“Hai combattuto con Dio
e con gli uomini e hai vinto”
Gn 32,23-33
a cura di p. attilio franco fabris
E’ uno degli episodi più misteriosi e affascinanti racchiusi nella sacra Scrittura.
Esso si colloca ad un crocevia geografico-esistenziale della vicenda di Giacobbe. Ci troviamo ad una svolta della sua vita: tutti i problemi, i conflitti, le contraddizioni accumulate qui raggiungono il loro apice risolvendosi e sciogliendosi.
1. contesto
Per comprendere bene l’episodio è necessario ripercorrere la storia.
L’episodio della lotta si colloca anzitutto a poche ore di distanza dal temuto incontro di Giacobbe col fratello gemello Esaù.
Giacobbe è terrorizzato dall’idea dell’incontro, teme la vendetta del fratello.
Quest’ansia e quest’angoscia è sottolineata dall’annotazione temporale: era notte:
Giacobbe rimase in quel luogo a passare la notte (v. 14).
Nell’imminenza di questo incontro avviene un altro incontro non meno temibile e inaspettato: una lotta con un uomo misterioso. Lotta dalla quale uscirà claudicante non senza aver imparato che la pietà è più potente di tutto (Sap 10,12).
La storia di Giacobbe è inscindibilmente legata a quella di Esaù. I due sono gemelli. Sono un dono del Signore a Rebecca sposa di Isacco, fino ad allora sterile. Un dono sovrabbondante. Ma ciò che da parte di Dio è sovrabbondante, viene percepito come problematico da parte dell’uomo.
Il confronto fa nascere la competizione, la ricerca di prevaricazione sull’altro. Si ritiene che la propria identità debba essere affermata a scapito dell’altro. Prima ancora di nascere i due fratelli si urtano, litigano, si disturbano reciprocamente:
Isacco supplicò il Signore per sua moglie, perché essa era sterile e il Signore lo esaudì, così che sua moglie Rebecca divenne incinta. Ora i figli si urtavano nel suo seno ed essa esclamò: “Se è così perché questo?”… Quando poi si compì per lei il tempo di partorire, ecco due gemelli erano nel suo grembo. Uscì il primo, rossiccio e tutto come un mantello di pelo, e fu chiamato Esaù. Subito dopo, uscì il fratello e teneva in mano il calcagno di Esaù; fu chiamato Giacobbe (Gn 25, 21-22.24-26).
Giacobbe afferra il calcagno di Esaù nel momento del parto. Da qui il gioco di parole riguardante il suo nome: ‘aqev=calcagno e Ya’aqov che è come dire “Fu chiamato Giacobbe perché faceva lo sgambetto al fratello”.
In Gn 27,36 il nome lo si fa derivare dalla radice ‘aqav che significa “soppiantare – tallonare”.
Esaù esclamerà:
Forse perché si chiama Giacobbe mi ha soppiantato già due volte?
Giacobbe dunque è per definizione (l’importanza del nome nella cultura semitica che non è segno solo convenzionale ma esprime contiene l’essenza, il mistero della persona) il soppiantatore, lo sgambettatore del fratello. In altre parole l’imbroglione.
Egli nasce afferrando il calcagno di Esaù e se questi potesse parlare direbbe: “Lasciami!”. Le stesse parole che l’uomo misterioso gli dirà alla fine della lotta al guado di Yabbok (Gn 32,27).
Questa ostilità tra Giacobbe ed Esaù ci riporta indietro, a quella tra Caino e Abele (Gn 4). Anche qui viene riproposto lo stesso tema del peccato contro il fratello, con la differenza che qui il Signore farà sì che la relazione venga restaurata. L’odio viene riassorbito dall’amore.
Nella relazione con il fratello è in questione la verità della propria identità: non solo il rapporto con Esaù, ma anche quello con Dio e con le sue promesse.
Nello svolgimento del racconto Giacobbe deve fuggire dal paese promesso da Dio alla discendenza di Abramo, deve fuggire dall’odio del fratello che si è vista sottratta la benedizione del padre.
Sia l’uscita che l’entrata nel paese di Canaan è incorniciato da due teofanie: il sogno della scala a Betel (Gn 28,10-22) e la lotta con l’uomo misterioso. La vita di Giacobbe è accompagnata, avvolta dal mistero della presenza di JHWH.
Ma sia la fuga come il rientro sono sempre condizionati dalla relazione col fratello, egli è il passaggio obbligato, il ponte umano gettato sul giordano che permette a Giacobbe di rientrare nella terra promessa.
La fuga dal fratello è stata in un certo senso illusoria. Anche se fisicamente lontano, la sua presenza ossessiona sempre Giacobbe. Per fuggire realmente da lui dovrebbe fuggire da se stesso.
Prima o poi giunge il momento in cui colui che ho cercato di eludere mi pesa sulla coscienza come un incubo notturno che mi aggredisce senza preavviso, mi terrorizza. Prima o poi bisogna fare i conti con se stessi, non si può sempre fuggire.
Un tale appuntamento con la verità di se stesso è fissato per lui a Penuel, nella lotta notturna, quando deve attraversare il mare della sua disperazione, il guado della sua paura del fratello. Notte di catarsi in cui morire a se stesso per ritrovarsi e ritrovare il fratello, ridiventando capace di guardarlo in volto.
2. recupero della vista
Il termine “volto” ricorre nel nostro brano troppo spesso per essere casuale.
In Giacobbe vi è l’angoscia nel dover affrontare il momento in cui guardare in “volto” Esaù (32,21-22). Questa preoccupazione prelude all’episodio di “Penuel” che significa “Volto di Dio”:
“Placherò il suo volto, con il dono che procede davanti al mio volto, e dopo potrò vedere il suo volto, forse risolleverà il mio volto”. E così passò il dono davanti al suo volto, mentre egli trascorse quella notte nell’accampamento.
Tutta quest’ansia e preoccupazione di scioglierà quandp Giacobbe “sollevando gli occhi” vedrà Esaù (33,1) e i fratelli potranno ritornare a guardarsi reciprocamente negli occhi (33,5). Sino ad arrivare alle parole culminanti di Giacobbe:
Se ho trovato grazia ai tuoi occhi accetta il mio dono dalla mia mano, perché per questo ho visto il tuo volto come si vede il volto di Dio e tu mi hai gradito (33,10).
Giacobbe ritrovando il fratello ritrova se stesso, riconoscendo nei suoi tratti i tratti del volto di quel Dio a cui entrambi fanno riferimento.
Ma prima di giungere a questa consapevolezza Giacobbe deve attraversare il guado di Yabbok e sostenere, tutto solo, una dura lotta che si protrae per tutta la notte, e al termine della quale Giacobbe vede Dio “volto a volto”, rimanendo in vita (32,31).
3. La lotta con Dio
Durante quella notte egli si alzò, prese le sue due mogli, le sue due serve, i suoi undici figlioli e attraversò il guado dello Iabbok.
Li prese e fece loro attraversare il torrente e fece passare anche tutto il suo avere.
Giacobbe rimase solo, e un uomo lottò contro di lui fino allo spuntar dell’aurora.
Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo percosse nel cavo del femore; e il cavo del femore di Giacobbe si lussò, mentr’egli si abbracciava con lui.
Quegli disse: «Lasciami andare, ché spunta l’aurora». Rispose: «Non ti lascerò partire se non mi avrai benedetto».
Gli domandò: «Qual è il tuo nome?». Rispose: «Giacobbe».
Riprese: «Non più Giacobbe sarà il tuo nome, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto».
Riprese: «Non più Giacobbe sarà il tuo nome, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto».
Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome, ti prego!». Gli rispose: «Perché chiedi il mio nome?». Ed ivi lo benedì.
Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel, «perché — disse — ho visto Dio faccia a faccia eppure la mia vita è rimasta salva».
Sotto più di un aspetto un racconto esegeticamente molto difficile da decifrare.
L’aspetto più misterioso è l’identità del personaggio aggressore: è un “uomo” (ish, v. 25)? E’ Dio (v. 31)? E’ l’uno e l’altro (vv.29-30)? Il testo non consente una definizione precisa. Una cosa è certa questa ambiguità sottolinea la confusione che regna nella mente di Giacobbe, che gli impedisce di vedere le cose nella loro piena verità.
Ma perché ques’uomo-Dio aggredisce Giacobbe? Chi inizia per primo?
Giacobbe in ogni caso non intende mollare la presa e rimane avvinghiato (‘avaq) all’uomo sino all’alba.
Alla fine dopo aver slogato l’anca di Giacobbe, il personaggio misterioso chiede a Giacobbe di lasciarlo con un’apparente dichiarazione di sconfitta. Giacobbe ha ora la percezione di aver a che fare con un personaggio divino: non intende lasciarlo andare se prima non ottiene la sua benedizione.
Per ottenerla egli ha dovuto lottare dunque lungamente fino a farsi slogare l’anca. Lo “Sgambettatore” ora è “sgambettato” per avere la benedizione, non più ottenuta con la frode e l’inganno, ma nella sua piena verità.
Il personaggio chiede:
Gli domandò: “Come ti chiami?”
La prerogativa di chiedere il nome è di Dio: solo lui può chiedere il nome, perché solo lui ha il potere di far venire alla luce la verità.
Chiedendogli il nome Dio gli domanda: “Chi sei?”, costringendolo a venire allo scoperto, a manifestarsi per quello che egli è: soppiantatore e prevaricatore del fratello.
Solo dopo questa confessione il personaggio può intervenire per cambiargli il nome, conferendogli con il dono di un nome nuovo, una nuova identità.
Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto.
Dopo la lotta Giacobbe è un uomo nuovo. Non più simulatore e prevaricatore, ma Israele, colui che è stato forte con Dio e con gli uomini e ha vinto.
A questo punto tante domande sorgono.
Se l’aggressore fu Dio in che senso lo fu? E perché?
4. Il significato della lotta
In quella notte di lotta Giacobbe ha imparato come si va incontro al fratello, perché ha osato sfidare Dio contro se stesso.
Una lotta talmente ardua da riuscire a cambiargli l’identità, a trasfigurarlo nel suo essere più profondo.
Una lotta che mette allo scoperto la coscienza di Giacobbe, il suo peccato, senza temere le conseguenze dolorose che questa presa di coscienza avrebbe ottenuto.
Dopo non sarebbe più stato lo stesso, si sarebbe dovuto presentare agli uomini, al fratello, per sempre zoppicante.
Un confronto dunque doloroso e che segna per sempre.
Giacobbe è claudicante ma trasfigurato.
Spuntava il sole quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca.
Giacobbe è vinto e vincitore nello stesso tempo. Ha scoperto la vittoria del suo fallimento.
La vittoria di Giacobbe-Israele è un evento pasquale “ante litteram”. Fiorisce proprio sul segno di questa sconfitta. Adesso perdonato e zoppicante, zoppicante perché perdonato, potrà avvicinarsi al fratello per accogliere il suo perdono.
5. I fratelli si abbracciano
Giacobbe può finalmente alzare gli occhi e vedere il volto di Esaù:
Poi Giacobbe alzò gli occhi e vide arrivare Esaù (33,1).
Quando si è vinta la paura di se stessi L’”Altro” Dio – il fratello, non incute più timore.
Giacobbe precedendo tutti gli altri va davanti ad Esaù, si prostra dinanzi a lui sette volte (33,3).
Ma Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò, e piansero (33,4).
Ogni tensione si è dissolta nel perdono vicendevole.
Giacobbe si è prostrato sette volte con la faccia a terra: un gesto di adorazione riservato solo a Dio. Come leggerlo? Adulazione? Pusillanimità? Giacobbe vede ora nel fratello invece il volto di Dio:
Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, accetta dalla mia mano il mio dono, perché appunto per questo io sono venuto davanti al tuo volto, come si viene davanti al volto di Dio, e tu mi hai gradito (33,10).
Esaù riflette il volto di Dio: Giacobbe si sente accolto e perdonato. Non è dunque sproporzionato il suo gesto. Il fratello gli ha rivelato il volto di Dio.
Sotto questa luce l’autore della Sapienza leggerà l’episodio:
Ma la sapienza liberò i suoi devoti dalle sofferenze:
essa condusse per diritti sentieri
il giusto in fuga dall’ira del fratello,
gli mostrò il Regno di Dio,
e gli diede la conoscenza delle cose sante;…
gli assegnò la vittoria in una lotta dura,
perché sapesse che la pietà è più potente di tutto
(Sap 10,9.12).
6. Giacobbe è Israele
Il nome nuovo che Giacobbe si è conquistato è Israele.
La sua vicenda diviene paradigmatica per la storia del suo popolo.
E’ una storia di elezione, che passa attraverso la debolezza e il peccato, è storia di conversione in una lotta incessante in cui si riceve la forza dal Signore (Israele=Il Signore si mostri forte).
Come Giacobbe-Israele, il popolo eletto percepisce continuamente l’inadeguatezza del compito altissimo che il Signore gli ha posto nelle mani nei confronti della storia umana.
Gli è chiesto anzitutto ogni giorno di fronteggiare l’alterità del suo Signore, e nessuno ha mai sperimentato come lui la fatica di tenersi incessantemente sotto lo sguardo di qualcuno che è tutt’altro rispetto all’uomo.
Questo cammino di fede comporta inevitabilmente una lotta durissima: è un rimanere saldi senza poter vedere l’Invisibile.
Si continua a camminare per poterlo vedere, attraversando mari, serpenti e scorpioni, facendo i conti con il proprio limite e peccato.
7. La lotta di Gesù al Getsemani
Nel Nuovo Testamento pensiamo all’agonia” – combattimento di Gesù nell’orto del Getsemani (Lc 22,39-46).
Il Figlio è solo davanti al peccato del mondo che incombe su di lui. E’ notte e Gesù lotta contro la sua volontà perché si compia la volontà del Padre. Una lotta dolorosissima, colma di angoscia e silenzio
E il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44).
Pensiamo ancora al suo grido sulla croce, al buio che avvolge il mondo.
Pensiamo alla luce dell’alba, in cui quel corpo esce vittorioso dal combattimento con la morte conservando i segni della lotta: le trafitture dei chiodi e della lancia.
E’ il “giorno del Signore” di cui sarà celebrata per sempre la memoria “fino ad oggi”, come fanno gli israeliti che conservano il ricordo della lotta, non mangiando il nervo sciatico che quegli aveva colpito.
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