• 28 Mar

    Il libro degli “avvertimenti”
    Es 7-10

    di p. attilio franco fabris

    Il racconto delle piaghe ci presenta con insistenza la richiesta di JHWH al faraone: lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto (Es 5,1.3). Perché questa insistenza sul doversi recare nel deserto? (Cfr 8,21-23).

    La motivazione data da Mosè sembra apparentemente manifestare rispetto per la cultura e la religione egiziana, in realtà egli tocca un punto cruciale della polemica anti idolatrica. Per la bibbia l’Egitto, come Sodoma e Gomorra, è un paese simbolo spirituale del peccato e dell’idolatria, luogo di alienazione spirituale per il popolo di Dio (Gn 18,20-21….). Nella richiesta di Mosè si intravvede perciò una denuncia sferzante: quelli che voi egiziani adorate come dei, per noi figli di Israele, sono vittime da sacrificare all’unico Signore e Dio.

    Una geografia teologica

    Potremmo anche tentare di leggere la geografia egiziana in un’ottica teologica polemica. L’Egitto è il paese attraversato dal grande fiume Nilo, una presenza che dà sicurezza perché benefica: lì essa viene divinizzata. L’Egitto come Babele con il suo Eufrate simboleggia per l’uomo biblico l’autosufficienza arrogante del potere mondano che per questo è indotto ad auto divinizzarsi. Si dà dunque in diversi testi biblici una lettura negativa della geografia egiziana:Guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi, le sue norme e le sue leggi che oggi ti dò. Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa,il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima;  che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire. Guardati dunque dal pensare: La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze” (Dt 11.8-17). Invece il paese che il Signore promette è “un paese di monti e di valli, beve l’acqua della pioggia che viene dal cielo; paese del quale il Signore tuo Dio ha cura e sul quale si posano sempre gli occhi del Signore tuo Dio dal principio dell’anno sino alla fine”. Si dà dunque una “geografia dell’immannenza” in Egitto e una “geografia della trascendenza” nella terra di Canaan¸ geografia dell’illusoria autosufficienza e geografia della grazia.

    Non su qualunque terra si può dunque rendere culto al Signore, ma solamente su quella alla quale egli Egli ha destinato il suo popolo (Naaman lo capirà perfettamente: cfr 2Re 5,8-19).  Da un paese come l’Egitto bisogna dunque “uscire”. La chiamata  che Dio rivolge al suo popolo è la stessa che egli aveva fatto ad Abramo: Vattene, parti, esci… dalla tua terra… verso una terra che io ti indicherò (Gn 12,1). Ci sono situazioni dalle quali, divenendo prossime di peccato, bisogna uscire, tagliando risolutamente il male alla radice (Mt 5,29-30).

    Il libro degli ammonimenti: la vittoria di JHWH sull’idolatria imperialistica

    La sezione dei capitoli 7-10 dell’Esodo è interamente dedicate alla narrazione delle dieci “piaghe” con cui JHWH colpisce l’Egitto a causa di Israele al fine di costringerlo alla liberazione del suo popolo. Diciamo subito che il termine “mofet” andrebbe tradotto meglio con “prodigi” o “segni” (il termine “magefa – da “nagaf – colpire non compare che in 9,14). Ciò significa che la narrazione biblica attribuisce alle cosiddette piaghe ben più che un  significato di flagelli punitive; esse assumono un valore simbolico – sono segni – che descrivono drammaticamente il rapporto conflittuale e decisivo che contrappone JHWH e il faraone il quale raccoglie in sé esemplarmente tutte le prerogative dell’opposizione demoniaca a Dio.

    La narrazione è scandita da una serie di monotoni commenti che sottolineano la “durezza di cuore” del faraone. In questo indurimento del cuore si manifesta tutta la radicale avversione degli uomini a Dio: qui si tratta in particolare di quell’avversione a Dio che passa attraverso la scoperta esaltante dell’efficacia della forza politica, scientifica e militare con la sua pretesa di sostituirsi a Dio. E’ un’opposizione che assume diversi volti lungo la storia e nella nostra stessa vita (il faraone che si oppone a Dio è anche dentro ciascuno di noi, Paolo lo chiamerebbe “il vecchio uomo”, il “vecchio Adamo”). Oggi la potremmo identificare con una sorta di relativismo, scientismo, culto di sé.

    La sconfitta del faraone e la follia della sua ostinata resistenza

    La narrazione biblica non vuol presentare altro protagonista che non sia Dio stesso: è lui che parla, ordina, prevede le difficoltà e le opposizioni, stabilisce quando e dove intervenire. La sua è una sovranità assoluta apparentemente ostacolata dall’indurimento del cuore dell’uomo. In verità tutto avviene secondo le intenzioni e le decisioni di Dio: tutto contribuisce a dimostrare che la signoria di JHWH è stabilmente vittoriosa.  Il racconto proclama con la sua insistenza la certezza che il potere faraonico di tutti i tempi è sconfitto dall’unica vera signoria di JHWH. E’ la stessa certezza con cui l’apocalisse canta la sconfitta finale e definitiva di Babilonia la grande prostituta, l’anti-gerusalemme:

    Un angelo gridò a gran voce:  È caduta, è caduta Babilonia la grande ed è diventata covo di demòni, carcere di ogni spirito immondo, carcere d’ogni uccello impuro e aborrito e carcere di ogni bestia immonda e aborrita. Perché tutte le nazioni hanno bevuto del vino della sua sfrenata prostituzione, i re della terra si sono prostituiti con essa e i mercanti della terra si sono arricchiti del suo lusso sfrenato». (18,2-3)

    Ma l’ascoltatore e chiamato ad assistere con stupore alla follia dell’ostinazione faraonica, alla sua folle rivalità, hybris la chiamerebbero i greci, di opporsi alla signoria di JHWH. Atteggiamento che porta in sé sempre il seme dell’autodistruzione. Come un ritornello prenderemo che di fronte ad ogni “segno” il cuore del faraone si ostinò…

    La coscienza del faraone ci appare ambigua e contraddittoria, tutta tesa semplicemente al calcolo politico della gestione e conservazione del potere, come farà Erode dinanzi all’annunzio della nascita del re dei giudei.  Talvolta egli sembra aprirsi al dialogo, a cercare un compromesso, addirittura sembra giungere a pentirsi…, in realtà l’indurimento del faraone rimane costante. Anzi lo stesso svolgersi delle situazioni sempre più drammatiche e catastrofiche non ha altro risultato che rendere sempre più inamovibile la sua rigidezza. E’ la controrisonanza alla fin fine solo autodistruttiva della rivalità che si mette qui in azione: del tipo mi spezzo ma non mi piego!

    Si tratta di posizioni che conosciamo bene anche per esperienza personale. Di fronte ai “segni” inequivocabili che Dio nella sua misericordia ci invia perché con umiltà possiamo leggerli a nostra salvezza rischiamo di opporre la nostra posizione e interpretazione, il nostro progetto. Si instaura una lotta dalla quale inevitabilmente usciremo sconfitti. Quanti “poteri” lungo la storia si sono scontrati con la chiesa di dio uscendone alla fine sconfitti ed autoannientati?

    La cortigianeria degli intellettuali e dei tecnocrati

    Accanto al faraone compaiono altri personaggi minori ma che orbitano attorno a lui. Si tratta di “sapienti, incantatori, maghi” che vengono convocati dal faraone affinché “con le loro magie” operino dei “segni” che possano contrapporsi a quelli di JHWH. Essi sono perfetti uomini di corte, dediti al culto del sovrano per il proprio tornaconto e perciò devoti osservanti delle regole che garantiscono il potere. Potremmo definirli come “gli intellettuali” al servizio del potere! Come veri intellettuali essi avrebbero tutti gli strumenti culturali necessari per comprendere e sbugiardare i limiti oggettivi del potere al cui culto si sono prestati, ma sono troppo…di corte. Preferiscono la loro fette di potere alla verità.

    Questi intellettuali sono anche dei “tecnici” capaci di operare vere e proprie “magie”: la magia è forza prestigiosa che caratterizza l’uso consapevole ed efficace della tecnica che esalta le capacità e l’autonomia dell’uomo facendole illudere di essere al pari di Dio e di potersi alla fine sostituire a lui. Come non stupirci dei progressi dell’ingegneria genetica con i suoi obiettivi di “creare” a suo piacimento e come la desidera la vita? Oppure la tecniche dell’informatica o della medicina? I maghi d’Egitto in un primo tempo riescono a operare le stesse cose (7,11) a competere in effetti con Dio: “Allora il faraone convocò i sapienti e gli incantatori, e anche i maghi dell’Egitto, con le loro magie, operarono la stessa cosa. Gettarono ciascuno il suo bastone e i bastoni divennero serpenti. Ma il bastone di Aronne inghiottì i loro bastoni” (Es 7,11-12).  La competenza “dei maghi” permette loro di elaborare prodotti artificiali, validamente concorrenziali sul perenne mercato dei surrogati di cui anche oggi il mondo è pieno e dinanzi a cui è facile rimanere… incantati.

    Tuttavia ad un certo punto essi si devono arrestano riconoscendo che è all’opera il dito di Dio:  I maghi fecero la stessa cosa con le loro magie, per produrre zanzare, ma non riuscirono e le zanzare infierivano sugli uomini e sulle bestie. Allora i maghi dissero al faraone: «È il dito di Dio!» (8,14-15). Essi devono desistere e riconoscere a malincuore la sconfitta. Ancora una volta l’impresa di Babele viene vanificata in se stessa.

    L’ ammonimento iniziale: 7,8-13

    Il “segno” iniziale è dato in uno scontro con i praticanti delle scienze occulte, i maghi (hartummim). La scena verte sulla funzione del “bastone” di Mosè (di Aronne: tradizione P). Questo bastone diviene un “tannim” che può indicare qualsiasi bestia selvaggia, ma indica in modo particolare il grande serpente di mare, figura archetipa delle antiche cosmologie (Is 27,1; Gen 1,21; Gb 7,12; Sal 148,7). Tannim forma con il Leviathan e il Rahab il trio dei mostri acquatici che abitano l’abisso simbolo del caos primigenio. Nel nostro testo esso simboleggia l’Egitto, serpente d’acqua, che sarà vinto da JHWH nel momento del passaggio del Mar Rosso. Vittoria preannunciata dal fatto che il bastone di Mosè divora quelli dei maghi. Questo prodigio iniziale riveste un forte significato profetico.

    Primo avvertimento: il Nilo rosso 7,14-25

    La scena dell’incontro-scontro tra Mosè e il faraone è emblematica: si rappresenta l’uomo di Dio solo, munito solo della forza della Parola affidatagli, di fronte ai poteri di questo mondo. Il secondo “ammonimento” è dato da Dio al faraone perché: Da questo fatto saprai che io sono il Signore (7,17). La forza del nome di Dio si esercita sul Nilo fiume-dio dell’Egitto da cui proviene tutta la vita del paese. Il Nilo diviene color rosso, il che raffigura il “sangue”: segno ammonitore del sangue dei figli degli ebrei gettati in esso per ucciderli, ma segno anche del sangue degli egiziani che sarà sparso a causa della resistenza alla parola di Dio. Ma i maghi riescono a riprodurre il prodigio: lo spargimento del sangue non è forse sempre possibile a tutti? La conclusione è che il faraone voltò le spalle e rientrò nella sua casa e non tenne conto neppure di questo fatto (7,23).

    Ulteriori avvertimenti:  7,26-8,11

    Il terzo avvertimento è costituito da una proliferazione delle zanzare (8,12-15). A questo punto i maghi non riescono a “produrre” le zanzare. Essi devono riconoscere: “E’ il dito di Dio!” (v. 15). Sono eliminati dalla competizione con Lui. Il faraone resta perciò solo a combattere con Dio.

    Il quarto avvertimento è costituito da nubi di fastidiosi i moscerini o tafani (8,16-28). La novità è che ora Dio promette che tale flagello non toccherà il paese dove risiedono gli israeliti, il Goshen, e questo perché il faraone riconosca che io Jhwh sono nel paese” (v. 18). Questo testo è di fondamentale importanza teologica: vi si afferma una presenza e un’azione divina che travalica i limiti del santuario e del paese: Dio è ovunque sia il suo popolo, egli è “in ogni luogo” e ne sempre unico signore. Paradossalmente i moscerini sembrano riuscire a vincere il faraone il quale è costretto a dare l’autorizzazione a Mosè e agli ebrei di andare a “servire il Signore…” ma la condizione è di un permesso temporaneo di soli “tre giorni di cammino”. Permesso che immediatamente viene però revocato.

    Giunge perciò il quinto ammonimento: il bestiame viene colpito dalla peste (9,1-7). I segni si fanno sempre più drammatici in contrapposizione al crescente indurimento del cuore del faraone. La minaccia di morte inizia ad intravvedersi. Anche qui la mano di Jhwh mette da parte i suoi e colpisce i suoi nemici.

    Il sesto avvertimento (9.8-12) è dato dalla comparsa di ulcere sul corpo di persone e animali. Ricompaiono i maghi, ma ironicamente come vittime. Viene confessata la fede nella potenza di Jhwh: la sconfitta dei maghi diviene atto d’ossequio all’opera di Dio nei confronti di chi tenta stoltamente di “scimmiottarla”: I maghi non poterono stare alla presenza di Mosè a causa delle ulcere che li avevano colpiti come tutti gli Egiziani. Ma il Signore rese ostinato il cuore del faraone, il quale non diede loro ascolto, come il Signore aveva predetto a Mosè (Es 9,11-12)

    Il settimo ammonimento è rappresentato dall’invio distruttivo della grandine (9,13-25). Dal v. 14 al 21 predomina la riflessione teologica: Jhwh è il solo Dio, non ve ne è altri. Qui è’ significativo che Mosè dopo aver annunciato il flagello, indichi al faraone il mezzo per evitarlo. JHWH per bocca di Mosè avvisa ancora una volta con misericordia il faraone:  Se fin da principio io avessi steso la mano per colpire te e il tuo popolo con la peste, tu saresti ormai cancellato dalla terra; invece ti ho lasciato vivere, per dimostrarti la mia potenza e per manifestare il mio nome in tutta la terra. Ancora ti opponi al mio popolo e non lo lasci partire! (9,15-17).

    Qui troviamo una novità importante: alcuni egiziani obbediscono a Mosè perché “temono la parola di Jhwh”. Quindi la conversione del cuore almeno in qualcuno inizia a far breccia portando salvezza: Chi tra i ministri del faraone temeva il Signore fece ricoverare nella casa i suoi schiavi e il suo bestiame; chi invece non diede retta alla parola del Signore lasciò schiavi e bestiame in campagna. (9,20-21). Passaggio importante per il risvolto di apertura universale della fede in JHWH: si afferma che anche ai non ebrei, anzi agli stessi nemici, sia data la grazia di poter udire la parola per ottenere la salvezza (cfr Is 19,16-25; libro di Giona).

    A questo punto nel faraone sembra avvenire un ripensamento: ora egli è convinto di “peccato” e che il “giusto è Jhwh”. Gli risulta chiaro che il paese appartiene a Jhwh e non a lui? Sembrerebbe dall’andamento del testo che la coscienza del faraone evolva nella presa d’atto di questa consapevolezza: Allora il faraone mandò a chiamare Mosè e Aronne e disse loro: «Questa volta ho peccato: il Signore ha ragione; io e il mio popolo siamo colpevoli: Pregate il Signore: basta con i tuoni e la grandine! Vi lascerò partire e non resterete qui più oltre» (9,28).

    Tuttavia l’indurimento del cuore ha ancora il sopravvento nonostante tutto: Il faraone vide che la pioggia era cessata, come anche la grandine e i tuoni, e allora continuò a peccare e si ostinò, insieme con i suoi ministri. Il cuore del faraone si ostinò ed egli non lasciò partire gli Israeliti, come aveva predetto il Signore per mezzo di Mosè (9.34-35). Si rivela tragicamente ci come l’ostilità e la rivalità possano abitare la coscienza dell’uomo di fronte alla Parola tanto da non voler tener conto neppure dei fatti! Lo svolgersi delle situazioni invece di far cedere sembra non far altro che rendere impermeabile il cuore del re.

    Arriviamo di conseguenza all’ottavo avvertimento: le cavallette (10, 1-20). La piaga dell’invasione delle cavallette è presente anche in altri testi biblici come punizione in seguito all’infedeltà al Signore (cfr Na, 3,15-17; Gl 1-2 testo che rilegge il nostro brano). Un’invasione di cavallette significa distruzione dei raccolti e quindi carestia e morte. Ma il risultato presso il faraone è sempre il medesimo.

    Arriviamo al penultimo avvertimento: il dilagarsi sull’Egitto delle tenebre simbolo della morte e del caos (10,21-29). Il testo parla di un forte vento (khamsim) che portando sabbia oscura la luce del sole. Le “tenebre” nella scrittura indicano sempre il “Jom JHWH – il giorno terribile del Signore” (cfr Am 5,18-20; Gl 2,2…) in cui egli giunge come giudice della storia e dell’umanità:

    Guai a coloro che attendono il giorno del Signore!

    Che sarà per voi il giorno del Signore?

    Sarà tenebre e non luce.

    Come quando uno fugge davanti al leone

    e s’imbatte in un orso;

    entra in casa, appoggia la mano sul muro

    e un serpente lo morde.

    Non sarà forse tenebra e non luce

    il giorno del Signore,

    e oscurità senza splendore alcuno? (Am 5,18-20)

    Al v. 23 ancora una sottolineatura importante: ma “i figli di Israele avevano luce nelle loro dimore”. La luce è simbolo della presenza e dell’azione benefica del Signore, segno di salvezza. La Parola di Dio è simbolizzata dalla luce che illumina il cammino del credente (cfr Is, 60,1-3.19-20; Nm 6,25…). Ora mentre tutto all’intorno è tenebra, il popolo di Dio abita un paese di luce: non può essere altrimenti. Sarà la stessa colonna di luce che lo accompagnerà nel cammino verso la salvezza.

    Un duello cosmico per una nuova creazione

    Il fatto che le piaghe siano descritte come fenomeni naturali fa sì che esse ci rimandino anche  alla portata cosmica del conflitto che si sta svolgendo. L’abuso del potere stravolge anche il rapporto con il creato non solo con il proprio simile e con Dio: il creato è coinvolto nel peccato dell’uomo e di conseguenza ne geme e soffre. Tutto questo è sotto il nostro sguardo: quando l’uomo si autoerige ad unico padrone del mondo riduce la creazione a schiavitù stravolgendone il significato vero. La natura offesa e tormentata, deviata dal suo obiettivo, dagli abusi dell’istituzione imperialistica di turno alla fine si ribella in modo clamoroso e manifesta inequivocabilmente la propria appartenenza a JHWH.

    Il racconto delle piaghe mentre descrive questo stravolgimento assume nello stesso tempo l’andamento di una nuova creazione: si parla di acque e di tenebre che sono per l’appunto gli elementi che nel primo racconto della creazione definiscono la situazione del  caos originario (cfr Gn 1,2). In altre parole: l’ostinata opposizione a Dio da parte del faraone riconduce il mondo intero al caos originario. Tuttavia appare che il cosmo sia strettamente alleato con Dio e quindi coinvolto nella sua grande opera di liberazione, in una sorta di nuovo doloroso parto da cui deve nascere la nuova creatura, il nuovo figlio: il popolo libero di Israele (cfr Es 4,22).

    La paziente pedagogia di Dio

    Il libro della sapienza rilegge il racconto delle dieci piaghe come la storia esemplare della pazienza di dio, della sua pedagogia e giustizia nei confronti degli egiziani (Sap 10-15).

    Essa liberò un popolo santo e una stirpe senza macchia

    da una nazione di oppressori.

    Entrò nell’anima di un servo del Signore

    e si oppose con prodigi e con segni a terribili re.

    Diede ai santi la ricompensa delle loro pene,

    li guidò per una strada meravigliosa,

    divenne loro riparo di giorno

    e luce di stelle nella notte (Sap 10,15-17)

    Questa vicenda contiene una delle lezioni bibliche più solenni e complesse sulla provvidenziale strategia divina nella storia del mondo: si tratta di un’economia di salvezza per tutti mediata dal particolare popolo-figlio che Dio si è eletto. E’ della massima importanza che tutti, egiziani e israeliti, vedano e sappiano che lungi dall’amare tutti allo stesso modo, il Signore fa distinzione tra Israele e l’Egitto, fino al punto da combattere contro il faraone e i suoi eserciti.. Israele e non l’Egitto è il “figlio primogenito”. Ma d’altra parte Dio è anche il Dio degli egiziani! Egli ama talmente solo Israele che in lui ama tutte le altre nazioni (Rm 8,28-32; ….). Colui che obbedisce al Signore è visitato dalla sua benedizione, che lo raggiunge attraverso Israele, mentre per colui che disobbedisce, Israele diventa una “trappola”. Ciò è contenuto già nella promessa fatta ad Abramo: Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra (Gn 12,2-3). La vicenda delle dieci piaghe, lungi dall’essere una “apertura alle ostilità” da parte di Dio contro l’Egitto è una specie di grande “missione popolare” presso il grande impero idolatra “per far giustizia di tutti gli dei dell’Egitto” (Es 12,12), e per far conoscere al faraone e a tutti gli egiziani il nome e la gloria di JHWH, che essi non conoscono, mentre egli è pure il loro Signore.

    Chiediamo al Signore di assumere nei confronti della storia una visione di fede capace di discernere la sua paziente pedagogia: la benedizione ci giunge attraverso Cristo, il figlio di Israele, ed è offerta a tutti i popoli indistintamente. A me saperla accogliere nell’obbedienza e nella lode.

    Benedetto sia Dio,

    Padre del Signore nostro Gesù Cristo,

    che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale

    nei cieli, in Cristo (Ef 1,13)

  • 27 Mar


    Primo intervento fallito

    Es 5,1-6,1

    di p. attilio franco fabris

    Visti i primi successi Mosè e Aronne forse immaginano che il loro compito possa risolversi velocemente. Il loro annunzio ai fratelli ebrei non ha forse suscitano entusiasmo? Vi è stata un’adesione immediata e inaspettata di fede, un’ondata di entusiasmo, una convergenza di progetti e di intenti attorno a Mosé. La missione sembra pienamente riuscita! Gli israeliti sembrano diventati, un po’ troppo in fretta a dir il vero un vero popolo consapevole della propria identità e pronti a rivendicarla dinanzi alle potenze di questo mondo.

    Quanti entusiasmi abbiamo sperimentato… euforie… successi. Tutto questo cosa suscitava in noi? Che ruolo vi aveva Dio?

    Ancora il fallimento

    Sull’onda dell’entusiasmo Mosè e Aronne vanno fiduciosi incontro al faraone per la loro richiesta. Il ministero di Mosè presso di lui inizierà sempre con una formula profetica: Così parla il Signore: Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto (5,1). Questa formula sarà d’ora in poi una sorta di ritornello che percorrerà tutta la sezione riguardante le piaghe d’Egitto (7-11).  In questa richiesta Israele si affaccia alla storia con la prerogativa di essere “popolo di Dio”( il mio popolo!) chiamato a celebrare la “festa in onore di Jwhw” nel deserto.

    Ormai Mosè crede di aver svolto il suo compito: non è tutto chiaro? Ora spetta a Dio pensare al suo popolo: non gli resta dunque che tirarsi da parte e scomparire. In effetti sono anche gli israeliti stessi che impugnano direttamente la loro situazione presso il faraone: c’è dunque entusiasmo, frenesia nel portare a termine il sogno. Non temono di far propria la vocazione  di Mosè: Il Dio degli ebrei si è presentato a noi…. Si sentono già popolo di Dio e con una certa arroganza scimmiottano presso il faraone la richiesta di Mosè: (5,3). Pensano d’esser già arrivati prima di partire. Per questo popolo che sta per nascere ci sarà al contrario bisogno di una lunga lotta e maturazione interiore affinché si dia concretizzazione al progetto di Dio.

    Quante volte anche a noi capita di illuderci di risolvere le cose in poco tempo, di essere già arrivati, di lasciarci trascinare dall’entusiasmo, di arrogarci pretese immediate… Ci illudiamo che le vicende della vita debbano rispettare i nostri tempi le nostre attese e desideri. Facciamo fatica a fare i conti con una realtà più faticosa e complessa degli schemi che abbiamo in testa.

    Il risultato della prima delegazione presso il faraone si risolve in un disastro. Infatti la risposta del faraone è perentoria e negativa colma di disprezzo. All’arroganza degli israeliti il faraone risponde con la sua arroganza feroce ed interessata (5,5). Non è forse normale da parte di un governo far i conti con i visionari e utopisti del momento? Che dire di questa minoranza semita che pretende diritti e accampa iniziative proprie? Essi sono e devono restare una  manodopera indispensabile e a costo zero, e per di più vi è sempre il rischio di una  loro fuga e alleanza con i nemici dell’est. I calcoli politici ed ecomomici dettati dal “realismo” obbligano dunque il re a questa dura posizione.

    Gli israeliti si vedono ripiombati improvvisamente e duramente nella loro schiavitù resa ora ancor più dura come conseguenza alla loro pretesa: quando il sogno svanisce quanto è duro il ritorno alla cruda realtà. Anzi lo stesso lavoro da schiavi ora, come risultato della richiesta fatta, è reso ancor più duro e stremante: «Non darete più la paglia al popolo per fabbricare i mattoni come facevate prima. Si procureranno da sé la paglia. Però voi dovete esigere il numero di mattoni che facevano prima, senza ridurlo. Perché sono fannulloni; per questo protestano: Vogliamo partire, dobbiamo sacrificare al nostro Dio! Pesi dunque il lavoro su questi uomini e vi si trovino impegnati; non diano retta a parole false!» (Es 5,7-9).

    Sta succedendo dunque esattamente il contrario di ciò che ci si aspettava. Tutte le iniziative non hanno fatto che aumentare la catena di mali. Come In certo qual modo Mosè è costretto a rivivere l’esperienza di quarantanni prima. Ma ora Mosè deve confrontarsi con una promessa fatta da un Altro. È mai possibile che i guai e le ingiustizie sembrino aumentare proporzionalmente all’intensità della speranza con cui si lavora per l’affermazione della libertà e della giustizia? Quante delusioni si presentano in tal senso nella vita?

    Che fare? Occorre tornare dal faraone dicono gli scribi degli ebrei e chiedere giustizia. Eccoli allora intenti a preparare un bel discorsetto per commuovere il regnante e fargli perdonare la loro “colpa”: in esso non temono di rinnegare già il loro essersi definiti “popolo di Dio”, essi si protesteranno al contrario “servi” del faraone dichiarandogli “fedeltà”:Allora gli scribi degli Israeliti vennero dal faraone a reclamare, dicendo: «Perché tratti così i tuoi servi?” (5,15).

    Nella paura è sempre facile porsi sotto le ali del potente di turno: ciò accadrà spesso nella storia di Israele, nel pretorio il popolo rivendicherà di “non aver altro re che Cesare”! E’ arduo nella prova restare servi fedeli del proprio vero padrone, non se ne possono servire due contemporaneamente.  Nell’onda del loro timore giungono ad affermare: “Se noi oggi siamo bastonati, questa è un’ingiustizia contro il tuo popolo” (5,16). In altre parole senza accorgersi dichiarano niente di meno di essere “popolo del faraone”. Altro che “popolo di Dio”…

    Il lamento degli ebrei e di Mosè

    E Mosè? Egli assiste a tutta questa faccenda che intercorre tra gli ebrei e il faraone. Lo scandalo di ciò che accade al suo popolo, come conseguenza del suo annuncio, raggiunge inevitabilmente anche lui.  E’ il dramma del profeta, del Servo del Signore:

    Per te ogni giorno siamo messi a morte,

    stimati come pecore da macello.

    Svègliati, perché dormi, Signore?

    Dèstati, non ci respingere per sempre. (Sal 43,23-24)

    Anzi: tutta la rabbia repressa del popolo dinanzi al faraone ora ricade tutta su Mosè e Aronne: dissero loro: «Il Signore proceda contro di voi e giudichi; perché ci avete resi odiosi agli occhi del faraone e agli occhi dei suoi ministri, mettendo loro in mano la spada per ucciderci!» (5,21). Essi invocano lo stesso Dio che vuole la loro liberazione come giudice contro i suoi stessi “presunti” messaggeri.

    E questa stessa rabbia ritornerà più volte all’interno del popolo liberato nei quarantanni di cammino nel deserto. Ci è così sconosciuto questo sentimento nella nostra vita? Quante volte abbiamo scaricato la rabbia contro qualcuno, qualcosa, contro forse Dio stesso… a motivo delle nostre delusioni, sconfitte? Un’ira che cerca un colpevole ad ogni costo… ma l’ira acceca e non discerne il vero.

    Lo scandalo suscita lamenti e proteste di ogni genere, ma l’aspetto più scandaloso sta nel fatto che spesso nella rabbia si smarrisce l’obiettivo e la misura delle proprie lamentele. Così anche Mosè impara a lamentarsi (e lo farà molte altre volte): Allora Mosè si rivolse al Signore e disse: «Mio Signore, perché hai maltrattato questo popolo? Perché dunque mi hai inviato? Da quando sono venuto dal faraone per parlargli in tuo nome, egli ha fatto del male a questo popolo e tu non hai per nulla liberato il tuo popolo!» (5,22-23).

    La sua è una preghiera pura di lamentazione, in cui il credente denuncia presso Dio lo scandalo del trionfo del male sul bene. Dio viene rimproverato per il suo operato, (Ger 12,1; Sal 13; 22; 43; 88; Giobbe; …) per l’ingiustizia dilagante a cui egli sembra non porre rimedio e che ricade sul credente stesso che prega.

    Se ho peccato, che cosa ti ho fatto,

    o custode dell’uomo?

    Perché m’hai preso a bersaglio

    e ti son diventato di peso? (Gb 7,20)

    Dirò a Dio, mia difesa:

    «Perché mi hai dimenticato?

    Perché triste me ne vado,

    oppresso dal nemico?» (Sal 41,10).

    I tempi e le modalità di Dio sconcertano: è faticoso entrare nella sua pedagogia fatta di sapienza e pazienza. La risposta di Dio alla lamentazione non è una spiegazione, né un ragionamento: essa consiste in una nuova promessa: “Vedrete!” ovvero saranno i fatti a parlare.

    Avete solo bisogno di costanza, perché dopo aver fatto la volontà di Dio possiate raggiungere la promessa. Ancora un poco, infatti, un poco appena, e colui che deve venire, verrà e non tarderà. Il mio giusto vivrà mediante la fede; ma se indietreggia, la mia anima non si compiace in lui. Noi però non siamo di quelli che indietreggiano a loro perdizione, bensì uomini di fede per la salvezza della nostra anima. (Ebr 10,36-39)

    E gridarono a gran voce:

    «Fino a quando, Sovrano,

    tu che sei santo e verace,

    non farai giustizia

    e non vendicherai il nostro sangue

    sopra gli abitanti della terra?».

    Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro. (Ap 6, 10-11)

  • 26 Mar

    La rivelazione del Nome tra dubbi e contraddizioni

    Es 3,11-22; 4,18-31

    di p. Attilio Franco Fabris


    Dio chiede a Mosè di tornare in quell’Egitto da cui quarantanni prima era fuggito braccato e impaurito e di affrontare quella che era la massima potenza e autorità politica, militare e religiosa. Ovvio che dinanzi a questa prospettiva Mosè senta le sue povere forze vacillare, dopotutto ha già sperimentato un’amara sconfitta e delusione in questo senso. Ma Dio gli chiede di porsi nuovamente di fronte all’incerto, in un’avventura rischiosa e umanamente quasi impossibile, ma con una differenza fondamentale: ora egli è mandato da un Altro. Dovrà fare affidamento unicamente alla potenza della parola di Colui che lo manda, su nient’altro: “Tu, poi, cingiti i fianchi, alzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti alla loro vista, altrimenti ti farò temere davanti a loro”  (Gr 1,17).

    Ma la paura nonostante questo si affaccia nella coscienza di Mosè e gli fa dire: “Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto gli Israeliti?” (v. 11). Certo egli ormai è cosciente della sua debolezza e limitatezza, non vive più dei sogni pretenziosi e intempestivi di quand’era giovane, ora può solo dire: “Chi sono io per andare da faraone e far uscire dall’Egitto gli israeliti?”. Non è più il nobile che poteva dire: “Ma lei non sa chi sono io!”.

    Dinanzi a questo timore il Signore pronuncia solo una parola che è promessa: “Io sarò con te” (v.12 cfr Gn 26,3.24; Gd 6,16;1Re 11,38; Gr 15,20; Is 41,10; Lc 1,30; Lc 5,10; At 27,24…). Insieme a questa parola Dio aggiunge un’altra promessa: Dio dà appuntamento a lui e al popolo proprio in quel luogo. Tutti toccheranno con mano che Dio è fedele e la sua parola certa: “Rispose: «Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte»” (Es 3,12). Ma le promesse non terminano lì, ai piedi del monte: Dio rilancia la promessa fatta ad Abramo: il suo popolo dovrà poi salire alla terra promessa: in un “paese vasto e buono” dove “scorrono latte e miele”.

    Dimmi chi sei…

    Ma in nome di chi Mosè dovrà presentarsi al suo popolo e al faraone? È evidente che Mosè senta la necessità di sapere il nome di questo Dio: “Ecco io arrivo dagli israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Mi diranno: Come si chiama? E io che risponderò loro?” (v.13).  Conoscere il nome di Dio equivale a possedere la sua potenza e ad invocarla. Nel nome, secondo la cultura semitica, risiede tutto il mistero della persona. A Mosè che continuamente domanda: Chi-sono-io per andare dal faraone…(3,11,…) il Signore risponde semplicemente: “KI-EHYEH ‘IMMAKH – IO SONO CON TE”.

    La risposta di Dio è a prima vista ambigua e deludente: “Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono!” (v.14). Dio si sottrae, come altre volte nella scrittura, alla pretesa impossibile dell’uomo. Come a Giacobbe che domanda il nome del suo aggressore, anche qui il nome non viene di per sé dato, o meglio si tratta di un nome che dice tutto e nulla nello stesso tempo. Con ciò Dio da un insegnamento importante a Mosè: “Io non sono come gli altri dei disponibili alle strumentalizzazioni degli uomini desiderosi di potenza, il mio mistero mi appartiene perché non sono un idolo “opera delle mani di un uomo” (Sal 115,4).

    Purtuttavia ascoltata in profondità la definizione che Dio da si se stesso contiene una rivelazione straordinaria: se da un lato infatti egli nasconde all’uomo la sua identità trascendente, dall’altro egli dice il suo desiderio di entrare in dialogo con la storia degli uomini: “Io sono colui che sono” manifesta così non tanto un’entità metafisica quanto una presenza costante nella storia. A Mosè deve bastare sapere che “IO-CI-SONO”, che Dio è COLUI CHE E’, COLUI CHE E’ QUI CON TE E PER TE. Questo è molto più importante del sapere il nome.  Il nome del Signore è: “Eccomi!”. Questo nome nel nuovo testamento sarà che gesù si darà:  “Emmanuele-Dio con noi”:  “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20)

    “Io Sono” non è forse il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe? (cfr v.15). Egli è il Dio di sempre che si ricorda delle sue promesse: “Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione” (v.15). Mosè non dovrà far altro dinanzi ai suoi fratelli se non aiutarli a riandare alla loro storia per affermare che il Dio dei è ancora presente e lo sarà anche in futuro accanto a loro.

    Ci interroghiamo: anche per me Dio “è colui che è”. Il Dio sempre presente che mi accompagna nel cammino della vita e opera liberazione e salvezza. E’ il Dio della promessa e della speranza. L’atto di fede sta nell’affidarmi alla sua promessa, a fare affidamento su di essa vincendo le mie paure e resistenze che dicono la mia poca fede. Chiedo al Signore la grazia di avvertirlo presente e agente nella mia vita, la grazia di fidarmi di questa sua presenza operante nella mia vita e nella storia. Anche per me è l’invito. “Non temere!”.

    Ancora obiezioni e resistenze

    Ma tutto questo per Mosè (e anche per noi ) non basta. La coscienza vittima della paura di perdere avverte forti resistenze: esse si manifestano attraverso dubbi che si trasformano in vere e proprie obiezioni.

    La prima di queste è la previsione, già d’altra parte costatata anni prima, dell’insensibilità non tanto del faraone quanto dei fratelli ebrei al messaggio di cui è portatore: “Ecco, non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce, ma diranno: Non ti è apparso il Signore!” (v.4,1). Quanto spesso la nostra paura ci porta a fare previsioni che riteniamo infallibili, ma basate unicamente non sulla fiducia accordata alla parola ma su calcoli ed esperienze solo umane.

    La successiva obiezione è: “Mio Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua” (v.4,10). Dunque l’obiezione non è più sui destinatari ma si sposta dai destinatari all’emittente.

    Dunque Mosè percorre tutte le possibili strade per opporre obiezioni! Continua a nutrire perplessità e dubbi circa l’efficacia della missione affidatagli: ai suoi occhi tutto, se stesso e gli altri, gli appare complesso ed impossibile. A nulla sembrano dunque servire promesse e rassicurazioni da parte di YHWH. Quanto anche noi ci aggrovigliamo rendendo tutto complicato ed impossibile dimenticandoci che a Dio “Tutto è possibile”.

    Questa resistenza raggiunge il suo vertice al v. 13: “Perdonami Signore mio, manda chi vuoi mandare”. Il che equivale a: “Senti, ti ringrazio della fiducia, ma trovatene un altro”. Siamo nella linea dell’ambiguità e resistenza che abitano non solo il cuore di Mosè, ma anche dei giudici, dei porfeti, dei re, dei discepoli, di noi stessi. Unicamente Cristo può dire subito e con pieno e totale abbandono:Dopo aver detto prima non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose tutte che vengono offerte secondo la legge, soggiunge: Ecco, io vengo a fare la tua volontà. Con ciò stesso egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo.  Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre” (Ebr 10,8-10).

    Le reazioni di Mosè sono autentici contrasti interiori: risonanze e controrisonanze alla Parola. Sono le nostre stesse reazioni che scaturiscono nel momento in cui ci raggiunge la Parola di Dio.  L’incontro con JHWH non è una bacchetta magica che risolve tutto: la debolezza di Mosè vi entra ancora in gioco, se mai egli si era prima illuso di possedere autonomamente energie straordinarie. Una sola cosa gli viene ripetutamente garantita dal Signore, proprio quella che più comincia ad intimorire Mosè:  Egli ha con sé solo la potenza della Parola di Dio e questa sola. Anche gli apostoli saranno mandati solo con questa garanzia: Allora chiamò i Dodici, ed incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi. E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa…” (Mc 6,7s).

    Una “posta in gioco” molto alta: richiede tutto!

    In effetti il dialogo con Dio non si risolve in una serie di indicazioni o imposizioni pratiche da eseguire alla cieca, militarmente. In questo dialogo rientra totalmente il ruolo della libertà dell’uomo, una libertà che è ferita dal peccato e dunque da conquistare passo dopo passo. Ecco perché il dialogo che Dio stringe con gli uomini non conferisce loro giustificazioni di ordine culturale o di ordine pratico all’agire umano, né consente di identificare la parola di Dio con un preciso piano di interventi: la parola di Dio non dà nulla più di quel che essa stessa è, nella fragilità di una promessa il cui compimento appartiene soltanto all’iniziativa di JHWH: Dio chiede a Mosè di acconsentire nella fede alla sua iniziativa: “Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore? Ora va! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire” (4,11).

    Per vincere le sue resistenze JHWH garantisce a Mosè l’assistenza dei suoi “segni” (4,2-9), ma questi sono “segni” di uno scontro violento col faraone (al v. 21 compare il tema dell’indurimento del cuore del faraone che percorrerà tutta la sezione delle piaghe inflitte all’Egitto).. Egli ben capisce che in gioco è la sua stessa “carne” e il suo stesso “sangue” ovvero tutta la sua vita (4,6-8).

    Si rende benissimo conto Mosè della posta in gioco: egli sente che non avrà sconti sulla fatica di ogni missione che voglia essere un vero servizio del bene. Dovrà rinunciare ad ogni ipotesi “clericale” e mettersi alla ricerca di “fratelli”, non di sudditi, di persone anch’esse libere, di interlocutori a cui Dio parla personalmente e non di uditori obbligati a subire la sua funzione mediatrice. In 4,24-26, un testo oscuro e enigmatico che fa riferimento a Gn 32,23-32, questa posta in gioco è espressa in modo altamente drammatico. In entrambi gli episodi si tratta di una abilitazione alla missione di un uomo di cui Dio vuol servirsi: Mosè è all’improvviso terribilmente provato da Dio come lo fu Giacobbe. Questa irruzione violenta di Dio nella vita di Mosè è un’agonia, un combattimento in cui l’uomo sperimenta tutta la sua povertà, il limite, la debolezza. Ciò è importante affinché egli si ricordi sempre da quel momento che la forza che lo abiterà non sarà la sua ma quella di Dio stesso.

    Ci rendiamo conto della “posta in gioco” che è iniziata nel momento in cui Dio mi ha interpellato e chiamato. Chi si avvicina a me si avvicina al fuoco! Cosa ha significato e significa concretamente per me questa “posta in gioco” in cui pongo “sul tavolo” tutta la mia vita fidandomi di Dio e acconsentendo al suo mandato? Quante e quali mosse pongo per trattenere il “gioco” e non rischiare? Quanto gioco al ribasso? Quanto sono disposto a “giocare”?

    Mosè e Aronne

    Mosè torna dal suocero per comunicargli la decisione di tornare dai suoi fratelli (4,18). La prospettiva sembra ritornare all’inizio, ma se tutto sembra ripetersi in modo uguale tutto in realtà è diverso. Il movimento di Mosè verso i suoi fratelli non è più l’intervento generoso, ma ingenuo e presuntuoso, di un giovane pieno di energie e iniziative. Ora il viaggio è disposto da Dio ed egli è solo un povero anziano a cui solo la chiamata di Dio dà slancio e vigore (4,20). Il suo protagonismo è finalmente scomparso. Dio ora ha mano libera!

    Ma ci sono alcuni elementi nuovi. Il giorno in cui Mosè riceve da Dio la sua missione non segna per lui l’avvio di un frenetico attivismo pastorale. Mosè non studia a tavolino progetti e iniziative, non stila programmazioni di interventi sul come andare dai suoi fratelli.

    Paradossalmente egli non ha ancora cominciato il suo viaggio verso i suoi fratelli, che già questi, nella persona di Aronne, gli muovono incontro. E questo mentre Mosè è ancora sul”monte”: ciò significa che egli è scavalcato dall’iniziativa di Dio! L’esperienza dei dodici, come anche quella della Chiesa primitiva, sarà proprio quella di sentirsi “scavalcati” dall’azione di Dio, portati ad andare in una direzione che mai avrebbero preso in considerazione (Cfr Gesù che si fa incontro alla barca nella tempesta, la moltiplicazione dei pani, le apparizioni del risorto, Cornelio, i cristiani di Antiochia,…)

    Non abbiamo mai sperimentato questo “scavalcamento” da parte di Dio nella nostra vita? Forse proprio nel momento in cui freneticamente stilavamo altri progetti e ipotesi “pastorali” o “spirituali”….?

    Mosè non è più solo: il Signore fa spuntare inaspettato un fratello con cui condividere il cammino e la missione. Già prima il Signore aveva ricordato a Mosè mentre obiettava: Non vi è forse il tuo fratello Aronne, il levita? (4,14).  Questa collaborazione verrà sottolineata anche in 6,9-7,7. Si insisterà sulla comune origine: sono due fratelli (Aronne viene commemorato quale fratello “maggiore” di Mosè: “Mosè aveva ottant’anni e Aronne ottantatre “ (7,6; 6,20), e sulla complementarietà delle loro funzioni (7,1ss). Perché questo bisogno (di tradizione P: sia Mosè che Aronne sono della tribù sacerdotale di Levi) di dare rilievo anche alla figura di Aronne? Se la parola di Mosè (ironia del profeta!) è “impacciata” (6,12.30), Dio gli mette accanto Aronne, il quale presterà la sua voce perché venga affidato il messaggio affidato a Mosè (6,29; 7,1s). In questo senso la presenza di Aronne assume il carattere di necessità. Solo in forza della sua cooperazione la missione si potrà realizzare. Anzi il nostro  testo pone quasi sulla stesso piano le due figure: “Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne, e diede loro l’incarico…” (6,13). Non è questo un aiuto ulteriore di grazia perché Mosè sia preservato dalla tentazione di ritornare a credersi l’unico protagonista?

    Si tratta di porre poi in risalto due dimensioni fondamentali. Da un lato si sottolinea la solitudine di Mosè, il dramma della sua missione così contrastata e sofferta: “Perché dunque mi hai inviato?” (5,22). Dall’altro la narrazione cerca di strappare l’uditore da un’immagine (rischiosa perché miticizzante) di un Mosè quale eroe solitario e lontano. Egli è invece inserito a pieno titolo nel tessuto del suo popolo: la presenza di Aronne sta a sottolineare proprio questa appartenenza, questa solidarietà.

    Altro elemento successive di riflessione sarà il rapporto, necessario ma spesso complesso e conflittuale (come apparirà nel seguito), tra profezia e sacerdozio in ordine alla edificazione del popolo di Dio. Collaborazione necessaria all’uno e all’altra contro la pretesa di accaparrarsi unilateralmente la missione che deve restare iniziativa essenzialmente divina. Da qui il discorso della complementarietà dei carismi presentata da Paolo soprattutto nella lettera prima ai Corinzi.

    Il popolo credette… ma per poco!

    Il capitolo quarto termina con il primo approccio di Mosè e Aronne presso i fratelli ebrei in Egitto. Esso inaspettatamente si rivela positivo: il popolo credette . il verbo “credere” è espresso nella sua accezione teologica di “adesione alla parola”. Mosè si era sbagliato anche qui!

    Ma l’entusiasmo e la fede con cui il popolo accoglie l’annuncio è di breve durata: presto Mosè e Aronne dovranno difendersi dall’accusa di aver solo peggiorato la situazione: paradossalmente le critiche e le resistenze degli israeliti al progetto della liberazione saranno molto più forti di quelle del faraone. Mosè sarà “crocifisso” da questa tensione: da una parte il Signore che lo carica del ruolo di “mediatore della liberazione”, dall’altra la resistenza del faraone, e ancora la resistenza del popolo di Israele che esita a mettersi in cammino verso la terra promessa. Come non può sorgere il dubbio nella coscienza di Mosè? Il timore di aver nuovamente fallito, sbagliato nuovamente tutto? Anche questo fa parte del cammino… Sempre attuale la parola di Is 53,1: Signore chi ha creduto alla nostra parola? E il braccio del Signore a chi è stato rivelato?

    Mosè apparirà sempre più una parabola di Gesù (Yehshuah: JHWH salva!) mandato per liberarci dalla schiavitù di satana e del peccato. Crocifisso dalla resistenza e dal rifiuto del suo stesso popolo.

  • 25 Mar

    VIRTUS IN INFIRMITATE PERFICITUR

    2Cor 12,7-10

    di Lyonnet


    Una delle espressioni che più profondamente e con più sicurezza consentono di penetrare nell’anima di San Paolo è quella che si usa chiamare la magna charta dell’apostolo: Virtus in infirmitate perficitur. Queste parole rappresentano il vertice dell’intera pericope di 2 Cor. 12,7-10, nella quale l’Apostolo passa in rassegna le difficoltà che gli si frappongono sulla strada del suo ministero.

    7Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. 8A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. 9Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. 10Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.

    Qui di seguito dapprima esporremo brevemente il passo, e poi vedremo come le affermazioni di San Paolo ricevano luce da quanto sappiamo della sua vita, e come si inseriscono in una precisa linea di spiritualità biblica.

    Siamo verso il 56-57. Paolo evoca in questa pagina alcune grazie mistiche, ricevute, dice, «or sono quattordici anni», dunque verso il 42-43, cioè poco prima dell’inizio del suo ministero apostolico (la sua prima missione ebbe inizio nel 45), grazie che probabilmente erano destinate, nel pensiero di Dio, a prepararlo alla sua missione ormai prossima. Ora, in connessione immediata con queste grazie, Paolo confida ai fedeli di Corinto di averne ricevuta un’altra non meno importante.

    v.7 «Perciò, affinché la grandezza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, mi è stata messa nella carne una spina, un angelo (messaggero) di Satana, incaricato di schiaffeggiarmi perché non mi insuperbisca».

    Una spina (scolops, stimulus). A che cosa allude San Paolo? Partendo dalla versione della Volgata (datus est mihi stimulus carnis meae, col genitivo) (1), molti latini hanno pensato che Paolo intendesse parlare di tentazioni contro la castità. Ma questa interpretazione non ha alcuna possibilità di essere vera. Molti moderni, invece, riferendosi a una possibile interpretazione del passo di Gal. 4,13: «Sapete che vi annunziai il Vangelo la prima volta in occasione di una mia malattia», vedono volentieri in questa «spina» una malattia, probabilmente cronica, forse febbri malariche. Ma piuttosto che appoggiarsi a un tale testo, che non ha relazione certa con il nostro, è metodo migliore consultare prima il contesto immediato del passo. Esso infatti ci fornisce qualche preziosa indicazione.

    San Paolo aggiunge nello stesso v. 7 che questa spina è un messaggero di Satana, cioè qualcosa che egli considera come un ostacolo al suo apostolato. Satana è difatti colui che «toglie la parola dal cuore degli uomini per impedire che, credendo, si salvino» (Lc. 8,12). Di lui parla anche 1Tess. 2,18: «Infatti per una o due volte abbiamo determinato di venire da voi, ma Satana ce l’ha impedito»; e ancora 2 Cor. 4,4: «Il dio di questo mondo ha accecato le menti degli infedeli, perché non rifulga ad essi lo splendore del vangelo della gloria di Cristo...».

    Nel v. 10 poi, Paolo sembra dare ogni chiarimento necessario, parlando, in termini generali, di «debolezze, oltraggi, necessità, persecuzioni, angustie» (non di malattia!). Sono tutte le sofferenze, le tribolazioni inerenti alla vita apostolica, delle quali ha parlato, per es., nel capitolo precedente (11,23-27): «Di più poi nei travagli, di più nelle prigioni; oltremodo di più sotto le battiture… in pericoli tra i falsi fratelli...». Notiamo la menzione delle persecuzioni (2).

    Il v. 8 contiene la preghiera di Paolo: «Tre volte, riguardo a questo, pregai il Signore, perché lo allontanasse da me». Preghiera insistente, ripetuta «tre volte», come ha fatto il Signore al Getsemani, che mostra quanto Paolo ne soffrisse e come considerasse questa «spina» un grande ostacolo per il suo apostolato.

    Al v. 9 abbiamo la risposta di Gesù: «Ora egli mi ha risposto: ‘Ti basta la mia grazia…’». Il Signore, implorato, sembra respingere la domanda dell’Apostolo. Invece in realtà la esaudisce. Paolo chiedeva che si allontanasse da lui questa spina, perché vedeva in essa un ostacolo al suo apostolato; orbene, ciò che Paolo credeva un ostacolo era in realtà la condizione più favorevole perché l’apostolato potesse aver il suo perfetto compimento. «Poiché – aggiunge il Signore – la mia potenza si mostra appieno nella debolezza»: la potenza di Dio non può dispiegare le sue virtualità, raggiungere tutti i suoi effetti, se non nella debolezza dell’uomo, dello strumento apostolico.

    È un paradosso evangelico, un aspetto della dottrina della fede. Perciò Paolo nel v. 9 continua: «Ben volentieri, adunque, io mi glorierò nella mia debolezza, affinché abiti in me la potenza di Cristo». «Mi glorierò» kauchesomai, cioè «riporrò tutta la mia fiducia nella mia debolezza». «Affinché abiti in me la potenza di Cristo»; il verbo usato qui da Paolo, episkenoo, è lo stesso che indica la presenza della «gloria di Jahvé» sull’arca e, nel N. T., la presenza del Verbo di Dio sulla nostra terra: «E il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi» (Io. 1,14). L’Apostolo, conscio della sua debolezza, diventa come un’incarnazione della potenza di Cristo!
    Si capisce allora come Paolo possa così continuare ( v. 10): «Per questo io mi compiaccio delle mie debolezze, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni e delle angustie per la causa di Cristo, perché quando son debole è ben allora che sono forte».

    Questo è il significato generale delle parole di San Paolo. Ma per poter penetrarne tutta la profondità non sarà inutile inserirle nella sua vita, la quale ne costituisce un commento straordinariamente significativo. Di fatto, se Paolo ha formulato questa legge dell’apostolato con espressioni così vivide, così chiare, è forse perché Dio l’ha rivelato al suo Apostolo attraverso l’esperienza concreta. Prima di formularla Paolo l’ha vissuta. E non c’è da meravigliarsi che ne abbia fatto confidenza in una lettera ai Corinti, perché l’ha vissuta in modo particolare, ci sembra, proprio a Corinto, nella fondazione stessa di questa chiesa. Basta ricordare brevemente le circostanze di tale fondazione, quali sono riferite da San Luca in quel breviario della vita apostolica che sono gli Atti (16,11-18,11).

    L’arrivo di Paolo a Corinto fu preceduto da una serie di scacchi dolorosi . Siamo durante il secondo viaggio missionario, verso il 50. Paolo, venendo dall’Asia Minore, ha per la prima volta messo piede sul suolo dell’Europa. Passato da Troade in Macedonia, ha predicato a Filippi, dove ha guarito una giovane schiava posseduta da uno «spirito pitone» che procurava molto guadagno ai suoi padroni, facendo l’indovina (16,16). Incarcerato insieme a Sila, suo compagno, e poi liberato e obbligato a lasciare la città (16,40), giunse a Tessalonica, dove i Giudei avevano una sinagoga (17,1). Tutto comincia bene: non poche conversioni di Giudei e soprattutto di proseliti e di gentili…(17,4). Ma i Giudei, mossi da invidia, dice il testo, «presero alcuni pessimi uomini del volgo e provocarono un tumulto e misero a rumore la città… Non avendo trovato Paolo e Sila nella casa di Giasone, dove alloggiavano, trascinarono Giasone stesso ed alcuni fratelli davanti ai capi della città...» (v. 5).
    Paolo deve approfittare della notte per fuggire di nuovo e cosi evitare ai fratelli altri incidenti.

    A Berea (17,10) trovarono i Giudei «animati da sentimenti più nobili di quelli di Tessalonica… Molti fra essi credettero...». Ma i Giudei di Tessalonica, inteso che ebbero il successo di Paolo, «si portarono pure colà e andavano agitando e sollevando le folle». Nuova partenza (17,13 s.) e arrivo, questa volta, ad Atene (17,15 ss.). Qui Paolo supera se stesso nel celebre discorso dell’Areopago (17,22-32), nel quale mostra un’abilità umana eccezionale, potendo far leva anche su circostanze favorevoli. «Percorrendo la vostra città – egli può dire – ho trovato un altare con questa iscrizione: A un dio ignoto. Quello che voi venerate senza conoscerlo, io lo annunzio a voi! ...», e riferisce – caso unico! – anche un verso dei loro poeti (v. 28). Tutto inutile. L’insuccesso è quasi totale. Malgrado l’una o l’altra conversione, Paolo capisce che non c’è niente da fare e, per la prima volta, lascia la città di sua spontanea iniziativa (18,1).

    Prende la via sacra che passa per Eleusi, dove evidentemente non si ferma, e raggiunge la città di Corinto, ricca, dedita ai commerci, cosmopolita e di pessima fama (18,1-5). Prende alloggio nel quartiere giudaico e ha la buona fortuna di incontrare due sposi già cristiani, giunti da poco dall’Italia, cacciati come Giudei dall’imperatore Claudio: Aquila e Priscilla. «Siccome esercitavano il suo stesso mestiere, andò a stare con loro e si misero a lavorare insieme». Ogni sabato Paolo disputa nella sinagoga con i Giudei. Anzi (18,3), quando Sila e Timoteo portano i soccorsi dalla Macedonia, si dedica tutto alla predicazione (18,5). Ma ancora una volta urta contro un’opposizione inattesa.

    A questo punto la serie degli insuccessi provoca in lui uno «choc». Ecco il testo: «Facendo essi opposizione e scagliando ingiurie, Paolo scosse le sue vesti e disse loro: Il vostro sangue ricada sul vostro capo. Io sono puro. D’ora in poi mi rivolgerò ai gentili» (18,6). Il gesto di scuotere le vesti Paolo l’aveva già fatto ad Antiochia (13,51), e lo ripeterà poi ad Efeso (20,26) in circostanze simili. Ma qui soltanto aggiunge al gesto parole di imprecazione: «Il vostro sangue ricada sul vostro capo! ». Per lui, che scriverà ai Romani di provare, davanti all’incredulità di Israele, «una grande tristezza e un continuo dolore nel… cuore», e vorrebbe essere lui stesso «anatema dal Cristo» per i suoi «fratelli secondo la carne…» (Rom. 9,2-3), un tale grido è espressione di un animo quasi disperato, sul punto di abbandonare tutto: se i Giudei di Corinto non volevano sentir parlare di Gesù, che cosa si poteva aspettare dai pagani della città? Ma proprio nel crollo di ogni prospettiva umana interviene la grazia a dare all’ Apostolo abbattuto nuovo vigore.

    Gli Atti raccontano che in queste circostanze Paolo, durante la notte, ebbe una visione del Signore, cioè di Gesù risorto; e Gesù gli disse: «Non temere, ma parla, e non tacere, perché io sono con te e nessuno ti metterà le mani addosso per farti del male; parla, perché ho un popolo grande in questa città!» (18,9-10). Paolo allora, senza alcuna speranza umana, forte unicamente della fiducia in Dio, come Abramo, obbedisce alla voce del Signore. E Corinto sarà una delle chiese più fiorenti da lui fondate. «Ho un popolo grande in questa città ».

    A conferma del racconto degli Atti sta una confidenza fatta da Paolo stesso ai Corinti, quando, evocando gli inizi della predicazione ai membri della futura comunità, dice: «Fratelli miei, quando venni da voi, non mi presentai ad annunziare la testimonianza di Dio con sublimità di linguaggio o di sapienza… Io stesso mi trovai fra voi in uno stato di debolezza, di timore e di trepidazione, e il mio parlare, come la mia predicazione, non si basava su persuasivi argomenti di sapienza, ma su una dimostrazione di spirito e di potenza, affinché la vostra fede non si fondasse sulla sapienza degli uomini, ma sulla potenza di Dio» (1Cor. 2,1-5). Queste parole hanno il loro degno commento in quelle che già abbiamo lette, e che potrebbero chiamarsi la magna charta dell’apostolato: «La mia potenza si mostra appieno nella debolezza»; «quando sono debole, è ben allora che sono forte»; «molto volentieri mi glorierò delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo».

    Magna charta dell’apostolato. Di fatto non ci troviamo davanti al caso singolare di un apostolo, sia pure il più grande, San Paolo. Si tratta, in realtà, di una legge generale, insegnata attraverso tutta la Bibbia, legge di cui tutti i grandi servi tori di Dio – cioè coloro dei quali Dio ha voluto servirsi per operare la salvezza del mondo – hanno fatto l’esperienza.

    Un esempio particolarmente chiaro è quello di Gedeone, nel libro dei Giudici, ossia dei «liberatori» o «salvatori» d’Israele. Il popolo di Dio è arrivato, finalmente, nella terra promessa, ma questa terra è da conquistare, e sembra che gli Ebrei abbiano ottenuto da Dio le prime vittorie solo per esser più sicuramente preda dei loro nemici. Anzi in questo preciso momento essi sono in balia dei Madianiti, così che «dovevano scavarsi spelonche, antri e fortezze sui monti» (Giud. 6,2). Israele invoca il soccorso di Dio, che invia il suo angelo a Gedeone. Il dialogo fra il messo divino e Gedeone non manca di drammaticità. «Il Signore è con te, prode campione!… – Ahimè, Signore mio, se veramente il Signore è con noi, come mai siamo colpiti da tanti mali? dove sono tutti i suoi prodigi, che i nostri padri ci narrano? Ora, invece, ci ha abbandonati e dati nelle mani di Madian. Allora il Signore lo guardò e disse: Orsù, con la forza che ti comunico libera Israele dai Madianiti! – Rispose Gedeone: Di grazia, Signore, con che mezzo potrò io mai liberare Israele? Ecco, la mia famiglia è la infima di Manasse ed io il più piccolo della casa di mio padre! – … Io sarò con te e tu abbatterai Madian come se fosse un sol uomo» (Giud.6,12-I6). Gedeone obbedisce, percorre le tribù di Israele e raduna quanti più può. Un buon numero: 32 mila! Veramente il Signore era con lui. Pieno di fiducia, «levatosi di buon mattino con tutti i suoi uomini, pose gli accampamenti contro i Madianiti. Allora il Signore disse a Gedeone: Troppa gente è con te, perché io possa dare Madian in tuo potere. Israele si glorierebbe contro di me, dicendo: È stato il mio valore che mi ha salvato!» (Giud.7,2). Questo sfoggio di potenza è un ostacolo da eliminare. Ecco allora la progressiva e drastica riduzione del numero degli armati. «Da’ questo ordine: Chiunque è timoroso ed ha paura, si ritiri e torni indietro. Se ne ritirarono allora 22 mila e ne rimasero solo 10 mila… La gente è ancora troppa! ...»(7,3-4). Di riduzione in riduzione, il numero scende a 300. «Con questi uomini, io vi libererò e darò Madian nelle tue mani...» (7,7). Se la potenza dell’esercito era un ostacolo, la debolezza umana è ora una condizione favorevole, anzi necessaria, per il buon successo.

    La stessa legge si applica al caso di David, prima alla sua chiamata (1 Sam. 16,1.6.11), poi al combattimento con Golia, quando il giovanetto grida all’avversario: «Tu vieni a me armato di spada, di lancia e di giavellotto, io vengo a te nel nome del Signore, che tu hai sfidato» (1 Sam. 17,45).

    Gli esempi sono innumerevoli. Basta ricordare, nel vangelo, il racconto della vocazione degli Apostoli al tempo della pesca miracolosa: «Abbiamo faticato tutta una notte senza prender nulla» (Lc. 5,5), esclama Pietro. Ebbene, proprio adesso vi trovate nelle condizioni favorevoli di strumenti di Dio. D’ora innanzi sarete «pescatori d’uomini».

    Di fatto, la prima applicazione che, scrivendo ai Corinti, San Paolo fa di questa legge della «potenza di Dio nella debolezza dell’uomo» è proprio alla vocazione stessa dei cristiani: «Quello che per il mondo è debole, Iddio lo scelse per confondere quello che è forte» (1 Cor. 1,27). Dio sceglie gli strumenti umanamente meno capaci o che si credono tali: Gedeone, David, coloro a cui gli uomini non pensavano. Cosi i dodici apostoli: tra i Giudei erano gli ultimi da scegliere per convertire dei compagni che detestavano e dai quali erano detestati! Perciò solo poco a poco riuscirono a capire di essere veramente mandati ai gentili (cfr. le esitazioni di Pietro in Atti 10).

    Ma Paolo, lui, non era forse strumento perfettamente preparato anche sotto il profilo umano? Si. Però dobbiamo prima notare che si riteneva preparato per la conversione dei Giudei, non dei pagani. Lo mostra il fatto accaduto dopo la sua conversione, di cui egli stesso fa confidenza nel discorso ai Giudei di Gerusalemme: «Tornato a Gerusalemme, mentre stavo pregando nel tempio, fui rapito in estasi e vidi il Signore che mi diceva: Affrettati a partire da Gerusalemme, perché essi non riceveranno la tua testimonianza a mio riguardo. E io risposi: Signore, loro stessi sanno che io facevo mettere in prigione e battere con verghe nelle sinagoghe quelli che credevano in te… Ma egli mi replicò: Va’, io ti invierò lontano, alle nazioni» (Atti 22, 17-21). Soprattutto le capacità umane di Paolo furono continuamente ostacolate da queste necessità, angustie, persecuzioni di cui parla cosi spesso. Sembra che egli abbia esperimentato la sua debolezza radicale, la sua impotenza, proprio attraverso questi ostacoli, suscitati sulla sua strada sin dall’inizio (cfr. 2 Cor. 11,24-27): ostacoli «da parte dei Giudei», che impedivano la sua predicazione ai gentili, come abbiamo visto, e che lo faranno arrestare a Gerusalemme; ostacoli, anche, «da parte dei pagani». Ricordiamo il procuratore Felice, che lo tiene due anni in carcere a Cesarea, nella speranza di averne del denaro: «perciò lo mandava spesso a chiamare» (Atti 24,26). Ostacoli, in modo particolare, da parte dei «fratelli», di coloro cioè che avrebbero dovuto aiutarlo. Sono i cristiani di origine giudaica, anzi «predicatori», che accusano Paolo di predicare un cristianesimo edulcorato, infedele alla rivelazione di Dio nell’Antico Testamento.

    Il Signore permise che Paolo incontrasse questi avversari sin dagli inizi del suo ministero, ad Antiochia di Siria, donde deve salire a Gerusalemme per difendersi davanti agli Apostoli (Atti 15,1-2; cfr. Gal. 2,1.12), durante tutta la sua vita fino all’ultima tappa della seconda prigionia romana.

    Così, per esempio, in Galazia è presentato come uno che cerca di piacere agli uomini e perciò annacqua il vangelo autentico, come un apostolo di secondo grado, che non aveva conosciuto il Cristo (Gal. 1,20; 2,6). A Corinto è accusato di dubbio versatilismo, arroganza e superbia (2 Cor. 1; 3,1); e i suoi avversari cristiani hanno talmente staccato la comunità dal suo Apostolo, che, non osando ritornarvi per paura di non essere ricevuto, manda avanti Tito per informarsi della situazione! A Gerusalemmela comunità non accetti la colletta delle chiese della gentilità,  raccolta con tanta cura e tanta fatica: perciò domanda ai Romani di pregare «affinché il soccorso che porta a Gerusalemme sia gradito ai santi» (Rom. 15,31). Ed il timore non era senza fondamento come prova l’accoglienza che riceve dalla comunità secondo la testimonianza stessa degli Atti: «Tu vedi, o fratello, le migliaia di Giudei che hanno creduto, e tutti sono zelanti della legge. Ora, sono venuti a sapere che tu insegni a tutti i Giudei che si trovano in mezzo ai gentili, di separarsi da Mosè, dicendo ad essi di non far circoncidere i loro figli e di non seguire le consuetudini. Che cosa, dunque, fare?» (Atti 21,20-21). Anzi la stessa opposizione lo segue a Roma – se, come si suppone generalmente, la lettera ai Filippesi è stata mandata da Roma: «Alcuni predicano il Vangelo per una certa invidia e per spirito di contesa… spinti da spirito di parte, per motivi non retti, immaginandosi di aggiungere sofferenze alle mie catene» (Fil. 1,15-17). In ogni caso, a Roma i suoi avversari hanno così ben lavorato, che, quando l’Apostolo vi fu per la seconda volta prigioniero, non sembra esser stato assistito quasi da nessuno (3). Basta leggere la commovente 2Tim., scritta, forse, qualche settimana prima del suo martirio e a ragione chiamata «il testamento spirituale di San Paolo»: «Tu sai come tutti quelli che sono dell’Asia mi hanno abbandonato…» (1,15) «Affrettati a venire da me al più presto, perché Demas mi ha abbandonato per amore di questo mondo e se n’è andato a Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Soltanto Luca è con me… Alessandro, il ramaio, mi ha fatto molto male… Guardati anche tu da lui, perché si è opposto molto vivamente alla nostra parola. Nella mia prima difesa nessuno mi ha assistito: che ciò non venga loro imputato! Mi ha però assistito il Signore e mi ha dato forza, affinché la predicazione per mezzo mio fosse compiuta e venisse ascoltata da tutti i gentili; ed io sono stato liberato dalle fauci del leone. Il Signore mi libererà da ogni opera cattiva e mi conserverà per il suo regno celeste. A lui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen!» (4,9-18). teme che

    Mai, forse, nella sua vita l’Apostolo si è sentito così isolato, così solo; mai, forse, ha esperimentato fino a questo punto il senso di debolezza, di impotenza. E il Signore gli permette di offrire, di fronte a tutti i gentili in questo tribunale romano, un’ultima, suprema e solenne testimonianza! Meglio, una penultima testimonianza, perché l’ultima, la suprema, sarà il suo martirio stesso, quando la spada del carnefice lo unirà per sempre al suo Signore (Cfr. Rom. 8, 35). Allora ancora una volta esperimenterà fino a qual punto «la potenza si mostra appieno nella debolezza».

    [1]. Il testo greco ha invece il dativo te sarki senza l’aggettivo possessivo.
    [2].
    V. anche 1 Cor.4,9-13.
    [3]. V. A. PENNA, Le due prigionie romane di San Paolo in «Rivista Biblica» 9 (1961) pp. 193-208 (specie p. 204).

    Per la meditazione…

    a.     L’esperienza di Paolo è anche la mia. Sotto quali aspetti?

    b.     Di fronte alla mia debolezza come mi pongo? Quali sentimenti e reazioni provoca?

    c.      Chiedo al Signore la grazia di guardare alla mia debolezza con i suoi occhi, che mi guardano dalla sua croce.

  • 25 Mar


    Un incontro e una missione

    Es 2,23; 3

    di p. Attilio Franco Fabris


    Finora nella vicenda narrata di Mosè non vi è stata traccia alcuna di una manifestazione divina. Egli ha messo su famiglia, ha una moglie  e due figli, è divenuto pastore delle greggi del suocero.

    Una riflessione su quest’ultimo aspetto: l’essere pastori riveste nel linguaggio biblico un significato simbolico. Dio si autodefinisce “Il pastore” del suo popolo,  “pastori” per partecipazione sono chiamati coloro ai quali il Signore intende affidare l’incarico di guidare il suo popolo, soprattutto i re (2Sm 5,2; Gr 28; Sal 78,70-72; Mt 9,36; Gv 10,11-16; 1Pt 5,2-4;….). Davide stesso sarà “preso dal gregge”. Gesù si autodefinirà come “il buon pastore” e “pastori” saranno chiamati coloro ai quali egli affiderà il compito di “pascere il suo  gregge”. Il fatto che Mosè sia “pastore” già sta già ad indicare il ruolo che JHWH gli affiderà.

    Un fuoco che non consuma

    Stando alla cronologia biblica ha ormai ben ottantanni! E’ pastore da quarantanni (ritorna la scadenza del numero 40! Un tempo compiuto). Come avrà vissuto interiormente in tutti quegli anni Mosè? Avrà probabilmente cercato di rimuovere il ricordo dei suoi fallimenti, avrà cercato in ogni modo di adeguarsi a quella che ormai considerava la realtà definitiva della sua vita, adattandosi a vivere come straniero. In quei lunghi anni e nel silenzio del deserto sarà riandato con un senso di amarezza ai suoi sogni sgretolatisi uno dopo l’altro. Di tutto questo non è rimasto nulla se non forse una lontana nostalgia che lentamente lo consuma: c’è qualcosa nel cuore di Mosè che non si estingue malgrado tutto, qualcosa di indecifrabile, che “non si consuma”. Come una passione quieta e profondissima che non vuole assolutamente svanire. Non fa parte anche questa della nostra esperienza?

    Come ogni buon pastore egli è nomade, sempre alla ricerca di nuovi pascoli nella sterile penisola del Sinai. E in uno di questi spostamenti avrà un appuntamento con Dio che segnerà una nuova e improvvisa svolta decisiva. Questa teofania avviene attraverso il segno di fuoco di un roveto (“seneh”): ma ciò che attira la curiosità del nostro Mosè non è tanto il fuoco quanto il fatto che esso non consuma il roveto! Un Midrash riporta la seguente spiegazione: “Come questo roveto brucia in mezzo al fuoco, eppure non si consuma, così gli Egiziani non potranno distruggere Israele”. In ogni caso il fuoco sta ad indicare la presenza di Dio e nello stesso tempo la sua trascendenza: non lo posso afferrare, ma ne sperimento il calore e la luce.

    La prima cosa che fa Mosè dinanzi a quel roveto che brucia senza consumarsi è meravigliarsi: “rimase stupito” C’è dunque qualcosa in questo Mosè ottantenne che malgrado tutto non è venuto meno: il desiderio e l’apertura a un qualcos’altro.  Egli è ancora capace di  stupore, di un interesse e di una domanda per il nuovo: “Perché?” (cfr Gv 1,35-39). Mosè non capisce e tuttavia ne è attirato: “Voglio avvicinarmi e vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non si consuma?” (3,3). Questo è indice della sapienza. Dice s. Tommaso d’A. nella Summa: “Alla sapienza si oppone la stoltezza, che è di chi non si commuove neppure per ciò che fa stupire, e che consiste nell’ottusità del cuore e del senso; alla sapienza si oppone pure la fatuità, che consiste nella privazione totale del senso spirituale”. Mosè è un uomo sapiente che lascia emergere in sé la domanda.  Ora la capacità di lasciar emergere le domande vere è all’origine di tutto ciò che di profondamente umano, e dunque religioso, sta in noi. Il dramma oggi è spesso lì ottusità di coscienze, che più o meno condizionate, non vogliono o non riescono a far scattare questo momento essenziale.

    Ecco il nostro Mosè titubante e timoroso avvicinarsi al roveto incandescente: in quel momento si sente chiamare per nome nel silenzio di quel deserto e dinanzi a quel fuoco.  Egli non reagisce con la fuga ma con un immediato “Eccomi!”. L’essere chiamato per nome equivale a capire che sono conosciuto da Dio, che il mio destino gli appartiene, e dunque il chiamare per nome equivale a ricevere da lui un mandato: “Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!».” (Gn 22,1). JHWH da sempre conosce per nome Mosè, perché ha trovato grazia ai suoi occhi (“il bambino era bello”) sin dal momento della sua venuta al mondo.

    Questa fiamma diviene sempre più consapevolezza di una presenza. Divina! La Gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. (Es 24,17); “Viene il nostro Dio e non sta in silenzio; davanti a lui un fuoco divorante, intorno a lui si scatena la tempesta (Sal 49,3). Pensiamo allo sconvolgimento di Mosè: “Dunque questa terra è sacra? Questo deserto maledetto luogo di sciacalli e banditi è la casa di Dio? Questo deserto in cui mi sentivo abbandonato da tutti, un fallito nella vita è il luogo in cui Dio mi parla?”. Dio può rivelarsi dunque dove meno ci aspetteremmo di trovarlo e ciò ci impone un atteggiamento di ascolto, di umiltà, di vigilanza. Mosè intuisce così una verità essenziale: non è lui che ha cercato Dio magari all’ombra di qualche santuario, ma è Dio che ha cercato Mosè lì dov’era e quando meno lo aspettava e quel luogo è “terra santa” perché Dio nella sua gratuità vi si manifesta (cfr Gn 28,16-17).

    E la voce di Dio da questo fuoco inestinguibile parla. Ciò che è fondamentale in quest’evento teofanico è proprio la PAROLA che Mosè sente indirizzata a lui. È un incontro con un Dio che gli rivolge una parola! Non è un “qualcosa” ma un “qualcuno” che gli si fa incontro. Questo è importante: Mosè non fa esperienza di un “dio” generico senza volto né nome, sconosciuto. Quel Dio che gli appare è lo stesso di Abramo, dei patriarchi. Il Dio che guida la storia.

    Ci interroghiamo: il “Dio” con il quale mi relaziono è una persona che mi chiama per nome e mi interpella? Lo avverto tale? E come tale mi pongo dinanzi a lui? O è un “dio” che “ha bocca e non parla”, “ha orecchi e non ode”? Un dio-idolo alla fin fine costruito da me e fatto a mia immagine?

    Ascolta quella voce sconosciuta che gli impone: “Non avvicinarti, togliti i sandali dai piedi, perché il luogo dove tu stai è una terra santa”.  L’uomo vorrebbe possedere (pestare con i sandali il terreno significa rivendicarne la proprietà) e padroneggiare tutte le sue esperienze, anche quelle “religiose”, egli vorrebbe inserirle nei suoi schemi già preordinati e precostituiti. Con il Dio che si rivela sul Sinai questo non può funzionare: per Mosè il suo voler vedere il roveto ardente poteva trasformarsi nella tentazione di voler inquadrare Dio nella sua visione di Dio. E’ per questo che la voce gli intima: “Mosè così non va; levati i sandali, perché non si viene a me per incapsularmi nelle proprie idee; non sei tu che devi integrare me nei tuoi schemi, ma sono io che voglio integrare te nel mio progetto”. Al Dio vero ci si avvicina a piedi scalzi, in silenzio, non imponendo il proprio passo, ma lasciando che sia Lui a dirigere il nostro (cfr Is 40.25-26). E’ questo il significato più vero del “timor di Dio” che non è paura ma riconoscimento della grandezza e santità di Dio.

    Mosè in segno di rispetto e adorazione verso il mistero invisibile si toglie i sandali e si vela il volto: Solo più tardi ardirà innalzare a JHWH la richiesta di vedere il suo volto: ma non gli sarà concesso se non il vedere Dio “di spalle”: “Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (Es 33,23). Infatti “nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,20). Sarà la richiesta stessa dell’apostolo Filippo nel cenacolo rivolta a Gesù: “Mostraci il Padre!”. Finalmente la preghiera può essere esaudita pienamente: “Chi vede me vede il Padre!”

    Un Dio che ti accompagna nella storia

    Disse ancora Dio: Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (v. 6): Mosè scopre con stupore immenso che quel Dio che si sta a lui rivolgendo è lo stesso che si è rivelato ai suoi padri in terra di Canaan. Questa parola è rassicurante, perché un uomo che, come Mosè, sa di avere sbagliato tutto, rischia di perdere la “memoria”. Egli è invitato da Dio a riandare alla storia per scoprire che essa è stata il luogo dell’iniziativa di Dio.

    È facendo “memoria” della mia storia che imparo a riconoscere l’intervento di Dio che da sempre mi ha accompagnato. Il mio cammino non è stato mai solitario, anche quando ho intrapreso direzioni sbagliate. Scopro un Dio fedele e paterno che ha saputo, nonostante e meglio servendosi di tutto, portarmi all’incontro con lui.

    Dio continua: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti. Conosco infatti le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese, verso un paese bello e spazioso, dove scorre latte e miele. Ora il grido degli Israeliti è arrivato fino a me ed io stesso ho visto l’oppressione con cui gli egiziani li tormentano”. Dio dunque per primo ha “visto”, ha “udito”, “conosce” le sofferenze del suo popolo. È “sceso per liberarlo ( la traduzione più esatta sarebbe “per strappare” che indica un’azione faticosa e impegnativa, laboriosa, quasi Dio dovesse “faticare” a strappare il suo popolo per ridargli libertà. Ma questa fatica è dovuta alla resistenza dell’uomo non solo del faraone ma del popolo di Israele stesso).

    In certo qual modo è come se dicesse a Mosé: “Finora hai pensato di essere stato solo tu a prenderti cura del mio popolo e di volerlo salvare. Credevi che l’iniziativa fosse anzitutto solo tua con l’illusione di volermi coinvolgere tu in essa. Non hai capito che tutto proveniva da me: adesso comprendi che io vedo, sento, che io provo compassione per il mio popolo.  E se in te vi è la stessa compassione sono io che te la do, se c’è in te il desiderio della libertà, sono ancora io che te la do”. Il primato spetta sempre a Dio e stolto colui che crede di essere lui il protagonista e l’interprete:

    E gli disse: «Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese». (Gn 15,7)

    Ecco il Signore gli stava davanti e disse: «Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza. (Gn 28,13)

    Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questo paese, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che t’ho detto». (Gn 28,15)

    Io sono il Dio di Betel, dove tu hai unto una stele e dove mi hai fatto un voto. Ora alzati, parti da questo paese e torna nella tua patria!». (Gn 31,13)

    Ecco sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine.  (Ap 21,6)

    Ora  va!

    Mosè ha compreso che il suo destino appartiene a Dio. Se un tempo credette di essere lui il protagonista della sua vita e della sua missione, ora gli è stato rivelato che tutto questo appartiene all’Altro. E dunque solo a questo punto Dio dona il mandato a Mosè: Ora va!”. Mosè è scelto da Dio come suo mediatore e collaboratore proprio per quell’opera che tanti e tanti anni prima credeva fosse solo sua: “Ora và! Io ti mando dal faraone; fa uscire il mio popolo dall’Egitto”.

    Ma questo Mosè ora è ben diverso: ha conosciuto la sconfitta, l’esilio, il mistero. È solo un anonimo pastore di greggi e capre in mezzo al deserto, non è più di certo un emergente, un “e-gregio”!  Ha preso coscienza della sua povertà. E per agire nella storia Dio si serve proprio di poveri strumenti umani, come un giorno si servirà dell’umanità povera e vilipesa di Gesù di Nazareth: “Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili.  Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio”. (1Cor 1,27-29). Nel suo discorso Stefano, è stupito da questa iniziativa divina: “Questo Mosè che avevano rinnegato dicendo: Chi ti ha nominato capo e giudice?, proprio lui Dio aveva mandato per esser capo e liberatore, parlando per mezzo dell’angelo che gli era apparso nel roveto” (At 7,35).

    La rivelazione del Signore nella vita di un uomo non lascia spazio ad intimismi inutili: ogni incontro con Dio si trasforma sempre in una chiamata per una missione: Nel passare, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Egli, alzatosi, lo seguì” (Mc 2,14); Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui.  Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni. (Mc 3,13-15).

    Il mio incontro con Dio per essere autentico deve racchiudere sempre una chiamata per un compito, una missione da svolgere nella Chiesa e per il bene del mondo. Se esso dovesse rinchiudersi in se stesso, in una sorta di intimismo individualistico, è ben da sospettare che esso non sia autentico.

  • 24 Mar

    Il grido dell’uomo e l’ascolto di Dio

    Es 2,24-25ss

    di p. attilio franco fabris

    “Gemettero… alzarono grida….Dio ascoltò… si ricordò… guardò… se ne prese pensiero… “ sono una serie di verbi intensissimi per descrivere l’angoscia degli ebrei sotto la vessazione egiziana. Verbi che sono posti ad apertura di sipario per introdurre l’azione potente di Dio in riposta alla loro angoscia: Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio.Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. (Es 2,24-25). Un grido di disperazione che si ripete lungo tutta la scrittura:

    «Nella mia angoscia ho invocato il Signore

    ed egli mi ha esaudito;

    dal profondo degli inferi ho gridato

    e tu hai ascoltato la mia voce (Giona 2,3).

    La sofferenza del popolo ebreo fa sì che da questi si alzi un grido, simile al grido che sale dal sangue versato di Abele ( La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!” Gn 4,10). È lo stesso grido che da ogni ingiustizia e sopruso perpetrato nel mondo si innalza, anche in questo stesso momento, al cielo. Un grido che racchiude sempre una domanda: “Perché?”. Se ho peccato, che cosa ti ho fatto, o custode dell’uomo? Perché m’hai preso a bersaglio e ti son diventato di peso?” (Gb 7,20). È un grido incessante, quasi onde di un mare in tempesta, che attende una risposta di senso, una promessa di liberazione.

    Questo grido degli non si configura tanto come una supplica, un’invocazione che esprime una preghiera, esso è piuttosto un “gemito disperato” che diviene “grido” di dolore per la propria situazione vissuta senza sbocco. Non vi è preghiera. O terra, non coprire il mio sangue e non abbia sosta il mio grido!” (Gb 16,18);  E’ il pianto di Agar e di Ismaele spersi in mezzo al deserto che viene ascoltato da Dio, come il pianto della madre vedova che a Naim sta portando l’unico figlio alla sepoltura.

    Ci interroghiamo: quali e quante grida si innalzano in questo momento dall’angoscia che abita il cuore dell’uomo? Mi sono anch’io trovato a gridare in una sorta di preghiera la mia disperazione? Nella preghiera posso presentare a Dio, farmi voce, di queste “grida” che invocano risposta.

    Questo grido ha la forza di “salire a Dio” (cfr 2,23) di non rimanere inascoltato. Dio “ascolta” la preghiera del suo popolo, del figlio che si è scelto. Il testo afferma che Dio “guardò”: ovvero entra in rapporto, in relazione, prendendosi carico di ciò che “vede” (cfr il “vedere” di Gesù nei vangeli…). Cosicché “se ne prende pensiero” ovvero decide di operare.  Ma quale la ragione perché Dio ascolti e guardi? Essa è racchiusa ancora una volta nel cuore stesso di Dio: è la sua fedeltà alle promesse fatte: “Si ricordò dell’alleanza”. Non nasce dal fatto che Israele sia migliore, che se lo meriti, che sia diverso dagli altri, no! La fedeltà di Dio è l’eternità di un amore che non vuole venire meno a se stesso: si tratta di una dimensione fondamentale dell’amore divino (1Sm 1,20; Ez 16,60; Sal 74,2.18-22; 89,51;…).. “Ricordare” in ebraico significa non solo richiamare alla memoria ma intervenire (1Sm 25,31; Lc 1,54): dire che Dio si ricorda significa affermare che Dio sicuramente interverrà.

    Così, quando Dio distrusse le città della valle, Dio si ricordò di Abramo e fece sfuggire Lot alla catastrofe, mentre distruggeva le città nelle quali Lot aveva abitato. (Gn 19,29)

    Si ricordò della sua alleanza con loro, si mosse a pietà per il suo grande amore. (Sal 105,45)

    L’azione di Dio, nella rivelazione biblica, suppone sempre una situazione in cui l’uomo o il popolo si trovi in un vicolo cieco, senza scappatoie, soluzioni: quando l’uomo sperimenta la sua assoluta incapacità di salvarsi solo allora Dio può intervenire ed essere conosciuto come salvatore. E’ sempre la situazione di “povertà” che fa da substrato all’esperienza di salvezza.

    Notiamo che la liberazione dalla schiavitù egiziana presenta dei connotati ben diversi da quelli sostenuti da alcune moderne “teologie della liberazione”. Quando il Signore decide di visitare il popolo e di prendersi cura della sua umiliazione, gli israeliti gemono sì nella loro condizione, ma non pensano minimamente a lasciare l’Egitto. Essi si sono abituati ad essere schiavi, e non sanno immaginare una condizione differente. Tutt’al più possono aspirare a rendere più sopportabile la loro schiavitù. La libertà che il Signore offre al suo popolo farà paura. E’ il Signore, non il popolo, nemmeno un gruppetto di rivoluzionari, il primo che progetta quella liberazione.

    Dio ascolta il mio grido e guarda alla mia povertà: vivo di questa fiducia che egli non mi abbandonerà? E’ lui che per primo mi stende la mano “ricordandosi” della sua promessa perché è lui che “ci ha amato per primo”.

    Posso pregare il Sal 119.

  • 22 Mar

    Il fallimento del protagonismo di Mosè

    Es 2,11-22

    di p. Attilio Franco Fabris

    Siamo al secondo periodo della vita di Mosè che potremmo definire come “il tempo della generosità e dello scacco”. Diventato adulto (in Atti si afferma anche l’età simbolica: 40 anni!)  Mosé si sente animato da forti sentimenti di solidarietà nei confronti dei “suoi fratelli (2,11).

    Mosè il giustiziere

    Mosè “esce” due volte per “vedere” al fine di prendere atto della condizione dei suoi fratelli ebrei (vv.11.13: saranno i verbi che JHWH applicherà a sé sul Sinai). Egli compie dunque un primissimo “esodo”, un’ “uscita” dalla casa del potente faraone, e in fin dei conti da se stesso, dal suo prestigioso ma piccolo mondo di corte. Scorgiamo in questa decisione un grande impeto di generosità e una grande sete di giustizia. Non è poi così scontato prendere consapevolezza dell’ingiustizia e della schiavitù che ci circonda davanti alla quale rischiamo di passare comodamente accanto senza neppure accorgerci della sua esistenza.

    Effettivamente quel che ha in mente è bello, grande: vuole lottare per la giustizia e la libertà e per questo giunge ad esporsi fino a compromettersi. Questa è la forza degli ideali giovanili! Ha in mente un obiettivo preciso: ricostruire l’unità dei suoi fratelli, farne un popolo libero con una sua dignità. In questo sente di poter rivestire il ruolo di pioniere, del leader.

    Egli notò i lavori pesanti da cui erano oppressi (2,11).  Mosè crede di aver trovato il proprio campo di impegno improntato dai valori della solidarietà. E’ realmente assetato di giustizia come lo saranno i grandi profeti di Israele (cfr Is 5,1-24; Am 2,6-8; 5,10-13; Ez 22,1-16). La sua reazione è decisa, frutto di impetuosità virile, forte, addirittura  violenta. Giunge per essere coerente con i suoi ideali ad uccidere anche un egiziano (2,11).

    Quanti e quali ideali ci hanno spinto all’azione lungo la nostra vita? In quale misura la coerenza ad essi ci ha portato a decisioni e posizioni decise? Quali i risultati?

    Mosè si atteggia per due volte dinanzi all’ingiustizia di cui è spettatore in qualità di giudice. Egli ingenuamente, pensa di risolvere l’ingiustizia con la violenza, con l’eliminazione del cattivo, ma questa violenza non elimina la violenza, il male provocato anzi rende la situazione peggiore di prima perché sovrappone violenza a violenza in una catena infinita. Questa  giustizia di un Mosè che si autonomina giudice e liberatore è ancora chiusa dentro una logica di potere  umano e di forza. Ciò è molto lontano dal modo di vedere di Dio che invita a trovare in lui la sorgente e la forza della giustizia:

    Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui;

    non irritarti per chi ha successo,

    per l’uomo che trama insidie.

    Desisti dall’ira e deponi lo sdegno,

    non irritarti: faresti del male,

    poiché i malvagi saranno sterminati,

    ma chi spera nel Signore possederà la terra.

    (Sal 36,7-9)

    Dinanzi alla sua reazione in una lite tra due ebrei Mosè si sentirà rivolta una dura e risentita: Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di uccidermi come hai ucciso l’egiziano ? (2,14). Ovvero: chi ha legittimato la tua vocazione di salvatore del popolo? Sono proprio i suoi fratelli che rifiutano la generosità del suo intervento perché avvertono che questa sua giustizia non potrà generare veri frutti di liberazione, ma soltanto altre violenze e ingiustizie. E poi questo Mosè che esce, nutrito e rispettato e ben vestito e istruito dalla corte egiziana, in quale modo può essere accolto dai fratelli schiavi ebrei? Egli non ha condiviso la loro sorte, non è sentito dei “propri”.

    C’è però di mezzo un “ma..”: il testo dice: “ma pensava…” (v. 25). Lo schema è semplice: Mosè fa i suoi progetti, elabora dei ragionamenti che presume e pretende si possano calare direttamente nella realtà ed essere da tutti accettati. Che cosa non ha funzionato? Semplicemente il fatto che Mosè non ha esperienza della resistenza e paura dei suoi fratelli dinanzi al progetto della loro libertà, non ci ha pensato perché non rientrava nel suo schema logico. È necessario che Mosè impari a proprie spese che nessun impegno umano, nemmeno il più generoso, può camuffarsi da impegno sacro, assumendo prerogative che competono soltanto alla chiamata che Dio rivolge a chi lui vuole.

    Mosè è certamente generoso, ma egli è forse ancora succube di una visione astratta e intellettualistica della propria chiamata. Egli soprattutto non ha capito una cosa: non basta sentirsi animati da furori rivoluzionari o da idealismi solidaristici per ritenersi depositari di una vocazione da parte di Dio. Finché Dio non chiama, ogni nostro impegno è destinato a sfumare miseramente nell’inefficacia dell’idealismo spesso di breve durata.

    Quanti furori idealistici di libertà, giustizia e coerenza si sono scontrati nella nostra esistenza con il rifiuto e il fallimento? Quanti e quali nostri progetti ritenuti buoni si sono scontrati con un “ma…” che li ha vanificati?

    Un uomo in fuga

    Per i suoi atti di giustizia violenta Mosè si ritrova con una condanna a morte sulle spalle e ricercato dalla polizia (2,15). Se ci si misura con la forza dinanzi alla vita vincerà sicuramente il più forte, il più dotato, e si rimarrà perennemente sconfitti. Mosè ha fatto fiasco con i suoi fratelli ebrei e anche dinanzi al faraone dal quale deve fuggire tagliando tutti i ponti con un mondo aristocratico prestigioso. Ma fa fiasco soprattutto nei confronti di se stesso: ora non è più nessuno: “Fuggì Mosè all’udire questa parola e divenne straniero nella terra di Madian” (v. 29).

    Ritorno ai “fiaschi” della mia vita… esperienza di fallimento e di vuoto, disorientamento perché improvvisamente ci vengono tolti quegli ideali per i quali credevamo di dover spendere la vita. Come li ho vissuti? Cosa hanno provocato nella mia coscienza?

    A Mosè non resta che fuggire. Egli deve conoscere la via della ritirata e del fallimento completo, con le umiliazioni e i silenzi che essa comporta. Prende improvvisamente consapevolezza di non essere che un uomo tra i tanti, senza tutti i suoi privilegi e ideali che sembrano non contare più nulla. La sconfitta lo mette con le spalle al muro riconducendolo a quello che realmente è. Il Mosè forte e coraggioso è scomparso, rimane un uomo in fuga invaso dalla paura.

    Importantissima la sottolineatura del testo: Mosè “divenne straniero” e sappiamo cosa significhi questo nelle culture antiche e non solo: è perdere tutti i propri diritti di uomo.  Teniamo presente che il tema della fuga è ricorrente nella sacra scrittura come situazione in cui dio può “riacciuffare” finalmente l’uomo: essa  è sempre in relazione ad un fallimento, ad un crollo di ideali umani e magari illusoriamente spirituali.
    Caino vagabondo e ramingo sulla terra (Gn 4); Giacobbe  in fuga da Esaù (Gn 27); La fuga di Elia da Getzabele (1Re 9); Giona in fuga da Dio stesso; gli apostoli nel Getsemani. Anche Mosè, uomo in fuga tra i tanti, non sarà altro che un esemplare esponente di quell’umanità sbandata, frastornata e piena di contraddizioni, che nella sua sconfitta è tuttavia disponibile a Dio, a collaborare con lui.

    Dico: «Chi mi darà ali come di colomba,

    per volare e trovare riposo?

    Ecco, errando, fuggirei lontano,

    abiterei nel deserto.

    Riposerei in un luogo di riparo

    dalla furia del vento e dell’uragano» (Sal 54,7-9)

    L’esperienza della “fuga” che può esprimersi in tanti modi fa parte dell’esperienza umana, probabilmente anche la mia. Vi sono state probabilmente situazioni che mi hanno visto in “fuga” dopo una sconfitta, un fallimento… una fuga che forse tuttavia ha permesso di andare incontro alla mia vera identità dalla quale in realtà fuggivo.

    E’ importante riflettere su questo mistero di emarginazione e persecuzione che inaugura la vicenda di Mosè e caratterizzerà la storia stessa di Israele. Qui Mosè troverà realmente e concretamente per esperienza propria e non per sentito dire il filo che lo lega al suo popolo. Questa fuga gli permette di sperimentare non in modo astratto, ma sulla sua pelle, cosa significa essere straniero, perseguitato, emarginato.

    Troppo spesso le nostre azioni, proclami, asserzioni non scaturiscono da una reale condivisione ma semplicemente da nostri costrutti mentali. Tendere la mano all’uomo comporta non elucubrare sulle varie modalità di salvataggio ma la disponibilità a scendere, a sporcarsi, a “toccare” la stessa situazione, a camminare insieme. E’ questo il metodo salvifico scelto da Dio attraverso l’incarnazione: “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato” (Ebr 4,15)

    Un lungo cammino nel deserto

    Questa esperienza di fallimento può avere un duplice sbocco: spingere Mosè a scomparire, a ritirarsi definitivamente dichiarandosi sconfitto, oppure potrebbe permettergli, come effettivamente avverrà, di ritrovare la sua giusta collocazione.  Sempre il momento della crisi pone l’uomo dinanzi ad un bivio in cui è chiamato a scegliere in ordine al suo futuro.

    Per Mosè, fuggito nel deserto, si apre un lungo e necessario tratto di strada caratterizzato dall’ascolto e dall’attesa di cui il deserto è il luogo emblematico e privilegiato. Mosè in qualche modo percorre lui per primo le vicende che saranno del suo popolo: anche Israele dovrà fuggire nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto e per quarantenni imparare a camminare con Dio e sulla sua parola. Per la prima volta vive lui stesso per primo l’esperienza del deserto, della vita nomade, e ritrova con questo le radici del proprio popolo che lo ricollegano con l’esperienza di Abramo e degli altri patriarchi e lo preparano nello stesso a condurvi un giorno Israele.

    Durante questa fuga nel deserto che è luogo di morte Mosè giunge ad un’oasi dove è un pozzo. Il pozzo è ricco di rimandi archetipici importanti: rappresenta la ricerca della profondità del proprio sé, dello scendere per ritrovare le sorgenti della propria “anima”. E’ un tema ricorrente anche nella sacra Scrittura.  Proprio a partire dal “pozzo” nel deserto Mosè inizia a ricostruire la propria vita su nuove dimensioni. “Fuggito dall’Egitto portandosi il vuoto terribile della sconfitta, Mosè sta andando in cerca di se stesso e di qualcosa che gli renda comprensibile il mistero della sua vita. Presso il pozzo Mosè non trova ancora la soluzione della sua ricerca, ma lì la sua fuga si arresta, perché ormai ha capito che in realtà egli sta fuggendo proprio da se stesso e dal suo mistero” (Stancari).

    Presso il pozzo incontra le figlie di Reauel delle quali si erge ancora in un impeto di generosità e questa volta con successo difensore e giustiziere. Da notare come egli è da queste chiamato con l’appellativo di “egiziano” non di ebreo: questo fatto è importante perché spinge Mosè ad una consapevolezza sempre più profonda di sé che lo porta a considerare come l’impostazione data alla sua vita fino a quel momento e il modo di intenderla faceva di lui realmente un “egiziano” (ovvero un “lontano”),  e proprio mentre egli pretendeva di farsi liberatore e interprete dei suoi fratelli ebrei. “L’essere ebreo, un fratello di quel popolo di schiavi appare quasi nella vicenda di Mosè più una conquista che un fatto assodato o garantito dalla generazione” (Spreafico, 30).

    Reuel-Jethro, presso il quale Mosè trova una casa, è pastore e sacerdote: da lui il nostro impara a conoscere il Dio dei suoi padri, El Shaddaj. Si tratta addirittura infatti di una famiglia che sembra discendere da Abramo (Gn 25,2).

    Nella terra di Madian Mosè abita a lungo ( ancora ben “quarant’anni” annotano gli Atti): è un tempo come già detto necessario di purificazione e di ricerca della propria vera identità. Egli ne ha bisogno per spogliarsi (a livello psicologico per strutturare nuovamente una persona occorre molto tempo ed energie talmente è arduo e impegnativo il compito) di tutto ciò che finora aveva fatto di lui un “egiziano”. Il compito che in questi anni si impone a Mosé verte dunque sull’affrontare anzitutto se stesso, la propria coscienza, il proprio passato, i propri errori, le proprie aspirazioni e desideri. Lo chiameremmo quasi un “noviziato”, un tempo di “iniziazione”!

    L’ultimo versetto è interessante: “Mosè si rifugiò in Madian dove ebbe due figli”: cosa c’entra questa annotazione? Mosè aveva infatti sposato nel frattempo Zippora, figlia di Raouel, dalla quale nasce un primo figlio al quale impone il nome di “Gherson” che significa: Sono un emigrato in terra straniera (2,22). Nel nome del figlio l’autore sacro offre una chiave interpretativa della presa di consapevolezza di Mosè circa la sua identità che lo rende vicino all’esperienza dei suoi fratelli ebrei. Probabilmente sta a dire che Mosè si è seduto e ha detto: Basta con le grandi idee e progetti, tutto è finito! Ho diritto anch’io a farmi una vita.  Mosè ha cercato a questo punto, dopo le sue esperienze disastrose, un angolo tranquillo al fine di dimenticare il passato e l’amarezza che lo hanno contrassegnato. Mosè rientra in un ambito di vita “normale”, ha cessato di sognare grandi imprese credendosi protagonista.

    Solo ora, crollato il suo protagonismo, può essere disponibile, su indicazione di Dio,a compiere il cammino inverso.

    La nostra riflessione può vertere sulla considerazione del mio cammino nel deserto, nella mia rinuncia finalmente alla fuga, per ritrovare la mia vera identità senza più illusori protagonismi. Questa esperienza ha toccato la mia vita?

  • 21 Mar

    Mosé: l’uomo scelto da Dio per la salvezza di Israele
    Es 2,1-22

    di p. Attilio Franco Fabris

    La figura di Mosè riveste un’importanza fondamentale nell’ambito della tradizione ebraica e biblica: gli si è  voluto attribuire tutti quei caratteri che servono a ricondurre a lui l’origine dell’intera storia del popolo di Israele: Mosè viene considerato l’autore del pentateuco, il promulgatore della Torah, l’organizzatore del popolo e del culto a JHWH, a lui vengono attribuite le prerogative di guida, di profeta, di sacerdote. Mosè è sicuramente un personaggio storico. Il suo nome suggerisce un rapporto con l’ambiente egiziano, e tutto conferma che abbia avuto un ruolo decisivo nella vicenda dell’uscita dall’Egitto di Israele e che abbia rivestito effettivamente il compito di guida e organizzatore dei gruppi di fuoriusciti ebrei. Il cap. 2 ci parla poi di particolari rapporti intercorsi tra Mosè e il popolo dei madianiti (2,15-22) che abitava la regione settentrionale della penisola del Sinai.

    Non mancano testi in cui Mosè è presentato come una figura fondamentale per la storia e la fede di Israele.

    Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè –

    lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia –

    per tutti i segni e i prodigi che il Signore

    lo aveva mandato a compiere nel paese di Egitto,

    contro il faraone, contro i suoi ministri, contro tutto il suo paese,

    e per mano potente e il terrore grande con cui Mosè

    aveva operato davanti agli occhi di tutto Israele (Dt 34,10-12).

    Profeta in quanto è colui che si fa portavoce di JHWH stesso: profeta straordinario se Dio accorda a Mosè il dono di “parlare con lui faccia a faccia”. Il dono più grande promesso a Israele sarà un nuovo profeta “simile a Mosè”.

    Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto. (Dt 18,15)

    In Mosè si storicizza la strategia salvifica apparsa nella figura leggendaria di Noè, e si ripete la chiamata solitaria di Abramo: a un uomo solo è affidata la liberazione di tutti.

    Il secondo e ultimo Mosè promesso dalla fede cristiana è stato riconosciuto in Cristo: il definitivo liberatore.

    La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo (Gv 1,17)

    Egli è quel Mosè che disse ai figli d’Israele: Dio vi farà sorgere un profeta tra i vostri fratelli, al pari di me. Egli è colui che, mentre erano radunati nel deserto, fu mediatore tra l’angelo che gli parlava sul monte Sinai e i nostri padri; egli ricevette parole di vita da trasmettere a noi. (At 7,37-38)

    La persona e la storia di Mosè, come pure il dono della  Torah donata per mezzo suo, sono ritenute talmente essenziali dalle prime generazioni cristiane per giungere alla fede in Gesù Cristo e per comprendere la sua missione e la sua persona (cfr es. Matteo o Giovanni) , che lungi dal sorvolarle come una semplice “ombra dei beni futuri” meritano di essere amorosamente lette, meditate, pregate e contemplate

    La bellezza di Mosè e l’umorismo di Dio

    La nascita di Mosè accade nel momento in cui la cupa offensiva del faraone si sta scatenando più violenta nei confronti degli schiavi ebrei: Ogni figlio maschio che nascerà agli ebrei lo getterete nel Nilo (1,22).

    Nella fase più buia e drammatica un “uomo della casa di Levi prese in moglie una figlia di Levi” (2,1). Quest’uomo ha il coraggio di opporsi alla drammatica situazione e alla violenza saggia e folle nello stesso tempo del faraone. E’ un coraggio che nasce da una speranza che non vuole venga meno, nonostante tutto egli rimane aperto al futuro. In questo non arrendersi intravvediamo la spinta che scaturisce dall’azione dello Spirito santo nel cuore dell’uomo: un’azione che sollecita l’uomo, anche il più disperato, a rimanere aperto a un “qualcosa” di indefinito, ad un’attesa…di salvezza.

    Dai due nasce una figlia lasciata in vita e poi un figlio destinato ad essere gettato nel Nilo. Ma la madre vide che era bello (tov 2,2) e che doveva perciò essere sottratto al suo mortale destino. Con questo aggettivo non si vuole connotare tanto l’avvenenza o la prestanza fisica del neonato, quanto piuttosto si vuole indicare una fondamentale prerogativa teologica: Mosè è bello come sono buone e belle (tov)  le creature che escono dalle mani di Dio (Gen 1,31). La bellezza del bambino è dunque  segno che Dio sta avviando una nuova opera di creazione. Nelle tenebre fosche stese sulla terra dalla violenza omicida del faraone si apre improvvisamente uno spiraglio di luce.

    Il bambino viene tenuto nascosto per tre mesi tra l’angoscia e la gioia di averlo, ma tenerlo oltre significa la morte per tutti. Che fare? Si impone un gesto doloroso: uno stacco, una perdita sorretta da una fragile speranza. Così la morte e la vita si trovano strettamente intrecciate: per dare vita occorre saper perdere.  Dare vita comporta un saper morire all’altro e per l’altro, rinunciando alla pretesa del possesso, alla logica del trattenere ad ogni costo. Questo nostro modo istintivo di pensare porta in sé il seme della morte.

    Viviamo in un’atmosfera cupa fatta di disperazione, solitudine, violenza: eppure Dio continuamente fa scaturire segni di “bellezza” e di “speranza”. Siamo chiamati a riconoscerli, difenderli, promuoverli.

    Un paraddosale mezzo di salvezza

    L’espediente “folle” e disperato per porre in salvo il bambino è di consegnarlo “stoltamente” proprio alle acque di quel fiume portatrici di morte per tutti gli altri bambini ebrei. E’ la forza coraggiosa della disperazione. Mosè è deposto, debole e inerme,  in una “tebah”, una barchetta di papiro (Notiamo che lo stesso termine è usato solo un’altra volta in riferimento all’imbarcazione costruita su ordine di Dio da parte di Noè: Gn 6,14). Come al tempo di Noè (Gn 6-9) anche ora è in causa la salvezza del futuro popolo di Dio e questa salvezza è nuovamente affidata ad un mezzo fragile, una povera barchetta di papiro accompagnata e sorretta tuttavia dalla potenza della mano di Dio che guida gli eventi e la storia.

    In questa scena vengono ripresi antichi racconti estrabiblici (ad esempio quello che racconta la nascita del re Sargon re di Persia). In queste saghe vengono presentati spesso degli eroi che vengono da bambini affidati nella disperazione inermi e fragili al bosco, al monte o all’acqua perché siano sottratti alla morte violenta. In una lettura antropologica e psicologica si potrebbe dire che occorre che l’eroe per primo sia in qualche modo costretto ad entrare in una situazione di morte, perché solo uscendone vittorioso per virtù e provvidenza divina sarà capace di portare salvezza agli altri. Mosè ha dunque bisogno di “passare” lui per primo, quasi una sorta di iniziazione, attraverso le acque mortali del fiume prima di guidare il suo popolo in mezzo a quegli stessi flutti.

    Tutto si svolge in modo imprevedibile: affidato alle acque del Nilo, scoperto “casualmente” il piccolo susciterà il favore della figlia del faraone (2,3-6). Svezzato (ironia!) proprio dalla madre attraverso uno stratagemma, sarà poi allevato ed educato a corte e considerato come un figlio dalla figlia del faraone (2,7-10).  Il bambino è chiamato dalla figlia del faraone con il nome di “Moshéh”, un nome tipicamente egiziano, ma che tuttavia l’autore biblico vuol far risalire (indebitamente) alla radice del verbo “trarre.. sottrarre…”. Il nome vuole indicare il destino dell’uomo che lo porta: Mosè è il primo ad essere salvato, tratto, sottratto all’acqua dell’Egitto.

    Così il piccolo Mosè “figlio” della figlia del faraone riceve una solida e necessaria (in futuro) istruzione egiziana. Egli non è soltanto allattato a spese della figlia del faraone, non solo entra a far parte della sua famiglia reale adottato come figlio, ma secondo il discorso di Stefano negli Atti degli Apostoli, “venne istruito in tutta la sapienza degli egiziani ed era potente nelle parole e nelle opere” (7,22). È considerevole il fatto che “uno dei personaggi più significativi della religione di Israele sia stato educato non alla sapienza degli ebrei, ma a quella degli egiziani, che di certo nella storia non furono amici di Israele” (Spreafico). Un’idea di fondo soggiace a questo fatto: “il popolo più piccolo, più disprezzato dell’antichità è Israele, ed è per esso che invece che tutti i popoli vivono; non fanno altro che renderlo più ricco, come se fossero ordinati alla sua grandezza, alla sua persistenza; tutti i popoli gli girano intorno, tutti vivono per lui e non lo sanno” (Barsotti). Ogni cosa rientra in un progetto divino: non vi è realtà, per quanto apparentemente esterna e lontana da Dio, che non possa rientrare nel progetto di crescita del suo Regno.

    Sottolineiamo che ancora nella scena intervengono due straordinarie mediazioni deboli, sono due donne: una ebrea e l’altra egiziana.  Sono queste le protagoniste del racconto. Dio si serve realmente di tutto e di tutti!

    Un Dio che si serve di tutto e di tutti

    Si intravvede in tutto questo una sottile nota umoristica sulla modalità con cui Dio porta avanti il suo progetto.  Egli fa sì che il progetto del faraone sia capovolto, anzi la stessa corte del sovrano d’Egitto sarà il luogo in cui il liberatore degli ebrei verrà addestrato e preparato alla sua vocazione.

    Anche le acque del Nilo che dovevano inghiottire tutte le speranze di Israele, divengono strumento di salvezza per Mosè che vivrà così il suo primo attraversamento delle acque.

    Questi interventi divini e nascosti sembrano una spettacolare ironia nei confronti dei potenti della terra che si ritengono protagonisti ultimi delle vicende del mondo. Il messaggio è chiaro: Dio è capace di ribaltare proprio dall’interno le situazioni di male, egli è capace di tramutare gli strumenti di peccato in strumenti di salvezza. Il testo invece ci presenta un Dio che diffonde sulla storia umana i riflessi del suo sorriso, egli ribalta dall’interno le intenzioni malvage dei cuori umani e ne fa strumenti – spesso inconsapevoli – della propria storia di salvezza: “Ha rovesciato i potenti dai troni ha innalzato gli umili” canterà Miriam di Nazaret.  E il salmo 2 contempla il riso di Dio sulla storia:  Se ne ride chi abita i cieli, li schernisce dall’alto il Signore.

    Chiedo al Signore di poter contemplare e aver parte al suo sorriso sulle vicende umane, così ridimensionate alla luce della storia della salvezza. Chiedo la grazia di non spaventarmi dinanzi al rumore del male, ma di sorridere per il germoglio che spunta sempre tra le macerie. Speranza e sorriso sorretti dalla luce della pasqua del crocifisso risorto.

  • 19 Mar

    C’è ancora speranza?

    Gn 11,27-32

    di p. Attilio Franco Fabris


    Il testo di capitale importanza per l’inizio del nostro discorso è Gal 3,18-29.

    Esso è infatti importante in vista dell’evangelizzazione in vista di un recupero del concetto biblico di promessa.

    Il vocabolario dell’evangelizzazione è già infatti presente in modo esplicito (es. deuteroisaia) e implicita già nell’antico testamento.

    La continuità lessicale comporta che vi sia una Buona Notizia già nell’AT. Essa si riassume nella categoria fondamentale della promessa.

    Chi è il destinatario della Buona Notizia? Ovvero qual è il retroterra antropologico (Il kerygma infatti suppone sempre delle premesse antropologiche) che suppone una promessa da parte di Dio?

    Nel NT questo retroterra è costituito da un’antropologia nella quale l’uomo appare condannato alla solitudine: è sordo, cieco, muto.

    Nell’antico testamento qual è questo retroterra?

    Per scoprirlo è fondamentale rifarsi all’esperienza di Abramo: qual è il retroterra della promessa fattagli da parte di Jhwh?

    Questo retroterra lo ritroviamo nei primi undici capitoli del Genesi, e poi in modo più distinto dal v. 24ss.

    Abramo è presentato come l’uomo sul quale il Signore fa terminare la narrazione della creazione. Nel progetto divino l’uomo è stato chiamato a completare l’opera della creazione, e per far ciò il Signore lo aveva ricolmato della sua benedizione (cfr 1,28).

    La risposta dell’uomo a questa vocazione e collocazione è stata da lui rifiutata. Nel mondo perciò si assiste ad una crescita e sviluppo di male: Adamo ed Eva (3,1-19); Caino e Abele (4,3-15); la discendenza di Caino (4,16-24); Lamec (4,23-24); corruzione degli esseri celesti (6,1-7); Cam (9,22-25); la torre di Babele (11,1-9). Questo il frutto del rifiuto della benedizione di Dio.

    In Gn 11,27ss la situazione è analoga anche se apparentemente meno drammatica. Tuttavia anch’essa appare senza via di uscita. E’ una umanità chiusa in se stessa, senza futuro e dunque senza speranza, in cui ciascuno tenta di salvare se stesso.

    Aran il figlio più giovane di Terach muore prima del padre, realtà già “scandalosa” che segna drammaticamente con una morte prematura il dominio del male, lasciando però una discendenza: Lot.

    Abram il primogenito di Terach si sposa con Sarai; egli è il primo destinatario della continuità del clan patriarcale. Il futuro del clan è legato a lui. Ma la sterilità incombe: morire è non avere figli, ovvero non poter dare continuità alla vita. Ed è la morte non solo di Abram , di Sarai, di Terach ma di tutti.

    A Terach non rimane che Lot: il futuro del clan non può essere riposto che in lui  a meno che…

    • Abram ripudi Sarai
    • Sarai accetti il servizio della schiava
    • Abram rinunci alla primogenitura
    • Terach prenda una decisione per il bene di tutti.

    Ma niente di questo accade.

    La storia ci dice che da parte di nessuno di questi  vi è la volontà di uscire da un circolo vizioso. Vi è una incapacità di assumersi le proprie responsabilità ponendo al primo posto la missione per il bene comune. Nessuno è capace di “perdersi” per il bene comune.

    Il porre prima il bene comune e poi il mio interesse si chiama gratuità.

    La via dunque appare chiara. Ma riscontriamo paure, tergiversazioni, compromessi, scarichi di responsabilità, parole senza fine per non arrivare a nulla…

    Nessuno dei tre possiede una gratuità disponibile al bene comune. E’ un circolo vizioso che conduce a quella sterilità di fondo da parte di tutti che è la mancanza di gratuità.

    Perché? Quali dinamiche impediscono queste soluzioni?…

    Terac e la famiglia escono da Ur per dirigersi a Canaan. Ma anche questo progetto è destinato a spegnersi. Terac e il suo clan si fermeranno a Carran.

    Terach muore: come?

    Tutte le sue attese sono deluse. Si sente sconfitto nella speranza

    Deluso da Abramo che non ripudia Sarai Deluso di se stesso perché incapace di aver optato per le scelte adatte al bene del clan. Al momento giusto non ha avuto il coraggio di fare quello che sentiva di dover fare. Forse cercava il consenso, per cui demandava, attendeva.

    Sentendo tutto questo come maledizione da parte degli dei.

    Come Abramo vive la sua situazione?

    Abramo vive con un profondo senso di colpa nei confronti del padre e del clan, è un capo di nome ma non di fatto. Sarà un capo migliore di Terach?

    Date le premesse si direbbe di no: il futuro del clan è lasciato al gioco delle convenienze. Il clan ha coscienza di essere un popolo senza speranza, incapace di costruire il suo futuro.

    Questa sterilità è di tutti: ed è l’incapacità di perdersi per gli altri. .

    Ancora: quale sarà stata l’esperienza religiosa di Abramo prima di questa Parola? Sarà stata forse caratterizzata dall’esperienza religiosa della contemplazione del creato, dell’ascolto della propria coscienza, dell’indagine dell’intelligenza, da un deposito culturale legato alla sua tradizione. Un Dio legato alla ciclicità della natura, alle stelle che non riserva sorprese.

    Potremmo dire che nei vv. 11,27-32 sono racchiusi tutti i presupposti dell’antropologia veterotestamentaria e della promessa.

    1.      La realizzazione dell’uomo è il suo futuro. Ciò che dà senso alla vita è la speranza, l’attesa.

    2.      Questa tensione viene tranciata dall’inevitabile confronto con la morte. La proiezione verso il futuro è stroncata drammaticamente

    3.      Il futuro dell’uomo sta nel generare la vita. Il futuro, la continuità,  si realizza nel generare la vita .

    4.      L’amore umano non è capace di garantire all’uomo questo futuro. Giacché non basta generare figli. Terach, Abramo e Sarai esprimono questa incapacità dell’uomo e dell’amore di farsi carico del futuro non solo proprio ma di tutti.

    A questo assunto si può giungere solo attraverso una presa di coscienza e di ascolto, non basta l’enunciazione (che viene il più delle volte rifiutata!).

    L’uomo è libero di decidere totalmente della sua vita nella gratuità? L’esperienza dice di no.

    A questo punto occorre invitarci all’ascolto della nostra coscienza per scoprire nella mia esperienza questo retroterra antropologico. Non si può infatti presumere una coscienza di fede che prescinda da una seria coscienza antropologica.

    La presunta “fede” non deve portare a dribblare la coscienza che deve portare a porci dinanzi alle autentiche problematiche che attraversano il cuore dell’uomo e la sua esistenza. Una fede che prescindesse da tale retroterra sarebbe una fede teista, impermeabile alla promessa e alla sua verifica.

    La preistoria dell’umanità (Gn 1-11) termina dunque in un vicolo cieco. Logico allora domandarsi al termine di questa presentazione: Ma per l’umanità c’è ancora speranza? A questa domanda risponde il racconto della vocazione di Abramo.

    Dio non può abbandonare l’umanità in una situazione di morte: lui l’ha creata e voluta per la vita. Egli vuole in un certo senso ripartire da capo, con una nuova creazione.

    Per far questo ha bisogno di un uomo e di una donna. Un uomo concreto al quale riproporre il suo progetto di benedizione, costituito dalle sue promesse.

    E’ scelto un uomo umile e oscuro, un pastore arameo, un beduino che vive in Mesopotamia nel XVIII sec. a.C. Non è scelto un re forte, un impero potente, un sapiente o un veggente. Sono le stranezze delle scelte di Dio! “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i forti e ridurre al nulla le cose che sono” dice Paolo.

    Un uomo che sperimenti a nome di tutti la fedeltà e la gratuità delle promesse di Dio. Egli è scelto perciò a nome e a beneficio di tutti noi. Ha un compito da svolgere, un servizio da adempiere, essere strumento della continuazione-riinizio della creazione come “storia di salvezza“.

    – Abramo come è la tua vita prima dell’incontro con la Parola? Come vivi la tua situazione … gli anni passano, sei senza figli, hai mancato di responsabilità nei confronti del tuo clan… Probabilmente vivi male dentro di te anche se non ti manca nulla. Quante volte ti sarai detto: “Ma qui cosa ci faccio? Che senso ha la mia vita?”… provo a far risuonare in me queste risonanze.

    –         Speranza nel futuro assicurato dalla vita: un’esperienza che nella vicenda di Abramo e del suo clan viene meno: è una situazione che si riaggancia a tanti aspetti della nostra vita e della nostra situazione culturale. Siamo anche noi in un circolo vizioso? C’è bisogno di un “Abramo” per riiniziare?

  • 18 Mar

    Una storia che continua

    Gn 24,1-25,11


    di p. attilio Franco Fabris


    Siamo giunti quasi al termine del ciclo della storia di Abramo.

    Contro ogni speranza umana, Abramo, ha visto la discendenza nel figlio Isacco, anche se non vede la moltitudine che Dio gli ha promesso. Un segno fragile: questo figlio vivrà, sarà forte, avrà la gioia di generare? Abramo muore possedendo solo due piccoli appezzamenti di terreno, lui al quale Dio ha promesso tutto il paese. Ha potuto constatare più d’una volta d’essere benedizione per coloro che l’hanno accolto, ma ha anche sperimentato il suo limite nell’incapacità di assicurare salvezza per Sodoma.

    Egli ha sperimentato sì il Dio della promessa anche se la realizzazione di queste è risultata parziale. Ciò è dovuto proprio alla pedagogia del Dio della promessa il quale vuole abilitare l’uomo ad aprirsi ad una fiducia e ad una speranza sempre più grandi, una spinta che un giorno sarà capace di scavalcare il limite tragico della morte.

    Il matrimonio di Isacco con Rebecca

    Abramo vuole trovare una moglie per Isacco, senza la quale non ci sarà ulteriore discendenza.

    Il testo sottolinea l’importanza di trovare una moglie ideale per il figlio della promessa.

    “Abramo era vecchio, avanzato negli anni”: una formula che introduce le ultime azioni e parole di un personaggio importante.

    Egli ricorre ai servigi di un servo fedele, uomo saggio e di esperienza: si tratta forse ancora di Eliezer? Dal risultato della missione dipende la continuazione o il fallimento di tutte le promesse.

    Abramo chiede un giuramento solenne al servo: e quest’atto sottolinea l’importanza della missione. Il contatto con le parti genitali, sede della vita, imprime una forza particolare al giuramento, vi è forse un richiamo alla circoncisione e quindi un riferimento indiretto all’alleanza di Jhwh.

    Egli non dovrà prendere una moglie “tra le figlie dei cananei, in mezzo ai quali io abito”. La cercherà invece “al mio paese tra la mia parentela”.

    Abramo non chiede di trovare la moglie nella casa di suo padre, tuttavia accadrà proprio questo: la moglie sarà del suo stesso sangue. La discendenza sarà così armoniosamente configurata.

    Il servo obietta la possibilità di un fallimento: la moglie potrebbe non accettare di trasferirsi. Che fare allora? Dovrà condurre Isacco alla terra di origine da cui Abramo era partito? Si tratterebbe di un ritorno al punto di partenza: tutto il cammino di Abramo sarebbe allora stato inutile. Per la promessa della discendenza occorrerà forse sacrificare la promessa del paese?

    Abramo si troverebbe perciò a dover scegliere; ma lui non entra nella questione. La sua risposta è categorica ed è una proibizione assoluta: “Guardati dal ricondurre colà il mio figliolo”, e qui ripete

    parola per parola la promessa di Jhwh: “Il Signore mi ha parlato alla tua discendenza darò questo paese”. Ciò che Dio ha dimostrato vero nel passato lo sarà anche per il futuro: Abramo è sicuro dell’assistenza di Dio in questo nuovo passo da fare: “Egli stesso manderà il suo angelo davanti a te, cosicché tu possa prendere di là una moglie per il mio figliolo”.

    La storia cominciata non può essere un ritorno ma un cammino sempre in avanti.

    E’ sorprendente il cammino di maturazione nella fede compiuto da Abramo: egli  non ricorre più a strategie umane per risolvere i problemi come in precedenza aveva fatto, sa che il Signore è fedele alla parola. Non si sente più costretto ad agire in base alla paura e all’ansia della vita: è un uomo che si è affidato totalmente alla parola.

    La missione del servo riesce pienamente, e al di là delle prospettive: addirittura la moglie è della parentela di Abramo.

    Il cammino iniziato con Abramo può proseguire ed aprirsi a nuovi orizzonti: è il rilancio della promessa.

    Nuovo matrimonio di Abramo: vv. 25,1-6

    Abramo si risposa: la nuova moglie si chiama Chetura. Gli nasceranno nuovi figli, ben sei: la promessa dunque opera ancora! Abramo è ancora capace di generare.

    Da questi figli nasceranno dieci nipoti: sono i capostipiti di popoli dell’Arabia.

    L’eredità: vv. 5-6

    “Abramo diede tutti i suoi beni a Isacco”. E’ lui il figlio della promessa al quale è dato “tutto”. Agli altri figli Abramo “diede loro doni”, partecipano ovvero ai beni di Abramo.

    Al termine della sua vita Abramo è circondato da figli e nipoti: è divenuto padre di una moltitudine

    La morte di Abramo: vv. 7-11

    Abramo muore all’età di “centosettanatacinque anni”. E’ partito da Carram che ne aveva 75. Il cammino di Abramo con Jhwh è dunque durato cento anni.

    Il figlio Isacco è nato quando Abramo è centenario. Ha assistito al quindicesimo compleanno dei suoi nipoti (25,26).

    “Morì dopo una felice vecchiaia, vecchio e sazio di giorni e fu riunito ai suoi antenati”.

    Isacco e Ismaele si ritrovano per seppellire il loro padre nella caverna di Macpela. Isacco è nominato per primo anche se Ismaele è più anziano di lui: perché è lui il figlio della promessa.

    Conclusione

    “Dopo la morte di Abramo Dio benedisse il figlio di lui Isacco”.

    La storia prosegue sotto la benedizione di Jhwh che dal padre passa al figlio. Il Signore è fedele alle sue promesse, non le ritirerà mai più.

    Ora, dopo Abramo, tocca a Isacco iniziare il suo cammino sotto la guida di Dio.

    La storia della salvezza è avviata: e in questa storia il Signore si rivelerà come il Signore della vita e della benedizione. Vita e benedizione che spesso a causa della diffidenza e sfiducia dell’uomo non saranno accolte. Ma la pedagogia di Dio è sapiente egli saprà educare con somma pazienza l’uomo alla fiducia, proprio come ha fatto con Abramo.

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