• 25 Apr

    Una nuova Alleanza infrangibile

    la legge scritta nel cuore:

    Gr 31, 31-34


    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Messaggio centrale

    L’amore di Dio non opera solo un perdono nei confronti dell’uomo peccatore lasciandolo tale e quale ma promette una vera e propria ricreazione del suo stesso cuore.

    Geremia pronuncia questo oracolo al tempo del re Giosia, re esemplare per la sua rettitudine e fede. Era nipote del re Manasse il cui regno fu invece tra i più tragici in Israele, segnato da una grande corruzione religiosa e decadenza morale.

    Quando Giosia sale al trono è solo un bimbetto di otto anni, ma provvidenzialmente cresce ed è educato nel migliore dei modi: appena è in grado di governare egli mette tutto il suo impegno nell’attuare una delle più grandi riforme religiose, politiche e sociali che la storia di Israele ricordi. È evidente che un regno di tal sorta faccia rinascere grandi speranze al disfatto popolo di Israele. Geremia naturalmente approva le riforme del giovane sovrano.

    E’ a questi anni che risalgono i cosiddetti “Oracoli di consolazione” (cc 31-33) ai quali appartiene il brano che mediteremo.

    Al popolo che per lunghi anni ha sopportato grandi ingiustizie e decadenza religiosa e morale Geremia rivolge un invito colmo di speranza:

    Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritorneranno dal paese nemico (Gr 31,16).

    E’ la buona notizia dell’imminente ritorno degli israeliti che furono deportati a Ninive dagli Assiri nel 722. Dio dunque non si è dimenticato di Israele, gli ridona speranza e futuro.

    Ascoltiamo ora un brano che rappresenta uno dei punti cardini, se non il centrale, di tutto il ministero profetico di Geremia:

    «Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore.(31,31-32)

    Dio denuncia il peccato commesso da Israele che gli ha attirato solo distruzione e morte, esso costituisce il tradimento dell’Alleanza “che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore”.

    Dobbiamo riandare per capire quest’espressione all’esodo, immediatamente dopo l’uscita dall’Egitto, quando JHWH “prendendo per mano il suo popolo lo conduce al Sinai dove conclude con esso una solenne Alleanza (Es 24). Questa Alleanza consiste essenzialmente in una promessa da parte di Dio di comunione, condivisione di vita e protezione: “Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo” (cfr Gr 11,14). La risposta di Israele è immediata ed entusiasta.

    Ma la storia successiva fu un susseguirsi di tradimenti, dimenticanze, di “prostituzioni” ad altre divinità. Israele dimostra una costante e radicale incapacità di obbedienza alla Parola e quindi di fedeltà all’Alleanza del Sinai:

    Ma essi non ascoltarono né prestarono orecchio; ognuno seguì la caparbietà del suo cuore malvagio” (11,8).

    Dio se ne lamenta attraverso le labbra di Geremia:

    il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l’acqua” (Gr 2,13).

    Si ripropone perciò il dilemma presentato già da Isaia e Osea: che farà il Signore dinanzi all’irrimediabile tradimento della sua Alleanza? Abbandonerà il suo popolo per sempre oppure gli offrirà una nuova e insperata opportunità? Umanamente la risposta sarebbe solo  di condanna definitiva: ad un male radicale non vi può essere alcuna prospettiva di salvezza!

    A questo punto il ruolo del profeta è essenziale. Dalle labbra di Geremia scaturisce ancora una volta una Buona Notizia insperata: Dio farà una “nuova alleanzaNon come l’alleanza che egli ha conclusa con i nostri padri”. Ma in che consisterà questa “nuova alleanza”? In che cosa sarà nuova e diversa? Ascoltiamo:

    Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato (vv. 33-34)

    Sul monte Sinai Dio aveva “scritto” le “dieci parole” sulla pietra: ma queste “leggi” esterne non avevano in sé la forza per spingere-convincere il cuore dell’uomo. L’obbedienza alla “Legge” pur giusta e santissima è risultata disastrosa. Paolo apostolo leggerà quest’esperienza fallimentare nell’ottica della pedagogia di Dio il quale in tal modo “convince” il cuore dell’uomo ad aprirsi ad una giustizia diversa non più fondata sulle opere della Legge ma sulla fiducia accordata all’amore di Dio: “Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato” (Rm 3,20) e ancora: “Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!” (Rm 11,32).

    E’ per tal motivo che risulta indispensabile una nuova alleanza nella quale all’uomo sia data la possibilità di sperimentare la comunione e l’amicizia con Dio impossibile da raggiungere attraverso le “opere della legge. La diversità della nuova Alleanza non sta nei contenuti ma nel fatto che essa non sarà più “scritta” su tavole di pietra ma direttamente nel cuore dell’uomo: “Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore”. La nuova legge non è più “catapultata” sull’uomo dall’esterno come un insieme di precetti, divieti, ingiunzioni, ma inscritta da Dio stesso nel cuore consisterà essenzialmente in un “dinamismo interiore”, in una spinta interiore. Comprendiamo il significato della promessa di JHWH: “Darò loro un cuore capace di essermi fedele” (24,7; cfr Ez 36,26). A questo punto tutte le norme, i comandi, i divieti e le ingiunzioni diverranno in un certo senso superflui perché  “tutti mi conosceranno più piccolo al più grande.

    Per mettere in atto questa “nuova alleanza” la condizione essenziale è anzitutto un perdono incondizionato da parte di Dio e non qualche merito particolare acquisito dall’uomo: “poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato”. La forma verbale è all’imperfetto: si tratta di un’azione continuata, protratta nel tempo il che sta a dire come l’uomo avrà bisogno di essere sempre perdonato.

    Ma come e quando tutto questo avverrà? Ciò che è prospettato non è forse solo un ideale stupendo ma irrealizzabile? Chi di noi può dire di aver sperimentato in pienezza questo “cuore nuovo” che gli permette di entrare con docilità nella “nuova alleanza” con una fiducia e obbedienza spontanea e gioiosa? L’esperienza ci dice infatti che il più delle volte avvertiamo ancora la “Legge divina” come un peso “di pietra” che ci schiaccia e ci rende ribelli. Ci può venir incontro la parola illuminante dell’apostolo Giovanni:

    Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui e non può peccare perché è nato da Dio” (1Gv 3,9).

    La “nuova alleanza”, che è il kerygma della morte e resurrezione di Gesù, è posta nel cuore di ciascuno di noi come un “germe divino” nel momento del nostro battesimo che ci fatto “nascere da Dio” rendendoci figli. È lo Spirito che opera la semina nel cuore di questo germe, ma la sua crescita, che corrisponde a una progressiva iscrizione della Parola-Legge nel nostro cuore  non si opera in un momento. Essa esige un processo lungo e faticoso, un cammino progressivo di apertura e docilità all’ascolto e accoglienza della Parola la quale deve vincere in noi mille resistenze, ribellioni e paure. Nella Chiesa questo cammino si chiama “catecumenato”.

    Per il discepolo c’è una certezza: nel momento stesso nel quale l’uomo si pone nel cammino dell’ascolto della Parola il cambiamento  del cuore diviene un processo inarrestabile: è un seme, un “germe divino” che innesca la crescita nel cuore della “nuova alleanza”.

    Diceva: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga (Mc 4,26-28).

    Per la riflessione

    La Legge  che lo Spirito vuole scrivere, col sangue di Cristo, nel nostro cuore è la legge dell’amore,  che scaturisce dalla buona notizia della morte del Signore Gesù. La pedagogia di Dio a tale scopo offre la sua Parola, il memoriale della nuova alleanza stipulata nel sangue di Cristo sulla croce e sempre ripresentata nell’Eucaristia, l’esperienza di un cuore sempre nuovo rinnovato nel sacramento della riconciliazione…

    Preghiera conclusiva

    Noi ti lodiamo, Padre santo, per la tua grandezza:

    tu hai fatto ogni cosa con sapienza e amore.

    A tua immagine hai formato l’uomo,

    alle sue mani operose hai affidato l’universo

    perché nell’obbedienza a te, suo creatore,

    esercitasse il dominio su tutto il creato.

    E quando, per la disobbedienza,

    l’uomo perse la tua amicizia,

    tu non l’hai abbandonato in potere della morte,

    ma nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro,

    perché coloro che ti cercano ti possano trovare.

    Molte volte hai offerto agli uomini la tua alleanza,

    e per mezzo dei profeti

    hai insegnato a sperare nella salvezza.

    Padre santo, hai tanto amato il mondo

    Da mandare a noi, nella pienezza dei tempi,

    il tuo unico Figlio come salvatore.

    Egli si è fatto uomo per opera dello Spirito santo

    Ed è nato dalla Vergine Maria:

    ha condiviso in tutto, eccetto il peccato,

    la nostra condizione umana.

    Ai poveri annunziò il vangelo di salvezza,

    la libertà ai prigionieri, agli afflitti la gioia.

    Per attuare il tuo disegno di redenzione

    Si consegnò volontariamente alla morte,

    e risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita.

    E perché non viviamo più per noi stessi

    ma per lui che è morto e risorto per noi,

    ha mandato, o Padre, lo Spirito santo,

    primo dono ai credenti,

    a perfezionare la sua opera nel mondo

    e compiere ogni santificazione. (Dalla Liturgia)

  • 24 Apr

    Amore che mai s’arrende

    Un’infedeltà scandalosamente perdonata:

    Osea 11,7-9;14,2-9

     

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Messaggio centrale

    L’ultima parola sulla storia non sarà quella dell’uomo contrassegnata da ripetute infedeltà.  Essa sarà unicamente quella di Dio il quale, nella sua gratuità, rimane instancabilmente fedele alla sua Promessa di Alleanza con l’uomo.

    Dinanzi all’insistente infedeltà da parte dell’uomo, Dio risponde “scandalosamente” stendendo sempre per primo la mano e offrendo la riconciliazione. Questa rivelazione viene ci viene data attraverso il ministero profetico di Osea.

    Osea si è sposato su indicazione di Dio stesso (cfr 3,1) con Ghomer, una prostituta molto attraente e leggera, la quale forte del suo fascino non esita, anche dopo il suo matrimonio, a concedere i suoi favori ai suoi innumerevoli amanti. Questa donna infine non trova di meglio che abbandonare il povero marito Osea dandosi nuovamente alla sua attività precedente.  Osea rimane solo, abbandonato, umiliato nella sua dignità di uomo e di marito.

    Al suo dramma di uomo si aggiunge, per lui, anche il dramma del profeta: Dio tace. Passano gli anni e anche l’affascinante Gomer invecchia, la sua bellezza decade, i suoi successi amorosi iniziano a declinare. Ella inizia a ripensare agli anni trascorsi con il marito Osea (cfr 2,9) e a valutare la prospettiva di un ritorno a lui; pensa tra sé: “Ritornerò al mio marito di prima  perché ero più felice di ora (cfr Lc 15,18). Così decide di riprendere i contatti col suo vecchio marito.  Osea è nel contempo contento e turbato: esitante tra un amore che sussiste ancora e un amore offeso e ferito. E’ proprio in questa situazione che Dio finalmente gli rivolge la sua parola:  la richiesta del Signore è sconcertante: “Riprendi Gomer con te e amala nuovamente!”. Il che sta a significare in altre parole: “Vedi Osea se mi si dimentica quando tutto va bene e non ci si ricorda di me che nei momenti difficili, credi tu che io possa accettare questo? Credi che io non ne soffra? Eppure guarda: ogni volta io riaccolgo il mio popolo: Dunque anche tu Osea, abbi il coraggio di riprendere con te la tua donna, proprio quella che ti ha tradito! Questo sarà un segno per Israele del mio amore che rimane fedele nonostante le sue ripetute infedeltà e abbandoni”.

    Il testo che ora ascolteremo ci presentano delle parole, pronunciate da Dio, che aprono uno spiraglio preziosissimo nel mistero insondabile sul suo cuore: in esse risuona una sbalorditiva e appassionata dichiarazione d’amore per il “suo” popolo, un amore che giunge a lasciarsi ferire e uccidere pur di non venir mai meno alla promessa:

    Il mio popolo è duro a convertirsi:

    chiamato a guardare in alto

    nessuno sa sollevare lo sguardo.

    Come potrei abbandonarti, Efraim,

    come consegnarti ad altri, Israele?

    Come potrei trattarti al pari di Admà,

    ridurti allo stato di Zeboìm?

    Il mio cuore si commuove dentro di me,

    il mio intimo freme di compassione.

    Non darò sfogo all’ardore della mia ira,

    non tornerò a distruggere Efraim,

    perché sono Dio e non uomo;

    sono il Santo in mezzo a te

    e non verrò nella mia ira. (11,7-9)

    Di fronte al tradimento dell’alleanza da parte dell’uomo la sentenza di condanna sarebbe di per sé già inappellabile. Eppure al tradimento Dio non risponde con la vendetta ma con una sconcertante disponibilità ad offrire un perdono incondizionato di cui lui solo è protagonista. Un uomo o una donna cederebbero naturalmente alla collera dinanzi ad un tradimento ripetuto della persona amata appassionatamente; eppure Dio reagisce in modo diverso: “Non sfogherò – come sarebbe “normale” umanamente – il bollore della mia ira”.

    Israele allontanatosi da Dio “prostituendosi” ad altre divinità si ritrova  ora in una situazione di fallimento: le false speranze e attese riposte altrove si sono rivelate illusorie e inconsistenti. La reazione di Dio lascia allibiti: “Come abbandonarti?….Come?”: egli si rivolge al suo popolo in termini di tenerezza e dolcezza misti a dolore. Egli non può distruggere ( come fece con le città di Zeboim e Adma: cfr. Gn 19,25) ciò che con tanto amore ha creato e amorosamente fatto crescere; non lo può fare perché il suo cuore “si commuove” cosicché l’amore prevale sulla punizione: “Il mio intimo freme di compassione”. Questo intimo sono le viscere materne  di Dio, quelle stesse a cui i vangeli faranno riferimento parlando della compassione di Gesù per l’umanità ferita che lo circonda (cfr Mc 1,41; Mt 9,36).

    Sorge spontanea la domanda: tutto questo perché? Infatti Israele non ha alcun “merito” da rivendicare presso Dio. Il motivo dell’intervento salvifico  di Dio sta unicamente nella sua “santità”: “Perché sono Dio e non uomo, sono il Santo in mezzo a te”. Affermare la “triplice santità” di Dio è affermare la sua essenziale diversità dall’uomo, e questa si rivela eminentemente nell’amore a fondo perduto, incondizionato e gratuito che è unicamente suo. Paolo apostolo un giorno ribadirà questa certezza nella fedeltà dell’amore del Padre: se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso (2Tm 2,13).

    A questo punto Osea può rivolgere il suo accorato invito al popolo perché abbandoni le strade che lo conducono lontano dal suo Signore e sposo, ritorni a JHWH che da sempre lo ha amato e perdonato:

    Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio,

    poiché hai inciampato nella tua iniquità.

    Preparate le parole da dire

    e tornate al Signore;

    ditegli: «Togli ogni iniquità:

    accetta ciò che è bene

    e ti offriremo il frutto delle nostre labbra.

    Assur non ci salverà,

    non cavalcheremo più su cavalli,

    né chiameremo più dio nostro

    l’opera delle nostre mani,

    poiché presso di te l’orfano trova misericordia»

    (14,1-4)

    Ritornare” è il verbo tipico della conversione; si tratta di un volgersi indietro prendendo atto di aver smarrito la strada: “Tu ritorna al tuo Dio, osserva la bontà e la giustizia e nel tuo Dio poni la tua speranza, sempre” (12,7).  Il tornare a Dio implica evidentemente un riconoscere il proprio errore attraverso un pentimento sincero che fuoriesca non solo delle labbra bensì del cuore: “Preparate le parole da dire” (cfr Lc 15,18).  In questo cammino interiore di “ritorno” non saranno sufficienti solo alcuni atti di culto esterni che non intaccano la durezza del cuore: “Sia il tuo sacrificio a Dio la confessione del tuo peccato… confessare il peccato è il sacrificio che mi onora” (Sal 50,14.23; cfr Is 1,11).

    Dopo tale invito generale Osea porta alcuni esempi concreti di questi atti di pentimento: anzitutto il rifiuto di ricercare sicurezze all’infuori di Dio: “Assur non ci salverà, non cavalcheremo più cavalli”. Soprattutto Israele dovrà riconoscere la stoltezza e l’abominio del suo essersi prostituito facendosi schiavo di altri dei: “non chiameremo più Dio nostro l’opera delle nostre mani”.

    A questa umile confessione di pentimento e ai seri propositi di emendamento risponde ora Dio sempre  per bocca del profeta:

    Io li guarirò dalla loro infedeltà,

    li amerò di vero cuore,

    poiché la mia ira si è allontanata da loro.

    Sarò come rugiada per Israele;

    esso fiorirà come un giglio

    e metterà radici come un albero del Libano,

    si spanderanno i suoi germogli

    e avrà la bellezza dell’olivo

    e la fragranza del Libano.

    Ritorneranno a sedersi alla mia ombra,

    faranno rivivere il grano, coltiveranno le vigne,

    famose come il vino del Libano (14,5-8).

    Israele ha portato dinanzi al Signore l’unico frutto che poteva offrire: l’umile confessione della propria infedeltà che è malattia incurabile  causata da una insanabile durezza di orecchio e di cuore resi incapaci di ascolto della Parola e di affidamento alla Promessa. Da questa malattia si può essere tuttavia guariti solo dalla mano di Dio: “Io li guarirò dalla loro infedeltà”, e questa azione “terapeutica” è frutto di un amore che prende da se stesso l’iniziativa: “li amerò di vero cuore”.

    E’ un amore straordinario quello di Dio, capace di ricreare una nuova vita (si parla di: “rugiada… fiorire… mettere radici… germogli….”). La sposa infedele sentendosi amata, senza alcun suo merito, di un amore eterno può ora ravveduta riposare tranquilla all’ombra dello sposo. La festa può aver inizio (cfr Lc 15,23):

    Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (Os 2,21-22).

    Per la riflessione

    Osea ci annuncia un Dio appassionato e pazzamente innamorato della sua creatura, nonostante i ripetuti tradimenti. Ma il suo è un amore che non vacilla perché non si misura in base alla nostra risposta, che non vive di contraccambio: un amore che si lascia ferire, e uccidere pur di non distruggere l’oggetto della sua benevolenza.

    E’ un annuncio che ci prepara ad accogliere la stoltezza dell’amore crocifisso: “Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito… Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,6.8).

    Preghiera conclusiva

    Voglio ricordare le mie passate sozzure,

    le oscurità della mia anima,

    non perché le ami, ma per amare te,  Dio mio.

    Lo faccio per amore del tuo amore,

    rievocando le mie vecchie strade perverse.

    Il ricordo è amaro, ma spero che mi riesca dolce tu,

    dolcezza che non inganna, dolcezza felice e sicura.

    E per amore del tuo amore,

    tendo a raccogliere me stesso

    dalla dispersione in cui mi trovai,

    frantumato in mille pezzi,

    quando, allontanandomi da te,

    che sei l’Uno, mi ridussi a un nulla,

    sperdendomi nei molti. (Agostino di Ippona, Confessioni)

     

     

     

     

     

     

     

  • 23 Apr

    Tradimento inaspettato

    Il canto della vigna: Isaia 5,1-7


    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Messaggio centrale

    All’incommensurabile dono dell’Alleanza che Dio prepara e offre al suo popolo, Israele risponde in modo deludente. Siamo messi duramente dinanzi al dramma del nostro peccato, ovvero del nostro rifiuto di entrare nel progetto di Dio con la conseguente incapacità di “compiere la sua volontà”.

    Il messaggio dei profeti è una denuncia costante del peccato di Israele. Questo peccato consiste nella pretesa dell’uomo di far a meno di Dio: ma quest’atteggiamento porta sempre con sé solo sterilità, rovina e distruzione. Il peccato infatti non attenta solo ai diritti di Dio ma colpisce l’uomo stesso innescando nel suo cuore un virus di morte.

    Nel brano che ascolteremo il profeta Isaia utilizza il genere letterario della parabola utilizzando la ricca simbologia della vigna. Possiamo leggere la parabola di Isaia a tre diversi livelli: ad un primo livello essa racconta un’amara esperienza di un viticolture laborioso. Ad un secondo livello, in trasparenza, intravediamo il canto di un amante che narra il suo fallimento amoroso, infine ad un terzo livello, il più profondo, essa annuncia il fallimento della risposta d’amore del popolo eletto nei confronti del suo Signore.

    Canterò per il mio diletto

    il mio cantico d’amore per la sua vigna.

    Il mio diletto possedeva una vigna

    sopra un fertile colle.

    Egli l’aveva vangata e sgombrata dai sassi

    e vi aveva piantato scelte viti;

    vi aveva costruito in mezzo una torre

    e scavato anche un tino.

    Si tratta di una “ballata” sullo stile di quelle cantate dai contadini durante il tempo della vendemmia. Viene narrata la cura e l’amore con cui il nostro contadino si è apprestato a coltivare la sua vigna.  Il  “diletto” – è il titolo col quale il profeta indica il Signore – si è apprestato ad un lavoro paziente e faticoso. Anzitutto ha preparato il terreno, ha innalzato al centro della vigna un torchio da utilizzare per spremere l’uva, e una torre da cui vigilare contro i ladri e gli animali.  È stato un lavoro immane! Alla fine la vite è piantata: si tratta di una vite scelta fra innumerevoli altre.

    Il suo amore per la vigna è autentico, non ha lesinato nulla per giungere al suo scopo, è in tutto simile alle cure con cui l’innamorato corteggia la sua donna. Ma vogliamo sapere il resto del racconto?

    Egli aspettò che producesse uva,

    ma essa fece uva selvatica

    Nonostante tutte le premure del “diletto”, la vigna disgraziatamente non ha prodotto frutti buoni, ma uva selvatica dura e aspra, inutilizzabile. Il risultato è amaro, la delusione è cocente. Non meraviglia che l’amore si trasformi in disappunto, in stizza, risentimento.

    Or dunque, abitanti di Gerusalemme

    e uomini di Giuda,

    siate voi giudici fra me e la mia vigna.

    Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna

    che io non abbia fatto?

    Perché, mentre attendevo che producesse uva,

    essa ha fatto uva selvatica?

    La canzone d’amore si trasforma in un libello d’accusa: l’agricoltore intenta un processo contro la sua vigna. Repentinamente il profeta si rivolge al pubblico in qualità di testimone invitandolo a dare un responso. La conclusione del processo è già scontata: senza ombra di dubbio sarà di condanna.

    Ora voglio farvi conoscere

    ciò che sto per fare alla mia vigna:

    toglierò la sua siepe

    e si trasformerà in pascolo;

    demolirò il suo muro di cinta

    e verrà calpestata.

    La renderò un deserto,

    non sarà potata né vangata

    e vi cresceranno rovi e pruni;

    alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia.

    Un terribile castigo viene prospettato: la vigna viene “condannata” all’abbandono:“La renderò un deserto”. L’immagine dell’abbattimento del muro di cinta sta a significare il venir meno d’ogni protezione di cui fino a quel momento la vigna si era potuta avvantaggiare Il giardino curato si ritrasforma in arida terra di sterpi e di rovi.

    Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti

    è la casa di Israele;

    gli abitanti di Giuda

    la sua piantagione preferita.

    Egli si aspettava giustizia

    ed ecco spargimento di sangue,

    attendeva rettitudine

    ed ecco grida di oppressi

    Al termine della parabola la simbologia della vigna viene finalmente rivelata dal profeta ai suoi ascoltatori: la vigna è il popolo di Israele, il contadino premuroso è YHWH stesso. All’amore di predilezione di Dio nei suoi confronti, Israele ha risposto con l’infedeltà all’alleanza.

    Questo rifiuto si manifesta nell’ingiustizia e nel sopruso del debole, in una religione falsa che non implica un autentico ascolto della Parola. Dio aspettava dal suo popolo il “diritto” – ovvero un retto rapporto con Lui – ed ecco solo “delitto”, attendeva “giustizia” – ovvero un retto rapporto con gli altri – e ecco “grida di oppressi.

    La situazione sarebbe realmente drammatica se non apparisse, sempre per bocca di Isaia, una promessa da parte di Dio che un giorno la vigna fiorirà nuovamente e fruttificherà sotto la sua custodia vigilante:

    In quel giorno si dirà: “La vigna deliziosa: cantate di lei!». Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che venga danneggiata, io ne ho cura notte e giorno. Io non sono in collera. Vi fossero rovi e pruni, io muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme. O, meglio, si stringa alla mia protezione, faccia la pace con me, con me faccia la pace! Nei giorni futuri Giacobbe metterà radici, Israele fiorirà e germoglierà, riempirà il mondo di frutti.” (27,2-6).

    E’ Dio stesso che preparerà una nuova vite “scelta” capace di dare finalmente quei frutti invano attesi dal suo popolo.

    Nel vangelo di Giovanni, Gesù  presenterà se stesso come questa vera vigna a cui tutti dovranno innestarsi per essere capaci a loro volta di “fare frutti” buoni:

    Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto… Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me” (Gv 15,1-6).

    Gesù darà il suo frutto obbedendo al Padre “sino alla fine” e dando la propria vita per noi (Gv 15,9.13).Vera vite è Cristo ma lo siamo anche noi se siamo innestati in lui nel battesimo e vivificati dall’Eucaristia. Senza questa comunione con lui noi non potremmo fare nulla, nessun frutto riuscirebbe a maturare in noi.

    Per la riflessione

    Siamo “vigna del Signore”: la nostra esperienza ci dice che come Israele, spesso manchiamo anche noi di dare quei frutti che dovrebbero scaturire da un’autentica fede e carità. Questi fallimenti, invece di deprimerci, dovrebbero aiutarci a prendere consapevolezza della necessità di essere sempre più innestati in Cristo vera vite, attraverso la Parola e i Sacramenti, affinché ci sia data la capacità di “fruttificare” autenticamente.

    Preghiera conclusiva

    Dal Salmo 80: Pianto di un popolo distrutto

    Pastore d’Israele, ascolta!

    Guidi il tuo popolo come un gregge

    e siedi in trono sopra i cherubini:

    manifesta la tua potenza!

    Dall’Egitto hai sradicato una vite,

    hai cacciato via gli altri popoli

    per trapiantarla nella loro terra.

    Davanti ad essa hai ripulito il terreno;

    ha messo radici profonde e ha occupato tutto il paese.

    Con la sua ombra ha coperto i monti;

    più alti dei grandi cedri erano i suoi rami.

    Ha disteso i suoi tralci fino al mare

    e i suoi germogli fino all’Eufrate.

    Perché hai demolito il suo muro di cinta?

    Ogni passante ruba i suoi grappoli.

    Viene il cinghiale dal bosco e la devasta,

    vi pascolano dentro bestie selvatiche.

    Ritorna, Dio dell’universo,

    guarda dall’alto del cielo,

    vedi quello che accade,

    salva questa tua vigna.

    Proteggi ciò che tu stesso hai piantato,

    Mai più ti abbandoneremo;

    ridonaci la vita e invocheremo il tuo nome.

    Rialzaci, Signore, Dio dell’universo,

    mostra sereno il tuo volto e noi saremo salvi.

  • 16 Apr

    L’incontro vivo con Gesù vivo

    L’emmoroissa: Mc 5,21-34


    PRESENTAZIONE

    L’incontro con il Vangelo è sempre un incontro con una Parola raccontata, trasmessa, vissuta. Questa Parola è una persona: Gesù Cristo.

    Don Paolo[1], con un’espressione intuitiva e sintetica, ma densa di significato, diceva che l’incontro con il Vangelo è “Incontro vivo con Gesù vivo”.

    L’accostarmi al Vangelo diventa così un incontro vivo, personale con Gesù, persona viva. Un incontro che mi prende e coinvolge tutta la mia persona. Un incontro che diventa vita ed esperienza.

    Diceva ancora don Paolo: “Dal momento che Dio si è fatto Uomo, niente mi interessa di tutto il resto. Mi voglio incontrare con quest’Uomo. Gli voglio parlare. Lo voglio ascoltare”.

    È l’inizio di un’avventura, di cui sai il principio, e che arriva dove il Signore ti vuole condurre, se ti fidi di Lui.

    Senti il bisogno di conoscerLo a fondo, di studiare la Sua meravigliosa personalità; e il Vangelo studiato, scrutato, amato, diventa l’occupazione più deliziosa; e Gesù ti sorge sempre più vivo al fianco, sempre più conosciuto, sempre più sperimentato, sempre più familiare.

    E nasce il colloquio incessante con Lui. E Lui dentro cresce…

    Don Paolo aggiungeva: “…e ti brucia sempre più con il Suo amore, e ti fa sentire l’amore infinito del Padre che ti ha dato tutto, che ti dona tutto, che ti aspetta a casa”.

    L’incontro vivo con Gesù vivo è un’esperienza ed è il punto di partenza del “Movimento Fac”. Per il Fac, il fare è il traboccare dell’interiorità: il mistero di Cristo dentro di noi incontrato e amato, che diventa vita.

    L’incontro vivo con Gesù vivo punta al cuore, all’essenza dell’esperienza cristiana: l’incontro con Gesù salvatore nella Chiesa e nella storia. Richiede quindi alcuni atteggiamenti di fondo: immersione nella fede, silenzio interiore, umiltà.

    Nella prima parte del fascicolo sono riportate alcune indicazioni che don Paolo ci ha lasciato, le quali costituiscono un metodo, ormai collaudato dall’esperienza di molte persone, per giungere all’incontro vivo con Gesù vivo.

    Nelle pagine che seguono è riportato un “incontro vivo” fatto da don Paolo. Avvicinarsi direttamente attraverso le sue parole è il modo migliore per cogliere la sua intuizione e la sua passione per Gesù, Dio fatto uomo.

    È un’esperienza diretta, da provare.

    COME LEGGERE IL VANGELO

    “L’incontro vivo con Gesù vivo nel Vangelo” è una nota caratteristica dei Corsi Fac, momento privilegiato all’inizio di ogni giornata.

    Il metodo è semplice, ma profondo. Suggerito da Don Paolo, è stato ed è per tanti una via di luce per attuare il proprio incontro personale con il Dio fatto Uomo.

    Il Vangelo si legge (o si ascolta) portandosi con tutto il proprio essere davanti a Gesù vivo che parla.

    Bisogna uscire dalle piccole strettoie tempo-spazio per portarsi lì, tra la folla che è attorno a Gesù.

    E questo bisogna farlo lasciandosi attirare dal Padre. “Nessuno  può venire a me, se non lo attira il Padre …” (Gv 6,44).

    È allora, e solo allora, che si compie il grande prodigio: l’incontro di te vivo con Gesù vivo.

    Chiudi un momento gli occhi e contempla con la mente questa realtà.

    Ecco Gesù. È seduto e parla alle folle. Sono giudei, samaritani, galilei.

    Ma osserva attentamente, guarda!

    Tutti questi sono come in prima fila. Dietro a loro, in seconda fila, stanno gli uomini della generazione seguente, e nella terza fila quelli della generazione appresso; poi via via altre generazioni… fino alla tua.

    Gesù parla a tutti, a ciascuno.

    Al centro della storia, attende che tu giunga finalmente a Lui.

    I CINQUE GRADI DI CONOSCENZA DEL VANGELO

    Questo modo di avvicinare il Vangelo passa per cinque diversi gradi di conoscenza.

    1 –  Conoscenza “orizzontale” o “in superficie”.

    Si afferra il senso del brano evangelico, ci si rende conto di ciò che realmente Gesù intende dire; di ciò che questo o quel fatto significano.

    Questa prima conoscenza la potremmo raffigurare in colui che, trovandosi ad ascoltare in una delle più lontane file, si alza in punta di piedi, tende bene l’orecchio, segue il discorso attentamente e capisce.

    2 –  Conoscenza “verticale” o “in profondità”.

    E’ quella che, oltre al senso generale del testo, permette di afferrarne l’anima e di scendere in profondità.

    Qui chi legge ne scruta attentamente le divine ricchezze. Ne ricerca le connessioni con le pagine che precedono e che seguono; le relazioni dei fatti con l’ambiente, i costumi, e le persone.  Si tratta in pratica di studio che può essere sempre più profondo, attraverso testi con note accurate, commenti, monografie.

    Questa seconda conoscenza la potremmo raffigurare in colui che, dopo essersi alzato in punta di piedi per ben intendere Gesù, viene portato dalla intensità della sua attenzione a spostarsi lentamente dalle più lontane file, fino a sedersi nella prima fila, ai piedi del Maestro.

    Questi primi due gradi di conoscenza del Vangelo distano però dal terzo grado, e dai seguenti, quanto la terra dal cielo.

    Sono due gradi di studio: il primo per capire; il secondo per approfondire. Ma in nessuno di essi si ha l’autentico incontro vivo con Gesù vivo.

    Questo avviene nel terzo grado, e nei due seguenti.

    3 –  Conoscenza “personale”.

    La persona, percorso il primo e secondo grado della conoscenza del Vangelo, si trova come faccia a faccia con Gesù.

    E’ qui che ha il primo brivido dell’incontro col Figlio di Dio.

    Quasi senza avvedersene, venutasi a sedere (sempre attratta dal Padre) in prima fila davanti a Gesù, ad un certo momento si trova sola con Lui.

    Sì, sola, perché in quel momento l’anima s’incontra con la realtà di Gesù che parlando, dicendo il suo Vangelo a tutti, lo vuole dire a ciascuno.

    L’anima è sola con Lui: faccia a faccia, respiro a respiro.

    Gesù parla: sono le stesse identiche parole di prima, quelle scritte su quella pagina, già studiate a fondo, con quel preciso senso… ma ora applicate da Lui a me.

    L’incontro vivo e vitale è avvenuto.

    Gesù mi guarda e parla, è Lui che dice quella pagina di Vangelo a me, per me, per i miei bisogni.

    E Lui mi conosce tutto: presente, passato, futuro. Lui mi esaurisce con la sua conoscenza, perché mi ha fatto, anzi mi fa continuamente, mi sostiene, mi conduce misteriosamente.

    Allora Gesù parla a lungo, e dice cose misteriose, ed applica quelle cose divine a me, per i miei bisogni vivi, brucianti.

    Gesù che parla è realmente dentro… perché in me, vivo di vita divina, c’è il Padre, e il Figlio, e lo Spirito Santo.

    ……

    È così che il Vangelo diventa mia vita.

    È da questa terza conoscenza coltivata con costanza e con amore che nasce l’’amicizia intima personale con Gesù, l’Uomo più vivo, l’Amico senza del quale non si può vivere.

    È qui che scocca il “Sì” dell’anima e diventa sempre più profondo, sempre più intenso, sempre più frequente, sempre più caldo fino a diventare respiro, vita…

    E’ proprio qui, in questa conoscenza personale, che si inizia quella che noi chiamiamo, perdonatemi l’espressione insolita, la “malattia di Gesù”: malattia grave che non perdona.

    Mentre Lui dentro, cresce, cresce sempre più, fino ad occupare tutto: è il punto in cui l’anima sente la verità gioiosa del “Per me… il vivere è Cristo …” (Fil 1, 21); “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

    È in questa terza conoscenza che l’anima si può perdere in un solo versetto di Vangelo e rimanere a lungo, anche per ore, a colloquio con il suo Amico, con il suo Tutto.

    E questo terzo grado di conoscenza è di natura sua strettamente unito al quarto, è fatto per il quarto.

    4 –  Conoscenza “vitale”.

    È la conoscenza che viene dal Vangelo tradotto nella propria vita, accolto in sé.

    Spieghiamoci con un esempio. Un chimico, di un bicchiere d’acqua vi dirà tante cose. Vi darà la formula dell’acqua: H2O; vi parlerà delle sue proprietà, dei suoi contenuti organici e inorganici, ecc.

    Ma se avendo sete berrà quell’acqua, ne avrà una cognizione nuova, “vitale”; conoscerà la preziosità provvidenziale di quel liquido. Sperimenterà in sé benefici: alcuni avvertiti, altri meno, ma che sente vanno a giocare tra le componenti della propria vita e del proprio benessere.

    Così è di colui che, dopo essere passato per la prima, seconda e terza conoscenza di una pagina di Vangelo, si decide a tradurla nella propria vita.

    5 –  Conoscenza “vitale totale, o integrale”.

    Mentre la conoscenza personale e la vitale approfondiscono ed intensificano il loro ritmo, proprio per natura loro, portano alla grande, gioiosa, luminosissima scoperta del Cristo Totale: il mistero del Corpo Mistico.

    Così la persona si trova davanti al Gesù tutto intero, in cui sono presenti tutti i fratelli di tutti i tempi con tutti i loro bisogni, fusi nell’unità della reale persona mistica di Gesù, con i quali e per i quali noi operiamo, soffriamo, gioiamo. Usciamo allora da un quadro troppo ristretto, ancora egoistico ed iniziale: Lui-io, per entrare nel quadro dell’incontro col Cristo Totale: Lui capo, Lui corpo e io.

    Giunta a questo punto la persona ad imitazione di Gesù, è tutta tesa verso i fratelli, totalmente donata agli altri.

    … Per la redenzione di tutti.

    Ha allora la conoscenza più piena che di Gesù si possa avere quaggiù.

    È questa cognizione che fa i Santi.

    I Santi sono appunto coloro che hanno accolto Gesù nel modo più pieno, eroico, perfetto. In una parola “più dinamico”.

    Sono così diventati Vangelo vivo. Gesù vivo che passa attraverso il mondo di oggi. Ecco perché il mondo si commuove e crede. Essi sono Gesù che passa, ora, tra noi.

    Perché è di Gesù solo che ha bisogno il mondo. Gesù solo è il Salvatore.

    Chi accetta il Vangelo e lo rende vita, converte il mondo, perché in lui pesa e opera Gesù vivo.

    E questa realtà opera sempre, e tanto più quanto più l’accettazione è profonda, piena, eroica.

    LA SIGNORA BERENICE S’INCONTRÒ CON GESÙ

    “Essendo passato di nuovo Gesù all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava  lungo il mare. Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale vedutolo, gli si gettò ai piedi e lo pregava con insistenza: “La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva”. Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita”. E all’istante le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male. Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi mi ha toccato il mantello?”. I discepoli gli dissero: “Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?”. Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”.” (Mc 5,21-34)

    Preghiamo!

    “Vieni, o Santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli, e accendi in essi il fuoco del tuo  amore…”

    E rivolgiamoci alla nostra celeste Mamma e invochiamola  perché ci venga in aiuto. “Ave, o Maria…”

    Prima conoscenza di questa pagina di Vangelo: conoscenza “orizzontale”.

    Entriamo anche noi in mezzo alla folla che sta aspettando Gesù.

    Dimentichiamo per un momento il nostro ambiente, le nostre cose, i nostri affari, e tuffiamoci nella luce viva della fede, per incontrarci vitalmente con Gesù.

    Leggiamo adagio, e con pace.

    Seguiamo attentamente il  fatto  per capire.

    Ricordiamoci ben bene di rimanere in mezzo alla folla, tuffati in fede viva.

    Seconda conoscenza, e cioè in profondità.

    Riprendiamo il brano di Vangelo. Scrutiamolo. Per prima cosa, inquadriamo il fatto.

    Gesù, qualche giorno prima, aveva attraversato il lago (e fu proprio in questa circostanza che accadde il grande miracolo della tempesta sedata). Da Cafarnao, giunse presso Kursi, nel paese dei Geraseni.

    Qui era avvenuta la guarigione dell’indemoniato di Gerasa. Il miracolo, veramente drammatico, è narrato dai tre evangelisti Matteo, Marco e Luca, con particolari ricchi ed interessanti.

    Da Gerasa, Gesù, riattraversando il lago, puntò nuovamente su Cafarnao dove capitarono i fatti che noi mediteremo.

    Ed ora approfondiamo.

    “Essendo passato di nuovo Gesù in barca all’altra riva, gli si radunò attorno  molta folla, ed egli stava lungo il mare” (Mc 5,21).

    Non vi saprei dire quanti giorni sia stato assente Gesù da Cafarnao, forse solo un paio di giorni, ma, per quella gente, quei giorni erano sembrati interminabili.

    La folla però era rimasta ad aspettare sulla riva: “Al suo ritorno, Gesù fu accolto dalla folla, poiché tutti erano in attesa di lui” (Lc 8,40).

    Vieni, giriamo anche noi tra questa folla e osserviamo attentamente. La gran massa è composta di gente del popolo, assetata della divina parola di Gesù. Ci sono gli entusiasti guariti dal Maestro da varie malattie; attorno ad essi i loro parenti; poi i curiosi che mai finiscono di fare domande. Poi… gruppi di magnati: dottori, scribi, … gente dallo sguardo altero, racchiusi nei propri ricchi mantelli e sempre un po’ in disparte.

    E poi gente e gente, di tutte le età, classi e condizioni.

    Tutti aspettano Gesù.

    Tra tutti però, due persone, in modo tutto particolare, aspettano il Maestro: la signora Berenice[2] e… Mons. Giairo (perdonate se lo chiamo Monsignore: ma era il capo religioso della città).

    La signora Berenice era ammalata, e per di più di una malattia che, a quei tempi, rendeva legalmente impuri

    Poverina, da ben dodici anni soffriva di noiose e dolorose perdite di sangue.

    Aveva tentato tutto il tentabile per guarire; aveva consultato tutte le celebrità del tempo, ma invece di stare meglio era andata sempre peggiorando, e ormai aveva quasi dato fondo a tutte le sue sostanze.

    Ed ora lasciate che vi ricostruisca al vivo ciò che dovette essere capitato a questa signora nei giorni immediatamente antecedenti a quello in cui si confuse tra la folla che attendeva Gesù.

    Capitò così, o pressappoco, o anche meglio di così.

    Ammalata, (…si sa, tutti i malati fanno così!) non appena trovava una persona dal cuore compassionevole, si apriva in confidenze e raccontava tutti i suoi malanni: come si era ammalata, le cure fatte, le celebrità consultate, i miglioramenti, i peggioramenti, le speranze, le delusioni. Ed ora speranze non ne aveva proprio più…

    Ma un giorno Berenice sentì una notizia sorprendente che le diede un violento tuffo al cuore. Ciò che aveva saputo era meraviglioso, quasi incredibile.

    Stava dunque un giorno raccontando i suoi malanni… a chi?

    Questo non ve lo saprei proprio dire davvero, ma a qualcuno sì. A qualcuno che ai suoi lamenti e alla sua desolata sfiducia aveva contrapposto improvvisamente una speranza luminosissima, tanto luminosa da sembrarle assoluta certezza.

    Immagino questo dialogo.

    “Signora, ricorra anche lei al Rabbi! ”

    “Al Rabbi? E chi è questo Rabbi?”

    “Rabbi Jehoshuà di Nazareth! ”

    “Un medico?”

    “E che medico!! ”

    E l’interlocutore a narrare…

    Erano guarigioni…, miracoli…; poi la descrizione della bontà del Maestro, poi le sue parole tanto dolci e misericordiose, poi: “Pensi, è solo qualche mese che non molto distante da qui, a Nain, il Rabbi risuscitò perfino un giovanetto che veniva portato alla sepoltura! Dicono poi che guarisce tutti, tutti. Non si sa di nessuno che gli abbia chiesto di guarire e non l’abbia guarito!”

    Berenice se ne stava ad ascoltare col fiato sospeso, gli occhi sbarrati. Non perdeva una sillaba, un particolare.

    Cominciò quindi a fare domande e domande. Un vero fuoco di fila. “E dov’è?” – “E come si può parlargli?” – “E ascolta tutti?”

    Intanto nel cuore della poveretta la speranza, accesasi di colpo al primo racconto, si era andata dilatando, irrobustendo, fino a diventare assoluta certezza.

    Gesù! Ecco il nome che per Berenice era ormai diventato l’ancora della salvezza.

    E venne il giorno in cui corse voce che il Rabbi di Nazareth stava per giungere in città, e gran folla si era riversata verso la spiaggia.

    Berenice, superando le mille sue perplessità (era donna, e donna ammalata… di quel male…) si immerse tra la folla che correva, giunse alla spiaggia e attese.

    Attese a lungo la grande venuta, fermissimamente decisa a porre in atto un piano lungamente meditato.

    …..

    Intanto in un altro punto della città, in una casa signorile, una bimba di dodici anni stava agonizzando. Era la figlia unica di Giairo, il responsabile della Sinagoga di Cafarnao.

    Lasciamo per un istante la nostra Berenice ed entriamo in punta di piedi in questa stanzetta. Le finestre sono socchiuse, è gran silenzio, si ode solo il lieve rantolo della piccola ormai morente. Di tanto in tanto scoppi di pianto, poi invocazioni, sospiri… è la mamma! Il padre non c’è.

    Più volte da quella casa gruppi di parenti e amici erano partiti in cerca affannosa di Gesù, ma nessuno era stato capace di rintracciarlo; ora era partito il padre in persona con alcuni servi.

    Mentre la nostra Berenice, da ore, attendeva sulla spiaggia, Giairo girava affannosamente cercando Colui che solo poteva fare il miracolo.

    “Dov’è il Rabbi?” domandava di tanto in tanto ai passanti.

    “Di là dal lago! Così dicono.” “Tre giorni fa era alla spiaggia!” erano le risposte.

    “Sapete dove si trova il Rabbi di Nazareth?” domandò ad un certo punto a della gente che correva verso l’imbarcadero.

    “Corriamo anche noi al lago. Dicono che sia arrivato da Gerasa!” gli fu risposto.

    Giairo, di corsa, infilò la via del porto, deciso a tutto per portare il taumaturgo Maestro dalla sua piccola che stava morendo.

    Gesù era veramente arrivato da poco, ma già era stato circondato da gran folla che lo stringeva da ogni lato.

    Camminando alquanto lungo la riva del lago, era giunto ad un piccolo rialzo, e qui, seduto, aveva incominciato a parlare.

    “Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale vedutolo, gli  si gettò ai piedi e lo pregava con insistenza : “La mia figlioletta è agli estremi; vieni ad imporle le mani perché sia guarita e viva” ” (Mc 5,22-23).

    “Largo, largo!” fa qualcuno. Ed ecco Giairo si butta ai piedi di Gesù e scoppia in dirotto pianto. La folla ammutolisce; si fa gran silenzio. Poi il pover’uomo, alzando il viso solcato di lacrime verso il Maestro, lo supplica, con frasi tronche, “ di venire! ”.

    La sua piccola, di dodici anni, l’unica, stava morendo.

    Sono presente a questa scena straziante, vi partecipo vivamente.

    Il pianto di un uomo… la compassione più profonda dipinta su tutti i volti… il rispetto del popolo per quel maestro venerato…

    Ma io guardo Gesù.

    Ecco, lo vedo subito alzarsi, sollevare affettuosamente da terra quel poveretto, e: “Vengo!”

    La folla si muove, lentamente punta verso una di quelle viuzze orientali tutte strettoie e sghimbesci, e preme, preme.

    Senti? Non ti senti premuto da ogni lato? La folla ci porta.

    Ma ho sempre tenuto d’occhio anche Berenice, ed ho visto il lampo dei suoi occhi quando il Maestro, in un gesto di sconfinata bontà e premura, è balzato in piedi dicendo: “Eccomi, vengo!”

    Proprio come fa un servo davanti al suo padrone!

    Sì, perché Lui è venuto a servire, Lui Dio (… e tu?).

    Pietro e i Dodici circondano ora il Maestro, che ha vicino Giairo, e lo difendono in tanto pigia pigia.

    “Largo! Largo! Un po’ di educazione! Lasciate passare il Maestro”, mi pare di sentire gridare Pietro. Il caro Simone è infatti tutto compreso della sua responsabilità di capo dei Dodici. Con la sua forza da torello, trattiene la folla che continuamente preme, urta, minaccia di travolgere. Tutti vorrebbero stare vicini al Maestro, vederlo, toccarlo, dirgli una parola; … vedere bene cosa capiterà.

    Le viuzze sono strette, e la folla cresce continuamente.

    Il piccolo gruppetto dei Dodici che attornia il Maestro, è ora sospinto, ora trattenuto, e sempre da ogni parte incalzato, pressato.

    È il momento giusto: gran trambusto, gran pigia-pigia.

    Berenice, confusa nella folla, alle spalle di Gesù, si fa animo. Preme, lavora di braccia, e a gran fatica, una dopo l’altra, espugna le fitte file di schiene che la separano dal Maestro.

    È trafelata, rossa in viso, stanca, ma… ormai è quasi giunta!

    Il piano l’aveva architettato da tanti giorni: confondersi tra la folla, arrivare fino alle spalle del Maestro, toccargli anche solo il fiocco del mantello, SAREBBE GUARITA! Aveva infatti sentito dire tante volte che da Lui usciva una virtù risanatrice.

    Sono gli ultimi sforzi.

    Eccola, Berenice, rossa in volto, vivamente emozionata, affannata, ma traboccante di fede viva, ha superato ormai l’ultimo ostacolo: una ondata della folla che minacciava di risucchiarla in un vortice dopo tante fatiche! Ecco, ora si fa piccola piccola, ora si sommerge, scompare tra la folla; allunga il braccio in uno sforzo supremo verso il Maestro, laggiù in basso verso il fiocco del mantello che vede oscillare…

    Eccolo! CIAK!… Lo ha finalmente afferrato; Lo ha toccato!

    Un brivido la percorre tutta, poi un grande benessere.

    È guarita!

    Felice, beata! lascia quel fiocco benedetto, si ritira.

    “Nessuno mi ha scorto!” stava sospirando.

    Ma d’un tratto quella grande marea incalzante si fermò; di botto.

    “Chi mi ha toccato!?” chiese solenne e pacata la voce del Maestro che si era improvvisamente arrestato.

    “Chi mi ha toccato?”

    (A questo punto sarebbe veramente delizioso meditare sui tre Vangeli sinottici, passando dall’uno all’altro per coglierne le interessantissime varianti, che concordate, darebbero una scena viva, di estremo interesse.)

    Pietro, grondante sudore e trafelato per tanta fatica nel trattenere la gente che da ogni parte pareva volesse soffocare il Maestro, alle parole di Gesù, rimane trasecolato: “Chi mi ha toccato?… Ma Maestro, vedi bene che tutti ti pigiano, ti stringono da ogni parte e tu chiedi: Chi mi ha toccato?”.

    Ma Gesù, serio, e girando attorno lo sguardo, continuava a chiedere: “Chi mi ha toccato?”

    Questo gesto di girare attorno gli occhi, fissando con lo sguardo, è riferito da Marco che, come tutti sappiamo, riporta nel suo Vangelo la predicazione di Pietro. Marco infatti fu a Roma, per lunghi anni, il segretario di Pietro.

    In questa paginetta, ed in quella che verrà, raccontata da Marco, noi possiamo riascoltare l’eco della predicazione viva, pittorica di Pietro, testimone oculare.

    “Chi mi ha toccato? ” continuava a chiedere Gesù. E, man mano che Gesù si volgeva intorno chiedendo, la gente a rispondere: “Io no! io no!”.

    E a me pare di sentire anche Mons. Giairo rispondere: “Io no, Maestro!”… ed era vero!

    Allora Gesù soggiunse: “Qualcuno mi ha toccato, perché ho sentito che una forza è uscita da me.”

    Ormai Gesù, guardando fisso, e sempre chiedendo: “Chi mi ha toccato?” si era voltato verso coloro che gli stavano alle spalle.

    Berenice, che nella sua felicità già si era ritratta di qualche passo tra la folla, al fermarsi di botto del Maestro, al sentire quelle tremende parole, era rimasta come di sasso. D’altronde la morsa della folla la teneva lì stretta e ferma a soli pochi metri da quegli occhi divini che ora, non aveva alcun dubbio, stavano per posarsi su di lei.

    Gettando un lamento, la poverina si fece avanti, cadde bocconi ai piedi del Maestro, e tremante… “disse tutta la verità”.

    Sentiamola da Marco:

    “…. da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera  di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello.

    Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita.”

    E all’istante le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male.” ( Mc 5, 25-29).

    Se andaste a vedere lo stesso racconto in Luca, a proposito del male di questa poveretta e di tutto ciò che aveva dovuto soffrire a causa dei medici (ed è per questo che in Marco, nel brano riportato, noi abbiamo sottolineato alcuni versetti), voi trovereste un racconto molto succinto e sbrigativo. Luca è medico, e si comprende perciò la sua delicatezza verso… i colleghi che avevano curato Berenice. Salta perciò dei particolari che è pur interessante sapere, e che Pietro nella sua predicazione non tralasciava mai.

    “Gesù le disse: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace, e sii guarita dal tuo male””. (Mc 5,34)

    Il volto di Gesù si era aperto ad un luminoso sorriso; aveva potuto mostrare al suo popolo una donna in cui aveva trovato tanta fede.

    “La tua fede ti ha salvata!”

    Fede! Fede!

    Ecco ciò che ci vuole perché succedano i miracoli.

    Terza conoscenza: personale.

    E questa si fa personalmente.

    Non la posso fare io per te.

    Ed è qui che il Vangelo esplode in meraviglie. Rileggi il brano da capo. Sta in silenzio. Senti Gesù che applica quelle verità a te.

    Al solito, io mi sforzerò di darti un aiuto dall’esterno. Ti darò una mano indicandoti dei passaggi. Ma poi dovrai continuare tu.

    Non temere. Ti condurranno gli Angeli.

    PONTI PER PASSARE AD UN INCONTRO VIVO CON GESU’ VIVO

    *       “ Lo accolse la folla perché tutti lo stavano aspettando ” (Lc 8, 40).

    Sono qui sulla spiaggia. Tutti aspettano Gesù.

    Tutti. Anch’io. Gesù verrà.

    Ci sarà chi, dopo averlo atteso, si esaurirà in sterile curiosità: vedere cosa farà Gesù.

    Ci sarà chi, vistolo, crollerà le spalle e se ne andrà.

    Ci saranno tanti che lo pigeranno e premeranno, ma senza toccarlo.

    E ci saranno coloro che lo toccheranno e sentiranno che da Lui erompe forza e vita.

    Chi lo ha toccato, tornerà a ritoccarlo per avere sempre più luce, più forza, più vita. Una volta infatti che uno ha veramente trovato Gesù, da Lui non può più separarsi e solo bramerà quell‘innesto-contatto prolungato che è il segreto generatore di vita divina.

    E chi, avendo incontrato Gesù, non lo ha conosciuto e perciò non lo ha toccato, continuerà ugualmente a cercarlo  affannosamente. Perché TUTTI hanno bisogno di Gesù.

    Ecco, arriva Gesù. Bisogna che IO lo tocchi.

    *       Toccare e stringere.

    Leggiamo attentamente e notiamo:

    – v. 24 “molta folla gli si stringeva intorno”

    – v. 31 “ … la folla ti si stringe attorno”

    … ma da Gesù non usciva forza alcuna.

    – v. 27 “… gli toccò il mantello”

    – v. 28 “… se riuscirò… a toccare

    – v. 30 “… chi mi ha toccato il mantello?

    – v. 31 “… chi mi ha toccato?

    … e da Gesù uscì forza divina.

    Si può pestare i piedi a Gesù; lo si può schiacciare… senza toccarlo.

    …..

    Si tocca Gesù ogniqualvolta lo si incontra nella luce della fede, ma fede*. vera, quella “ teologale ”, perciò fede-vita.

    Gli si pestano i piedi, lo si urta e schiaccia, quando “si sa” di Lui; “si dice, si discute, si tratta” di Lui, anche molto dottamente, ma rimanendo sul piano della fede… scientifica, che non è fede-vita.

    Qui, l’anima, che pure intimamente ha fame di Gesù, non si incontra con Lui, perché rimane sul piano puramente umano.

    Di più. È qui che avviene il grande inganno di credere di avere fede, quando si hanno solo delle nozioni…

    E il danno di questo abbaglio è gravissimo.

    Che direste di un imprenditore che avesse costruito la più perfetta delle fabbriche, ma si fosse dimenticato di fare l’allacciamento dei fili della propria cabina ai cavi che attingono energia dalla centrale?

    Qualora costui non si decidesse a stabilire quel necessario contatto, dovrebbe rassegnarsi a vedere vano e pazzia tutto il lavoro fatto.

    Tutta la sua fatica, senza quel contatto con una sorgente di energia, si risolverebbe in un grande e faticoso fallimento.

    Come prete, rimango meditabondo davanti alla meraviglia del primo Papa: “Maestro, tutti ti urtano e Tu chiedi: Chi mi ha toccato?”.

    Pietro non sapeva che si può urtare e pestare i piedi a Gesù, senza toccarLo…

    Ma lo imparò!

    Io posso non toccare Gesù, pur celebrando la S. Messa; stringendo l’Ostia tra le mani; donando Gesù agli altri…

    E tu, quando partecipi alla Messa, quando vai in Chiesa, quando ricevi Gesù, tocchi Gesù… o solo gli pesti i piedi?

    Solo se lo toccherai, sentirai che da Lui esce vita e gioia divina.

    * “La tua FEDE ti ha salvata”.

    Gesù con te ragionerà a fondo dei casi della tua vita. Forse ti dirà così:

    “Non i tuoi sforzi (anche quelli ci vogliono, e falli tutti), ma la Fede, quella vera, ti salverà.

    Lavora, lavora, lavora… e poi?

    Accumula, accumula, accumula… e poi?

    Perché tutto ciò che hai fatto e fai, quello che hai guadagnato e pensi di guadagnare, si muti in luce, diventi gioia e sia vero guadagno per te e per i fratelli, deve essere costantemente fatto e visto nella luce della fede! Questa, e questa sola ti salverà.

    E la fede è vedere con gli occhi di Dio.

    Ti muovi tu costantemente in questa luce?

    Sappi che qui sta il segreto della felicità vera.

    Altrove non la troverai”.


    [1] Don Paolo Arnaboldi (1914/1998), iniziatore del Movimento Fac.

    [2] Pare, da antiche tradizioni, che questo fosse il nome della donna guarita da Gesù. Noi la chiameremo così.

  • 15 Apr


    Il Signore è in mezzo a te!

    Un grido di giubilo inaspettato:

    Sofonia 3,1-2; 7-8; 14-18

    di p. Attilio Franco Fabris

    Messaggio centrale

    Se il profeta annuncia il “Giorno di JHWH” come il giorno del giudizio e della condanna, contemporaneamente annuncia il kerigma della salvezza: Dio sarà re e salvatore, il suo amore rinnoverà Gerusalemme. Ne scaturisce un invito alla gioia e all’esultanza: non scoraggiarti “il Signore è in mezzo a te”.

    Sofonia svolge il suo ministero dopo la fine del governo tirannico del re Manasse e prima della riforma di Giosia. Siamo verso il 700 a.C. Siamo in uno dei momenti più difficili della storia di Israele: la corruzione e l’ingiustizia dilagano, si assiste da parte del popolo ad un progressivo abbandono della fede, dilaga una grave forma di sincretismo che vede un culto rivolto agli idoli pagani Baal e Astante. Non a caso il terzo capitolo del libro di Sofonia inizia con una violenta requisitoria contro Gerusalemme e tutti i suoi capi:

    1 Guai alla città ribelle e contaminata,

    alla città prepotente!

    2 Non ha ascoltato la voce,

    non ha accettato la correzione.

    Non ha confidato nel Signore,

    non si è rivolta al suo Dio.

    7 Io pensavo: «Almeno ora mi temerà!

    Accoglierà la correzione.

    Non si cancelleranno dai suoi occhi

    tutte le punizioni che le ho inflitte».

    Ma invece si sono affrettati

    a pervertire di nuovo ogni loro azione.

    E’ una constatazione amara di un allontanamento, di un tradimento dell’alleanza nonostante ripetuti inviti e correzione: il popolo è infatti di “dura cervice” (cfr Es 32,9). Che fare in questa situazione? Che prospettive si presentano per il futuro?

    Il profeta si fa annunciatore di catastrofi: esse appaiono inevitabili a causa del male dilagante, il male è castigo a se stesso, è fautore di morte, divisione, distruzione. Le prime parole che Dio pronuncia nel libro profetico lo testimoniano drammaticamente: “Tutto farò sparire dalla terra. Distruggerò uomini e bestie. Sterminerò l’uomo dalla terra” (1,1-3).

    Sofonia annuncia imminente la venuta di JHWH come giudice tremendo (Gr 11,20) e il suo giudizio sarà un castigo inevitabile: “Giorno d’ira, d’angoscia e d’afflizione, di rovina, di sterminio, di tenebre, di caligine, di nubi, di oscurità, di squilli di tromba e di allarmi” (1,15-16: sequenza “Dies irae”). Si tratta di un castigo universale: esso non colpisce solo Gerusalemme, ma anche tutti i popoli del mondo:

    8 Perciò aspettatemi – parola del Signore –

    quando mi leverò per accusare,

    perché ho decretato di adunare le genti,

    di convocare i regni,

    per riversare su di essi la mia collera,

    tutta la mia ira ardente:

    poiché dal fuoco della mia gelosia

    sarà consumata tutta la terra.

    Ma il discorso prende inspiegabilmente una direzione sconcertante, dall’annuncio di questa “ira ardente” improvviso si affaccia inspiegabile un invito alla gioia. È come il bagliore di un raggio di sole che squarcia inaspettato le tenebre riaprendo il cuore alla speranza:

    14 Gioisci, figlia di Sion,

    esulta, Israele,

    e rallegrati con tutto il cuore,

    figlia di Gerusalemme!

    15 Il Signore ha revocato la tua condanna,

    ha disperso il tuo nemico.

    Sofonia definisce il “resto di Israele[1]con l’immagine della Figlia di Sion (3,14-18): una piccola comunità che si affida unicamente alla fedeltà di Dio, che è sicura della presenza del suo Dio, e i cui occhi sono a questo punto illuminati dalla fede e dalla sicurezza nella vittoria di Dio; questa è l’immagine che Sofonia dà del “resto”, dell’Israele delle sue speranze.

    Gioisci…esulta…rallegrati!” (cfr Is 12,6; 49,13; 65,14; Zc 2,14; 9,9; Gr 31,7). Il cambiamento di tono è improvviso, e sembrerebbe, come detto, a prima vista inspiegabile. Come è possibile passare dalle minacce di un castigo incombente ad un annuncio improvviso di gioia e di speranza, a una “revoca della condanna”? Cos’è accaduto? Forse che Israele si è convertito, ha cambiato vita facendo penitenza dei suoi peccati? Ma questo non è accaduto e il profeta lo sa! Quindi la ragione deve stare da un’altra parte.

    Dio promette gratuitamente salvezza: egli eliminerà i suoi rivali per restare solo lui unicamente come re e come sposo che ama la sua sposa. Egli non può rinnegare la sua parola, e l’alleanza stipulata con Israele. Questa revoca ha solo un motivo: la fedeltà dell’amore di Dio che non si arrende dinanzi a nessun tradimento e infedeltà dell’uomo, ma sempre si ripropone come Dio fedele: “unica roccia di salvezza” (Sal 61,3)

    Re d’Israele è il Signore in mezzo a te,

    tu non vedrai più la sventura.

    Dio riafferma la sua ferma volontà di prendere lui stesso in mano sua le sorti del suo popolo:  “Re d’Israele è il Signore in mezzo a te” (v.14; cfr v.17). la sua presenza doveva essere simbolizzata dal Tempio dove JWHW manifestava la sua Gloria (1Re 8,12-19) e dall’istituto regale con la sua funzione di luogotenenza di Dio, ma, per i profeti, queste due realtà hanno mancato a questo obiettivo: al culto non corrispondeva una fedeltà vitale all’alleanza, la regalità si era pervertita nella ricerca di se stessa e del suo potere. È per questo che la gloria di Dio viene vista allontanarsi da Gerusalemme da Ezechiele (10,18), ma già dopo il primo peccato (originale) di idolatria ai piedi del Sinai la tenda del convegno dovette essere posta “fuori dell’accampamento”(Es 33,7). Questa triste situazione invocava presso i “poveri di JHWH-resto di Israele” un intervento decisivo e personale di Dio a favore del suo popolo (cfr Is 63,19). Ecco Sofonia annunciare che finalmente è giunto questo momento in cui Dio, sterminati tutti i nemici, personalmente instaurerà il suo regno eterno, egli sarà “Re d’Israele” (cfr Lc 1,32).

    16 In quel giorno si dirà a Gerusalemme:

    «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia!

    17 Il Signore tuo Dio in mezzo a te

    è un salvatore potente.

    Esulterà di gioia per te,

    ti rinnoverà con il suo amore,

    si rallegrerà per te con grida di gioia,

    18 come nei giorni di festa».

    La profezia si tramuta in canto nuziale per un connubio ritrovato. La città-sposa tornerà ad essere bella, diverrà nuovamente la delizia per il suo sposo: “esulterà di gioia… si rallegrerà con grida di gioia come nei giorni di festa” (vv. 17-18). Gerusalemme diverrà realmente “Città della Pace”.

    La gioia di Gerusalemme scaturisce  dalla ritrovata relazione sponsale con JHWH: se il Signore gioisce con lei e per lei essa allora non ha da temere più nulla, non può più “lasciarsi cadere le braccia” in un atteggiamento di di-sperazione. Dio si presenta come re che lotta per la liberazione del suo popolo: “è un salvatore potente in mezzo a te”, è lui il primo soldato (cfr Is 9,5; 10,21) è “un guerriero che salva” mettendosi in prima fila; un’immagine questa frequente nei salmi di lamentazione (Sal 7,13-14; 10,15;) e nei profeti (cfr Is 9,6; 42,13; Gr 14,9; 20,11).

    Ritorna la bellezza e la gioia dell’amore antico e il piacere di un matrimonio rinnovato e se ne celebra nel giubilo la festa. Lo sposo non allontanerà più la sua sposa da sé, anzi, sarà lui stesso “a rinnovarla nel suo amore”, da se stessa infatti ne sarebbe incapace!

    Il protagonista di tutto sarà solo il Signore Dio!

    E quanto ai castighi minacciati, e al giorno dell’ira e del giudizio? Il “Giorno di JHWH” non appare più come il momento terribile della punizione, del castigo implacabile che si abbatte sul popolo peccatore: esso si trasforma invece nel giorno in cui finalmente il Signore riesce a far trionfare il suo amore sul male del mondo. Dio infatti vuole solo compiere opere di salvezza! L’ira di Dio è rivolta contro il peccato non contro il peccatore. La paura del castigo ben venga se essa viene a richiamare alla coscienza di Israele gli effetti disastrosi che il male produce con i suoi frutti di morte (cfr Is 3,11).

    Il piccolo “resto di Israele” trova in Maria “serva e sposa” la sua immagine emblematica. Non per nulla la vergine di Nazaret viene salutata con le stesse parole con cui il profeta si rivolge alla città santa: “Gioisci, non temere, il Signore è in te”. Per Luca la profezia trova dunque compimento in quell’istante: in Gesù discendente del trono di Davide, Dio stesso prende dimora in mezzo al suo popolo (cfr Gv 1,14), instaurando il suo regno eterno.

    In Cristo, Dio metterà in atto il “Giorno di vendetta”: si compirà nel giorno del venerdì santo, giorno di tenebre e caligine, in cui Dio opera un giudizio finale sul peccato dell’uomo e offre a tutti in Cristo la sua vittoria sul male.

    La gioia sarà grande: Dio è in mezzo al suo popolo (cfr Gv 20,19-20).

    Per la riflessione

    La paura del castigo accompagna l’esperienza religiosa di Israele e nostra: il nostro peccato non potrebbe attirare se non questo. Eppure proprio in questa amara constatazione la Parola ci invita alla gioia: essa è donata dal fatto che Dio “ci rinnova nel suo amore”, egli “è in mezzo a noi” come “salvatore potente”. Nessun male può permettere al credente di “lasciargli cadere le braccia”.

    Preghiera

    Ci si appoggia alla roccia,

    ma non serve:

    si sgretola la roccia.

    Ci si appoggia a un tronco,

    ma non serve:

    imputridisce e cade.

    Sostegno inalterabile,

    tu solo,

    padrone di tutte le cose.

    Tu solo ascolti la nostra preghiera.

    Tu che, solo, ci salvi,

    o Creatore!

    (Preghiera malgascia)


    [1] Dio promette ad Abramo una discendenza “numerosa come le stelle del cielo” (Gn 15,5), e Dio, per bocca di Amos, avverte Israele: “Come un pastore salva dalla gola del leone due zampe o il lobo di un orecchio, così saranno salvati i figli di Israele” (Am 3,12). Dio “vuole che tutti gli uomini siano salvi” (1Tm 2,4) ed annunzia che, al tempo della grande tribolazione, “se a motivo degli eletti, i giorni tristi non fossero abbreviati, nessuno avrebbe salva la vita” (Mt 24,22). Questo resto, risparmiato dal passaggio del giudizio, costituisce un elemento essenziale della speranza biblica. L’idea si collega all’esperienza delle guerre e dei loro massacri. L’annientamento del vinto praticato così spesso, poneva ad Israele il problema della sua sopravvivenza, e quindi del valore delle promesse divine. Secondo il contesto, la parola può caratterizzare l’ampiezza della catastrofe: “Non sopravvive che un resto” (Is 10,22), oppure evocare la speranza che sussiste con la sopravvivenza di un resto (il nostro caso).

  • 13 Apr

    Giairo e l’emoroissa

    Mc 5, 21-43

    di p. Attilio Franco Fabris

    L’episodio precedente è il miracolo della liberazione dell’indemoniato di Gerasa, prigionieri di satana nei sepolcri: 5,1-20.

    Qui Gesù appare come liberatore anche dalla morte, ultimo risultato del male e nemico ultimo: Rm 6,23; 1Cor 15,26.

    I due miracoli si commentano vicendevolmente incentrandosi su un unico messaggio.

    Essi sono legati dalle parole: “Salvare”, “Credere”, “Toccare”.

    Vi sono due donne

    Vi sono in comune “12 anni”

    Una è povera, segregata e paurosa

    L’altra una figlia di un capo della sinagoga.

    L’intento di Marco è di indicare Gesù come colui che suscita la fede.

    La fede di Giairo e della donna fanno sì che Gesù possa manifestare la sua potenza.

    L’incontro con Cristo fa scaturire la vita per l’una e per l’altra.

    Il brano evangelico è una catechesi sul cammino della fede in tre tappe:

    1.      una fede incipiente: quella che vede solo il proprio bisogno e limite, e guarda all’onnipotenza divina come ad una soluzione

    2.      un secondo livello è dato dallo sguardo di Gesù che cerca un dialogo, un rapporto. Da questo dialogo sgorga una parola che riapre alla speranza e alla vita al di là di quello che si poteva sperare di ottenere : “Va’ in pace!”.

    La fede ottiene così non solo un dono di guarigione fisica, ma diviene salvezza per la totalità dell’uomo. E’ esperienza del regno di Dio già presente ed operante in Cristo. Non siamo guariti solo dalla nostra miseria, ma dall’amore di Cristo ci viene dischiuso il limite stesso nel quale eravamo bloccati.

    3.      Un terzo livello ancora più alto è la fede che Gesù domanda a Giairo. Egli richiede una fiducia totale, che va al di là di ogni evidenza umana. E’ un invito a “sperare contro ogni speranza”. “Credi tu questo?” (Gv 11,26).

    Brani paralleli:

    Sap 1,13-15; 2,23

    Sal 30

    1Re 17,17-24

    2Re 4,8-37; 13,20

    Gv 11

    A. AMBIENTAZIONE: UNA RIVA DEL LAGO DI TIBERIADE E LA FOLLA

    21

    Il lago: è il luogo abituale in cui Gesù svolge la sua predicazione

    Siamo sul litoraneo di Cafarnao: il paese dove abita Gesù.

    Tutti lo conoscono: è un loro conterraneo.

    La folla:

    lo segue… i motivi?

    per curiosità, con varie attese, vi è forse devozione.

    Certamente una buona dose di fanatismo.

    Ricerca di qualche esperienza straordinaria: non è uno che fa miracoli?

    Spera di ottenerne qualche tornaconto.

    Perché ne hanno sentito parlare.

    Lo segue perché percepisce una parola diversa, detta “con autorità”.

    …………

    Se dovessi analizzare i motivi per cui ritengo di seguire Cristo quali elencherei?

    Provare ad enuclearli (in percentuale 100%)

    B. GIAIRO E LA SUA SUPPLICA

    22

    Ogni sinagoga aveva un responsabile coadiuvato da un piccolo consiglio (da tre a sette persone). Non è chiaro se Giairo sia il capo o uno del consiglio.

    Il capo della sinagoga dirige il servizio divino, conferisce le varie funzioni, cura la manutenzione dell’edificio.

    Giairo: dall’ebraico Jar (Risplenda la divinità, ma che può essere inteso anche come “Egli, Dio, risusciterà”). Un nome che indica la promessa.

    Egli sta cercando affannosamente Gesù.

    Chi tipo di persona è Giairo?

    La sua famiglia

    Il suo ruolo sociale

    La sua religiosità

    I suoi sentimenti in questo momento,

    le sue attese e le sue paure.

    La sua relazione con Gesù… come l’ha conosciuto?

    Che idea avrà di lui?

    Il gesto di gettarsi ai piedi indica la sua supplica, ma anche la sua disperazione, e l’urgenza della sua preghiera.

    Con questo gesto si riconosce un’autorità a cui si deve ascolto e obbedienza.

    Valore e significato del gesto di “cadere ai piedi”

    23

    Una preghiera di supplica che nasce dal profondo dell’angoscia

    Una situazione disperata: la “figlioletta” è agli estremi

    Un invito: vieni

    Una speranza: perché sia “salva” e “viva

    Egli prega in nome di sua figlia.

    Quale valore ha questa preghiera, come l’abbiamo sperimentata?

    il gesto di imporre le mani è abituale nella cultura semitica e sottolinea momenti importanti.

    Significa il conferimento/passaggio di un potere per un compito da svolgere o una guarigione.

    La ragazza deve essere “salvata”: quindi non si tratta di una semplice guarigione, ma di una salvezza da domandare. Una vita nuova da richiedere.

    24

    Gesù si avvia con Giairo e la folla.

    In questo cammino analizzare sentimenti, speranze, attese di Gesù, di Giairo e della folla.

    Una folla che “schiaccia” Gesù.

    Siamo sulla strada.

    C. L’EMOROISSA

    25

    L’emoraggia è la secrezione gonorreica sanguigna e purulenta della donna.

    La donna è ammalata da “dodici anni” ovvero da sempre. Dodici è il numero della totalità. E’ una radicale malattia e debolezza. Solo un intervento divino può liberare da una tale situazione.

    La donna perde la sua vita (=sangue) lontano dal Signore, è destinata alla morte.

    La sua malattia la rende impura, immonda. Di per se rende impura ogni cosa che tocca.

    Non può entrare nel tempio, né partecipare alle feste religiose (es. la pasqua). Come la lebbra essa la escludeva addirittura dalla società umana.

    Immaginiamo questa donna.

    Chi è? (La tradizione l’ha identificata con la Veronica che asciugherà il sangue sul volto di Cristo, ella avrebbe anche eretto un monumento in memoria del miracolo nella sua città di Banias (Eusebio).

    Da dove viene?

    Come vive la sua malattia?

    Che tipo di relazione ha con gli altri?

    Con i medici…

    Che tipo di religiosità?

    L’uomo tenta di accapparrarsi la potenza divina, di dominarla, di appropriarsene. Il Dio della rivelazione si è sempre sottratto a questa pretesa perché è lui che vuole donare la sua vita all’uomo e ne prende l’iniziativa: è il mistero della sua accondiscendenza.

    Solo in quest’ottica di accondiscendenza il limite diviene luogo di incontro e di comunione.

    Qui si riallaccia tutto il discorso sui sacramenti:

    come azioni di Cristo che nuovamente ci tocca e salva.

    Come vivere questo aspetto sacramentale?

    Ma anche si può riallacciare il tema del valore di tutta la realtà che ci circonda, che porta in sé la presenza divina. Questa realtà ci tocca continuamente. Tutte le nostre esperienze sono eventi attraverso i quali Dio ci tocca. Si tratta di esperienze che vengono derise dall’incredulo forte solo dei parametri della sua ristretta intelligenza.

    Occorre far uso della “memoria” per pregare gli avvenimenti della nostra vita. Essi non sono vuoti, ma carichi di una reale potenzialità di incontro con Dio. “Ogni avvenimento è un “oremus””.

    26

    Molti medici! E’ l’ansia della vita, la paura di perderla che costringe l’uomo a tentare tutte le vie ad affannarsi per trovare una soluzione alla sua paura. Ma invano! Il rimedio peggiora il male, un po’ come chi sta annegando e si agita. E quando la medicina non può far nulla…!!!??

    Ha dilapidato le sue sostanze.

    27-28

    Avendo udito”: la fede procede dall’ascolto.

    Da chi?

    Con quali risonanze?

    E’ convinta che basti “toccare” le vesti di Gesù per essere guarita.

    Essa si azzarda a compiere un gesto sacrilego contrastante la legge (Lv 15,19-30).

    Essa trova il coraggio di andare contro la legge. Cosa significa e comporta questo? Quali risonanze?

    Riguardo al “toccare il mantello” cfr. 3,10; 5,56

    Il verbo “toccare” è nel brano molto importante (4 x): esso esprime con un’immagine materiale la fede che è un venire a contatto con Gesù. La donna e Giairo sono convinti che il contatto fisico con Gesù è salvezza.

    Contro ogni ideologia è il “toccare” Cristo che salva (cfr. 1Gv 1,1ss).

    Il toccare nella fede è particolare perché fa sprigionare la potenza di Cristo.

    Ma vi è anche un altro toccare, quello della folla, che solo opprime e non produce nulla.

    Vi è un “toccare” interiore ed esteriore.

    C’è un toccare possessivo che è prendere, impossessarsi, ed una invece che è segno rimando alla comunione e all’amore: che riconosce l’altro nella sua diversità.

    I discepoli non comprendono ancora questo (v 31).

    Vuole “toccare” ma di spalle: ha paura!

    Infrange sì la legge ma di nascosto. Spera di farla franca.

    Non vuole scoprirsi nella sua povertà.

    Non vuole esporsi: è immonda.

    In mezzo alla folla la donna avrà faticato a trovare un varco per avvicinarsi a Gesù (rendendo tutti immondi!).

    E’ superstizione? Il vangelo sottolinea la disperazione e la sconfinata fede di questa donna a cui Gesù risponde con la guarigione e il dialogo intessuto con lui: la parola suscita e suggella il miracolo. La fede dunque non è solo esperienza soggettiva ma è incontro spirituale e personale con Dio.

    Qui si interseca il discorso circa il ruolo del bisogno nella dinamica della fede.

    29

    la guarigione è immediata. (non viene qui perseguita una dinamica cristologica!). La prospettiva è solo quella del contesto storico dell’attività di Gesù.

    30

    La potenza che esce da Cristo è la sua vita. Non è il contatto fisico che guarisce (=magia) ma la fede che è rapporto personale. Ci dona la sua vita perdendola.

    Gesù se ne accorge ovvero è attento e partecipa con la sua compassione alle sofferenze di chi gli si accosta. E’ Gesù che in verità “tocca” la donna, come farà con la piccola morta.

    Dal costato uscirà abbondante sangue, fino all’ultima stilla.

    E’ importante il passaggio dalle spalle al volto.

    Gesù si volta… (risonanze)

    31

    I discepoli non comprendono la domanda. Non sanno distinguerne la verità. Sono ancora fermi all’esterno del mistero di Cristo.

    32

    Lo sguardo di Gesù interpella: esprime elezione, salvezza, giudizio.

    L’incontro con lo sguardo mette sempre a disagio, ma apre a nuovi orizzonti.

    Analizzare l’esperienza vissuta dello sguardo di Dio su di noi: le risonanze che provoca

    33-34

    Vi è contrasto tra la paura della donna che si sente “sacrilega” e la dolcezza di Gesù che la riconsegna alla vita. Essa si attende che Gesù assorba la sua malattia senza venirne contagiato: è una fede che comprende e trascende anche ciò che è illegittimo e equivoco.

    La donna ha infranto i limiti imposti dal tabù, e da parte di Gesù essa riceve incoraggiamento ed approvazione.

    In lei un misto di gioia esplosiva e di paura (il suo gesto è equivoco e carico di risonanze negative: il contatto con donne mestruanti è comunque sempre negativo)

    La fede è certezza che Dio agisce attraverso Gesù, perché ama l’uomo ed invita ad intrattenersi con lui in un’esperienza d’accoglienza e di amore

    Cfr. 2,5; 4,40; 5,36; 9,23; 10,52.

    Questo incontro col volto di Cristo la libera da ogni paura e vergogna, ella può dire ormai tutta la verità.

    Perché? La forza risanante sperimentata dal contatto con Gesù la sopraffatta di gioia, si sente libera dal suo incubo.

    “Figlia”: espressione di confidenza e tenerezza

    “Va’ in pace”: non è solo augurio di benessere (“Stammi bene!”), ma proclamazione che la salvezza ha toccato questa donna, la quale è giunta di nuovo ad un’esperienza di comunione con Dio.

    Gesù non propone un conflitto tra fede e magia, ma trasporta le concezioni magiche della donna nella fede. Egli riconduce l’uomo ad una relazione fiduciosa con Dio: è una fede che risana dalla paura di Dio.

    Lo stato di Schalom definisce lo stato di integrità e di salute dell’uomo, il suo benessere.

    La “cura” sarà il risanamento operato dalla fede. Gesù non l’ha trasmesso come medico, ma come colui che ha risvegliato la fede in Dio e che toglie all’uomo i suoi tormenti.

    D. VERSO LA CASA DI GIAIRO

    35

    “Finché c’è vita c’è speranza” ma ora? La “figlioletta” è morta prima che il taumaturgo arrivasse.

    La morte è il caso estremo di malattia.

    La morte avviene “nel frattempo” dell’incontro con l’emoroissa.

    36

    Non cedere nella fede, neppure di fronte all’evidenza della sua apparente inutilità.

    E’ la fede che salva, chiamata a confrontarsi con la morte.

    “La tua fede ti ha salvata” (v 34).

    Gesù non si ferma a discutere, ma continua a procedere calmo e sicuro come nulla avesse sentito.

    37

    siamo nella linea del “segreto messianico”. E’ il primo miracolo che avviene lontano dalla folla.

    I tre apostoli prescelti sono coloro che assistono anche alla trasfigurazione e alla preghiera nel Getsemani ovvero tutti e tre gli episodi sono collegati dal tema della pasqua di morte e risurrezione.

    38

    sono i riti per esorcizzare la paura della morte.

    39

    Una domanda paradossale e apparentemente stolta. Come è stata quella ai discepoli nel mare: “Perché siete così paurosi?”. Gesù mette in discussione le cose più ovvie.

    La morte è un sonno.

    Si esprime la fiducia nel Dio più potente della morte.

    Ma su questo si apre un divario forte tra Gesù e i presenti.

    40

    non dei parenti ma degli altri intervenuti.

    41

    In aramaico. E’ potenza misteriosa?

    Si usano due verbi:

    –          svegliati

    –          alzati

    sono i verbi classici indicanti la risurrezione: 14,28; 16,6; 8,31; 9,9-10

    “Alzati amica mia, mia bella e vieni” (Ct 2,10)

    Non sono parole magiche di cui si servivano taumaturghi o maghi: la parola di Gesù è chiara ed esprime apertamente la sua volontà.

    42

    Vi è grande stupore.

    Chi è Gesù?

    Si è di fronte a qualcosa di inspiegabile che interpella la coscienza dell’uomo.

    Uno stupore simile a quello delle donne dinanzi al sepolcro vuoto (16,8).

    L’ultimo ordine appare paradossale!

    In realtà quello che si esige è nella linea del segreto messianico.

    43

    12 anni ha la fanciulla: l’età dell’amore, del fidanzamento.

    Un gesto di delicatezza da parte di Gesù.

    Ma anche un sottile preannuncio della sezione dei pani (6,6-8,30).

    Cristo è il pane della vita: Gv 6

    Appendice

    Il segreto messianico

    Esso assume il significato di una progressiva rivelazione del mistero di Cristo. Ovvero si tratta di un “metodo formativo” usato da Gesù stesso.

    Il suo era e resta sempre un mistero troppo arduo per essere compreso e accolto pienamente da tutti: è indispensabile la fede che viene dall’alto.

    Ed è attraverso la predicazione kerigmatica della Chiesa che vi si può accedere pienamente.

  • 12 Apr

    Un pellegrinaggio a dodici anni

    (Lc 2, 41-52).

    Poniamo attenzione soltanto alle prime battute del brano. Un brano molto ricco che contiene l’ordito della nostra vita. Anzitutto vediamo gli elementi che vengono descritti: i personaggi (i genitori e Gesù dodicenne), il contesto sociale (l’usanza del pellegrinaggio al tempio), il contesto geografico (Gerusalemme), il contesto religioso liturgico (la Pasqua, che è una festa). Di ogni elemento cercheremo di comprendere il valore e  di cogliere il messaggio per la nostra vita.

    1- “ I suoi genitori .   Sono presentati come osservanti, religiosi, devoti.  Il fatto che entrambi siano religiosi e osservanti, consenzienti ad andare in pellegrinaggio a Gerusalemme ogni anno, non è indifferente. In fondo Gesù viene qui definito a partire anzitutto da quell’atmosfera di serenità,   di fedeltà alla legge, che creano intorno a lui i suoi genitori.

    Questa grande grazia di avere il padre e la madre saldamente concordi sull’educazione profonda da impartire al proprio figlio, l’hanno anche molti di noi. Tuttavia c’è chi ha soltanto uno dei due; e addirittura c’è chi non ha nessuno dei genitori ad aiutarlo nella fede.

    – La riflessione si fa subito personale. E io come mi trovo in proposito? Quale apprezzamento ho dei miei genitori rispetto al mio credere, alla mia tensione morale e spirituale?

    la preghiera: “Ti ringrazio, Signore, per i doni che mi hai fatto attraverso la mia famiglia, i nonni, le persone che in qualche maniera hanno contribuito alla mia formazione Signore, so che tu disponi ogni cosa per il meglio, so che anche quello che a prima vista non mi è gradito, ha un significato salvifico per la mia vita. Fa’ dunque che io comprenda il senso delle grazie e il senso delle prove”.

    2. L’età di Gesù –   “ Quando egli ebbe dodici anni”.

    C’è poi il secondo personaggio che è il “fanciullo Gesù”colto non in un momento qualunque della sua vita, ma in un’età di passaggio perché questo dei dodici anni è un passaggio importante, è simbolo di un passaggio di vita che Gesù compie come uomo, come israelita, come figlio

    Gesù lo compie anzitutto come uomo E’ quel momento in cui una persona capisce che deve diventare uomo, cioè che comincia a prendere in mano la sua vita: quindi incomincia quella percezione che io devo decidere ciò che voglio fare di me nella vita; una percezione lenta, graduale che alla fine termina con la scelta dello stato di vita, della professione  E’ un’età di cambio esistenziale profondo, misterioso,

    *Egli compie questo passaggio anche come israelita, come figlio del suo popolo perché era l’età in cui uno si preparava a diventare “bar mitzwah” cioè “figlio della legge, del precetto”  Quindi un’età in cui uno comincia ad assumere in proprio i doveri religiosi come membro cosciente- responsabile del suo popolo.

    *E l’età in cui uno compie un forte passaggio anche come figlio di famiglia: è l’età in cui uno incomincia a ridefinire chiaramente il suo modo di essere figlio, fino a quel momento in cui Gesù si rivela rispetto al Padre suo nei cieli. Tutte le famiglie si accorgono che questo passaggio esiste. Mentre prima l’obbedienza andava quasi da sé, da quel momento si inizia a decidere quale rapporto tenere verso i genitori. Se è un rapporto accettato come rapporto di amore, di ubbidienza allora diventa cosciente, personale, vissuto.

    Come sintetizzo il messaggio delle prime parole: “il fanciullo Gesù ebbe dodici anni”?. E’ l’età dei grandi cambiamenti! * fisicamente, ma non ci si accorge che i figli cambiano come persone. acquisti un’altra fisionomia. Io ho I’impressione che molti genitori colgono solo quest’aspetto prevalente che poi comporta la ginnastica,

    Cosa vuol dire che cambiano come persone?

    Cambiano perché anzitutto sorge in essi una coscienza morale, che prima esisteva come ubbidienza o disubbidienza ai genitori, ma è a quest’età che una coscienza morale comincia davvero a essere qualcosa dentro. Una coscienza morale che è percepita come una coscienza del male come qualcosa di facile, di gratificante; e una coscienza del bene come qualcosa di necessario, ma di difficile e arduo. Uno allora comincia davvero a fare delle scelte, capisce che fare il bene è qualcosa di bello, di giusto, di necessario, di difficile e arduo. E fare il male è qualcosa che non si deve fare, ma è più facile anche sotto le forme della pigrizia, del lasciarsi andare, del fare tutte le proprie comodità, del non prendersi mai a cuore niente, del lasciare che i genitori provvedano a tutto, del non rendersi responsabile. E’ più facile lasciarsi servire in tutto, esigere sempre nuovi divertimenti e svaghi.

    Qui sorge il problema morale: io che cosa scelgo? Che cosa faccio? Faccio qualcosa di serio, di deciso? Accetto i sacrifici della vita oppure mi lascio andare a qualunque cosa? Ciascuno in questo momento sperimenta la propria libertà, la sperimenta come libertà di lasciarsi andare al male magari vissuto nelle piccole e semplici cose, che poi diventano complicate quando uno fa sempre i suoi comodi. Da qui nascono le pretese, le prepotenze, il lamentarsi per qualunque cosa … Oppure la sperimenta come libertà di fare il bene, il tenersi in mano, il sapersi sacrificare, il capire i bisogni degli altri … Con il problema morale della libertà nasce inoltre un problema che potremmo dire esistenziale: uno comincia, anche senza accorgersi, a interrogarsi: cosa faccio nella mia vita?

    Sono domande molto importanti, che non possono essere banalizzate, non sono più sogni di bambini. Certo c’è sempre molto sogno e molta fantasia in tutto quello che facciamo; grazie a Dio noi per tutta la vita siamo capaci di sognare e di fantasticare. Ciascuno di noi è una creatura un po’ artista che sogna e che si entusiasma. Però dietro queste cose c’è il bisogno di definirsi di fronte al proprio avvenire, di fronte agli altri, agli stessi genitori.

    3. Luogo fondamentale è certamente Gerusalemme, menzionato due volte: “si recavano tutti gli anni a Gerusalemme”, “il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme”.

    Ed è menzionata Gerusalemme non solo in maniera statica come città che è là, ma è la città che è meta di un pellegrinaggio verso la quale si va. Quindi come elemento di luogo è menzionato anche il fare pellegrinaggio, cioè compiere un gesto sacro altamente simbolico che consiste nell’avviarsi verso un luogo sacro, indicando un primato di Dio nella propria vita. Fare pellegrinaggio è segno di adesione sacra ad un mistero di Dio, manifestato in maniera privilegiata in questo luogo.

    Anche qui ci sarebbe tanto da dire perché noi sappiamo di quali significati è piena anche la menzione di Gerusalemme per un ebreo: Gerusalemme città di Dio, città Santa, città storica, capitale civile, luogo nella quale si rivela la gloria di Dio, luogo del tempio, della preghiera, della gioia, della festa, luogo nel quale soltanto si celebrano i sacrifici e le grandi feste di Israele.

    Un pellegrinaggio a un santuario è simbolo del pellegrinaggio della vita: l’incontro con Dio. Quest’anno più di un milione di giovani sono in cammino verso Colonia. Per festeggiare proprio quanto stiamo meditando.

    I tempi

    Il tempo viene indicato come Pasqua, anzi come la festa di Pasqua, meglio specificato con “i giorni della festa di Pasqua”: quindi è la Pasqua intesa come festa prolungata, festa di una settimana.

    Noi sappiamo quali evocazioni straordinarie ha la Pasqua per una famiglia ebraica per un fanciullo che ha sentito raccontare delle vicende di Mosè, dell’Esodo, dell’uscita dall’Egitto, dell’Agnello immolato il cui sangue era messo sugli stipiti delle porte perché l’angelo sterminatore risparmiasse gli Ebrei, del passaggio del Mar Rosso, del Sinai.

    La Pasqua è tutto questo; è una grande serie di simboli che ricordano il proprio passato, la propria storia e religione; è un po’ la sintesi di tutti i valori: “Dio si è chinato su di noi, si è ricordato del suo popolo mentre eravamo schiavi in Egitto, ci ha liberati, ci ha reso un popolo degno, unito ci ha dato una legge, una costituzione. Ci ha dato dignità, libertà …”

    Tutto ciò è collegato con questa Pasqua ed è anche un momento di gioia, festa.

    Quale signifcato ha per me la DOMENICA?  Noi non possiamo vivere senza la domenica”(sine dominica non possumus esse) “Sì, sono andata all’assemblea e ho celebrato la cena del Signore con i miei fratelli, perché sono cristiana”. Pronunciate dai Martiri di Abitine queste parole manifestano quale importanza i cristiani abbiano dato, fin dai primi secoli, alla partecipazione all’Eucaristia domenicale. L’hanno considerata come un’esigenza irrinunciabile.

  • 31 Mar

    LA PREGHIERA AL PADRE:  ABBÀ, PADRE!
    (Efesini 1,3-6)

    di p. Lyonnet


    Per penetrare più a fondo nella concezione paolina della preghiera ne esamineremo una, che forse è tra le più caratteristiche di quante se ne incontrano nelle lettere dell’Apostolo: quella che dà inizio alla lettera agli Efesini e si estende per undici versetti (Ef. 1,3-14). San Paolo ha riunito in essa i temi essenziali della rivelazione cristiana, e, poiché sembra che si sia ispirato a una delle preghiere giudaiche che gli erano più familiari, questo passo offre oltre tutto il vantaggio di permetterci un confronto quanto mai istruttivo fra questa rivelazione e quella che più le si avvicina perché l’annuncia e la prefigura, quella cioè dell’A.T. Ci soffermeremo per ora solo sui primi quattro versetti di questa «benedizione» che apre la lettera agli Efesini, cercando di precisare in quale senso Dio vi è chiamato Padre:

    Benedetto sia il Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo,
    che ci ha benedetti con ogni sorta di benedizioni spirituali nei cieli, nel Cristo.
    In lui egli ci ha scelti fin dalla creazione del mondo
    per essere santi e immacolati alla sua presenza, nell’amore,
    predestinandoci ad essere per lui figli di adozione per mezzo di Gesù Cristo
    secondo il beneplacito della sua volontà,
    in lode della gloria della sua grazia di cui ci ha gratificati nell’Amato.

    Non solo la forma letteraria, ma i temi evocati nel corso di questa preghiera e perfino certe formule tipiche richiamano stranamente la seconda ‘benedizione’ che mattina e sera nella liturgia del tempio precedeva la recita ufficiale della professione di fede dell’israelita: «Ascolta, Israele! il Signore, tuo Dio, è unico: amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore…».

    Come l’inno di ringraziamento paolino, questa preghiera è interamente consacrata a celebrare l’amore per il suo popolo di Colui che è Dio e Padre. Tra tutte le preghiere del rituale giudaico essa è quella in cui il termine ‘amore’ ricorre più frequente, la sola che inizia e finisce con esso. Eccone l’inizio e la fine:
    Con un amore eterno ci hai amati, o Signore, nostro Dio; con una pietà estrema e sovrabbondante hai avuto pietà di noi, o Padre nostro, nostro Re… Ci hai eletti tra tutti i popoli… affinché ti lodassimo e proclamassimo che tu sei unico nell’ amore.
    Benedetto sii tu, Signore che hai eletto il tuo popolo d’Israele nell’amore!

    Benedetto sia il Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo. Lo sguardo dell’Apostolo si ferma prima di tutto sulla persona del Padre, anche se la lettera è tutta intesa a esaltare il primato di Cristo. Al Padre vien rivolta direttamente la lode, così come da lui procedono tutti i benefici che si appresta ad elencare;

    egli ci ha eletti nell’amore (v. 4),

    ci ha predestinati ad essere suoi figli (v. 4),

    ci ha elargito la sua grazia (vv. 6,7,8),

    ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà salvifica (v. 9)

    e ha realizzato in Gesù Cristo il disegno prestabilito (v. 10).

    Da lui tutto proviene e a lui tutto deve ritornare, poiché tutto è «per la lode della sua gloria», secondo la formula che Paolo ripete a tre riprese (VV.5,12,14), come per scandire una ad una le strofe di questo canto di riconoscenza. È vero che il Cristo vien nominato ad ogni versetto, ma non a lui è rivolta direttamente la preghiera: egli è mediatore. Certo il Nuovo Testamento non ignora la preghiera a Cristo (per es. Atti 7,59). Ma ciò che propriamente distingue il cristiano dall’israelita, non è il fatto che egli invoca Cristo in luogo di Jahvé, ma piuttosto che invoca Jahvé «nel nome di Gesù» (1), cioè, come pare, in unione con lui (2), così che la sua preghiera diventa la stessa che Gesù rivolge al Padre, come quando la liturgia prega: per Dominum nostrum Iesum Christum (3).

    San Paolo poi non si contenta, come la preghiera giudaica, di dare a Dio il titolo di Padre, ma volutamente precisa: «Padre di nostro Signore Gesù Cristo». Tutto procede da Dio in quanto è Padre non del popolo d’Israele, ma del suo unico Figlio: in lui ci ha eletti nell’amore, per lui ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi, favore incomparabile che ci ha accordato «nell’Amato», colui che la lettera ai Colossesi (1,13) chiamava «il Figlio del suo amore». L’amore di Dio sorgente della nostra filiazione non è solo l’amore – per quanto grande fosse – con cui secondo l’Antico Testamento Dio amava Israele, suo «figlio primogenito» (Es. 4,22), ma è l’amore stesso con cui il Padre ama il suo Figlio unico.

    Nessuno mai aveva potuto sospettar ciò; l’israelita sapeva di essere amato da Dio come da un padre (4), anzi più che da una madre (5); ma aveva sempre una gran cura di evitare ogni possibile confusione tra questa paternità fondata su una elezione del tutto gratuita e la paternità più o meno «naturalista» che i pagani attribuivano di fatto ai loro dei, a Zeus o Giove (cioè «Iupiter», ossia Zeus-padre). Perciò, a differenza di costoro, l’Antico Testamento non ha mai una preghiera in cui il fedele si rivolga a Dio chiamandolo «Padre»: lo invoca col titolo di Dio, Signore, Salvatore, Redentore, con quello di Padre mai (6). L’invocazione è vero, appare in epoca più recente, per esempio nella liturgia giudaica, cioè quando il pericolo di confusione era scomparso; ma la preoccupazione di salvaguardare il carattere assolutamente unico della paternità divina non vien meno. Un ragazzo ebreo era solito rivolgersi a suo padre col titolo di abbà cioè «padre» o, forse meglio, «papà»; ma rivolgendosi a Dio un ebreo dirà generalmente abinu, «padre nostro», e per lo più aggiungerà qualche altro titolo, come «nostro re», «nostro signore», oppure una qualifica come «che sei nei cieli». Studi recenti hanno mostrato che l’ebreo non diceva mai abbà in riferimento a Dio.

    Apriamo ora il vangelo, ed eccoci davanti a una scena del tutto diversa. Non solo Cristo invoca suo Padre col titolo abbà, ma praticamente non ne conosce un altro. Per lo più gli evangelisti hanno la traduzione greca pater, ma San Marco ha tenuto a riprodurre l’originale aramaico abbà (Mc. 14,36) (7) che certamente va messo ovunque il testo greco porta pater, oppure o paterPadre, perdona loro, perché non sanno ciò che fanno (Lc. 23,34). Se egli grida: Mio Dio perché mi hai abbandonato? (Mt.27,46; Mc. 15,34), non è perché Dio non gli appare più come un «padre», ma perché si propone di citare alla lettera l’inizio del Salmo 22, che del resto «termina in un’azione di grazie per la liberazione attesa» (Bibbia di Gerusalemme). E poco appresso, quando si accontenterà di ispirarsi a un’espressione biblica presa da un altro salmo senza voler fare una vera e propria citazione, là dove il salmista aveva detto «Signore» sulla sua bocca verrà spontaneo abbà: «Padre, nelle tue mani io rimetto il mio spirito» (9). (Padre, o: il Padre), segnatamente in San Giovanni (8) e nella preghiera di Cristo in croce riferita da San Luca:

    Potrebbe anzi darsi che il Cristo abbia iniziato a rivelare ai suoi discepoli il mistero della sua filiazione divina appunto servendosi di questa invocazione così caratteristica. Comunque, la prima volta che i vangeli riferiscono una preghiera di Cristo, a due riprese ricorre sulle sue labbra il termine «Padre» cioè abbà : Io ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto questo ai sapienti e agli scaltri e l’ hai rivelato ai semplici. Sì, Padre, perché questo è stato il tuo beneplacito! (Mt. 11,25-26; Lc. 10,21). Ma soprattutto la solenne dichiarazione che segue immediatamente sembra proprio destinata nel pensiero di Gesù a spiegare e quasi a giustificare agli occhi degli ascoltatori un’invocazione così inaudita da parte di un giudeo, che si rivolge non più al padre terreno, ma a Dio stesso: Tutto mi è stato dato dal Padre mio e nessuno conosce il Figlio se non il Padre, così come nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui il quale il Figlio vuol rivelarlo (Mt. 11,27; Lc.10,22).

    Ma ciò che più sorprende non è che Cristo nella sua preghiera si rivolga a Dio chiamandolo abbà – come se fosse la cosa più naturale – ma che questa invocazione sia diventata la preghiera anche del più umile cristiano. Infatti S. Paolo è esplicito: La prova che siete figli, scrive ai Galati, è che Dio ha mandato nei vostri cuori lo Spirito del suo Figlio, che grida: Abbà, Padre (Gal. 4,6). E ai Romani: Avete ricevuto uno Spirito di figli adottivi che ci fa gridare: Abbà, Padre (Rom. 8,15). Si capisce che San Marco, abbia tenuto a riprodurre il termine aramaico abbà, e che per pronunciare un’invocazione siffatta sia necessario aver prima ricevuto lo Spirito del Figlio. Ma questo ci fa capire quanta differenza distingua la nostra fìliazione da quella conosciuta nell’Antico Testamento: questa si basava sull’elezione, la nostra non si concepisce che in funzione e in dipendenza dalla fìliazione «naturale» del Figlio unico. Dio ci ha predestinati ad essere per lui figli di adozione per mezzo di Gesù Cristo in quanto è Padre di nostro Signore Gesù Cristo (10).

    È però vero che Cristo, secondo San Matteo, ha insegnato ai discepoli a pregare dicendo non come lui abbà, ma come i Giudei: «Padre nostro» cioè abinu, e ad aggiungere anche, come essi facevano, «che sei nei cieli» (Mt. 6,9). Se la preghiera abbà esigeva una giustificazione sulle sue labbra, come avrebbe potuto dir loro di primo acchito: «quando pregate, dite come me: abbà»? Il compito di «condurli verso la verità tutta intera» (Giov. 16,13) era riservato allo Spirito. San Paolo ci insegna che lo Spirito Santo ha messo sulle labbra e nei cuori dei discepoli il termine abbà, «Padre». E San Luca, sostituendo al «Padre nostro che sei nei cieli» di San Matteo il semplice «Padre», che sicuramente rende abbà, intendeva probabilmente precisare il senso che i cristiani istruiti dallo Spirito davano alla formula ricevuta da Cristo e insegnarci a caricare l’espressione giudaica di tutta la confidenza, la tenerezza e l’amore che riempivano il cuore di un fanciullo quando si rivolgeva a suo padre dicendogli «papà» (11), o più ancora tutta la confidenza, la tenerezza e l’amore che riempiva il cuore di Cristo quando si rivolgeva a Dio dicendogli abbà, «Padre».

    Nessuna meraviglia che la liturgia, introducendo la solenne recita del Pater nella messa latina, parli di audacia: «osiamo dire» (audemus dicere). Singolare audacia è infatti ardire di assumere nei riguardi di Dio proprio lo stesso atteggiamento espresso da quel termine abbà, che poteva prendere il Figlio unico e prediletto nei riguardi del Padre suo. Ma è un’audacia legittima. Benedetto sia il Dio e Padre di nostro Signor Gesù Cristo che ci ha predestinati ad essere per lui figli di adozione per mezzo di Gesù Cristo!

    [1]. Si paragoni la formula di Ef. 5,9 (preghiere indirizzate al Signore») e quelle del passo parallelo di Col. 3,16 (preghiere indirizzate «a Dio nel nome di nostro Signore Gesù Cristo»).
    [2].
    Cfr. Giov. 14,13 e la nota della Bibbia di Gerusalemme.
    [3].
    Cfr. J. GUILLET, L’action de graces du Fils, nel periodo «Christus» n. 16 (1957) pp. 438-453 e Le Christ prie en moi: ibid. n. 19 (1958), pp. 150-165; oppure Jésus Christ hier et aujourd’bui (collana «Christus» n. n), cap. 9 e 16.
    [4].
    Così Deut. 32,6; Is. 63,16; 64.7; Ger. 31,20.
    [6].
    La sola vera eccezione è Sap. 14,3: «è la tua provvidenza, o Padre, che lo guida».
    [5]. Così Is.49,14-16; cfr. 66,3; Sal. 27,10.
    [7].
    La lingua aramaica era la lingua usuale dei Giudei di Palestina al tempo di Gesù, e la lingua di Gesù stesso.
    [8].
    Così Giov. 11,41; 12,27-28; e la preghiera sacerdotale del cap. 17 (VV.I,5,1I,21,24,25).
    [9].
    Lc. 23,46, che cita Sal. 31,6.
    [10].
    Ef. 1,3-4. Cfr. 2 Cor. 1,3.
    [11].
    Confronta la parola di santa Teresa del Bambin Gesù a sua sorella, il 5 giugno 1897: «Se un mattino mi trovaste morta, non datevi pena; papà, il buon Dio, sarebbe semplicemente venuto a cercarmi» (Novissima verba, p. 28).

  • 30 Mar

    Dalla notte della schiavitù al mattino della liberazione

    Es 14

    di p. Attilio Franco Fabris


    In Esodo 14 ci troviamo di fronte ad un testo che, nel suo insieme e nella sua redazione finale è tutto un documento di fede. Ciò che interessa all’autore biblico non è tanto riportare esattamente come si siano svolti “storicamente” i fatti, ma il raccontare il significato esistenziale che Israele ha attribuito a questi fatti. Si tratta di una dimensione “storica” diversa, ma molto più profonda di una ricerca dei “nudi fatti”. Perciò il testo biblico per essere letto e compreso in tutta verità deve essere accolto come documento di fede, come un testo che riporta degli eventi che sono stati capiti alla luce del Signore da persone coscienti del fatto che tutta la storia umana si volge davanti a lui e in essa Egli va disegnando la sua storia di salvezza.

    L’evento raccontato da esodo 14 contiene un significato che si inscrive nella vicenda del popolo santo di Dio, di Gesù di Nazaret, della Chiesa, di ciascuno di noi. E’ una tappa della storia della salvezza che pur godendo della sua autonomia storica, diviene per tutti modello paradigmatico.

    Esodo 14 racconta quella che è una tappa fondamentale della storia della salvezza, una tappa che dovrà restare impressa nella memoria e nel cuore e del quale il popolo dovrà celebrarne il memoriale ogni anno nella festa della Pasqua perché quello che Israele capisce di se stesso e della sua identità e soprattutto di Dio si compie proprio nel Mare di Suf. Momento così decisivo che quando Dio si rivolgerà al popolo in seguito, lo presenterà sempre come propria carta da visita: “Voi avete visto ciò che ho fatto all’Egitto… come vi ho condotti a mano alzata e braccio teso” Es 19,4; “Io sono JHWH, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, da una casa di schiavitù” (Es 20,2 inizio del decalogo); “Tu risponderai a tuo figlio: Noi eravamo schiavi del faraone in Egitto e IHWH ci ha fatto uscire dall’Egitto con mano potente” (Dt 6,21);  “Gli Egiziani ci maltrattarono, ci oppressero, ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore Dio dei nostri padri, ed egli ascoltò la nostra voce, vide la nostra miseria e la nostra oppressione e ci fece uscire dall’Egitto con mano forte, con braccio teso, con terrore grande, con segni e prodigi” (Dt 26,7-8).

    Un altro aspetto di cui tenere conto nella Lectio del nostro brano è il suo contesto. Un testo staccato dal suo contesto rischia di risultare incomprensibile, sicuramente risulta molto più povero di contenuto e messaggio. Il capitolo 14 di esodo risolve quella tensione che era iniziata sempre più acuendosi dal primo capitolo del libro.

    Il capitolo primo si conclude con la decisione del faraone di far uccidere tutti i figli maschi degli ebrei (v. 22).

    Nel capitolo 14-15 assistiamo al ribaltamento della situazione: il pianto si trasforma in canto di gioia, mentre l’Egitto piange la morte dei suoi primogeniti (Es 12,29-30). Israele è salvo sull’opposta riva del mare e vede i suoi nemici affogati (Es 14,30-31).

    I capitoli intermedi (7-12) descrivono i tentativi di liberazione da parte di Israele per la mediazione di Mosè e Aronne con le dieci piaghe inferte agli egiziani. Quando Dio interviene per operare la sua salvezza, il “mondo-Egitto” oppone una resistenza indicibile, perché non vuole essere salvato. C’è un combattimento, una lotta da intraprendere contro queste forze negative che si annidano nel cuore umano. Il nemico è anzitutto dentro di noi, l’uomo vecchio che ostacola l’opera di Dio. Questo male in noi si annida, si camuffa, agisce nel nascondimento facendoci costruire ad esempio un Dio a nostra misura ed immagine, che combatte il volto del vero Dio. Si deve lottare lungamente contro il peccato annidato nei punti oscuri del nostro cuore, perché si riveli il vero volto del Signore in noi e vengano abbattuti tutti i falsi dei costruiti dalle nostre mani.

    Tutta la scena di Es 14 si colloca in una precisa dimensione spazio temporale. Israele è accampato presso il mare. Lo spazio della vicenda è contrassegnato dal mare e dall’asciutto. Il testo poi è costruito perché tutta la vicenda si svolga nell’arco di una nottata, comprese la sera precedente e la mattina seguente.

    E’ sera quando gli egiziani raggiungono Israele in riva al mare, e il popolo grida di terrore.

    E’ notte quando il mare viene attraversato.

    Ed è mattina quando Mosè e tutto Israele contemplano ciò che Dio ha operato per loro ed esplodono nel canto di gioia (Es 15).

    Il mare, la notte, il giorno sono tutte realtà cariche di valore simbolico. Perciò occorre farne una lettura che tenga conto del valore emblematico e paradigmatico dell’evento che viene narrato.

    E’ possibile suddividere il capitolo in tre grandi atti, tre atti del grande dramma che si svolge nel Mare di Suf.

    L’angoscia di trovarsi senza vie di uscita: vv. 1-14

    Es 14,2 «Di’ ai figli d’Israele di ritornare e di accamparsi di fronte a Pi-Achirot, tra Migdol e il mare, di fronte a Baal-Zefon: vi accamperete davanti a quel luogo, ai bordi del mare.

    La parola “mare-acque” è ripetuta con insistenza in tutto il capitolo. Il mare è simbolo del male, di forze minacciose che richiamano potenze infernali, è simbolo dunque di morte. In Gn 1,2 prima della creazione esisteva un abisso tenebroso di acque, un caos primordiale, informe, senza vita. Sarebbe interessante un richiamo alla vicenda di Giona inghiottito dal pesce che lo trascina nelle profondità tenebrose del mare. In questa situazione di angoscia e di morte egli prega: Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce. Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare e le correnti mi hanno circondato; tutti i tuoi flutti e le tue onde su di me sono passati… Le acque mi hanno sommerso sino alla gola, l’abisso mi ha avvolto… Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita”: Il tema è molto ricorrente sia nell’AT come nel NT: Perciò ti circondano i lacci e sei turbato da un repentino spavento, oppure un’oscurità non ti fa vedere, e una piena d’acqua ti sommerge. (Gb 22,10-11): Estraimi dal fango, che io non sprofondi, che sia strappato da quelli che mi odiano, e dagli abissi delle acque. Non mi sommerga la corrente delle acque, non m’inghiottisca il pantano e la voragine non chiuda su di me la sua bocca. (Sal 69,15-16); “Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena.(Mc 4,37): Sbattuti violentemente dalla tempesta, il giorno seguente cominciarono a gettare a mare il carico; (At 27,18). Il mare dunque è uno dei protagonisti del dramma, è nemico dell’antico e del nuovo Israele.

    Il v. 9 ci presenta gli israeliti accampati “presso il mare”.

    Il faraone li sta inseguendo “a mano alzata” (v. 8): spavaldo e arrogante, certo della sua vittoria e forte del suo esercito: Il faraone allora attaccò il cocchio e prese con sé i suoi soldati. Prese poi seicento carri scelti e tutti i carri di Egitto con i combattenti sopra ciascuno di essi (vv. 6-7)

    Israele è senza vie d’uscita: il mare davanti, il faraone e il suo esercito dietro, il deserto ai lati: Quando il faraone fu vicino, gli israeliti alzarono gli occhi: ecco, gli egiziani muovevano il campo dietro loro! Allora gli israeliti ebbero grande paura e gridarono al Signore (v. 10).  Quindi urla di paura, di terrore all’indirizzo non tanto di Mosè quanto di Dio stesso. L’angoscia lo attanaglia: Israele circondato dal pericolo, dimentica Dio, implicitamente accusandolo di non averlo realmente liberato, ma di averlo fatto uscire dalla schiavitù solo per farlo morire nel deserto.

    Così il salvatore può assumere nell’immaginario dettato dall’angoscia la fisionomia distorta di un aguzzino, mentre il nemico può apparire improvvisamente come l’unica ancora di salvezza. La paura getta nella menzogna, da cui si è assolutamente incapaci di uscire da soli:            Forse perché non c’erano sepolcri in Egitto ci hai portato a morire nel deserto? Che hai fatto portandoci fuori dall’Egitto? Non ti dicevamo in Egitto: Lasciaci stare e serviremo gli egiziani, perché è meglio per noi servire l’Egitto    che morire nel deserto? (vv. 11-12). Appare evidente nel testo l’antitesi Egitto/deserto: un’alternativa di fronte alla quale Israele si sente posto. E la vita da schiavi sembra migliore della morte nel deserto. L’Egitto, terra di schiavitù, diviene oggetto di nostalgia. Il deserto appare alternativa che trascina nella morte. Per due volte le parole deserto-morire sono congiunte.

    A questo punto la parola di Mosè è decisiva per ricondurre la coscienza del popolo alla verità: Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi; perché gli egiziani che oggi vedete, non li rivedrete mai più! Il Signore combatterà per voi, e voi state fermi e in silenzio (v. 14). Mosè domanda fiducia e capacità di attesa, e questo in una situazione altamente drammatica di cui ne va di mezzo la vita.(“Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede”. Mc 4,39-40)

    Si tratta di aprirsi alla “speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18 “Abramo credette, al di là di ogni speranza”). Una capacità di “vedere” l’Altro mentre istintivamente saremmo portati a ripiegarci su noi stessi e le nostre paure.

    Ma occorre fare attenzione: le parole di Mosè, non significano che, nelle situazioni terrificanti della nostra vita, Dio viene a metterci una mano sulla spalla per consolarci, dicendoci: “Coraggio, adesso vengo io, ti prendo e sarai salvo!”. Dio ci salva facendoci passare attraverso la morte! (E diceva: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» Mc 14,36)

    Così si chiude il primo atto: con l’angoscia e il terrore che percorre il popolo e con l’invito di Mosè ad aprirsi alla fiducia in Dio.

    Se dovessimo poi domandarci il senso di quest’angoscia potremmo rispondere che esso  diviene in qualche modo indispensabile affinché Israele  sperimenti fino in fondo la sua debolezza e precarietà, la sua radicale incapacità a salvarsi con le proprie mani.

    Tutto questo Dio lo opera perché non intende salvarci senza di noi. La promessa contenuta in Es. 14,4 non viene mantenuta da Dio automaticamente, perché la sua salvezza non si opera quasi mai come per un atto magico, bensì suppone e include l’adesione della mia libertà. Io, con la percezione del mio bisogno di essere salvato e con la convinzione della mia totale incapacità a operare la salvezza con le mie mani, so che devo lasciarmi salvare dall’unico Salvatore. Il Signore non opera miracoli senza di noi. Forse anche per questo, prima di questo evento prodigioso di salvezza, che trova espressione piena in Es 15, tutta una lunga serie di fatti ha dovuto precedere: la chiamata di Mosè e di Aronne, la loro mediazione, le dieci piaghe… Un lungo cammino perché il popolo, che ha iniziato così a sperimentare che il Signore salva davvero dal momento che l’ha già fatto uscire dall’Egitto, capisca che, anche quando è preso nella morsa del terrore più cupo e ha davanti a Sé solo la morte, in realtà, prima di tutto, si trova pur sempre di fronte al Signore, il quale ancora lo salverà attraverso la via dell’impossibile.

    Attraversare il mare…di notte:  vv. 15-25

    Il secondo atto comincia con un nuovo ordine dato da Dio a Mosè perché Israele riprenda il cammino. Israele si trova così ad affrontare una paura ancor più angosciosa: passare il mare con tutto quello che significa: Il Signore disse a Mosè: «Perché gridi verso di me? Di’ ai figli d’Israele di partire. Tu alza il tuo bastone e stendi la tua mano sopra il mare e si separi, e i figli d’Israele passino in mezzo al mare all’asciutto. (vv.15-16)

    Il passaggio avviene di notte e in silenzio. Dio fa percepire la sua presenza in una colonna di nube. Il Signore c’è, ma è nascosto dalla nube. Il v. 20 letteralmente andrebbe tradotto: Ci fu la nube e l’oscurità; ed essa rischiarò la notte. Una notte stranamente rischiarata dalla nube. Simbolo di sofferenza, terrore e morte, la notte è illuminata da “un’altra notte” la quale è però quella della nube, che nasconde la presenza di JHWH. Quindi la notte, pur tenebrosa, piena di forze oscure e mortali può diventare il luogo della presenza salvifica di JHWH per chi ha occhi per riconoscerla: Allora ho detto: «Almeno le tenebre mi potrebbero coprire, la notte mi potrebbe racchiudere». Ebbene, non sono oscure per te le tenebre, e la notte risplende come il giorno, come le tenebre così è la luce (Sal 139,11-12). A un certo punto la nube passa alla retroguardia, sì da illuminare gli israeliti e da oscurare gli egiziani. Per gli uni luce, per i nemici notte: è la luce della fede che solo il credente riesce a scorgere!

    Ormai Israele, che ci vede, non può più tornare indietro e non sono più possibili ripiegamenti nostalgici; il passato di schiavitù è finito per sempre. Dio non permette che il suo popolo ritorni indietro; egli ha frapposto la sua Shekhinah tra Israele e l’Egitto. Dio diviene scudo e schermo tra il nemico ed Israele: Anche se camminassi in una valle oscura, non temerei alcun male, poiché tu sei con me; il tuo bastone e il tuo vincastro sono essi la mia difesa. Una mensa tu prepari davanti a me di fronte ai miei avversari, hai unto con olio il mio capo e la mia coppa è traboccante (Sal 23,4-5).

    Allora Mosè stese la mano sul mare. E il Signore, durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero. Gli israeliti entrarono nel mare sull’asciutto, mentre le acque erano per loro una muraglia a destra e a sinistra (vv. 21-22). Israele avanza in mezzo al mare che sembra inghiottire da un momento all’altro ogni cosa. Eppure quella strada così pericolosa è via di salvezza: tutto è nelle sue mani e tutto serve per salvare. Solo JHWH può servirsi del vento-ruach-Spirito per rendere il mare terra asciutta, la morte vita. Ma si deve avere il coraggio di entrare nel mare, nell’acqua, nella morte, rischiando tutto e fidandosi completamente di lui: Pietro gli disse: «Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. (Mt 14,28-29)

    Il canto della liberazione: vv. 26-31

    Il terzo atto del dramma contiene l’ultimo comando di Dio: Il Signore disse a Mosè: “Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli egiziani, sui loro carri e i loro cavalieri”. Mosè stese la mano sul mare e il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto, mentre gli egiziani, fuggendo, gli si dirigevano contro. Il Signore li travolse così in mezzo al mare (vv. 26-27). Il Signore combatte e distrugge il nemico di Israele. Cosa significa questo combattimento? Se un combattimento c’è stato, questo non è stato combattuto né da Dio, né da Israele, ma i nemici dell’uno, e quindi anche dell’altro, si sono affrontati distruggendosi tra di loro. Le acque vengono qui quasi personificate e diventano un soggetto che prende l’iniziativa di travolgere gli egiziani: Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone, che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure uno (v. 28).

    Gli egiziani si dirigevano contro il mare: sono andati essi stessi a buttarglisi tra le braccia per farsi travolgere. In una lettura dell’Antico Testamento risulta sempre che i nemici di Israele sono i nemici di Dio e viceversa. Poiché Israele è il popolo di Dio, il sacramento della strategia della salvezza escogitata da Dio per tutti i popoli, l’appartenenza a JHWH lo costituisce nella sua identità profonda. Coloro che attentano alla vita dell’eletto, implicitamente od esplicitamente attentano al disegno salvifico di Dio, non vogliono lasciarsi salvare da lui.

    Il male che emerge dal confronto col Signore è smascherato, esso si rivela nella sua inconsistenza, ancor più alla fine è potente solo per distruggere se stesso. I nemici di Dio si autodistruggono o si distruggono tra loro a motivo dell’inevitabile autoannientamento a cui il male è destinato: Il valore quindi è per voi che credete; per coloro che non credono, la pietra scartata dai costruttori è diventata la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo. Essi inciampano disobbedendo alla parola e a questo inciampo sono destinati (1Pt 2,7-8). Così il mare, nemico di Israele e di Dio simbolo di arroganza e di morte, annienta l’altro nemico del Signore e d’Israele, cioè l’Egitto: Invece gli israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare, mentre le acque erano per loro una muraglia e destra e a sinistra (v.29).

    La sconfitta definitiva del nemico è annunciata nell’Apocalisse: Poi vidi un cielo nuovo e una terra nuova. Infatti, il cielo e la terra di prima erano scomparsi; neppure il mare c’era più  (Ap 21,8).(cfr  Cfr. Gs 6: la caduta delle mura di Gerico Gdc 6-7: la battaglia di Gedeone contro i filistei 2Cr 20: la distruzione degli ammoniti e moabiti)

    Dio è creatore di tutti, ama tutte le sue creature e non si darà pace finché non avrà manifestato la sua salvezza anche agli egiziani (cfr. 14,4.18; 25b). Vi è un bellissimo midrash a comment di questo: “Gli angeli del servizio divino vollero allora dinanzi alla distruzione degli egiziani intonare un cantico di lode davanti al Santo, egli sia benedetto. Allora il Santo, egli sia benedetto, disse loro: L’opera delle mie mani annega nel mare, e voi vorreste intonare un cantico davanti a me?”.

    Israele ha attraversato il mare di notte, in silenzio. Si è trovato sulla riva opposta, è passato come in un sogno:                 Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion ci sembrava di sognare (Sal 126,1) (Oltrepassato il primo posto di guardia e il secondo, vennero alla porta di ferro che metteva in città. Essa si aprì da sola davanti a loro. Uscirono e si avviarono per una strada e improvvisamente l’angelo si dileguò da lui. Allora Pietro, rientrato in sé, disse: «Ora capisco davvero che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha liberato dalla mano di Erode e ha reso vana l’attesa del popolo dei Giudei» (At 12,10-11)

    La paura si è trasformata in timore e canto di lode: E il popolo temette il Signore e credette nel signore e nel suo servo Mosè (v 31). Timore reverenziale e umile di chi, trovandosi davanti alla maestà di Dio, confida in lui con tutto il suo cuore. La stessa radice che indica la “paura” è ora utilizzata per il “timore”.

    Infine sottolineiamo l’aspetto comunitario: è fondamentale. Il capitolo 14 è costruito in modo tale che si giunga al 15 risolvendo una solitudine: quella di Mosè. Il popolo appare distante, recalcitrante, subisce più che credere a quello che sta accadendo. Solo dopo che Dio avrà operato l’impossibile l’atteggiamento del popolo cambia radicalmente nei confronti di Dio e di Mosè: Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto e il popolo temette il Signore e credette nel Signore e nel suo servo Mosè (v. 31). Nessuno può accapparrarsi la salvezza per sé solo: il cuore del Signore non ha pace finché tutti i suoi figli non vivano in una comunione di gioia piena. La lode è gradita quando è elevata da tutti insieme.

    E’ una situazione ben diversa da quella descritta nel primo atto del dramma, dove il popolo era paralizzato dal pensiero di dover morire. Ora non è più preoccupato per la propria vita, perché ha visto che la vera vita è stare dalla parte del Signore. Ha capito, paradossalmente, che sono proprio la sofferenza e la morte quelle che ci fanno vivere, perché ci consegnano totalmente a lui, e a lui ci rendono più simili e vicini. E’ il modello della nostra conversione, in cui accogliamo il paradosso del passaggio di Dio attraverso la storia.

    La lettura con Cristo

    Questa vicenda del passaggio attraverso il mare è anticipazione di quello che avverrà nella passione e morte di Gesù (cfr Mt 14,25-33…). In questo “passaggio” anche Gesù si trova totalmente solo, in una sensazione di fallimento completo, una nudità totale. Il Padre gli chiede di continuare ad avere fiducia e di entrare nell’oscurità del mare della morte, discendendo negli abissi dello Scheol.

    Sull’altra sponda è il Padre stesso che lo attende, lo Spirito soffia potentemente perché le acque di morte si riaprano per lui alla vita risorta. E’ questa l’ultima pasqua del Signore, il suo passaggio, che ha vinto l’ultima e più vera paura dell’uomo: la morte: “Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete -, dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. Dice infatti Davide a suo riguardo: contemplavo sempre il Signore innanzi a me; poiché egli sta alla mia destra, perché io non vacilli. Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua; ed anche la mia carne riposerà nella speranza,  perché tu non abbandonerai l’anima mia negli inferi, né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione. Mi hai fatto conoscere le vie della vita, mi colmerai di gioia con la tua presenza. Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu sepolto e la sua tomba è ancora oggi fra noi. Poiché però era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendente, previde la risurrezione di Cristo e ne parlò:questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide corruzione. Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire. Davide infatti non salì al cielo; tuttavia egli dice: Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello ai tuoi piedi. Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!» (At 2,22-36).

    Con Cristo, il cristiano anticipa questo passaggio nel battesimo, Una salvezza e un passaggio che si opera già in noi sacramentalmente mediante il dono del battesimo: Fummo dunque sepolti con lui per il battesimo per unirci alla sua morte, in modo che, come Cristo è risorto dai morti per la gloria del Padre, così anche noi abbiamo un comportamento di vita del tutto nuovo (Rm 6,4). Sapendo che il battesimo è prefigurazione di quella Pasqua definitiva che ci verrà chiesto di celebrare il giorno della nostra morte, quando con Cristo passeremo anche noi da questo mondo al Padre, per entrare nella terra dei viventi.

    L’analogia tra geografia e teologia è completata dal deserto egiziano e sinaitico. Tra lì Egitto e la terra-dono di Canaan c’è un deserto , un lungo cammino da percorrere. La parabola geografica della redenzione è completa: il passaggio dalla schiavitù alla grazia, dalla morte alla vita, non si compie in un sol giorno, ma si snoda in un succedersi di tappe. I quarantanni di peregrinazione, un numero simbolico che indica il tempo necessario per consumare un’esperienza spirituale compiuta.

  • 29 Mar

    La Pasqua di JHWH e di Israele

    Es 11-13

    di p. Attilio Franco Fabris

    I capp. 12-15 del libro dell’esodo custodiscono il cuore della memoria e della speranza della fede ebraica e di quella cristiana.

    Come leggere il violento intervento di Dio nei confronti del popolo egiziano quando nell’ultimo avvertimento assistiamo alla strage di tutti i suoi primogeniti? Occorre anzitutto andare al genere letterario sottinteso. Questo modo di raccontare le cose serve agli autori del testo biblico unicamente a sottolineare per contrapposizione, un’affermazione positiva, che rappresenta il vero scopo del racconto: l’esperienza straordinaria della salvezza. Le vicende esteriori non sono altro che un’illustrazione pubblica e macroscopica di ciò che avviene nella profondità della coscienza, là dove Israele acquista la consapevolezza fondamentale della propria appartenenza a Dio. La morte dei figli degli egiziani non deve servire ad altro che a commentare con un’illustrazione assai efficace il mistero dell’elezione di cui Israele è depositario.

    L’ultima “piaga” rappresenta l’ultimo drammatico atto per ottenere il crollo delle resistenze del faraone alla liberazione del popolo di Jhwh. Dopo di ciò gli israeliti non saranno solo autorizzati ad uscire dal paese, ne saranno addirittura scacciati con forza, non senza prima aver spogliato l’Egitto delle sue ricchezze.

    In ogni esperienza di salvezza corrisponde un inevitabile sentimento di distinzione rispetto al mondo e all’intera umanità: sappiate che il Signore fa distinzione tra Egitto e Israele (11,7).  L’intervento di Dio segna un “giudizio”: di salvezza per coloro che sono di Dio, di perdizione per coloro che sono contro Dio. Le piaghe d’Egitto sono inizio del giudizio di Dio sul mondo. Questo “giudizio” che raggiunge il suo vertice nella pasqua del “figlio unigenito” Cristo Gesù: Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. (Gv 12,31)

    Nell’esodo israele è denominato da JHWH come suo “figlio primogenito” di JHWH (4,22). In tale affermazione si può riassumere tutta la vicenda della liberazione dall’oppressione egiziana. D’ora in poi nulla più potrà sottrarre al popolo di Dio la ferma consapevolezza di essere il figlio privilegiato ed eletto, il “figlio primogenito”. Una contrapposizione già enunciata a Mosé: Allora tu dirai al faraone: Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva! Ma tu hai rifiutato di lasciarlo partire. Ecco io faccio morire il tuo figlio primogenito (4,22).

    Ricordati!

    Nella notte di pasqua nasce il popolo di Israele. Avvenimento fondante la sua identità di cui dovrà fare perenne memoria per conservare la propria identità di popolo salvato e amato dal suo Dio. Le prescrizioni per la celebrazione pasquale non hanno altra finalità che quella di conservare il ricordo di quella notte di veglia: gli israeliti ne faranno “memoriale” (zikkaron” 12,14).  “Ricordati”, dice la prima parola, “zekor”, ovvero compi un rito memoriale che renda sempre attuale questo giorno, perché “oggi voi partite” (al presente).

    Celebrare il “memoria” non è solamente riportarsi al passato con la memoria e il sentimento, ma compiere un’azione che rende presente e attuale la realtà ricordata. Il memoriale si fonda sul passato ma nello stesso tempo lo trascende nell’oggi nella sua valenza salvifica; così che al credente è dato non solo di celebrare ma sperimentare la salvezza sempre operante di Dio. Celebrazione che di conseguenza proietta anche verso il futuro dell’intervento salvifico definitivo di Dio. Infatti la salvezza non è prodotta o condizionata dalla mia presenza al fatto storico, ma dalla grazia dell’azione di Dio che prodotta in quell’evento permane oggi e nel futuro.

    Celebrare la festa di pasqua dunque è uscire dall’Egitto.  Questo esodo-liberazione sarà ri-vissuto ogni anno nel memoriale della Pasqua: “Questo sarà per te come segno sulla tua mano e come un memoriale tra i tuoi occhi, perché la legge di Jhwh sia sulla tua bocca” (v.9). Il fatto della liberazione, l’esperienza di salvezza vissuta, dovrà sempre essere presente a ogni israelita che ne è beneficiario, come se l’avesse scolpito sulle mani e come se lo vedesse sempre davanti ai suoi occhi. Ugualmente avrà sempre sulla bocca, nello spirito e nel cuore, la “thora” che procede da quell’avvenimento fondamentale prolungandolo. Perciò quando i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: E’ il sacrificio della pasqua del Signore, il quale è passato (ha saltato) le case degli israeliti in egitto quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case (12,26).

    La novità di questa prima celebrazione della pasqua è data dal fatto che viene celebrato un rito che è memoria di un evento salvifico che deve ancora attuarsi, Israele non è ancora uscito dall’Egitto. Prima  Il rito, la festa, si presenta come coscienza di ciò che sta per compiersi, come coscienza anticipata.  Si celebra una speranza. E’ questa una valenza fondamentale anche del memoriale eucaristico: anticipazione di quel ritorno glorioso del Signore, e del banchetto finale del regno, che la Chiesa attende con impazienza, come la sposa attende la sposa: Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. (1Cor 11,26). Prima viene celebrato il sacramento (12-13) e a esso fa seguito la realtà significata dalla storia (14-15).

    La festa annuncia che l’attesa è terminata: Dio sta per venire. Per questo la celebrazione è contrassegnata da una nota di urgenza (12,11). È a causa di questa urgenza che, in base alla ricostruzione teologica che guida la narrazione, gli israeliti mangiarono pani azzimi: non avevano potuto indugiare (12,39). Il tempo è ormai compiuto, il Signore viene, ed ogni nostra urgenza di libertà troverà finalmente lo sbocco a cui ci ha orientati la speranza di poter vedere “un cielo nuovo e una nuova terra” (Ap 21,1).

    La festa della Pasqua

    E’ la pasqua per Jhwh” (v. 11): la parola “pesah” ha una etimologia difficile. La pasqua ebraica deriva dalla fusione di due feste più antiche: una festa di pastori che consisteva nell’immolazione di un’agnello (pesach) a scopo apotropaico al fine di allontanare i pericoli che minacciavano il gregge e quindi la vita stessa dei pastori; e nel successivo banchetto notturno contrassegnato da danze (saltare: pasach). La seconda festa era invece una festa agricola in cui per sette giorni si mangiava pane azzimo. La prescrizione di mangiare pane non lievitato viene dalla concezione mediorientale a riguardo della purezza: è impuro e cattivo tutto ciò che è causa di corruzione, di disgregazione, ovvero di morte (cfr 1Cor 5,6-8) quindi ciò che è lievitato. Può forse aver aggancio anche nella concezione antica che nulla doveva sussistere dell’antica raccolta, e che occorre ricominciare tutto di nuovo, come rito augurale di prosperità e abbondanza.

    Israele ha radicalmente trasformato il significato di queste feste riconducendole ad un preciso evento storico: l’uscita dall’Egitto. Nasce così la Pasqua ebraica, che non è più festa di pastori o di agricoltori ma festa di un popolo che fa memoria della sua nascita e liberazione.

    La morte dei primogeniti

    Il racconto della decima piaga assume un particolare valenza teologica in forza della connessione con la prima celebrazione della festa di pasqua (12,1-28).

    La distinzione dei primogeniti è resa pubblica ed esplicita mediante il segno con cui ogni capofamiglia ebreo traccia con il sangue dell’Agnello sui due stipiti e sull’architrave della porta di casa (12,7.22). Il sangue è simbolo della vita: offerto esso risparmia dalla morte. Il NT parlerà del “sangue di Cristo” mediante il quale siamo stati riscattati, ovvero salvati:

    Cristo è il nuovo Agnello immolato dal cui sangue tutti saranno riscattati:

    secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del suo sangue: grazia e pace a voi in abbondanza. (1Pt 1,2)

    Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia. (1Pt 1,18-19)

    Il “riscatto” di questo genere è collegato alla storia della “decima piaga”: (13,1s.11-16).  Fare dono a Dio di tutto ciò che è “primo” è pratica religiosa antichissima e intensissima nel suo significato: è riconoscere che tutto proviene da Dio, che ogni vita è da lui e a lui deve ritornare. Per Israele questo acquista un ulteriore valore: ogni primogenitura “riscattata” acquista il valore di memoria della salvezza: “per ricordare che con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto”. (14,16).  Perciò: “santificami per me.. consacrami tutti i primogeniti”: cioè dammeli, riservali a me solo, perché “sia uomo che animale, tutto mi appartiene”. Ora questo come sommo sacrificio ciò sarebbe richiesto anche per gli uomini: bisogna salvaguardare i diritti di Dio! Il mezzo adottato per ottemperare a questa esigenza sarà l’istaurazione della legge del “riscatto”, effettuato secondo il rito di sostituzione (Cfr Es 34,19-20).

    Questo atto di riscatto è espresso con il verbo “padah”: che sta ad indicare il liberare con riscatto, da cui sciogliere, liberare, salvare. Jhwh ha manifestato la sua potenza e i suoi diritti con la morte dei primogeniti, uomini e bestie, degli egiziani; i primogeniti di Israele ne sono stati riscattati, non sono “passati a Jhwh” (v. 12). Questo privilegio deve essere compensato con un rito perenne di “riscatto”. Rito che simbolicamente ricorderà l’azione liberatrice di Dio  che si ripete generazione dopo generazione. Questo “riscattare” i primogeniti, le primizie, sarà memoriale perenne dell’azione salvifica di Dio: Maria e Giuseppe ottempereranno anch’essi a questa legge quando presenteranno al Tempio il figlio Gesù:Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore,  come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore” (Lc 2,22-24).

    Celebrare la Pasqua è essenziale: la liberazione dall’Egitto diviene prototipo anche per noi della liberazione da tutte le forme di male, da tutti gli asservimenti e schiavitù, da tutto ciò che si oppone alla vita, e dunque liberazione dal male e dalla sua massima manifestazione che è la morte. Pasqua, passaggio-salto di danza come è nel crocifisso bizantino, dalla schiavitù alla liberazione, dalla morte alla vita, pasqua del crocifisso risorto. Non per nulla Cristo  interpretò tutta la sua vita alla luce della pasqua del suo popolo (cfr Mc 14,1ss; Lc 22,14…), lasciando a sua volta ai suoi il memoriale della pasqua definitiva. Questa fu sicuramente la catechesi fondamentale che egli fece ai due discepoli in cammino verso Emmaus: “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27).

    La liturgia cristiana nella grande veglia di Pasqua in cui le due pasque si illuminano a vicenda e si rimandano canta nell’Exultet: “Questa è la vera Pasqua, in cui è ucciso il vero Agnello, che con il suo sangue consacra le case dei fedeli… Questa è la notte che salva su tutta la terra i credenti nel Cristo dall’oscurità del peccato e dalla corruzione del mondo, li consacra all’amore del Padre e li unisce nella comunione dei santi. Questa è la notte in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte, risorge vincitore dal sepolcro”.

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