della comunione sulla solitudine,
    della pace sul turbamento, della gioia e della bellezza sul tedio e la nausea,
    delle prospettive eterne su quelle temporali, della vita sulla morte.

    Paolo VI, enc. Marialis cultus

  • 19 Mar

    A san Giuseppe

     

    A te, o beato Giuseppe, stretti dalla tribolazione, ricorriamo,
    e fiduciosi invochiamo il tuo patrocinio,
    dopo quello della tua santissima sposa.
    Per, quel sacro vincolo di carità, 
    che ti strinse all’Immacolata Vergine Maria, Madre di Dio,
    e per l’amore paterno che portasti al fanciullo Gesù,
    riguarda, te ne preghiamo, con occhio benigno
    la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo Sangue,
    e col tuo potere ed aiuto sovvieni ai nostri bisogni.
    Proteggi, o provvido custode della divina Famiglia,
    l’eletta prole di Gesù Cristo:
    allontana da noi, o Padre amatissimo,
    gli errori e i vizi, che ammorbano il mondo;
    assistici propizio dal cielo
    in questa lotta col potere delle tenebre,
    o nostro fortissimo protettore;
    e come un tempo salvasti dalla morte
    la minacciata vita del pargoletto Gesù,
    così ora difendi la santa Chiesa di Dio
    dalle ostili insidie e da ogni avversità;
    e stendi ognora sopra ciascuno di noi il tuo patrocinio,
    affinché a tuo esempio e mediante il tuo soccorso,
    possiamo virtuosamente vivere,
    piamente morire e conseguire l’eterna beatitudine in cielo.
    Amen.

  • 11 Mar

    Un solo corpo, molte membra…

    Lectio di 1 Cor 12,12-28

     

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    La nostra esistenza è un tessuto di relazioni. Pensiamo solo al pane che troviamo sulla nostra tavola tutti i giorni: quante relazioni, fatte di volti e di mani, sono occorse affinché arrivasse sino a noi. Noi viviamo di relazioni fin dal nostro stesso concepimento. Nessuno può vivere – ricorda la Scrittura – per se stesso (cfr Rm 14,7); abbiamo bisogno gli uni degli altri perché “non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2,18). Fatto ad immagine di Dio, che nel suo profondo mistero è relazione perfetta d’amore, l’uomo è costituzionalmente creato per la relazione e in vista della comunione.
    Ma l’uomo, lo stiamo amaramente constatando, si illude di poter far a meno della relazione con gli altri instaurando rapporti fatti di prevaricazione, potere, violenza. Il mondo è ferito da questo tessuto di relazioni spezzato, ingarbugliato, sfilacciato.
    Chiediamo allo Spirito che è relazione d’amore di suscitare in noi la sete di autentiche relazioni fatte di accoglienza e riconoscimento. Chiediamogli uno sguardo nuovo capace di vedere nell’altro non un nemico da sconfiggere ma un dono, così che insieme possiamo edificare il mondo nel progetto di quel Regno annunciato da Gesù.
    Vieni, Spirito di comunione, che costruisci la tua Chiesa come un prezioso tessuto in cui ciascuno trova la sua perfetta collocazione in vista di quel disegno misterioso e straordinario che è nel cuore di Dio. Donaci di poterci consegnare gli uni agli altri nella fiducia, nella gioia che insieme con te stiamo costruendo il Regno. Vieni, Spirito di comunione, abbattendo in noi tutte quelle barriere fatte di paura, presunzione, interessi, rivendicazioni che ci impediscono di stendere la mano al fratello, alla sorella che ci sta di fronte. Che nessuno viva per se stesso, ma che la vita divenga disponibilità ad entrare in quel mosaico a cui tu, da tutta l’eternità, pazientemente stai lavorando.

    Lectio

    Il problema che Paolo dovette affrontare nella comunità di Corinto fu quello dell’interazione dei diversi carismi. La comunità di Corinto rischiava di fare dei doni accordati ai singoli credenti occasione non di crescita per tutti, ma di competizione e opposizione, stravolgendone così completamente il significato. Ecco allora l’apostolo Paolo preoccupato per questa situazione scrivere quel capolavoro di teologia e spiritualità che è la prima lettera ai cristiani di Corinto.
    Al cap. 12 egli entra espressamente nella situazione che gli sta a cuore. Il testo della nostra lectio appartiene a questa parte della lettera.
    Paolo ricorre, per affrontare il problema dell’interazione dei carismi, ad un apologo delle membra e del corpo già sfruttato ampiamente in quasi tutte le letterature antiche. L’utilizzo che ne fa san Paolo non è tuttavia, come in quei casi di tipo morale o sociologico, ma strettamente teologico.
    E’ nel suo intento cercare di illustrare la complessità del mistero della Chiesa nella sua duplice valenza di unità e pluralità, il che apparentemente sembrerebbe creare una tensione inconciliabile: come infatti far concordare il diritto all’individualità con le esigenza della comunità? Tale tensione è risolvibile, secondo Paolo, ricorrendo al concetto dinamico della crescita e dello sviluppo di un unico corpo composto dalla diversità delle varie membra.
    Ma veniamo al nostro testo che desideriamo ripercorrere con attenzione.
    Al v. 12 l’apostolo scrive: “Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo”. Si tratta di un’equazione stringente posta tra il corpo e le sue singole membra e il Cristo e la sua Chiesa. Rimane però il problema di come intendere questo rapporto? Le spiegazioni esegetiche si collocano su due diverse interpretazioni.
    Alcuni studiosi affermano un semplice rapporto di equivalenza. È come se si dicesse: “così avviene anche in Cristo”, dove il Cristo svolge solo un’attività unificatrice nei confronti dei credenti in lui. In questo caso non ci sarebbe un riferimento personale a Cristo ma solo globale. Siamo nella linea della dottrina del “Cristo totale”. Agostino dirà a proposito: “La totalità di Cristo è composta dal capo e dal corpo: il capo e l’Unigenito Figlio di Dio e il corpo la Chiesa; lo sposo e la sposa, due in una sola carne“.
    Altri esegeti invece propendono per un’interpretazione più realistica che sembra corrispondere maggiormente al pensiero di Paolo: i credenti appartengono, si inseriscono, nel corpo stesso glorioso e personale di Cristo (cfr 6,15; 10,17). Ovvero Gesù risorto associa a sé personalmente, come sue membra tutti i credenti in lui: un corpo solo di cui Cristo è il capo: “pur essendo molti, siamo un corpo solo” (10,17).
    Tale inserimento avviene attraverso la fede e i sacramenti nei quali agisce l’unico Spirito. Ecco allora il testo riferirsi alla grazia battesimale (v.13): “Siete stati battezzati in un solo corpo” (trad. CEI “in un solo Spirito”). Si accenna anche ad una comunione che nasce in forza di un comune  “abbeveramento”: “ci siamo abbeverati a un solo Spirito”. E’ un’espressione non molto chiara: a cosa allude l’apostolo? Ancora al battesimo, alla confermazione, o all’eucarestia? Per i Padri è in riferimento all’eucarestia, tuttavia si potrebbe intenderla anche in relazione alla confermazione amministrata subito dopo il battesimo (cfr At 8,17; 19,6) . E’ ricorrente infatti l’immagine dello Spirito quale sorgente d’acqua viva alla quale attingere per dissetarsi (cfr Gv 4,13-17; 7,38-39; Ap 22,1).
    Nei vv. 14-26 si prosegue riprendendo a pieno titolo la metafora. Nessun membro del corpo perciò può rivendicare assurdamente di essere la totalità, nessuno può agire in modo indipendente. Il corpo necessita infatti della collaborazione di tutte le singole membra, nessuna è esclusa, e tale collaborazione richiede un’azione non caotica, ma coordinata. Fra le singole membra, come nel corpo umano, deve vigere una sorta di legge della solidarietà (v.20).
    Viene assunta nel testo anche una “difesa” delle membra più deboli. Ognuno dovrà, all’interno di questa visione unitaria del corpo, occuparsi dell’altro, averne cura, portarne il peso. La sofferenza di uno è la sofferenza di tutti, la gioia di uno è la gioia di tutti.

    Collactio

    Nella nostra società le relazioni sembrano ormai inflazionate: vi è una mobilità esasperata, gli SMS sono in incremento vertiginoso, e i telefonini e i computer si presentano come sempre più potenti strumenti di incontro. Gli scambi tra persone a tutti i livelli si susseguono a ritmo sempre più incalzante.
    Sembrerebbe a prima vista che l’uomo di oggi colga nella relazione la sua ragion d’essere, e che per questo non voglia mai essere solo. Ma come ogni realtà inflazionata questa ricerca di contatto così sfrenata con gli altri alla fin fine appare svuotata. Si è sì insieme, ma il più delle volte lo si è alla maniera di sperdute “monadi” di leibziana memoria.
    E’ un dato di fatto che la nostra società vive un profondo disagio nelle sue relazioni: la famiglia, ad esempio, che dovrebbe essere il luogo naturale e privilegiato delle relazioni nella nostra cultura sta vivendo una sempre più grave disgregazione. A livello sociale l’ “altro”, sia l’immigrato o il vicino di casa, viene percepito come una minaccia, un antagonista alla propria presunta libertà e sicurezza.
    E nella Chiesa come si vive il tessuto delle relazioni? Dal concetto di Chiesa “societas perfecta” si è passati, col Concilio Vaticano II, a quella di Chiesa “Popolo di Dio” passando da una visione freddamente giuridica ad una visione che certamente sottolinea la nostra comune appartenenza fatta di molteplici e complementari relazioni.
    Eppure il disagio delle relazioni investe talvolta anche le strutture ecclesiali: conferenze episcopali e curia romana, vescovi e preti, parroci e consigli pastorali, movimenti e chiesa locale, superiori/e e il resto della comunità…. Non possiamo negare l’esistenza di vari e talvolta profondi problemi di relazione. C’è sempre il rischio che qualcuno, o un gruppo, si senta esonerato dal dovere di interagire con l’altro, in certo qual modo ci si crede autosufficienti, bastanti a se stessi, se non addirittura in antagonismo agli altri.
    Nelle nostre comunità religiose avvertiamo la fatica delle relazioni, a tessere incontri e scambi veri e profondi. Spesso le nostre relazioni sono solo superficiali, tecniche, stentiamo a relazionarci al livello dell’esperienza di fede. Il fatto che l’individualismo si sia insinuato sottilmente e in modo disgregante tra le mura dei nostri conventi, incrinando minacciosamente la loro stabilità è un dato da tutti riconosciuto.
    Non insisteremo mai a sufficienza sul percepire la Chiesa e le nostre comunità, non come semplici strutture sociali e organizzative, ma come un unico e vero e proprio corpo vivente. Un corpo in cui ciascuno, per la sua parte, contribuisce corresponsabilmente alla comune crescita e benessere che va a beneficio di tutti e di ciascuno. Sentirsi tutti chiamati non solo a far parte ma ad edificare l’unico corpo comporta  cogliere la Chiesa come luogo costituito essenzialmente dalla interazione e complementarietà delle relazioni.
    Queste sono sorgente di bellezza e vita: si è sorretti, accompagnati. E’ una sorta di cordata nella quale uno è di aiuto e stimolo all’altro a proseguire nel cammino nella certezza di non essere soli. E’ accogliere la complementarietà nella consapevolezza che io non sono “il tutto”, e che ciò che sono e faccio io non lo può fare l’altro e viceversa.  Ed è per questo che tutti siamo ugualmente importanti seppur in ruoli apparentemente tanto diversi. Tra il superiore generale e l’ultimo portinaio non dovrebbe esiste differenza di importanza: entrambi nel disegno di Dio sono indispensabili!
    La relazione è fatica: essa implica infatti il riconoscere umilmente di non essere autosufficienti. È accogliere la mia dipendenza dall’altro non come una sconfitta ma come un’opportunità di una crescita maggiore per entrambi. Talvolta questo è faticoso da accettare perché comporta il riconoscere il mio limite e la mia presunzione orgogliosa di “onnipotenza”.
    Abbiamo bisogno di essere guariti nelle nostre relazioni. Di ritrovarne il vero valore e la loro assoluta necessità in ordine alla costruzione del regno di Dio. Quale la strada?
    Paolo apostolo parla di un corpo con diversa membra le quali sono invitate dalla prima all’ultima a superare la tentazione autodistruttiva di credere di poter bastare a se stesse, ritenendosi migliori delle altre.
    Dobbiamo tornare a pensarci nel mondo non in riferimento a quell’ “io” che pretenderebbe d’essere  il fantomatico “ombelico del mondo”. Pensare, da parte di ciascuno, che il nostro essere qui e ora è in vista di un comune e immenso progetto di Dio che tutti ci abbraccia e supera, e al quale tutti siamo invitati a cooperare “ciascuno per la sua parte“. Così ognuno ritrova il suo posto e il suo significato e di risvolto quello altrettanto importante e diverso dell’altro. Tutto questo va al di là di un generico e inconcludente “vogliamoci bene”, comporta invece una solida visione di fede molto più ampia e profonda alla quale il testo di Paolo apostolo ci invita. 

    Oratio

    Ti ringraziamo, Signore, per il dono d’averci fatto entrare nello straordinario disegno che è la creazione e il tuo Regno. La consapevolezza di questo nostro trovarci iscritti in esso talvolta si affievolisce in noi, e così ci ripieghiamo nei nostri piccoli mondi, nei nostri miseri progetti e disegni. Quando dimentichiamo il nostro essere fatti per qualcosa “di più grande” che a tutto dà senso le nostre relazioni spesso si ammalano, e il tessuto che ci lega gli uni agli altri si allenta, si sfilaccia e si strappa. Facci uscire dalle nostre solitudini per intessere relazioni vitali generatrici di gioia e di pace.
    Aiutaci ad alzare lo sguardo, apri i nostri occhi perché possiamo riconoscere che colui che ci sta accanto è un fratello, non un nemico, col quale in cordata incamminarci al fine di giungere insieme a quella vetta che è il tuo Regno. Impareremo a stenderci vicendevolmente la mano, segno di un’alleanza donata da te a tutti noi e nella quale siamo chiamati ad entrare, dando fiducia alla tua promessa di un’umanità nuova.
    Che le nostre comunità siano già ora luoghi di guarigione per tutte le relazioni malate che sono in noi e attorno a noi: che possiamo essere guariti dall’indifferenza e dallo sfruttamento, da ogni forma di violenza e rifiuto. Nella bellezza e nella fatica del costruire le nostre relazioni, ogni giorno scopriremo di avvicinarci sempre più al tuo volto, o Dio Trinità d’amore, così che il nostro vivere insieme, per tua grazia, si trasformerà in specchio capace di dire al mondo, seppur in modo sempre  incerto e appannato, il tuo mistero.

  • 29 Gen

    di p. Attilio F. Fabris 

     

    Chi può pretendere di saper già pregare? Dinanzi al mistero di Dio rimaniamo sempre degli apprendisti, bisognosi di approfondire. In questo difficile cammino  è dunque indispensabile essere preparati agli scogli, alle varie difficoltà che ci obbligano sempre a dover ripetere: “Signore, insegnaci a pregare”.

    I principali scogli che incontriamo potremmo elencarli come:

    – mancanza di povertà

    – mancanza di preparazione

    – mancanza di gratuità.

     

    L’ILLUSIONE DEL CEREBRALE

     

    Crediamo spesso che per pregare dobbiamo anzitutto avere delle idee. Forse giudichiamo la bontà della nostra preghiera nella misura in cui abbiamo avuto delle buone idee. O al contrario affermiamo: “Sono così poco ispirato durante la preghiera!”.

    Quando preghiamo non si tratta di seguire un corso di teologia, né una dissertazione, ma di conformare la nostra volontà, i nostri progetti alla volontà e ai progetti di Dio.

    Prendiamo l’esempio dei salmi: essi sono costruiti su un piccolissimo numero di temi molto semplici: la grandezza di Dio, la debolezza dell’uomo, la misericordia di Dio, la confidenza dell’uomo. Per entrare in questi temi non occorre certamente essere dei laureati. Andiamo a Dio con tutta semplicità e con i nostri bisogni più veri ed essenziali.

    La preghiera, più che pensieri della mente, si deve trasformare in un linguaggio del cuore che è anzitutto nell’ordine della fede e non delle idee.

    Se la preghiera non raggiunge questo livello rimane un puro esercizio della mente, un atto che rimanda ad una nostra presunta sufficienza.

    Imparare a guardare e a lasciarci guardare, amare e lasciarci amare. E’ il vertice della preghiera: la contemplazione:

    “è sguardo di fede fissato su Gesù: “Io lo guardo ed egli mi guarda” diceva al suo santo curato il contadino d’Ars in preghiera davanti al tabernacolo. Questa attenzione a Lui è rinuncia all’”io”. Il suo sguardo purifica il cuore. La luce dello sguardo di Gesù illumina gli occhi del nostro cuore; ci insegna a vedere tutto nella luce della sua verità e della sua compassione per tutti gli uomini.” (CCC 2715).

     

    Ciò non significa assolutamente che non occorra partire da una meditazione della mente, da un’idea, che ci impedisca la dispersione.

    Occorre infatti fissare lo Spirito al fine di permettergli di ritrovare Colui che la nostra distrazione rischia di allontanare:

    “La meditazione è soprattutto una ricerca. Lo spirito cerca di comprendere il perché e il come della vita cristiana, per aderire e rispondere a ciò che il Signore chiede. Ci vuole un’attenzione difficile da disciplinare. Abitualmente ci si aiuta con qualche libro, che ai cristiani non mancano: la sacra Scrittura particolarmente il santo Vangelo, le sante icone, i testi liturgici del giorno o del tempo, gli scritti dei Padri della vita spirituale, le opere di spiritualità, il grande libro della creazione e quello della storia, la pagina dell’ “oggi” di Dio” (CCC 2705).

    Ma bisogna fare attenzione. Questo sforzo della mente deve sempre essere pervaso dal desiderio di incontrare Dio e di far nostre la sua volontà ed il suo amore:

    “La teologia è luce, la preghiera è fuoco. La loro unione esprime l’unione dell’intelligenza e del cuore. ma è l’intelligenza a doversi “riposare” nel cuore e la teologia a doversi sorpassare nell’amore. “Se sei teologo pregherai veramente, e se tu preghi veramente sei teologo” (Evagrio P.)” (O. Clement)

    E’ il Dio vivente che noi cerchiamo. Non andiamo alla preghiera per aumentare il nostro bagaglio intellettuale sia pure religioso, ma per ridire a Dio che noi l’amiamo e che sappiamo che Lui ci ama, per conformarci al piano di misericordia che è il suo.

     

    L’ILLUSIONE DEL SENSIBILE

     

    Rischiamo ancor più di ricercare noi stessi in luogo di Dio nella nostra sensibilità e di credere che la nostra preghiera abbia valore nella misura in cui abbiamo “sentito” qualcosa.

    La nostra cultura è smaniosa di nuove esperienze, del “sentire”, di ricercare nuovi stati di coscienza etc…

    “Nel combattimento della preghiera dobbiamo affrontare in noi stessi e intorno a noi, delle concezioni erronee della preghiera. Alcuni vedono in essa una semplice operazione psicologica, altri uno sforzo di concentrazione per arrivare al vuoto mentale. C’è chi la riduce ad alcune attitudini e parole rituali” (CCC 2726).

    Ciò che differenzia grandemente la preghiera cristiana da esperienze meditative di altre aree religiose è l’assenza di ricerca di una proiezione di sé stessi. Noi non preghiamo in primo luogo per ritrovare noi stessi, ma per donarci ad un Altro, per entrare in un disegno di salvezza che ci sorpassa.

    Ciò che conta per noi non è la qualità dell’esperienza interiore che apparentemente talvolta può essere molto deludente, ma Colui che è l’oggetto di questa esperienza.

    Non andiamo alla preghiera anzitutto per ricevere ma per donare: e se è l’amicizia con Dio che ci sta veramente a cuore, allora andremo alla preghiera per donarci in dono gratuito: “Donare ostia per ostia” (M.Robin).

    Il fariseo della parabola è persuaso che egli sta ostentando a Dio i frutti della sua pratica di pietà, mentre il pubblicano non sa che egli sta facendo a Dio il più bel dono, dandogli l’occasione di manifestare il suo amore.

    C’è in noi una certa sfumatura farisaica quando diciamo: “Sono contento di averti fatto piacere!”. Si è cercato noi stessi nel dono non l’altro. Poter dare sapendo di poter dare è ancora giocare al ricco.

    Da qui l’importanza che i mistici danno al vuoto, al nostro nulla davanti a Dio:

    “A poco a poco, al di là delle sue forme secondarie la preghiera deve fare il vuoto in attesa di Dio. Un vuoto attento, raccolto, amoroso. “Vuoto” quando alla tensione interna non corrisponde niente di esteriore (S.Weil). Povertà. Nada dei mistici spagnoli” (O.Clement).

    Il nostro amore per Dio deve attraversare il deserto della purificazione: operare il passaggio dalla ricerca del nostro piacere a voler amare Dio perché è Dio.

     

    Se Dio resta in silenzio, frustrando le attese della nostra sensibilità, è perché Egli ha sommo rispetto della nostra libertà e del nostro vero bene. Egli opera in tal modo un affinamento spirituale:

    “Abbiamo la pretesa di vedere il risultato della nostra domanda. Qual è dunque l’immagine di Dio che motiva la nostra preghiera: un mezzo di cui servirci oppure il Padre di nostro Signore Gesù Cristo?…

    Se noi chiediamo con un cuore adultero, diviso, Dio non ci può esaudire, perché egli vuole il nostro bene, la nostra vita. … Il nostro Dio è “geloso” di noi, e questo è il segno della verità del suo amore. Entriamo nel desiderio del suo Spirito e saremo esauditi” (CCC 2734.7).

    Scriveva in una lettera s. Francesco di Sales: “Mi dite che non fate niente durante la preghiera, ma cosa “volete” fare, se non ciò che già fate ossia presentare e ripresentare la vostra miseria a Dio. Quando i mendicanti espongono la loro miseria e necessità, è questo il miglior richiamo che essi possono indirizzarci”.

     

  • 05 Dic

    È Natale, Signore.

    O è già subito Pasqua?

    Il legno del presepio è duro,

    come il legno della croce.

    Il freddo ti punge

    quasi corona di spine.

    L’odio dei potenti ti spia e ti teme.

    Fuga affannosa nella notte.

    Sangue innocente di coetanei,

    presagio del tuo sangue.

    Lamento di madri desolate,

    eco del pianto di tua Madre.

    Quanti segni di morte, Signore,

    in questa tua nascita.

    Comincia così

    il tuo cammino tra noi,

    la tua ostinata decisione

    di essere Dio, non di sembrarlo.

    Le pietre non diverranno pane.

    Non ti lancerai

    dalla dorata cima del tempio.

    Non conquisterai i regni dell’uomo.

    Costruirai la tua vita di ogni giorno

    raccogliendo con cura meticolosa,

    con paziente amore,

    tutto quello che noi scartiamo:

    gli stracci della nostra povertà,

    le piaghe del nostro dolore,

    i pesi che non sappiamo portare;

    le infamie che

    non vogliamo riconoscere.

    Grazie, Signore,

    per questa ostinazione,

    per questo sparire,

    per questo ritrarti,

    che schiude un libero spazio

    per la mia libera decisione

    di amarti.

    Dio che ti nascondi,

    Dio che non sembri Dio,

    Dio degli stracci e delle piaghe,

    Dio dei pesi e delle infamie,

    io ti amo.

    Non so come dirtelo,

    ho paura di dirtelo,

    perchè talvolta mi spavento

    e ritiro la parola;

    eppure sento che devo dirtelo:

    io ti amo.

    In questa possibilità di amarti,

    che la tua povertà mi schiude,

    divento veramente uomo.

    Amo gli stracci, le piaghe, i pesi

    di ogni fratello.

    Piango le infamie di tutto il mondo.

    Scopro di essere uomo,

    non di sembrarlo.

    Il tuo Natale è il mio natale.

    Nella gioia di questo nascere,

    nello stupore di poterti amare,

    nel dono immenso

    di vivere insieme,

    io accetto, io voglio, io chiedo

    che anche per me, Signore,

    sia subito Pasqua.

    Don Luigi Serentha

  • 02 Dic

    San Paolo della Croce

    Paolo Danei Massari nacque ad Ovada (AL), Italia, il 3 gennaio 1694; con la famiglia si trasferì a Castellazzo Bormida, non lontano dal suo luogo natale. La madre gli insegnò a trovare nella Passione di Cristo la forza per superare tutte le difficoltá. Innamorato di Gesù Crocifisso sin dall’infanzia, volle che tutta la sua vita fosse consacrata a Lui. durante una grave malattia, una visione dell’inferno lo terrorizzò. Ascoltando una predica di un sacerdote si sentì illuminato dal Signore all’amore per il Cristo Crocifisso: fu il momento che egli chiama della sua “conversione”.
    Verso il 1715-1716, desideroso di servire Cristo si recò a Venezia e si arruolò nell’esercito. Con l’ideale del crociato voleva lottare conto i Turchi che minacciavano l’Europa. Mentre faceva l’adorazione al Santissimo Sacramento in una chiesa, capì che non era quella la sua vocazione. Decise di abbandonare l’esercito, stette per qualche mese a servizio presso una famiglia e poi fece ritorno a casa. Anche se uno zio sacerdote gli aveva lasciato un’eredità perché si potesse sposare, egli vi rinunciò.
    Fare memoria del Crocifisso. Secondo una testimonianza, un’apparizione delle Vergine Maria gli fece conoscere l’abito, il segno e lo stile di vita, che avrebbe avuto sempre al centro Gesù Crocifisso. Il vescovo di Alessandria, mons. Gattinara, previo il giudizio di confessori prudenti, il 22 novembre 1720, lo rivestì dell’abito della Passione. Trascorse 40 giorni nella sacrestia della chiesa di S. Carlo a Castellazzo. Le sue esperienze e lo stato del suo spirito in quella “quaresima” sono illustrate nel cosiddetto “Diario Spirituale”. Compose le Regole per dei possibili compagni da lui chiamati “I Poveri di Gesù”. Suo fratello, Giovanni Battista che era andato a trovarlo chiese di unirsi a lui ma Paolo, per allora, non volle.
    Terminata questa esperienza, il vescovo lo autorizzò a vivere nel romitorio di S. Stefano, a Castellazzo ed a svolgere apostolato da laico. Nell’estate del 1721 si diresse a Roma con il desiderio di ottenere un’udienza dal Papa per esporre le ispirazioni avute sulla futura Congregazione. Gli ufficiali del Quirinale , dove risiedeva allora il Papa, non lo lasciarono passare credendolo un avventuriero.
    Il primo voto passionista. Accettò questa umiliazione che lo configurava a Gesù Crocifisso e, nella Basilica di S. Maria Maggiore, di fronte al quadro della Vergine “Salus Populi Romani”, fece il voto di consacrarsi a promuovere la memoria della Passione di Gesù Cristo.
    Facendo ritorno al suo paese si fermò per qualche tempo ad Orbetello, nel romitorio dell’Annunziata, sul Monte Argentario. A Castellazzo si unì a lui il fratello Giovanni Battista e partirono per dedicarsi alla vita eremitica sul Monte Argentario. Successivamente, invitati da mons. Pignatelli, furono nel romitorio della Madonna della Catena, a Gaeta. Mons. Cavalieri li accolse per un certo tempo a Troia. Successivamente fecero ritorno nella diocesi di Gaeta, presso il santuario della Vergine della Civita, ad Itri. I tentativi di fondare una comunità fallivano uno dopo l’altro. Per essere predicatori della Passione dovevano accedere al sacerdozio e per questa ragione si portarono a Roma, dove nell’ospedale di San Gallicano assistettero i malati di tigna, mentre frequentavano gli studi di teologia. Ebbero modo di incontrare il Papa mentre era in visita al Celio, alla chiesa detta “La Navicella” che permise ai due fratelli di fondare il primo convento sul Monte Argentario. Una volta ordinati sacerdoti, nel 1727 i due fratelli lasciarono Roma e si recarono sul Monte Argentario.
    Predicare la Passione di Cristo. Iniziarono il loro apostolato tra i pescatori, i boscaioli, i pastori. Si unirono ai due, il fratello Antonio alcuni compagni e sacerdoti ben preparati. I vescovi si rivolgevano loro per chiedere di tenere delle missioni nei paesi. Quando nella zona scoppiò la guerra dei Presidi, Paolo si dedicò a curare ed assistere i feriti nelle due zone nemiche ricevendo sempre buona accoglienza.
    Il primo ritiro, dedicato alla Presentazione, la cui prima pietra fu posta nel 1733, fu inaugurato nel 1737. Paolo presentò quindi a Roma le Regole della nascente Congregazione. Dopo alcune mitigazioni, Benedetto XIV le approvò nel 1741.
    Il fondatore fu contemporaneo di apostoli come S. Leonardo da Porto Maurizio e S. Alfonso M. de Liguori, che ebbe modo di conoscere. I tre Santi erano accomunati dal medesimo Amore a Gesù Crocifisso che li spingeva al ministero apostolico delle missioni.
    Anche se sin dal 1747 fu sempre Superiore Generale, non lasciò mai di predicare né di scrivere lettere di direzione spirituale. L’Istituto incontrò delle opposizioni in qualche settore della Chiesa e la fondazione di diversi conventi fu sospesa fino a quando una Commissione pontificia non ebbe dato un giudizio favorevole ai Passionisti.
    Paolo cercò sempre di alimentare lo spirito della solitudine, della povertà e della orazione con i consigli e con l’esempio del fratello Giovanni Battista. Quando, nel 1767, questi morì, Paolo si sentì orfano.
    Religiose passioniste. Una contadina, Lucia Burlini, aveva parlato a S. Paolo, delle “Colombe del Calvario”, immagine di alcune anime con lo stesso spirito contemplativo dei religiosi. Anche se impiegò quasi 40 anni per realizzare questa idea, nel 1771 nacquero a Corneto (Tarquinia), le Passioniste di clausura. Alla loro guida Paolo pose M. Crocifissa Costantini, benedettina, che con il permesso di Clemente XIV, era passata nel nuovo monastero.
    Dopo la soppressione della Compagnia di Gesù, Clemente XIV trasferì i Padri della Missione (Lazzaristi) nella chiesa di Sant’Andrea al Quirinale e donò a Paolo della Croce la casa e la basilica che essi avevano sul Celio: i SS. Giovanni e Paolo. In questo luogo, a due passi dal Colosseo, Paolo trascorse i due ultimi anni della sua vita e ricevette le visite di Clemente XIV il 26/06/1774 e di Pio VI nel marzo del 1775. Morì dopo qualche mese il 18 ottobre 1775. Le sue spoglie mortali si conservano nella cappella a lui dedicata, inaugurata nel 1880.

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