• 15 Mag

    “Hai combattuto con Dio

    e con gli uomini e hai vinto”

    Gn 32,23-33


    a cura di p. attilio franco fabris

     

    E’ uno degli episodi più misteriosi e affascinanti racchiusi nella sacra Scrittura.

    Esso si colloca ad un crocevia geografico-esistenziale della vicenda di Giacobbe. Ci troviamo ad una svolta della sua vita: tutti i problemi, i conflitti, le contraddizioni accumulate qui raggiungono il loro apice risolvendosi e sciogliendosi.

    1. contesto

    Per comprendere bene l’episodio è necessario ripercorrere la storia.

    L’episodio della lotta si colloca anzitutto a poche ore di distanza dal temuto incontro di Giacobbe col fratello gemello Esaù.

    Giacobbe è terrorizzato dall’idea dell’incontro, teme la vendetta del fratello.

    Quest’ansia e quest’angoscia è sottolineata dall’annotazione temporale: era notte:

    Giacobbe rimase in quel luogo a passare la notte (v. 14).

    Nell’imminenza di questo incontro avviene un altro incontro non meno temibile e inaspettato: una lotta con un uomo misterioso. Lotta dalla quale uscirà claudicante non senza aver imparato che la pietà è più potente di tutto (Sap 10,12).

    La storia di Giacobbe è inscindibilmente legata a quella di Esaù. I due sono gemelli. Sono un dono del Signore a Rebecca sposa di Isacco, fino ad allora sterile. Un dono sovrabbondante. Ma ciò che da parte di Dio è sovrabbondante, viene percepito come problematico da parte dell’uomo.

    Il confronto fa nascere la competizione, la ricerca di prevaricazione sull’altro. Si ritiene che la propria identità debba essere affermata a scapito dell’altro. Prima ancora di nascere i due fratelli si urtano, litigano, si disturbano reciprocamente:

    Isacco supplicò il Signore per sua moglie, perché essa era sterile e il Signore lo esaudì, così che sua moglie Rebecca divenne incinta. Ora i figli si urtavano nel suo seno ed essa esclamò: “Se è così perché questo?”… Quando poi si compì per lei il tempo di partorire, ecco due gemelli erano nel suo grembo. Uscì il primo, rossiccio e tutto come un mantello di pelo, e fu chiamato Esaù. Subito dopo, uscì il fratello e teneva in mano il calcagno di Esaù; fu chiamato Giacobbe (Gn 25, 21-22.24-26).

    Giacobbe afferra il calcagno di Esaù nel momento del parto. Da qui il gioco di parole riguardante il suo nome: ‘aqev=calcagno e Ya’aqov che è come dire “Fu chiamato Giacobbe perché faceva lo sgambetto al fratello”.

    In Gn 27,36 il nome lo si fa derivare dalla radice ‘aqav che significa “soppiantare – tallonare”.

    Esaù esclamerà:

    Forse perché si chiama Giacobbe mi ha soppiantato già due volte?

    Giacobbe dunque è per definizione (l’importanza del nome nella cultura semitica che non è segno solo convenzionale ma esprime contiene l’essenza, il mistero della persona) il soppiantatore, lo sgambettatore del fratello. In altre parole l’imbroglione.

    Egli nasce afferrando il calcagno di Esaù e se questi potesse parlare direbbe: “Lasciami!”. Le stesse parole che l’uomo misterioso gli dirà alla fine della lotta al guado di Yabbok (Gn 32,27).

    Questa ostilità tra Giacobbe ed Esaù ci riporta indietro, a quella tra Caino e Abele (Gn 4). Anche qui viene riproposto lo stesso tema del peccato contro il fratello, con la differenza che qui il Signore farà sì che la relazione venga restaurata. L’odio viene riassorbito dall’amore.

    Nella relazione con il fratello è in questione la verità della propria identità: non solo il rapporto con Esaù, ma anche quello con Dio e con le sue promesse.

    Nello svolgimento del racconto Giacobbe deve fuggire dal paese promesso da Dio alla discendenza di Abramo, deve fuggire dall’odio del fratello che si è vista sottratta la benedizione del padre.

    Sia l’uscita che l’entrata nel paese di Canaan è incorniciato da due teofanie: il sogno della scala a Betel (Gn 28,10-22) e la lotta con l’uomo misterioso. La vita di Giacobbe è accompagnata, avvolta dal mistero della presenza di JHWH.

    Ma sia la fuga come il rientro sono sempre condizionati dalla relazione col fratello, egli è il passaggio obbligato, il ponte umano gettato sul giordano che permette a Giacobbe di rientrare nella terra promessa.

    La fuga dal fratello è stata in un certo senso illusoria. Anche se fisicamente lontano, la sua presenza ossessiona sempre Giacobbe. Per fuggire realmente da lui dovrebbe fuggire da se stesso.

    Prima o poi giunge il momento in cui colui che ho cercato di eludere mi pesa sulla coscienza come un incubo notturno che mi aggredisce senza preavviso, mi terrorizza. Prima o poi bisogna fare i conti con se stessi, non si può sempre fuggire.

    Un tale appuntamento con la verità di se stesso è fissato per lui a Penuel, nella lotta notturna, quando deve attraversare il mare della sua disperazione, il guado della sua paura del fratello. Notte di catarsi in cui morire a se stesso per ritrovarsi e ritrovare il fratello, ridiventando capace di guardarlo in volto.

    2. recupero della vista

    Il termine “volto” ricorre nel nostro brano troppo spesso per essere casuale.

    In Giacobbe vi è l’angoscia nel dover affrontare il momento in cui guardare in “volto” Esaù (32,21-22). Questa preoccupazione prelude all’episodio di “Penuel” che significa “Volto di Dio”:

    “Placherò il suo volto, con il dono che procede davanti al mio volto, e dopo potrò vedere il suo volto, forse risolleverà il mio volto”. E così passò il dono davanti al suo volto, mentre egli trascorse quella notte nell’accampamento.

    Tutta quest’ansia e preoccupazione di scioglierà quandp Giacobbe “sollevando gli occhi” vedrà Esaù (33,1) e i fratelli potranno ritornare a guardarsi reciprocamente negli occhi (33,5). Sino ad arrivare alle parole culminanti di Giacobbe:

    Se ho trovato grazia ai tuoi occhi accetta il mio dono dalla mia mano, perché per questo ho visto il tuo volto come si vede il volto di Dio e tu mi hai gradito (33,10).

    Giacobbe ritrovando il fratello ritrova se stesso, riconoscendo nei suoi tratti i tratti del volto di quel Dio a cui entrambi fanno riferimento.

    Ma prima di giungere a questa consapevolezza Giacobbe deve attraversare il guado di Yabbok e sostenere, tutto solo, una dura lotta che si protrae per tutta la notte, e al termine della quale Giacobbe vede Dio “volto a volto”, rimanendo in vita (32,31).

    3. La lotta con Dio

    Durante quella notte egli si alzò, prese le sue due mogli, le sue due serve, i suoi undici figlioli e attraversò il guado dello Iabbok.

    Li prese e fece loro attraversare il torrente e fece passare anche tutto il suo avere.

    Giacobbe rimase solo, e un uomo lottò contro di lui fino allo spuntar dell’aurora.

    Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo percosse nel cavo del femore; e il cavo del femore di Giacobbe si lussò, mentr’egli si abbracciava con lui.

    Quegli disse: «Lasciami andare, ché spunta l’aurora». Rispose: «Non ti lascerò partire se non mi avrai benedetto».

    Gli domandò: «Qual è il tuo nome?». Rispose: «Giacobbe».

    Riprese: «Non più Giacobbe sarà il tuo nome, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto».

    Riprese: «Non più Giacobbe sarà il tuo nome, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto».

    Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome, ti prego!». Gli rispose: «Perché chiedi il mio nome?». Ed ivi lo benedì.

    Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel, «perché — disse — ho visto Dio faccia a faccia eppure la mia vita è rimasta salva».

    Sotto più di un aspetto un racconto esegeticamente molto difficile da decifrare.

    L’aspetto più misterioso è l’identità del personaggio aggressore: è un “uomo” (ish, v. 25)? E’ Dio (v. 31)? E’ l’uno e l’altro (vv.29-30)? Il testo non consente una definizione precisa. Una cosa è certa questa ambiguità sottolinea la confusione che regna nella mente di Giacobbe, che gli impedisce di vedere le cose nella loro piena verità.

    Ma perché ques’uomo-Dio aggredisce Giacobbe? Chi inizia per primo?

    Giacobbe in ogni caso non intende mollare la presa e rimane avvinghiato (‘avaq) all’uomo sino all’alba.

    Alla fine dopo aver slogato l’anca di Giacobbe, il personaggio misterioso chiede a Giacobbe di lasciarlo con un’apparente dichiarazione di sconfitta. Giacobbe ha ora la percezione di aver a che fare con un personaggio divino: non intende lasciarlo andare se prima non ottiene la sua benedizione.

    Per ottenerla egli ha dovuto lottare dunque lungamente fino a farsi slogare l’anca. Lo “Sgambettatore” ora è “sgambettato” per avere la benedizione, non più ottenuta con la frode e l’inganno, ma nella sua piena verità.

    Il personaggio chiede:

    Gli domandò: “Come ti chiami?”

    La prerogativa di chiedere il nome è di Dio: solo lui può chiedere il nome, perché solo lui ha il potere di far venire alla luce la verità.

    Chiedendogli il nome Dio gli domanda: “Chi sei?”, costringendolo a venire allo scoperto, a manifestarsi per quello che egli è: soppiantatore e prevaricatore del fratello.

    Solo dopo questa confessione il personaggio può intervenire per cambiargli il nome, conferendogli con il dono di un nome nuovo, una nuova identità.

    Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto.

    Dopo la lotta Giacobbe è un uomo nuovo. Non più simulatore e prevaricatore, ma Israele, colui che è stato forte con Dio e con gli uomini e ha vinto.

    A questo punto tante domande sorgono.

    Se l’aggressore fu Dio in che senso lo fu? E perché?

    4. Il significato della lotta

    In quella notte di lotta Giacobbe ha imparato come si va incontro al fratello, perché ha osato sfidare Dio contro se stesso.

    Una lotta talmente ardua da riuscire a cambiargli l’identità, a trasfigurarlo nel suo essere più profondo.

    Una lotta che mette allo scoperto la coscienza di Giacobbe, il suo peccato, senza temere le conseguenze dolorose che questa presa di coscienza avrebbe ottenuto.

    Dopo non sarebbe più stato lo stesso, si sarebbe dovuto presentare agli uomini, al fratello, per sempre zoppicante.

    Un confronto dunque doloroso e che segna per sempre.

    Giacobbe è claudicante ma trasfigurato.

    Spuntava il sole quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca.

    Giacobbe è vinto e vincitore nello stesso tempo. Ha scoperto la vittoria del suo fallimento.

    La vittoria di Giacobbe-Israele  è un evento pasquale “ante litteram”. Fiorisce proprio sul segno di questa sconfitta. Adesso perdonato e zoppicante, zoppicante perché perdonato, potrà avvicinarsi al fratello per accogliere il suo perdono.

    5. I fratelli si abbracciano

    Giacobbe può finalmente alzare gli occhi e vedere il volto di Esaù:

    Poi Giacobbe alzò gli occhi e vide arrivare Esaù (33,1).

    Quando si è vinta la paura di se stessi L’”Altro” Dio – il fratello, non incute più timore.

    Giacobbe precedendo tutti gli altri va davanti ad Esaù, si prostra dinanzi a lui sette volte (33,3).

    Ma Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò, e piansero (33,4).

    Ogni tensione si è dissolta nel perdono vicendevole.

    Giacobbe si è prostrato sette volte con la faccia a terra: un gesto di adorazione riservato solo a Dio. Come leggerlo? Adulazione? Pusillanimità? Giacobbe vede ora nel fratello invece il volto di Dio:

    Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, accetta dalla mia mano il mio dono, perché appunto per questo io sono venuto davanti al tuo volto, come si viene davanti al volto di Dio, e tu mi hai gradito (33,10).

    Esaù riflette il volto di Dio: Giacobbe si sente accolto e perdonato. Non è dunque sproporzionato il suo gesto. Il fratello gli ha rivelato il volto di Dio.

    Sotto questa luce l’autore della Sapienza leggerà l’episodio:

    Ma la sapienza liberò i suoi devoti dalle sofferenze:

    essa condusse per diritti sentieri

    il giusto in fuga dall’ira del fratello,

    gli mostrò il Regno di Dio,

    e gli diede la conoscenza delle cose sante;…

    gli assegnò la vittoria in una lotta dura,

    perché sapesse che la pietà è più potente di tutto

    (Sap 10,9.12).

    6. Giacobbe è Israele

    Il nome nuovo che Giacobbe si è conquistato è Israele.

    La sua vicenda diviene paradigmatica per la storia del suo popolo.

    E’ una storia di elezione, che passa attraverso la debolezza e il peccato, è storia di conversione in una lotta incessante in cui si riceve la forza dal Signore (Israele=Il Signore si mostri forte).

    Come Giacobbe-Israele, il popolo eletto percepisce continuamente l’inadeguatezza del compito altissimo che il Signore gli ha posto nelle mani nei confronti della storia umana.

    Gli è chiesto anzitutto ogni giorno di fronteggiare l’alterità del suo Signore, e nessuno ha mai sperimentato come lui la fatica di tenersi incessantemente sotto lo sguardo di qualcuno che è tutt’altro rispetto all’uomo.

    Questo cammino di fede comporta inevitabilmente una lotta durissima: è un rimanere saldi senza poter vedere l’Invisibile.

    Si continua a camminare per poterlo vedere, attraversando mari, serpenti e scorpioni, facendo i conti con il proprio limite e peccato.

    7. La lotta di Gesù al Getsemani

    Nel Nuovo Testamento pensiamo all’agonia” – combattimento di Gesù nell’orto del Getsemani (Lc 22,39-46).

    Il Figlio è solo davanti al peccato del mondo che incombe su di lui. E’ notte e Gesù lotta contro la sua volontà perché si compia la volontà del Padre. Una lotta dolorosissima, colma di angoscia e silenzio

    E il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44).

    Pensiamo ancora al suo grido sulla croce, al buio che avvolge il mondo.

    Pensiamo alla luce dell’alba, in cui quel corpo esce vittorioso dal combattimento con la morte conservando i segni della lotta: le trafitture dei chiodi e della lancia.

    E’ il “giorno del Signore” di cui sarà celebrata per sempre la memoria “fino ad oggi”, come fanno gli israeliti che conservano il ricordo della lotta, non mangiando il nervo sciatico che quegli aveva colpito.

  • 12 Mag

    “Presto! Andate a dire: E’ risorto!”
    Lectio di Mt 28,1-10

     

    di p. Attilio Franco Fabris

    Nel suo trattato “De resurrectione carnis”, Tertulliano scrive: “Fiducia christianorum resurrectio mortuorum; illam credentes, sumus – La risurrezione dei morti è la fede dei cristiani: credendo in essa siamo tali”. Ciò che appare sconcertante è la dimenticanza di questo dato fondante che contraddistingue la fede cristiana e ne è il suo nucleo essenziale. Alla domanda: chi è il cristiano? La risposte, anche di praticanti – e talvolta anche di consacrati! – è la tragica riduzione dell’avvenimento cristiano, ovvero del mistero pasquale, a una morale del “comportarsi bene”: essere cristiani equivale ad amare il prossimo, credere che Dio c’è, non far del male a nessuno, osservare i comandamenti, ottemperare ad alcuni prescrizioni rituali, anche rispettare il creato… tutte risposte in sé anche vere ma certamente insufficienti e secondarie che non toccano la ragione fondamentale del fatto cristiano. Così alla fine la pratica religiosa si riduce a un impianto religioso senza fondamenta destinato a crollare come purtroppo stiamo constatando non solo nelle parrocchie ma anche forse nelle stesse comunità religiose.  La resurrezione di Cristo il crocifisso,ovvero il kerygma, non appare nella sua evidenza originaria di un annuncio sconvolgente destinato a sconvolgere totalmente la vita e la storia.

    Lo Spirito ci vuole “convincere” a questa verità, ci spinge a riscoprire e ad arrenderci alla Buona Notizia dell’amore incondizionato con cui Dio in Cristo ci ha amato e ama vincendo in noi ogni morte come la vinse nel Figlio. Perciò lo invochiamo: “Lo Spirito vi ricorderà ogni cosa”. O Spirito fammi ricordare la parola di Gesù, ma non perché essa discenda nel computer della mia memoria e vi immagazzini una quantità smisurata di dati. È il mio cuore che deve essere  destato perché riscopra nella Buona Notizia la parola che salva, la parola che consola, la parola che traccia una strada, la parola che mi strappa al buio del non senso. È il mio cuore che deve essere condotto sui passi di Gesù per contemplare da vicino il suo amore e la sua misericordia. Per imparare a scorgerlo presente, vivo, accanto a me, proprio lui che desidera donarmi per sempre la sua stessa vita divina.

    Lectio

    Le donne che si recano al sepolcro nel vangelo di Matteo sono Maria di Magdala e una non ben identificata “altra Maria”. La scena è collocata “all’alba del primo giorno dopo il sabato”, ovvero al sorgere del sole del “kyriakè hemera” (cfr Ap 1,10), il “giorno del Signore”. Matteo allude all’alba del giorno senza fine promesso dai profeti in cui Dio avrebbe portato a compimento le sue promesse: “Il tuo sole non tramonterà più né la tua luna si dileguerà, perché il Signore sarà per te luce eterna; saranno finiti i giorni del tuo lutto (Is 60,20; cfr Ap 22,5). Questa nuova alba è portatrice di una luce intramontabile perché il buio della morte è ormai irrimediabilmente sconfitto.

    Le due donne nel silenzio e nel dolore si recano al sepolcro per una visita, il loro atteggiamento è simile al nostro quando ci rechiamo al cimitero a visitare la tomba dei nostri cari potendoci solo limitare a fissare una fredda lastra di marmo, facendo scorrere nella mente i ricordi pronunciando qualche preghiera. Il verbo “visitare” suggerisce però anche un “osservare con attenzione”, gesto che idealmente prolunga il loro essere “state a guardare” il dramma del Calvario (27,55). Testimoni della morte ignominiosa del loro rabbì, saranno da ora testimoni della sua resurrezione.

    La loro visita assume le caratteristiche di un’esperienza sconvolgente: ecco un terremoto, un apparire di angeli, di vesti bianche e di una luce. E’ il linguaggio simbolico attraverso il quale nella sacra Scrittura si vuole narrare una teofania, ovvero una manifestazione della presenza e dell’agire di Dio dentro la storia. La resurrezione di Gesù appartiene alla categoria delle teofanie, ovvero è una manifestazione potente della presenza e dell’azione di “Dio che lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere” (At 2,11).[1]

    L’angelo svolge alcune importanti funzioni.

    La prima è quella di aprire il sepolcro facendo rotolare via la pietra rotonda che ostruisce l’ingresso. Su di essa poi siede nella posa del vincitore: la morte è definitivamente sottomessa. L’angelo rimane fuori dal sepolcro, egli lo apre solo perché le donne possano entrando constatare che esso ormai è vuoto: ““Non è qui! – annuncia alle donne -… venite a vedere il luogo dove era deposto”. Gesù è già risorto! La resurrezione in se stessa non è descritta. Nelle teofanie all’uomo è dato di vedere ciò che circonda e accompagna il mistero, ma gli è impedito di afferrarlo in se stesso: esso rimane in-dicibile e in-comprensibile! All’evangelista interessa annunciare alla chiesa l’essenziale del mistero: all’alba di quel primo giorno della settimana vi fu l’intervento salvifico più grande e sconvolgente di Dio nella storia umana!

    Veniamo alla presenza delle guardie: si tratta di un elemento peculiare del vangelo di Matteo. Non soltanto la pietra chiudeva il sepolcro, ma essa era anche sigillata e attentamente sorvegliata. La manifestazione di Dio sconvolge però le guardie. Il testo riferisce che queste rimasero come “cadaveri” (gr. nekroi), esse “tremano” (letteralmente “furono terremotate”; “scosse” trad. CEI) dinanzi all’imprevedibile. Le guardie, di allora e di sempre, sono testimoni impotenti della potenza di Dio, della sua libertà sovrana che non può certamente essere impedita da miseri calcoli politici umani. Sono ancora figura dell’incredulità e della menzogna, di allora e di sempre, a cui essa si aggrappa non accettando i fatti e costringendosi di conseguenza a manipolarli (28,11-15).

    Anche le donne sono spaventate da ciò che accade, ma l’ammonimento dell’angelo è: “voi non abbiate paura”. È un invito ad aprirsi con fiducia all’ascolto e alla novità di Dio.

    Arriviamo alla seconda funzione dell’angelo che potremmo definire “kerigmatica” nel senso che egli annuncia alle due donne il significato di ciò che vedono. Sempre le azioni di Dio necessitano infatti di una “parola” che le interpreti, che le “riveli” affinché l’ascoltatore possa farne esperienza. Alle due donne non era sufficiente il terremoto, e neppure il sepolcro vuoto per aprirsi al mistero della resurrezione. L’assenza del morto va spiegata! Non è il sepolcro vuoto che rende plausibile la resurrezione, ma è la resurrezione che rende plausibile il sepolcro vuoto. Ecco allora sulla bocca del messaggero – di allora e di sempre! – l’annuncio della pasqua: “Non è qui! È risorto! (egherthe!)”. Siamo al cuore della fede della Chiesa. Occorre per comprendere far memoria delle parole stesse di Gesù: “Come aveva detto”. Alla luce dell’annuncio possono iniziare a comprendere che ciò che è avvenuto in qualche modo era già contenuto nelle parole e nella vita di Gesù. Tutta la sua esistenza era stata vissuta nella certezza che il Padre suo non l’avrebbe abbandonato. Sarà questa l’evangelizzazione che il risorto stesso farà ai due discepoli diretti ad Emmaus (Lc 24).

    A questa seconda funzione subentra la terza: il messaggero invita le due donne a divenire a loro volta evangelizzatrici nei confronti dei discepoli. Esse non devono, né possono, fermarsi a quella tomba vuota. E allora presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risorto dai morti” perché  la Buona Notizia non tollera indugi.

    L’appuntamento con tutti i discepoli da parte con il Risorto è dove tutto era iniziato: “vi precede in Galilea là lo vedrete”. È sempre lui il Signore, il buon pastore, che prende l’iniziativa e che apre la strada dove e quando lui vuole.  Il “vedere” dei discepoli non dobbiamo ridurlo a una semplice esperienza ottica, fisica: sarà contrassegnato invece da un vivere l’incontro con il Vivente con un’apertura del cuore diversa: quella della fede capace di scorgerlo ormai ovunque. E’ questo il senso del “ritorno in Galilea”, quasi un ripercorrere in compagnia del Risorto, tutto il precedente cammino, potendone comprendere solo ora il pieno significato.

    Ecco allora le due donne “correre con timore e gioia grande a dare l’annunzio ai suoi discepoli”. Gioia immensa che le superano incutendo nel medesimo tempo gioia e timore. Timore e gioia che, paradossalmente insieme, contraddistinguono sempre una grande esperienza di amore.

    Ma è una corsa che improvvisamente si interrompe. Non più un angelo ma Gesù stesso si fa incontro alle donne. E’ la prima apparizione del Risorto, ed è narrata in termini quanto mai sobri, soprattutto se la paragoniamo con l’apparizione precedente dell’angelo. Potremmo definirla come un incontro informale tra due persone che si incontrano casualmente per strada. Gesù non aggiunge nulla di nuovo a quanto detto dall’angelo e ciò fa rimanere un po’ stupiti, ci si aspetterebbe qualche novità! Il motivo è  che l’essenziale è già stato detto, non occorre aggiungere altro.

    E la prima parola che il Risorto rivolge alle donne è: “Salute a voi”. La traduzione è un po’ banale; “chairete” non ha solo il valore di un saluto convenzionale del tipo “buongiorno” ma è anche il verbo dell’invito alla gioia: “gioite, rallegratevi!”. L’invito alla festa è la prima parola del risorto all’umanità!

    Le donne si avvicinano a Gesù, si prostrano in adorazione abbracciando i suoi piedi. La scena è qui tutta pervasa dalla fede che nel corpo del Crocifisso Risorto si manifesta la gloria di Dio: non rimane che gioire ed adorare.  Questi gesti dicono molto più di tante parole, sono come il gesto silenzioso della donna che cospargeva con l’olio di nardo i piedi di Gesù (cfr Mc 14,1ss). Il gesto d’abbracciare i piedi è fortemente sottolineato: il verbo (ekratesan) esprime l’afferrare saldamente, lo stringere con forza: è il gesto istintivo di una gioia sconfinata che abbracciando stringe talmente fino a far male. Gesù non si sottrae a questo abbraccio di adorazione.

    Ma una novità, a dir del vero, c’è: Gesù chiama per la prima – e unica – volta i “suoi” discepoli “miei fratelli”: “Andate ad annunciare ai miei fratelli”. I credenti non devono più rapportarsi a Gesù semplicemente come discepoli nei confronti del Maestro; la risurrezione ha ormai aperto la possibilità di una relazione nuova e intima con il Padre al quale Gesù ci introduce come “fratelli suoi”. Egli ci ha fatto dono della sua stessa vita e della sua obbedienza filiale. Siamo perciò ormai “figli nel Figlio” per usare l’espressione cara ai padri.

    Le due donne sono divenute testimoni, non sono solo messaggere: hanno “visto, udito, toccato” (cfr 1Gv 1). Prime apostole ed evangeliste della buona Notizia affidata alla Chiesa!

    Collatio

    Leggo oggi sul giornale la notizia: “In Olanda, tre neonati sepolti nel giardino di una casa a Geleen: arrestata una donna”. È una notizia tra le tante dello stesso tono che sentiamo quasi ogni giorno. Se nell’’82 lo scrittore Kundera scriveva il romanzo “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, la sensazione che avvertiamo ora dietro questi terribili fatti la potremmo definire come “l’insostenibile leggerezza del vuoto”. Una vita vuota colma di una angoscia, spesso inconscia e senza nome, che si trasforma, proprio perché “insostenibile” alla ragione, in violenza più o meno esplicita su di sé o  su altri. Assistiamo  a un crescente disprezzo della vita perché l’esistenza umana appare priva di valore, e lo è perché percepita senza senso, spalancata sull’assurdo di una libertà senza scopo e sospesa nel vuoto, destinata al nulla. Per tanti la vita diventa, come per Giobbe, una condanna più che un dono: “Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene,che la cercano più di un tesoro, che godono alla vista di un tumulo, gioiscono se possono trovare una tomba…” (Gb 3,20-22).

    L’uomo è costretto, prima o dopo, a visitare il sepolcro della sua vita: un sepolcro non solo che prima o dopo chiuderà il suo cadavere, ma che già ora rinchiude delusioni, insuccessi, insoddisfazione, rabbia, incapacità di dare risposte al senso della bellezza e del dolore, e soprattutto della morte. Sempre buone le parole del cupo Foscolo per descrivere questo stato d’animo: “Anche la Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve tutte cose l’obblío nella sua notte” (I sepolcri). Senza speranza “ultima dea” perché non raggiunti dall’annuncio della Buona Notizia della Risurrezione del Crocifisso ci recheremmo tutti, come le due donne, in visita al sepolcro del nazareno e nostro con il cuore sprofondato in una nostalgia di una vita diversa nella quale sia lei e non le nostre innumerevoli “morti” a trionfare sul nulla avvertito dalla ragione come “contro natura”.

    Anche il credente non è esonerato da un quotidiano cammino di visita “a quel sepolcro” che spesso attanaglia la sua stessa esistenza e la sua fede. Anch’egli fa sue le parole del salmista e di Gesù sulla croce:Salvami dal fango, che io non affondi, liberami dai miei nemici e dalle acque profonde. Non mi sommergano i flutti delle acque e il vortice non mi travolga, l’abisso non chiuda su di me la sua bocca” (Sal 68,15s). Anche il credente, come ogni uomo e donna sulla faccia della terra, ha bisogno di udire e risentire incessantemente le parole del messaggero evangelista che annuncia: “Non è qui! È risorto!”.

    La liturgia della Chiesa non è altro che un continuo aiutarci a fare memoria di questo annuncio celebrandolo come cuore sempre palpitante della nostra speranza che ossigena continuamente il cammino della vita di ciascuno, della Chiesa, dell’umanità intera: “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione”.  Attraverso la Chiesa, angelo che sta sempre seduto sulla pietra tombale ormai rovesciata per sempre, l’annuncio della pasqua continua a risuonare al mondo intero: “Ci rendiamo conto che si tratta di un annuncio sconvolgente, che cambia la vita? Se Cristo non è risorto, la croce non ci salva, la causa del regno è sconfitta e la chiesa non ha più nulla da dire. Ma il nostro Dio è grande nell’amore e non finisce di stupire: ridona agli uomini come salvatore il proprio Figlio che essi hanno rifiutato e ucciso. Mediante il Crocifisso Risorto il Padre si fa definitivamente vicino ai peccatori, ai poveri, agli ammalati, ai falliti della storia, ai morti inghiottiti dalla terra” (Cei, Questa è la nostra fede, 11).

    Se Cristo è risorto allora tutto cambia! Se la prospettiva della mia vita è la mia resurrezione, il vivere in un’eternità di luce e di gioia, di comunione eterna con Dio e i miei fratelli che mi hanno preceduto e seguiranno, allora tutta la vicenda mia e dell’umanità, la mia storia e quella dell’umanità, cambiano radicalmente prospettiva. Non siamo più condannati all’assurdo, all’incapacità di dare risposta all’enigma dell’esistenza. Siamo definitivamente liberati dall’angoscia di un Leopardi che, facendosi voce dell’angoscia dell’uomo privo di fede affermava: “Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio e unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era perciò dal nulla scaturiscono le cose che sono” (Operette morali). Finalmente all’uomo è donata una parola, o meglio un “avvenimento”, capace di abbattere un muro impossibile e di offrire una luce inaspettata.

    Chiaramente un tale annuncio non può non provocare un “terremoto” nella coscienza di chi lo ascolta. Di fronte ad esso i colti ascoltatori dell’apostolo Paolo ad Atene reagirono non certo con entusiasmo: “Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: «Ti sentiremo su questo un’altra volta»” (At 17,32). La vita, alla luce della resurrezione, viene infatti radicalmente riletta nelle sue premesse. Le guardie e le donne sono raggiunti dagli stessi segni: le donne vengono, guardano, si spaventano, gioiscono, corrono ad annunciare, dall’altra le guardie sono ferme, bloccate, rigide nella loro cadavericità, disposte a manipolare i fatti per cercare di tarpare la verità. La differenza è chiara: non basta essere lì nei pressi del sepolcro, tutto dipende dal “come” si è lì perché questo divenga annuncio di vita. Si tratta di lasciarsi “terremotare” dalla Parola!

    La fede accordata all’annuncio, l’incontro con il risorto, non scaturiscono di certo dagli “effetti speciali” di qualche prodigio, ma richiedono una disponibilità all’ascolto e il coraggio di un cammino da percorrere che non tutti sono disposti a compiere. È un annuncio che si offre nella debolezza e stoltezza della predicazione e della testimonianza il più delle volte umile e nascosta: “infatti nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione” (1Cor 1,21). Lo stile di Dio e dei suoi testimoni non è quello di stupire, ma di donarsi alla libertà dell’uomo. Penso alla grande e umile testimonianza di Teresa di Calcutta: la sua vita fu annuncio straordinario di risurrezione con il suo semplice e materno chinarsi sull’ultimo lebbroso emarginato, sul moribondo abbandonato ai margini della strada! Come è possibile questo se non nella consapevolezza della dignità e della bellezza di ogni vita chiamata all’eterno? Il Risorto si fa ancora presente sotto le sembianze del pellegrino, dell’ortolano o del pescatore. Occorrono occhi trasfigurati per incontrare il Trasfigurato! Ed incontrarlo sarà sempre una grazia. Quando lo incontreremo di fatto scopriremo che Lui era già presente, presente nella sua Parola, presente nell’eucarestia, presente nel sacramento del perdono, presente nella mia comunità di discepoli benché povera e scalcinata, presente nel volto del mio fratello, del povero che bussa alla porta o nel sorriso del bambino che incontro per strada. Presente nel cantico della creazione nella bellezza e trasfigurazione a cui è destinata.

    Quale la prova che ci dirà che è avvenuto l’incontro con il Risorto? Semplice. Se il cammino delle due donne verso il sepolcro è segnato dalla tristezza, dallo sconforto, da un senso impotente di vuoto, quello del loro ritorno al Cenacolo è una corsa straripante d’una incontenibile gioia che non attende altro che d’esser comunicata. La gioia dell’incontro non potrà essere trattenuta per sé. Saranno nostre le parole di Geremia: “nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (20,9).

    Concludendo possiamo affermare che solo a condizione che l’annuncio del kerygma ritorni ad essere il cuore palpitante della chiesa la proposta cristiana potrà superare gli insufficienti ambiti in cui la si è voluta rinchiudere o che abbiamo noi stessi preferito ridurla: penso ad una presentazione di essa in termini di semplice dottrina religiosa, di una proposta morale, di un insieme di valori atto a facilitare la convivenza umana, o di vaga salvezza in un “qualcosa” riservata all’aldilà. La fede del cristiano è incontro non con qualcosa ma con Qualcuno, con un volto e un nome: Gesù di Nazareth il crocifisso risorto! Solo a questa stessa condizione  potrà rinascerà l’anelito oggi affievolito di un’autentica missione non ridotta a meschina “propaganda religiosa”. Essa sarà comunicazione di un’esperienza! Che l’incontro con Gesù risorto conduca tutti noi a dire con l’apostolo Giovanni che “ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita… quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi… perché la vostra gioia sia perfetta” (1Gv 1,1-4).

    Oratio

    Ancora una volta veniamo, o Signore, ancora una volta per cantare la Pasqua.
    Che ostinazione!
    Per sfidare con te le forze delle tenebre e per gridare,
    per credere ancora che la notte non può impedire a Dio
    di far levare la luce.
    Ancora una volta veniamo per raccogliere da te la speranza,
    per trovare la gioia che si innalza nonostante i dubbi e le paure,
    per accogliere da te la gioia capace di far fronte a conflitti e difficoltà,
    per ricevere da te la vita che nulla può schiacciare,
    neppure la pietra del sepolcro.
    Ancora una volta veniamo per vedere all’opera te, Signore Dio nostro,
    il cui lavoro, fin dall’inizio dei tempi,
    consiste nel donare senza posa la vita per sempre. Amen
    ”.

    (Charles Singer).

     


    [1] E’ significativo il riferimento al “terremoto” che accompagna la discesa dell’angelo dal cielo. Il sovvertimento della terra, nella bibbia, fa sempre riferimento a momenti decisivi della storia della salvezza (cfr es. Es 24; Sal 17,8; 67,9…): esso esprime l’intervento della mano potente di Dio. Poco prima Matteo ci aveva descritto un altro terremoto: quello scatenatosi al momento della morte di Cristo (27,51-52). Si tratta di uno stesso terremoto in due tempi che accompagna il mistero della pasqua del Cristo! Già la sua morte accompagnata dalla resurrezione di “corpi di santi” aveva annunciato la sua vittoria finale (27,53ss). L’angelo è come una folgore (v. 3) simbolo del fuoco; è ancora un rimando alla potenza divina. La veste bianca come neve (v. 3) è l’abito che indossa il vincitore in battaglia (cfr Ap 3,5).
  • 10 Mag

    IL SOFFIO DEL DIO VIVENTE
    Gv 3,3-8


    a cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    Sal 39, 6 Vedi, in pochi palmi hai misurato i miei giorni

    e la mia esistenza davanti a te è un nulla.

    Solo un soffio è ogni uomo che vive,

    7 come ombra è l’uomo che passa;

    solo un soffio che si agita,

    accumula ricchezze e non sa chi le raccolga.

    L’uomo è “soffio”: un essere segnato da una estrema fragilità.

    Tutto nella vita, infatti, è passeggero, instabile: Vanità delle vanità, tutto è vanità dice Qoeleth (Ql 1,2).

    Ma la traduzione esatta di hevel nonb è vanità: il termine sta ad indicare l’ultimo istante dell’appannarsi dello specchio, in cui per un attimo, si materializza l’ultimo respiro.

    Accanto a “soffio” troviamo la simbologia dell’ombra, dell’erba dell’acqua che si disperde… L’abbondanza di immagini sta ad indicare l’assillo che per il semita rivestiva la perdita delle sorgenti della vita.

    L’espressione inseguire il vento (Ql 1,14.17) significa l’inutilità e la stoltezza degli sforzi dell’uomo per prolungare la sua vita. L’essere umano che tenta di durare insegue il “soffio” che lo sfugge.

    SOFFIO E POLVERE

    Per l’antropologia biblica l’uomo è in realtà costituito da “soffio” e “polvere”.

    Il soffio non appartiene all’uomo: esso è dono dell’alito di Dio. E’ JHWH che soffia nelle narici di Adamo l’alito di vita.

    E’ così che vi è la consapevolezza che se “Dio richiamasse a sé il suo alito, se concentrasse in se stesso il proprio alito, ogni carne spirerebbe all’istante e l’uomo ritornerebbe in povere” (cf Gb 34,14-15) “Togli loro il respiro muoiono e ritornano nella loro polvere…” (sal…).

    L’elemento “polvere” in se stesso dunque è simbolo di dispersione, di morte, di fragilità estrema: di polvere ci si copre il capo in segno di lutto.

    E’ solo il “soffio” che può donare una speranza. Quel soffio che riposa in pienezza sul figlio diletto mandato a rianimare l’umanità moribonda. La vita del Figlio è lo stesso soffio che viene donato.

    L’umanità rianimata dal suo soffio riconosce finalmente che Dio è “Abbà”, Padre, papà: finalmente l’uomo riscopre il vero volto di dio sfuggendo dalla rappresentazione di quel volto deturpato dalla sua ribellione iniziale:

    Gal 4,6 E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! 7 Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio.

    RINASCERE

    E’ perciò necessario rinascere dal Soffio di questa vita nuova. E questa rinascita avviene sacramentalmente nel battesimo: è una nuova creazione. Il dono rinnovato significa risurrezione.

    Gv 3,3 Gli rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio». 4 Gli disse Nicodèmo: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». 5 Gli rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. 6 Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. 7 Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. 8 Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito». 9 Replicò Nicodèmo: «Come può accadere questo?».

    Nella visione di Ezechiele questo appariva attraverso immagini simboliche in modo grandioso:

    Ez 37, 1 La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; 2 mi fece passare tutt’intorno accanto ad esse. Vidi che erano in grandissima quantità sulla distesa della valle e tutte inaridite. 3 Mi disse: «Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?». Io risposi: «Signore Dio, tu lo sai». 4 Egli mi replicò: «Profetizza su queste ossa e annunzia loro: Ossa inaridite, udite la parola del Signore. 5 Dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. 6 Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete: Saprete che io sono il Signore». 7 Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre io profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. 8 Guardai ed ecco sopra di esse i nervi, la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito in loro. 9 Egli aggiunse: «Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano». 10 Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato.

    Sempre nell’AT vediamo come il soffio quando discende sull’uomo lo cambia, perché “Dio è con Lui” (Cf 1Sm 10,6-7).

    Quando scende l’unzione per mano del profeta l’uomo diventa “L’unto di JHWH”: ungere è perciò segno del soffio come principio di forza (1Sm 10,1; 16,13; 1Re 1,34):

    1Sm 16, 13 Samuele prese il corno dell’olio e lo consacrò con l’unzione in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore si posò su Davide da quel giorno in poi. Samuele poi si alzò e tornò a Rama.

    Gesù a Nazaret legge nella sinagoga il proclama di Isaia: “Lo spirito del Signore Dio è su di me per questo mi ha consacrato con l’unzione…” (Lc 4,18-21).

    Nel battesimo il soffio discende su di lui come colomba, è in lui si attua la pienezza dei doni come aveva previsto Isaia:

    11, 1 Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,

    un virgulto germoglierà dalle sue radici.

    2 Su di lui si poserà lo spirito del Signore,

    spirito di sapienza e di intelligenza,

    spirito di consiglio e di fortezza,

    spirito di conoscenza e di timore del Signore.

    3 Si compiacerà del timore del Signore.

    Non giudicherà secondo le apparenze

    e non prenderà decisioni per sentito dire;

    Giovanni commenta:

    1, 32 Giovanni rese testimonianza dicendo: «Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. 33 Io non lo conoscevo, ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: L’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo.

    I “sette soffi di Dio” in Ap. 1,4 sono pienezza di potenza e chiaroveggenza divina.

    DONO DEL CROCIFISSO RISORTO

    Il figlio morente dona il suo “soffio” sulla croce per donarlo all’umanità morente. Ed è morendo che il figlio rivela pienamente l’immagine del Padre. Dio è amore (!Gv 4,8.16) rivelato sulla croce.

    E’ così che il nome del Padre è glorificato dal Figlio (Gv 12,28).

    Ed è il Soffio che sospinge a questa confessione di fede. Lo Spirito diviene avvocato nei confronti del Figlio crocifisso. Spetta a Lui rivelare il peccato, la giustizia e il giudizio.

    Lo Spirito perora la causa di coloro che condividono la croce.

    L’ultimo soffio del crocifisso è la più alta opera del soffio di amore. E lui che strappa il velo del tempio e rianima i cadaveri (Mt 27,51-52).

    E’ lui che risuscita il crocifisso e lo innalza:

    Rm 1,4 costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore.

    E’ lui che infiamma gli apostoli il giorno di Pentecoste (cf At 2).

    E’ lui che prende possesso dei battezzati nel nome di Gesù e fa rinascere (At 2,32ss; Gv 3.5-6).

    Ez 36,25 Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; 26 vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. 27 Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi.

    La promessa fatta per bocca del profeta si è finalmente realizzata.

    Il Padre ha immesso il soffio del Figlio nel cuore dell’uomo riconquistato all’amore.

    La vita dell’uomo prende la forma dell’amore crocifisso.

    Il Padre riconosce nell’uomo il Figlio e il figlio adottivo riconosce in lui il Padre.

  • 09 Mag

    SANGUE DA BERE
    Gv 6,53-54

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    Il sangue di Abele invoca giustizia dalla terra su cui è stato sparso (Gn 4,10).

    Dio dall’inizio del mondo raccoglie nei suoi otri tutto il sangue innocente e ogni lacrima (cf Sal 56,9) al fine di farne un miscuglio con cui colmare le coppe d’ira (cf Ap 14,17-20) per il giorno finale della vendetta.

    Solo allora il clamore dei persecutori coprirà quello delle loro vittime (cf Es 11,6; 3,7; Sal 9,13; 18,7).

    I modi con cui versare il sangue sono molteplici, molti dei quali nascosti agli occhi degli uomini ma non a quelli di Dio.

    Il tema del sangue si riallaccia a quello dei sacrifici. Il sangue degli animali non può essere assolutamente impiegato perché esso appartiene a Dio, è l’anima su cui l’uomo non ha alcun diritto (Gn 9,2-4).

    Quale allora l’orrore dei discepoli nel sentire l’espressione di Gesù a Cafarnao, sulle rive del lago:

    Gv 6,53 Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. 54 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55 Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.

    Comprensibile la reazione: il linguaggio è duro e molti lo abbandonano.

    Dio aveva riservato per sé ogni sangue sparso dall’uomo: il sangue innocente come prova contro i persecutori, il sangue degli animali offerto come surrogato per la vita del popolo peccatore:

    Lv 17, 11: Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite; perché il sangue espia, in quanto è la vita.

    Il peccato infatti attirerebbe sul peccatore una pena di morte:

    Gn 2, 17: ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti.

    Tuttavia Dio mantiene in vita l’umanità peccatrice accettando il prezzo irrisorio del sangue animale. Forse in attesa di dare la propria vita in espiazione?

    “Le sostituzioni del sangue animale che mantengono in vita l’umanità moribonda dell’Antica Alleanza sono di auspicio all’abbeveraggio di sangue divino che nutrirà l’umnaità rinata nella nuova Alleanza”

    STERMINIO DEI PRIMOGENITI

    Il primo sangue animale sostitutivo è quello dell’Agnello pasquale.

    Possiamo porci alcune domande:

    – perché Dio vota allo sterminio i primogeniti d’Egitto?

    – perché Israele ha bisogno di una vittima di sostituzione per sfuggire allo sterminio degli egiziani?

    I primogeniti egiziani sono sterminati perché l’Egitto voleva sterminare il primogenito fra tutti i popoli, eletto da Dio. La piaga è un terribile taglione per aprire gli occhi ai persecutori sulla libera scelta di Dio.

    Se Israele sfugge lo è solo in quanto in quel momento è vittima.

    Ogni membro dell’umanità condannata a morte non sfuggirà alla sua pena se non in quanto avrà parte del mistero di vittima che definisce fra gli uomini la situazione del primogenito di Dio.

    I profeti lo ripetono continuamente: non è il sangue degli animali che giustifica, ma la giustizia derivante dall’osservanza dei comandamenti.

    A questo punto è l’inadempiente condannato che offre una vittima sostitutrice. Questo sangue innocente diventa misteriosamente intercessione per colui che lo ha sparso.

    E solo il sangue di una vittima senza peccato può intercedere per il peccatore:

    Lv 22,20 Non offrirete nulla con qualche difetto, perché non sarebbe gradito. 21 Se uno offre al Signore, in sacrificio di comunione, un bovino o un ovino, sia per sciogliere un voto, sia come offerta volontaria, la vittima, perché sia gradita, dovrà essere perfetta: senza difetti. 22 Non offrirete al Signore nessuna vittima cieca o storpia o mutilata o con ulceri o con la scabbia o con piaghe purulente; non ne farete sull’altare un sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore. 23 Come offerta volontaria potrai presentare un bue o una pecora che abbia un membro troppo lungo o troppo corto; ma come offerta per qualche voto non sarebbe gradita. 24 Non offrirete al Signore un animale con i testicoli ammaccati o schiacciati o strappati o tagliati. Tali cose non farete nel vostro paese, 25 né accetterete dallo straniero alcuna di queste vittime per offrirla come pane in onore del vostro Dio; essendo mutilate, difettose, non sarebbero gradite per il vostro bene».

    1Pt 1,18 Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, 19 ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia.

    Questo servirà a far comprendere il gesto criminale e misterioso della condanna a morte del Servo esente da peccato:

    1Gv 3,5 Voi sapete che egli è apparso per togliere i peccati e che in lui non v’è peccato.

    PER LE SUE PIAGHE SIAMO STATI GUARITI

    La distruzione del regno di Giuda mentre è in atto la grande riforma religiosa di Giosia non può essere letta come castigo verso il “Servo Israele”.

    Ma allora che significato essa può assumere?

    Essa è in vista di una glorificazione di Israele davanti a tutti i popoli:

    Is 53, 1 Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?

    A chi sarebbe stato manifestato il braccio del <Signore?

    2 E’ cresciuto come un virgulto davanti a lui

    e come una radice in terra arida.

    Non ha apparenza né bellezza

    per attirare i nostri sguardi,

    non splendore per provare in lui diletto.

    3 Disprezzato e reietto dagli uomini,

    uomo dei dolori che ben conosce il patire,

    come uno davanti al quale ci si copre la faccia,

    era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.

    4 Eppure egli si è caricato delle nostre <sofferenze,

    si è addossato i nostri dolori

    e noi lo giudicavamo castigato,

    percosso da Dio e umiliato.

    5 Egli è stato trafitto per i nostri delitti,

    schiacciato per le nostre iniquità.

    Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di <lui;

    per le sue piaghe noi siamo stati guariti.

    6 Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,

    ognuno di noi seguiva la sua strada;

    il Signore fece ricadere su di lui

    l’iniquità di noi tutti.

    7 Maltrattato, si lasciò umiliare

    e non aprì la sua bocca;

    era come agnello condotto al macello,

    come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,

    e non aprì la sua bocca.

    8 Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di <mezzo;

    chi si affligge per la sua sorte?

    Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,

    per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte.

    9 Gli si diede sepoltura con gli empi,

    con il ricco fu il suo tumulo,

    sebbene non avesse commesso violenza

    né vi fosse inganno nella sua bocca.

    10 Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.

    Quando offrirà se stesso in espiazione,

    vedrà una discendenza, vivrà a lungo,

    si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.

    11a Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce

    e si sazierà della sua conoscenza;

    Dio stessi prenderà parola:

    11b il giusto mio servo giustificherà molti,

    egli si addosserà la loro iniquità.

    12 Perciò io gli darò in premio le moltitudini,

    dei potenti egli farà bottino,

    perché ha consegnato se stesso alla morte

    ed è stato annoverato fra gli empi,

    mentre egli portava il peccato di molti

    e intercedeva per i peccatori.

    Le disgrazie del regno di Giuda assommano la figura del Servo, il destino dell’Agnello Pasquale e delle vittime del Tempio.

    Israele fuggendo dall’Egitto era vittima protetta da Dio, ora l’Israele dell’esilio rinuncia a questa protezione: esso prende proprio su di sé il castigo.

    E’ una nuova apertura verso la scoperta della sua vocazione in mezzo a tutti i popoli. Israele sarà lui stesso ormai la vittima del Tempio, ormai distrutto, la cui espiazione è sufficiente per sospendere l’esecuzione della sentenza di morte che incombe su chi sacrifica.

    Vi è un dramma storico di questo popolo al quale va attribuito il valore di un gesto profetico nel quale si rivela il mistero del Redentore.

    Certo, a giudizio dell’uomo nuovo, l’ultimo respiro dell’innocente è più potente del verdetto ingiusto che in lui si realizza. L’ultimo respiro avrà accesso all’Onnipotente sia che si tratti di vendetta che di intercessione.

    Ma tra i figli di Adamo esistono innocenti? O tutti sono vittime e carnefici nello stesso tempo?

    Esiste realmente un innocente?

    La figura misteriosa del Servo-Vittima appare così in trasparenza.

    E’ Dio che si incarica di portare un destino che i figli di Adamo non riescono a prendere su di sé. E’ Dio stesso che in Gesù di Nazaret diventa quel “piccolo resto” fedele e innocente annunciato dai profeti.

    Il suo destino di vittima non lo mette al bando solo da parte dei pagani ma anche da parte del suo stesso popolo. Nei suoi confronti tutti assumono il ruolo di carnefici.

    Il suo sangue innocente è l’unica bevanda capace di rendere la vita ai suoi moribondi carnefici. E il destino di tutte le vittime si compie in lui.

    Ora ogni figlio di Adamo è vittima e carnefice legato a colui che incarna la vittima come a colui che incarna il carnefice.

    Ma l’uomo credendosi solo vittima, rifiuta la sua responsabilità di carnefice, e le sue tendenze di carnefice gli impediscono di scegliere il destino di solidarietà con le vittime.

    ACQUA E SANGUE

    Dal costato di Cristo uscì sangue e acqua.

    E’ l’acqua del pentimento battesimale per il carnefice accusato dallo Spirito dinanzi alla croce.

    E’ il sangue della Nuova Alleanza per entrare in comunione di destino con la vittima.

    1Gv 5, 6 Questi è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che rende testimonianza, perché lo Spirito è la verità. 7 Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza: 8 lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi.

    Il sangue eloquente della Nuova Alleanza grida perdono e intercede:

    Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno

    Questo è il calice del mio sangue versato per voi e per tutti in remissione dei peccati

    Questo appello sovrasta il grido di vendetta del sangue di Abele.

    Ora L’agnello-Cristo è lui stesso propiziatorio, trono di JHWH, ed è colui che sta in mezzo al trono (Ap 7,17); è lui il sommo sacerdote che offre il suo sangue: il rituale dell’espiazione sta tutto ora nel corpo martoriato di Gesù.

    UN PRIMO APPELLO

    Il sangue di Cristo è invocazione di perdono per chi lo versa ed è appello al pentimento.

    La prima risposta è lo “spezzarsi del cuore di pietra” (Ez 36,26) del colpevole:

    At 2, 23 dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso… 36 Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!».  37 All’udire tutto questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». 38 E Pietro disse: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo.

    Il battesimo di pentimento “nel nome” di colui che hanno crocifisso li unirà alla morte della loro vittima:

    Rm 6, 3 O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? 4 Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. 5 Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. 6 Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato.

    Immergendomi col battesimo nella morte di Cristo io metto a morte il ribelle e il carnefice, l’uomo vecchio, e mi unisco alla mia vittima.

    Questa unione ha come conseguenza che gli stessi carnefici vengano uniti anche tra di loro: un unico corpo immolato e redento:

    1Cor 12,13 E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito.

    Col 3, 11 Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti.

    UN SECONDO APPELLO

    Il secondo appello del sangue è dunque l’unità dell’umanità intera nella comunione al destino del crocifisso.

    E’ appello alla vita. La morte non ha più potere per colui che in Cristo è morto al destino di Abramo. Vi è un uomo nuovo, una umanità nuova nata dalla morte battesimale.

    SANGUE DA BERE

    Comprendiamo ora perché per i discepoli della Nuova Alleanza è necessario bere il sangue della loro vittima, mentre il sangue degli altri sacrifici doveva essere asperso.

    Il sangue è la vita, e Adamo si tagliò fuori dalle sorgenti della vita: era destinato dunque alla morte.

    La prima riparazione è un’effusione della vita davanti a Dio. Asperso dal sangue dei sacrifici Israele si trova assimilato simbolicamente alla morte delle vittime. Aspergendo l’altare Israele sparge simbolicamente davanti al suo Dio la vita sottratta ad Adamo.

    Questo sangue non può essere bevuto: i figli di Adamo non hanno diritto e potere di rianimare la loro vita moribonda.

    L’uomo tagliato fuori dal circolo vitale deve almeno ricordare che la vita viene e va a Dio.

    In Cristo Si attua una nuova relazione con Dio. Il sangue della vittima ora può essere bevuto: esso non solo restituisce alla vita il peccatore, ma riapre bensì anche le sorgenti della vita che erano state chiuse.

    Quel sangue e quell’acqua fanno scaturire quasi un grido di gioia (cfr. Gv 19,35).

    Da ora contempleranno tutti colui che è stato trafitto (cfr. Zac 12,10).

    L’uomo si abbevera al fianco della vittima riconosciuta come Dio.

  • 07 Mag

    IL DIO GELOSO E LO SPOSO INGANNATO

    La profezia di Osea

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    Lungo l’Antico Testamento ricorre sovente l’espressione: “Io sono il Signore Dio tuo, forte e geloso”.

    Dio è fuoco divoratore che consuma chi si allontana da lui, e una volta che Israele è stato scelto non rimangono a quest’ultimo se due scelte:

    – o essere l’oggetto del favore e della protezione di Dio

    – o rischiare di vedersi consumato e distrutto da lui.

    Israele deve imparare a temere Dio.

    Ora il temere nella sacra scrittura possiede due accezioni:

    – si trema di paura

    – si trema perché si ama e si viene meno per la gioia.

    Nei confronti di Dio questi due aspetti sono contemporaneamente presenti, sono complementari. Ciò che si  oppone al timore non è tanto la familiarità, quanto l’oblio, la dimenticanza.

    Allora l’alternativa è duplice: temere o dimenticare.

    IL RISCHIO DELL’OBLIO

    Israele è sempre tentato di dimenticare Dio. Lungo l’arco delle generazioni è possibile che ci si scordi di quel Dio che “con potenza ha diviso il mare”.

    Allora accade che il popolo decada in un ateismo pragmatico: sì Dio viene affermato, ma lo si relega a concetti e pratiche religiose. La vita ne resta estranea, si vive come se non ci fosse.

    E’ questa la situazione descritta con amarezza da Dt 32,9-18:

    9 Perché porzione del Signore è il suo popolo,

    Giacobbe è sua eredità.

    10 Egli lo trovò in terra deserta,

    in una landa di ululati solitari.

    Lo circondò, lo allevò,

    lo custodì come pupilla del suo occhio.

    11 Come un’aquila che veglia la sua nidiata,

    che vola sopra i suoi nati,

    egli spiegò le ali e lo prese,

    lo sollevò sulle sue ali,

    12 Il Signore lo guidò da solo,

    non c’era con lui alcun dio straniero.

    13 Lo fece montare sulle alture della terra

    e lo nutrì con i prodotti della campagna;

    gli fece succhiare miele dalla rupe

    e olio dai ciottoli della roccia;

    14 crema di mucca e latte di pecora

    insieme con grasso di agnelli,

    arieti di Basan e capri,

    fior di farina di frumento

    e sangue di uva, che bevevi spumeggiante.

    15 Giacobbe ha mangiato e si è saziato,

    – sì, ti sei ingrassato, impinguato, rimpinzato –

    e ha respinto il Dio che lo aveva fatto,

    ha disprezzato la Roccia, sua salvezza.

    16 Lo hanno fatto ingelosire con dei stranieri

    e provocato con abomini all’ira.

    17 Hanno sacrificato a demoni che non sono Dio,

    a divinità che non conoscevano,

    novità, venute da poco,

    che i vostri padri non avevano temuto.

    18 La Roccia, che ti ha generato, tu hai trascurato;

    hai dimenticato il Dio che ti ha procreato!

    In una vita sostanzialmente ormai profana il popolo ha imparato ad incensare idoli a buon mercato.

    I profeti rivolgono al popolo parole indignate. Il libro del profeta Isaia si apre con questo atto di accusa:

    2 Udite, cieli; ascolta, terra,

    perché il Signore dice:

    «Ho allevato e fatto crescere figli,

    ma essi si sono ribellati contro di me.

    3 Il bue conosce il proprietario

    e l’asino la greppia del padrone,

    ma Israele non conosce

    e il mio popolo non comprende».

    4 Guai, gente peccatrice,

    popolo carico di iniquità!

    Razza di scellerati,

    figli corrotti!

    Hanno abbandonato il Signore,

    hanno disprezzato il Santo di Israele,

    si sono voltati indietro;

    5 perché volete ancora essere colpiti,

    accumulando ribellioni?

    La testa è tutta malata,

    tutto il cuore langue. (1,1-5)

    Israele ha dimenticato addirittura da chi ha ricevuto l’esistenza: nella sua testardaggine si è rivolto a idoli attribuendo a loro la sua vita.

    Mosè in punto di morte aveva lasciato parole di monito, un testamento: Dt 4,22-31

    23 Guardatevi dal dimenticare l’alleanza che il Signore vostro Dio ha stabilita con voi e dal farvi alcuna immagine scolpita di qualunque cosa, riguardo alla quale il Signore tuo Dio ti ha dato un comando. 24 Poiché il Signore tuo Dio è fuoco divoratore, un Dio geloso. 25 Quando avrete generato figli e nipoti e sarete invecchiati nel paese, se vi corromperete, se vi farete immagini scolpite di qualunque cosa, se farete ciò che è male agli occhi del Signore vostro Dio per irritarlo, 26 io chiamo oggi in testimonio contro di voi il cielo e la terra: voi certo perirete, scomparendo dal paese di cui state per prendere possesso oltre il Giordano. Voi non vi rimarrete lunghi giorni, ma sarete tutti sterminati. 27 Il Signore vi disperderà fra i popoli e non resterete più di un piccolo numero fra le nazioni dove il Signore vi condurrà. 28 Là servirete a dei fatti da mano d’uomo, dei di legno e di pietra, i quali non vedono, non mangiano, non odorano. 29 Ma di là cercherai il Signore tuo Dio e lo troverai, se lo cercherai con tutto il cuore e con tutta l’anima. 30 Con angoscia, quando tutte queste cose ti saranno avvenute, negli ultimi giorni, tornerai al Signore tuo Dio e ascolterai la sua voce, 31 poiché il Signore Dio tuo è un Dio misericordioso; non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurata ai tuoi padri.

    Mosè si premura di ricordare ad Israele una duplice realtà:

    – JHWH è un Dio geloso

    – JHWH è un Dio misericordioso

    Sono due certezze apparentemente contraddittorie.

    Israele dovrà passare attraverso l’esperienza del fuoco divoratore del Dio geloso, ma farà altresì esperienza della sua misericordia.

    Quest’ultima realtà sarà quella del “resto di Israele”.  Il fuoco divorante è la “porta stretta”, è un “vaglio di un setaccio” (cf Is 6,13;10,21).

    Il popolo eletto per riconvertirsi a Dio deve passare attraverso la prova. Solo a questa condizione gli idoli possono essere annientati.

    Questo nuovo intervento di Dio è presentato dai profeti come una nuova creazione, un nuovo esodo. Non si tratta più di richiamare, esortare, da di procedere ad un vero e proprio reimpianto.

    E’ questo il significato della nuova alleanza annunciata da Geremia (cap. 31) e il senso delle profezie di Ezechiele:

    11,19 Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro; toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne…

    Gr 31,31-34: «Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. 32 Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. 33 Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. 34 Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato».

    IMPOTENZA DELLA LEGGE

    Per poter essere ricreato, l’uomo deve arrendersi, e si arrende solo quando fa esperienza di una completa impotenza.

    San Paolo insiste sul fatto che la Legge aveva lo scopo di rivelare all’uomo il suo peccato: Rm 7:

    7 Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare.

    14 Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. 15 Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. 16 Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; 17 quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 18 Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; 19 infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. 20 Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 21 Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. 22 Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, 23 ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra.

    Solo in questa situazione Dio può aprirsi un varco nel cuore dell’uomo al fine di ricrearlo

    SANTITA’ CHIAMA SANTITA’

    Il motivo più appariscente della gelosia di Dio? Perché egli è santo e quindi…

    Lev 19,1-2:

    1 Il Signore disse ancora a Mosè: 2 «Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo.

    11,44-45

    44 Poiché io sono il Signore, il Dio vostro. Santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo; non contaminate le vostre persone con alcuno di questi animali che strisciano per terra. 45 Poiché io sono il Signore, che vi ho fatti uscire dal paese d’Egitto, per essere il vostro Dio; siate dunque santi, perché io sono santo.

    Questa è la base della spiritualità del libro del Levitico. Vengono proposte delle norme che Israele deve imparare  ad osservare affinché prenda sempre più consapevolezza di chi è Dio e di che cosa egli a chiamato a diventare.

    L’interrogativo però è: Israele tradirà questa vocazione per altro? Compirà forse il cammino inverso rispetto a quello dell’uomo che ha scoperto un tesoro nel campo e va a vendere ogni suo avere per comprare quel campo (Mt 13,44)? Israele rinuncerà al suo tesoro per altre realtà disprezzabili?

    Occorre fare una considerazione: una eredità ricevuta in prima persona entusiasma e responsabilizza. Colui che la riceve a sua volta invece, ormai la conosce troppo bene, ci ha fatto l’abitudine, affettivamente quella eredità è svalutata ai suoi occhi.

    Alla prima occasione assale la voglia  di cambiare e vendere ciò che non è più colto come valore.

    Israele è il popolo eletto perché possiede la Gloria di JHWH. Ma questa gloria, ricorda Paolo, è contenuta in vasi di creta (2Cor 4,7).

    La Legge esiste perché il popolo sia protetto dalla tentazione di vendere il tesoro.

    Israele non deve confondersi con gli altri popoli! “Siate santi”, “non confondetevi”: perché questo? Proprio per proteggere al massimo il tesoro prezioso.

    (Siamo agli opposti del Nuovo testamento in cui si domanda espressamente di comunicare il dono ricevuto, di dover essere lievito in mezzo ai popoli.

    Ma questa svolta è dono dello Spirito dono del crocifisso risorto: l’uomo finora non è ancora rinato).

    Le conseguenze di questi divieti sono: il non contrarre matrimoni con i goim. Salomone verrà meno a ciò, e il regno di Davide conoscerà la spaccatura e il declino.

    (Cf Dt 7,1-6).

    Un altro impegno: la città conquistate della terra di Canaan devono essere rase al suolo, e gli abitanti tutti sterminati. Il leitmotiv è: “Li passarono per le armi, e votarono all’anatema tutto ciò che trovarono di vivo. Non rimase un solo sopravvissuto” (cfr. Gs 6,17ss….). La mancanza di questo impegno porta a gravi conseguenze (cf Gs 2,1-5).

    Se Dio è valore supremo e unico, tutto il resto deve passare in second’ordine. E’ meglio strappare l’occhio o perdere una gamba piuttosto che perdere ciò che è più prezioso (Mt 5,29). Allora tutto ciò che minaccia, che è “scandalo” deve essere tolto.

    IL SEME DELLA VERA FEDE

    Israele si consideri non un popolo fra tanti altri, ma come il seme della vera fede nel mondo. E questo seme va protetto più di ogni altra cosa, perché un giorno sarà destinato a tutta l’umanità. Israele deve rimanere luce del mondo: Is 42,6; 60,3…

    Può sorgere un interrogativo: ma questo non conduce al fanatismo, all’integralismo?

    Forse occorre riconsiderare la progressività della rivelazione. Ciò che è rivelato in un preciso momento  può essere accolto dal popolo come tutto ciò che Dio vuole dire, mentre non è tutto. Vi è costantemente questo rischio.

    Dio voleva veramente la distruzione, l’anatema o fu piuttosto Israele a comprendere in questa direzione il comando di Dio, o meglio non è il modo in cui Israele comprese Dio?

    E’ difficile rispondere e trovare un equilibrio.

    Ciò che è importante è che scopriamo ancora una volta che Dio accompagna l’uomo nella sua storia, anche quando questa prende direzioni errate.

    OSEA

    Cinque secoli più tardi Dio svelerà il segreto della sua gelosia ad Osea figlio di Beeri.

    Egli è sposato con Ghomer, una donna molto attraente e che forte del suo fascino non esita a concedere i suoi favori agli ammiratori.

    Gomer partorisce due figli, Osea non è sicuro della paternità:

    1,3 Egli andò a prendere Gomer, figlia di Diblàim: essa concepì e gli partorì un figlio.

    6 La donna concepì di nuovo e partorì una figlia e il Signore disse a Osea: «Chiamala Non-amata,  perché non amerò più  la casa d’Israele,  non ne avrò più compassione.

    8 Dopo aver divezzato Non-amata, Gomer concepì e partorì un figlio.

    Questa donna infine abbandona il marito Osea dandosi alla prostituzione. Osea rimane solo, umiliato nella sua dignità di marito, ferito nel suo amore tradito.

    Eppure era Dio che aveva chiesto il matrimonio con questa donna frivola. E ora Dio tace!

    Passano gli anni: Gomer invecchia, il suo fascino decade e i suoi successi amorosi iniziano a declinare. Ella ripensa così agli anni trascorsi con Osea:

    2,9 Inseguirà i suoi amanti,

    ma non li raggiungerà,

    li cercherà senza trovarli.

    Allora dirà: «Ritornerò al mio marito di prima

    perché ero più felice di ora».

    Così si decide a riprendere i contatti col suo vecchio marito. Per il suo riscatto da protettore saranno sufficienti quindici monete d’argento e un moggio e mezzo di orzo:

    3,2 Io me l’acquistai per quindici pezzi d’argento e una misura e mezza d’orzo 3 e le dissi: «Per lunghi giorni starai calma con me; non ti prostituirai e non sarai di alcun uomo; così anch’io mi comporterò con te.

    OSEA PROFETA

    Osea è nel contempo contento e turbato: esitante tra un amore offeso e un amore ferito.

    Ed è proprio in questa situazione che Dio gli rivolge la sua parola:

    3,1 Il Signore mi disse ancora: «Va’, ama una donna che è amata da un altro ed è adultera; come il Signore ama gli Israeliti ed essi si rivolgono ad altri dei e amano le schiacciate d’uva».

    E’ come se Dio gli dicesse: Se mi si dimentica quando tutto va bene e non ci si ricorda di me che nei momenti difficili, credi tu che io possa accettare questo? Eppure guarda: ogni volta io riaccolgo il mio popolo: Dunque tu, senza tante storie, riprendi con te la tua donna, proprio quella che ti ha tradito.

    La gelosia di Dio ha dunque un risvolto: il suo innamoramento per la sua creatura:

    Is 43,3:  poiché io sono il Signore tuo Dio,

    il Santo di Israele, il tuo salvatore.

    Io do l’Egitto come prezzo per il tuo riscatto,

    l’Etiopia e Seba al tuo posto.

    4 Perché tu sei prezioso ai miei occhi,

    perché sei degno di stima e io ti amo.

    Così nei profeti le dichiarazioni di amore per il suo popolo non mancano:

    Gr 2, 1 Mi fu rivolta questa parola del Signore:

    2 «Va’ e grida agli orecchi di Gerusalemme:

    Così dice il Signore:

    Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza,

    dell’amore al tempo del tuo fidanzamento,

    quando mi seguivi nel deserto,in una terra non seminata.

    Gr 31, 20 Non è forse Efraim un figlio caro per me,

    un mio fanciullo prediletto?

    Infatti dopo averlo minacciato,

    me ne ricordo sempre più vivamente.

    Per questo le mie viscere si commuovono per lui,

    provo per lui profonda tenerezza».

    Oracolo del Signore.

    21 Pianta dei cippi,

    metti pali indicatori,

    stá bene attenta alla strada,

    alla via che hai percorso.

    Ritorna, vergine di Israele,

    ritorna alle tue città.

    22 Fino a quando andrai vagando, figlia ribelle?

    Poiché il Signore crea una cosa nuova sulla terra:

    la donna cingerà l’uomo!

    I profeti useranno l’immagine dello “sposo”:

    Is 54, 6 Come una donna abbandonata

    e con l’animo afflitto, ti ha il Signore <richiamata.

    Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù?

    Dice il tuo Dio.

    7 Per un breve istante ti ho abbandonata,

    ma ti riprenderò con immenso amore.

    8 In un impeto di collera ti ho nascosto

    per un poco il mio volto;

    ma con affetto perenne ho avuto pietà di te,

    dice il tuo redentore, il Signore.

    O ancora l’immagine della “madre”:

    Is 49, 15 Si dimentica forse una donna del suo bambino,

    così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?

    Anche se queste donne si dimenticassero,

    io invece non ti dimenticherò mai.

    NEL CANTICO DEI CANTICI

    In questo libro troviamo gli accenti più espliciti  dell’amore che unisce JHWH al suo popolo. Qui viene impiegata la simbologia affettivo-sessuale.

    Il Dio amante afferma:

    8,5 Chi è colei che sale dal deserto,

    appoggiata al suo diletto?

    Sotto il melo ti ho svegliata;

    là, dove ti concepì tua madre,

    là, dove la tua genitrice ti partorì.

    6 Mettimi come sigillo sul tuo cuore,

    come sigillo sul tuo braccio;

    perché forte come la morte è l’amore,

    tenace come gli inferi è la passione:

    le sue vampe son vampe di fuoco,

    una fiamma del Signore!

    7 Le grandi acque non possono spegnere l’amore

    né i fiumi travolgerlo.

    Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa

    in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio.

    La Passione di Dio brucia di amore. Egli non è geloso degli idoli, se non in quanto in essi prende corpo lo spirito di prostituzione che gli sottrae l’amore dell’amata:

    Mi 6, 3 Popolo mio, che cosa ti ho fatto?

    In che cosa ti ho stancato? Rispondimi.

    Vi è quest’amore sviscerato che però non viene ancora “spiegato”: esso rimane ancora un mistero nascosto nelle profondità di Dio.

    IL FIGLIO PREDILETTO

    Perché questa umanità è oggetto di un tale amore, passione, da parte del Creatore?

    Possiamo tentare una risposta alla luce di tutta la rivelazione: è perché in essa deve nascere un essere nuovo. Un figlio divino le sarà donato.

    Che cosa può Dio amare nell’uomo se non Dio stesso fatto uomo?

    E ‘ questo che attende JHWH: l’amore di questa amata infedele, un amore dal quale deve nascere il Figlio atteso: l’Emmanuele, Dio-Con-Noi.

    Ciò che Dio ama nell’antico popolo dell’alleanza è questa vocazione di madre di un popolo nuovo, nel quale il Figlio potrà raggiungere la sua statura perfetta.

    I profeti punteranno da ora in poi gli occhi su questo atteso parto doloroso nel quale prenderà corpo Dio stesso.

  • 06 Mag

    GLI  IDOLI  E  L’IMMAGINE

    Es 32

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    La corretta restaurazione dell’immagine di  Dio inizia, nell’AT, con l’accogliere tramite la Thorà due misure proibitive:

    1.       Il popolo di Israele non deve riconoscere nessun’altra autorità se non quella di Dio (cfr. il primo comandamento del Decalogo).

    2.       Non deve farsi nessuna immagine di Dio (cfr. il secondo comandamento del Decalogo):

    Es 20,4-6: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi”;

    Dt 5,8-10: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a quelle cose e non le servirai. Perché io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano, ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti”.

    Con questi due divieti Dio può ricreare le condizioni in cui poter rimodellare la sua vera immagine nell’uomo.

    Mascherare o esprimere Dio

    Non ci si deve creare nessuna immagine, nessun idolo perché attraverso l’idolo l’uomo tenta di mascherare quel viso che è fuoco divoratore e di cui sente timore:

    Es 24,17 “La Gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna”.

    Dt 4,24: “Poiché il Signore tuo Dio è fuoco divoratore, un Dio geloso”.

    Dt 9,3: “Sappi dunque oggi che il Signore tuo Dio passerà davanti a te come fuoco divoratore, li distruggerà e li abbatterà davanti a te; tu li scaccerai e li farai perire in fretta, come il Signore ti ha detto”(cf Ebr 12,29).

    L’idolo non è una caricatura: esso infatti utilizza ciò che è più sublime e perfetto: non è forse legittimo che l’uomo, desideroso di vedere il volto di Dio, tenti di decifrare nella lettera della creazione l’immagine del creatore?

    Specchio deformante

    Ma l’uomo, fuggito dalle mani di Dio, non può coltivare questa “pretesa”, essa era forse possibile prima del peccato, e lo sarà nuovamente dopo la redenzione (cfr. la lotta iconoclasta):

    Ma anche se non vi è nessun desiderio di caricaturare il mistero, tuttavia le intuizioni non possono più offrire all’uomo un’adeguata immagine di Dio.

    Si Proibisce perciò ogni immagine:

    Dt 4,15-20: “Poiché dunque non vedeste alcuna figura, quando il Signore vi parlò sull’Oreb dal fuoco, state bene in guardia per la vostra vita, 16 perché non vi corrompiate e non vi facciate l’immagine scolpita di qualche idolo, la figura di maschio o femmina, 17 la figura di qualunque animale, la figura di un uccello che vola nei cieli, 18 la figura di una bestia che striscia sul suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra; 19 perché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l’esercito del cielo, tu non sia trascinato a prostrarti davanti a quelle cose e a servirle; cose che il Signore tuo Dio ha abbandonato in sorte a tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli. 20 Voi invece, il Signore vi ha presi, vi ha fatti uscire dal crogiolo di ferro, dall’Egitto, perché foste un popolo che gli appartenesse, come oggi difatti siete”;

    Is 40,18: “A chi potreste paragonare Dio e quale immagine mettergli a confronto?”.

    Dio in tal modo vuole strappare l’uomo al fascino allucinante di una sua possibile immagine sfigurata.

    Ancor più deve essere salvaguardata una corretta gerarchia: non deve essere l’uomo a voler possedere Dio, ma è Dio che deve prendere l’uomo e a questi tocca la disponibilità a lasciarsi fare da lui.

    Oggetto o soggetto?

    Cos’è l’idolatria? In definitiva è il tentativo di invertire il rapporto Dio-Uomo, un rapporto nel quale l’uomo pretende di divenire soggetto.

    L’uomo deve al contrario riconoscere di trovare la sua origine e fonte in Dio e da Dio: ogni iniziativa è anzitutto sua.

    Ma per l’uomo peccatore riconoscere questo rapporto risulta insopportabile:

    Gn 3,10: “Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”.

    Gb 7,19-20: “Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non mi lascerai inghiottire la saliva? Se ho peccato, che cosa ti ho fatto, o custode dell’uomo? Perché m’hai preso a bersaglio e ti son diventato di peso?”.

    L’uomo peccatore vorrebbe che Dio scomparisse: il volto del Dio vivo brucia, suscita una memoria, una nostalgia ma nello stesso tempo un timore, una paura, un disagio.

    Nel mezzo del mare burrascoso di questo conflitto all’uomo risulta più incoraggiante e meno impegnativo puntare gli occhi sull’idolo che non disturba.

    Ricreare il Creatore

    Così piuttosto che lasciarsi modellare dalle mani di Dio l’uomo sceglie di modellare un Dio a sua immagine.

    Non riconoscendo la propria situazione di creatura, ma sentendo tuttavia che la sua relazione col creatore non può essere abolita, l’uomo tenta di fare del creatore una sublime sua creatura.

    Ed è il peccato del vitello d’oro.

    IL VITELLO D’ORO

    Così il peccato originale del popolo eletto è il suo tentativo di modellare un Dio a somiglianza delle creature.

    Anzitutto un vitello: perché? Certamente esso esprime, nelle culture semitiche, i caratteri essenziali della divinità ovvero potenza e fecondità. Il vitello esprime così un Dio forte e datore di vita.

    Il popolo è entusiasta dell’opera artistica di Aronne il sacerdote, fatta con ciò che vi è di più prezioso (oro) e simbolico di fedeltà (anelli e pendagli):

    Es 32,3-5: “Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne. Egli li ricevette dalle loro mani e li fece fondere in una forma e ne ottenne un vitello di metallo fuso. Allora dissero: «Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!». Ciò vedendo, Aronne costruì un altare davanti al vitello e proclamò: «Domani sarà festa in onore del Signore”.

    JHWH e Mosè sono ormai da tempo in cima al monte, lontani e inaccessibili (cf Es 24,17-18). Perciò Aronne si sente in dovere di prendere in mano la situazione: propone dunque un oggetto di adorazione che sia immediato, accessibile certamente di più di quella lontana nube tuonante e fiammeggiante.

    Non è apostasia la sua, ma un tentativo di trovare una presa immediata per sostenere l’ansia e la paura.

    L’idolo doveva servire a conservare la memoria del Dio inaccessibile: dunque per il bene del popolo e …di Dio!

    Ma proprio in quel momento Dio irato tronca improvvisamente il discorso con Mosè:

    Es 32,7-10: “Allora il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicata! Si son fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: Ecco il tuo Dio, Israele; colui che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto». Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo e ho visto che è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione”.

    Dio forse ha una crisi di gelosia? Dio forse non riconosce in quel che è accaduto una relazione tra segno e significato?

    Anche gli israeliti certamente riconoscevano nel vitello solo una immagine evocativa, un segano che rimandava ad altro.

    Ma è proprio questa ambiguità dell’immagine che non è tollerata da Dio.

    L’immagine è sempre nello stesso tempo trasparenza e oggetto, materia e velo. Essa può iniziare alla realtà ma può prenderne anche il posto.

    Questo rischia infiamma la gelosia di Dio: egli non accetta e non dà nessuna immagine di sé.

    Rimane un’unica possibilità: che faccia lui stesso sorgere nell’umanità una immagine che non sia distinta da lui, che non sia solo un rimando, ma realtà stessa… sarebbe l’incarnazione.

    Purtroppo vi è la continua tentazione dei “preti” (pontifices) di lanciare dei ponti tra umanità e Dio. Si dimentica che solo Dio può stabilire dei ponti: con Mosè stava avvenendo questo.

    Ma la “passerella” di Aronne è derisoria e ambigua e si chiama “idolo”.

    Sino a che l’uomo non rinuncerà ai suoi vani tentativi Dio non può lanciare il ponte dell’incarnazione. Chiedendo all’uomo la rinuncia a questi vani tentativi Dio lo prepara ad accogliere quello che sarà il lancio del suo ponte. L’incarnazione del Verbo.

    LA CONOSCENZA DI DIO

    Il desiderio di Dio è di modellare lui il cuore dell’uomo a immagine del suo (“Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo…” Ger 31) , in modo che sappia un giorno accogliere la sua vera immagine.

    Dove cogliere dunque una conoscenza di Dio, una sua immagine? Quando i profeti parlano di “conoscenza” di Dio si collocano agli antipodi di ogni forma di gnosticismo.

    Per essi conoscere Dio è praticare la giustizia ed amare la misericordia:

    Mich 6,8: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio.”

    Questo atteggiamento può creare un “cuore a cuore” con Dio:

    Gr 9,23 “Ma chi vuol gloriarsi si vanti di questo, di avere senno e di conoscere me, perché io sono il Signore che agisce con misericordia, con diritto e con giustizia sulla terra; di queste cose mi compiaccio”.

    Se Dio sembra estraneo, Israele deve ben ricordarsi è che:

    Is 59,1-2 “Ecco non è troppo corta la mano del Signore da non poter salvare; né tanto duro è il suo orecchio, da non poter udire. Ma le vostre iniquità hanno scavato un abisso fra voi e il vostro Dio; i vostri peccati gli hanno fatto nascondere il suo volto così che non vi ascolta”.

    Ecco dove sta l’immagine e il volto (la conoscenza) dell’Altissimo: nella giustizia e nella misericordia:

    Is 58,6-10:“Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora lo invocherai e il Signore ti risponderà; implorerai aiuto ed egli dirà: «Eccomi!». Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se offrirai il pane all’affamato, se sazierai chi è digiuno, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio”.

    Come non far riecheggiare qui le parole della prima lettera di Giovanni 3,7: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore”.

    Ma per arrivare a questa finale rivelazione Dio dovrà impiegare più di mille anni per potersi rivelare. E’ stato necessario un lungo cammino, estenuante, in cui avanzamenti e retrocessioni si sono continuamente alternate ma in cui la fedeltà di Dio non è venuta mai meno. A poco a poco Israele ha potuto mettersi al passo con Dio. Soltanto alla fine L’Altissimo può rivelare la sua identità(cfr. Tb 12,15ss).

    Il “ehejeh asher ehejeh” di Es 3,14 ha detto sin dall’inizio la necessità di un lungo dispiegarsi nel tempo perché si attui la rivelazione dell’identità divina.

    Dio sì, si è dato un nome, JHWH, ma si tratta di un puro appellativo che non richiama nessuna nozione e nessuna immagine. E’ il sacro tetragramma, impronunziabile, assolutamente aperto ad ogni progressiva rivelazione che culminerà nell’ultima frase della preghiera sacerdotale di Gesù: Gv 17,26 “E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”.

    TEOFANIA IN TRE ATTI

    Una progressiva e triplice rivelazione dell’immagine di Dio:

    La nube ed il fuoco

    La Gloria, per Israele (Kabod da Kabed=pesante), evoca un peso, una realtà incombente e sovrastante alla quale non si può sfuggire:

    Es 19,16-18: “Appunto al terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di tromba: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore.

    Allora Mosè fece uscire il popolo dall’accampamento incontro a Dio. Essi stettero in piedi alle falde del monte.

    Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto”.

    Solo Mosè può penetrare nella nube e nel fuoco, il popolo deve stare lontano: pena la morte (cf 33,11; Nm 12,6-8; cf Sal 18).

    Nel fuoco e nella nube JHWH non ha forma: vi è solo un “folgorio accecante”: l’uomo non può rappresentarsi Dio.

    L’uomo mell’arcobaleno

    650 anni dopo Ezechiele sulle rive del Chebar ha una visione:

    Ez 1,4-5.22.25-28: “Io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinìo di fuoco, che splendeva tutto intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente.  Al centro apparve la figura di quattro esseri animati, dei quali questo era l’aspetto: avevano sembianza umana …Al di sopra delle teste degli esseri viventi vi era una specie di firmamento, simile ad un cristallo splendente, disteso sopra le loro teste… Sopra il firmamento che era sulle loro teste apparve come una pietra di zaffiro in forma di trono e su questa specie di trono, in alto, una figura dalle sembianze umane.  Da ciò che sembrava essere dai fianchi in su, mi apparve splendido come l’elettro e da ciò che sembrava dai fianchi in giù, mi apparve come di fuoco. Era circondato da uno splendore il cui aspetto era simile a quello dell’arcobaleno nelle nubi in un giorno di pioggia. Tale mi apparve l’aspetto della gloria del Signore. Quando la vidi, caddi con la faccia a terra e udii la voce di uno che parlava”.

    Vi troviamo due elementi nuovi:

    1. La figura d’uomo

    2. L’arcobaleno

    A distanza così di anni l’uomo ricomincia ad apparire nella sua somiglianza con Dio. Le varie prove e sofferenze hanno fatto sì che il cuore di Israele si sia purificato ulteriormente.

    L’arcobaleno è segno dell’alleanza (cf Gn 9,12-13).

    La visione di Ezechiele è così promessa di riconciliazione a partire dalla restaurazione dell’immagine divina nell’umanità.

    L’Agnello sgozzato ritto sul trono

    Ancora 650 anni: una nuova visione nell’isola di Patmos.

    Qui vi è un trono su cui siede “qualcuno”, vi è l’arcobaleno, un mare trasparente, quattro animali. Al centro qualcosa di nuovo: un agnello sgozzato e ritto con sette corna e sette occhi:

    Ap 4,2-3 “Subito fui rapito in estasi. Ed ecco, c’era un trono nel cielo, e sul trono uno stava seduto. Colui che stava seduto era simile nell’aspetto a diaspro e cornalina. Un arcobaleno simile a smeraldo avvolgeva il trono.”

    Ap 5,6 “Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato. Egli aveva sette corna e sette occhi”.

    Si tratta di una nuova figura dotata di pienezza di potere e di sapere: ucciso e vivo. E’ degno di lode (5,12); è liberatore (5,9).

    Certamente vi è il richiamo all’agnello muto di Isaia 53,7-8: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;  chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte”.

    L’agnello è Gesù suppliziato e risorto: il Signore. In Lui non vi più somiglianza (“come”), ma “è” incarnazione: lui è “esegesi del Padre”: “Dio nessuno l’ha mai visto, lui l’unigenito del Padre ce l’ha rivelato” (Gv 1).

    Sono questi tre sondaggi, equidistanti nel tempo, circa la rivelazione della Kabod divina, sondaggi che permettono la decifrazione progressiva dell’autentica immagine di Dio

    TRASFORMATI NELL’IMMAGINE

    Dio ha proibito le immagini perché l’umanità è predestinata a divenire conforme all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29).

    Il fulgore della gloria sarà trasfigurante non più accecante, farà penetrare nella notte oscura della croce e nella luce mattutina e dolce del mattino di pasqua.

    Gesù servo è “veramente Figlio di Dio” e così Dio si è identificato col povero, con l’oppresso, perché lui stesso si è fatto schiavo e servo (Fil 2,6-7).

    Se Dio invitava alla misericordia e alla giustizia è perché il cuore dell’uomo si preparasse ad accogliere lo scandalo dell’incarnazione e della croce: mistero di una giustizia e di una misericordia assolutamente divine.

    L’immagine di  Dio va ricercata agli antipodi della filosofia e dell’estetica e del sacro.

    La proibizione dell’immagine ha lasciato il posto all’icona del Cristo incarnato, umiliato, crocifisso e risorto: è lì che vi è rivelazione piena e definitiva del volto di Dio: “Gli disse Filippo: Signore, mostraci il Padre e ci basta. 9 Gli rispose Gesù: Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre”.

     

  • 05 Mag

    DISCONOSCENZA: PERCHÉ?

    Gn 3

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    1. EDEN

    Giobbe ci ha detto la duplice difficoltà che prova l’uomo “pagano” dinanzi a Dio:

    – si sente mortale, fragile, destinato alla polvere

    – soffre per l’impossibilità di una relazione con Dio. Questa relazione invece si costruisce sul senso di colpa: una basilare incertezza del proprio porsi dinanzi a Dio.

    All’uomo sembra che Dio lo voglia mettere alla porta. Eppure l’uomo porta in sé una nostalgia indecifrabile di una realtà diversa e piena. Un Eden…

    Cisterne screpolate

    Gr 2,13: Perché il mio popolo ha commesso due iniquità:

    essi hanno abbandonato me,

    sorgente di acqua viva,

    per scavarsi cisterne, cisterne screpolate,

    che non tengono l’acqua.

    Alla domanda del perché l’uomo fa l’esperienza di Giobbe, la risposta del profeta è chiara: perché ha abbandonato Dio che è fonte della vita.

    Egli presume l’autosufficienza l’indipendenza da qualsiasi fonte.

    Ma l’autonomia dell’uomo è cisterna screpolata: vi è l’acqua stagnante della non speranza.

    Non è l’acqua viva che ha deviato il suo corso. E’ l’uomo che si è allontanato da essa. Ma perché è successo questo?

    E’ questa una ulteriore domanda alla quale rispondono i primi capitoli della genesi.

    La narrazione è semplice ma densissima di significati:

    Gn 3

    1 Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: «E` vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?». 2 Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3 ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». 4 Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! 5 Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». 6 Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. 7 Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. 8 Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. 9 Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». 10 Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». 11 Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?».

    Il racconto è estremamente chiaro, con uno svolgimento lineare. Esso rivela sullo sondo una sintesi che sono le realtà fondamentali della trama del destino dell’uomo.

    Troviamo anzitutto due simboli:

    – un albero di vita di cui si può mangiare

    – un albero della conoscenza che è proibito di mangiare

    L’Albero della vita

    E’ la “sorgente delle acque vive”. Una vita in stretta comunione e intimità con Dio. E’ quasi un cordone ombelicale che tiene unita la creatura al Creatore, e a cui attinge per vivere, crescere e svilupparsi.

    L’albero della conoscenza

    Probabilmente si tratta della presunzione di essere a se stessi giudici del bene e del male. In base ai propri desideri l’uomo vuole decidere.

    Soffre nel sentire che il bene può apparire amaro e il male alettante: è un paradosso che accompagna l’esistenza terrena.

    Dio proibisce ad Adamo di superare questo limite: di giudicare in base ai suoi gusti il bene e il male.

    Basterebbe immaginare il genitore che tenta di educare il proprio bambino…

    Fare il male non la cosa più tragica che possa capitare all’uomo se egli però conserva una coscienza disposta a farsi giudicare.

    Il peccatore che mantiene lucida la coscienza del proprio peccato non ha “mangiato il frutto”.

    San Paolo ammonisce: Rm 1,32 :E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa.

    E’ questo il fatto più grave: quando si è imbavagliata la coscienza si è mangiato il frutto.

    E’ il peccato imperdonabile contro lo Spirito di cui parla san Giovanni.

    Dio accetta che l’uomo possa sbandare lungo la strada, ma proibisce che l’uomo mangi dell’albero.

    2. La tattica del tentatore

    Il serpente è definito come “astuto”: in effetti

    1.       Deforma l’ordine di Dio, non lo denigra ma lo calca alcun più spropositandolo (3,2).

    2.       Eva, inquieta, cerca di difendere l’immagine di Dio, tenta di rettificare le preposizioni del serpente. Essa aggiunge il “non toccherete frutto” che Dio non ha detto. Per non magiare non bisogna toccare: ma questo fa sì che il frutto inizi ad apparire sotto un’aurea diversa, e così si impone al centro dell’attenzione.

    3.       Il serpente ha così raggiunto il suo primo scopo. La donna ora è ossessionata dalla proibizione.

    Il passo seguente è indurla alla ricerca del “vero” motivo.

    4.       Per far questo il serpente rettifica il significato della proibizione. Eva pensa: io credevo che il divieto fosse per il nostro bene e provenisse da un padre amorevole. Ma ora capisco che Dio è un despota geloso del suo potere. Egli vuole rimanere solo sul suo trono.

    5.       Ormai il sospetto atroce ha preso piede: “Allora la donna…”. L’albero appare ormai carico di attrattive e di speranze. La vertigine dell’immaginazione fa crollare le ultime resistenze.

    6.       Si arriva all’atto. Il frutto è colto e addentato. Per sentirsi più sicura fa condividere il gesto al suo uomo.

    7.       Non tardano le conseguenze. Gli occhi si aprono. Vi è sì una nuova conoscenza, ma ben diversa da quella che speravano.

    Potremmo domandarci: Eva è responsabile? Non certamente del dubbio. Ma essa è responsabile nel momento in cui ha ceduto al fascino del dubbio. Ha dato ascolto al serpente. Ed è qui il momento della massima debolezza, e quel che segue è solo l’inevitabile conseguenza.

    8.       La conseguenza del peccato è una conoscenza della propria nudità.

    Che significato assume questo? Il disagio della nudità non è quello interpretato dalla nostra cultura occidentale.

    Per il semita la nudità è esperienza di umiliazione, miseria, l’essere sprovveduti ed esposti al pericolo. (E dopo il peccato l’uomo cercherà di ornarsi, di sembrare, di apparire diverso…). L’essere nudi equivale a veder crollare improvvisamente tutte le apparenze, in fin dei conti è vedersi e far vedere ciò che in realtà si è ( si è allora “coperti di vergogna” Gr 3,25).

    L’uomo di fronte agli altri farà di tutto per conservare le apparenze, il proprio personaggio. Giobbe nella sua nudità si sente spiato, squadrato, giudicato dall’Altissimo.

    In cosa consiste il peccato? E’ il suggellare il dubbio sulla bontà del Padre. L’affermare che Dio è despota geloso ed egoista. E’ voler liberarsi di lui. E’ il tentativo superbo di diventare Dio a se stessi.

    Con questo peccato l’uomo si taglia fuori dalle sorgenti di acqua viva, in quanto tronca la relazione fiduciosa e vitale col suo Creatore.

    Un Dio deformato

    Adamo ed Eva sono così passati da un Dio Padre con il quale si può essere come bambini, ad un Dio giudice dal quale bisogna nascondersi per non essere visti.

    Non è Dio che è cambiato, ma l’anima umana ha assunto un nuovo atteggiamento nella sua libertà.

    L’uomo ha preteso indipendenza, e nella sua indipendenza pensa a come potrebbe reagire Dio a questa pretesa. Si immagina certamente un atteggiamento di rancore e di vendetta.

    Anche qui l’uomo si colloca in luogo di Dio, ma questa volta immaginato a partire da se stesso, dal suo peccato.

    Siamo ben lontani dalla rivelazione del padre misericordioso di Lc 15,11-32. Anche in questa parola il figlio si immagina una reazione da parte del padre ben diversa da quella che sarà la realtà. Anche qui in effetti vi è una colpa originale: un figlio che desidera indipendenza, che deve tornare da un padre che immagina corrucciato e di fronte al quale occorrerà degradarsi e umiliarsi.

    Cosa è successo? Ribellandosi contro il Padre, il figlio, damo, Eva ha sfigurato la sua immagine: anche lui credette che il Padre non è amorevole ma solo un despota accaparratore e sfruttatore della felicità dei figli.

    Il dubbio ha portato con sé la decisione. L’abbandono del padre. E il suo ritorno è solo una soluzione di ripiego.

    Paura di Dio

    “Una volta che ebbe deformato in se stesso l’immagine del Padre, figurandoselo come un despota sospettoso e geloso della sua autorità, allora cominciò a temerlo, poiché lo aveva innanzitutto immaginato così alla base del suo peccato”.

    E il dramma della colpa non è forse tanto il fatto di aver cercato di diventare dio lui stesso, al posto di Dio… ma il fatto che alla radice di tutto ciò c’è una misconoscenza di cos’è il padre, e c’è in seguito una volontà di lasciarsi illudere e di immaginare il padre come un despota geloso, per giustificare la propria ribellione disperata.

    Dal punto di vista di Dio, il ritorno dell’uomo consisterà innanzitutto in un riavvicinamento, da parte sua, dell’uomo incapace di tornare.

    Insopportabile dolcezza

    L’uomo non ha il coraggio di accettare che il cuore di Dio sia quello di un padre misericordioso.

    “Adamo dove sei…”: è la ricerca di un Dio di amore, non di un tiranno. Accogliere l’amore quando si è mancato strazia il cuore ancor più.

    E’ come quando questo accade nella vita di coppia. Per chi commette l’errore l’amore dell’altro è una spada che ferisce terribilmente.

    La fiducia pesa più del sospetto. Occorre allora giustificarsi, caricaturando l’altro. Si razionalizza, si nega… ovvero ci si difende.

    Si cerca di convincersi che si ha avuto ragione di dubitare, che non c’erano più possibilità di amore e che bisognava andarsene.

    Umanità da riavvicinare

    Toccherà così a Dio nel suo amore sviscerato riavvicinare l’uomo impaurito, orgoglioso e sospettoso. Occorrerà tanta e tanta pazienza e tanto amore. E’ un’opera che non si può fare da un giorno all’altro.

    Dio dovrà sfruttare i momento in cui l’uomo sperimenta l’angoscia, la disperazione, la solitudine, la sconfitta e la fame… come fu per il figliol prodigo.

    Ritrovare la vera immagine

    Occorre che Dio rimodelli nell’uomo la propria immagine deformata. E questo comporta rimodellare la stessa immagine dell’uomo fatto ad immagine di Dio.

    E’ necessario che l’uomo faccia esperienza di essere salvato dall’abisso delle grandi acque, nel passaggio del mar Rosso.

    Scoperto un Dio che è salvatore gli sarà più facile seguirlo.

  • 02 Mag

    Caino: la parola alla violenza

    (Gen 4)

    La figura di Caino ci riporta immediatamente al racconto biblico dell’omicidio di Abele, ponendoci di fronte un personaggio che lungo la storia è diventato il sinonimo di assassino. Ma liquidare la vicenda di Caino considerandola solo «una brutta storia di violenza», frutto di un animo malvagio, sarebbe molto semplicistico e soprattutto non terrebbe conto della complessa situazione che ci presenta il capitolo quarto della Genesi. Dobbiamo allora chiederci da dove venga la violenza di Caino, e perché egli arrivi a uccidere il fratello Abele.

    L’analisi delle particolarità terminologiche del testo biblico, in continuità con quanto narrato nei primi tre capitoli, ci potrà aiutare a illuminare il contesto vitale in cui si muove Caino.

    Chi è dunque Caino? È «figlio dei suoi genitori!». Questa risposta, tutt’altro che banale, ricollega la vicenda di Caino con quella di Adamo ed Eva. Caino è il frutto «genetico», ma anche «logico», delle scelte della prima coppia umana. Non si può quindi dimenticare che i genitori di Caino sono coloro che, pur avendo la possibilità di vivere nell’abbondanza dell’Eden, ne erano stati allontanati a motivo della loro avidità. Il testo ci dice che dopo essere stati cacciati dal giardino «Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino» (4,1a). Potrebbe sembrare l’inizio di un’altra storia, ma in realtà è lo sviluppo di quanto è successo precedentemente. Non si può quindi capire Caino senza tener conto dell’esperienza dei suoi genitori.

    Il testo ebraico presenta alcune sottolineature terminologiche che confermano il legame con i racconti precedenti. Innanzitutto l’azione è riferita ad «Adam» (termine usato nei primi capitoli per indicare l’essere umano prima della distinzione sessuale tra uomo e donna): è lui il soggetto, mentre la sua donna è solo l’oggetto. Il verbo usato (yada‘) letteralmente significa «conoscere». È uno dei verbi fondamentali della Bibbia, ed ha un ruolo particolare nel racconto del peccato di Genesi 3 (Adamo ed Eva volevano infatti «conoscere il bene e il male» 3,5). Solo in pochi casi nella Bibbia viene usato per esprimere il rapporto sessuale, ponendo però in evidenza una relazione non armonica, frutto del dominio di un soggetto sull’altro (è il caso dello stupro, della prostituzione o dei rapporti omosessuali). La presenza di questo verbo dà quindi una valenza negativa all’unione tra Adamo ed Eva, ponendo in evidenza la sottomissione della donna al potere dell’uomo, che non le riconosce la dignità di persona, ma solo come «oggetto» del proprio desiderio. Basterebbe già questo per comprendere meglio l’origine del disagio di Caino, ma il testo ci suggerisce ulteriori spunti.

    Infatti Eva, subito dopo aver partorito il suo primogenito, esclama compiaciuta: «Ho acquistato un uomo dal Signore» (4,1b). Con questa espressione la donna pone in evidenza due elementi: il primo è che ella ha acquistato (il nome «qajin» deriverebbe dal verbo «qanàh» che significa «acquistare») e quindi «possiede» un uomo (=maschio/marito), e così può compensare la sua sottomissione all’Adam; il secondo riguarda la paternità di Caino, attribuita inaspettatamente a Dio, lasciando l’Adam fuori dal rapporto tra la madre e il figlio. La donna che si è sentita «posseduta» dall’Adam, ora possiede e domina il proprio figlio, vedendo in lui l’alternativa al marito.

    Caino quindi è il frutto, e al tempo stesso la vittima, di una relazione umana distorta che realizza quanto aveva annunciato Dio alla donna: «verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (3,16). Il figlio viene «strumentalizzato» dalla madre per rivalersi del dominio dell’uomo, instaurando con lui un rapporto unico e privilegiato che non lascia spazio alla presenza di nessun altro.

    Il racconto prosegue poi con la nascita di Abele che conferma questa situazione: il secondo figlio non ha alcuna considerazione agli occhi della madre. Per lui non ci sono parole di compiacimento, e neppure viene riconosciuto come figlio, ma semplicemente come «fratello». Gli viene imposto un nome che esprime tutta la sua inconsistenza («Abele» significa soffio, vento, vanità), poiché il suo arrivo non rompe la relazione privilegiata tra la madre e il primogenito.

    Il testo sottolinea la diversità dei due fratelli («Abele era pastore e Caino lavoratore del suolo» 4,2), senza però affermare che questa fosse motivo di conflittualità. Il contrasto sorge invece a causa di Dio. Quando Abele e Caino offrono al Signore i frutti del loro lavoro, scoprono di essere «guardati» diversamente da LuiIl Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino» (4,4-5). Il testo non dice che l’offerta di Caino fosse indegna, ma solo che non fu gradita agli occhi di Dio.

    Ci domandiamo dunque, perché Dio guardò ad Abele e non a Caino? Dal punto di vista di Caino il comportamento del Signore risulta ingiusto, perché rifiuta la sua offerta sincera. Il suo desiderio di instaurare un rapporto privilegiato con il creatore viene frustrato dalla risposta negativa. Ma dal punto di vista di Dio, la risposta divina viene a compensare l’ingiustizia subita da Abele. Egli che è stato rifiutato come figlio dalla madre e dal fratello, viene ora «guardato» da Dio, e la sua considerazione gli ridona consistenza. Caino vale agli occhi di Eva, ma Abele vale agli occhi di Dio.

    Per questo l’azione di Dio, mentre riabilita Abele, cerca di rompere il legame asfissiante tra Caino e la madre, aprendolo ad un nuovo rapporto con il fratello. Ma Caino non capisce, anzi sente che l’azione di Dio gli pone di fronte un «altro» che egli vede come antagonista. Invece di riconoscere nel fratello un’occasione di relazione, Caino, schiavo com’è del suo desiderio infantile di essere lui l’unico figlio di Eva e di Dio, vede in Abele un ostacolo alla sua felicità. Per questo Caino «ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto» (4,5b). La traduzione letterale del testo («bruciò molto a Caino e il suo volto cadde») fa pensare non tanto ad una reazione superficiale di Caino, quanto ad un vero e proprio stato di sofferenza e depressione. Caino è chiuso nel suo dolore e soffre a motivo della sua gelosia: l’essere cresciuto in un rapporto totalizzante con la madre, gli rende ora insopportabile ogni limitazione al suo desiderio di essere l’unico.

    Nasce in lui l’idea che la causa del suo soffrire sia fuori di lui, e proietta tutto questo nella presenza di Abele. Caino si sente solo e abbandonato da Dio. Ma non è così. Infatti Dio non ignora la sua sofferenza e proprio per aiutarlo a comprendere la sua situazione gli rivolge la parola: «perché sei irritato e perché il tuo volto è abbattuto?» (4,6). La domanda invita Caino a fare luce sui motivi profondi del suo disagio e a coglierne l’origine. Dio ricorda a Caino che è lui a decidere della sua vita, presentandogli un’alternativa: egli può  fare il bene, oppure può fare il male. Il testo non esplicita cosa significhi«fare il bene», ma se lo ricolleghiamo al racconto della creazione, scopriamo che «il bene» è la relazionalità: «non è bene che l’uomo sia solo» (2,187.

    Caino quindi è invitato ad aprirsi alla relazionalità, accogliendo la presenza del fratello in modo positivo. Se egli agirà così potrà «rialzare il suo capo»: potrà quindi guardare avanti, avrà cioè un futuro, ma anche «saprà sopportare» la fatica della relazione, e la sofferenza causata dalla sua gelosia. Se invece egli non farà il bene, sarà in balia del peccato che è «accovacciato alla sua porta» (4,7). Il termine peccato (hatta’) significa innanzitutto «sbagliare bersaglio», «fallire l’obiettivo», «mancare al proprio scopo». Per Caino quindi il rischio è di non realizzare il proprio desiderio di vita. La causa di questo fallimento viene descritta come una forza istintiva presente nell’uomo, che ricorda molto da vicino il serpente del capitolo terzo. Questa forza siede alla «porta» di Caino, nel luogo di passaggio e di comunicazione tra la sua interiorità e il suo agire. Egli è chiamato a dominarla, perché non sia questo istinto a guidare le sue azione e i suoi giudizi. Se la saprà dominare allora potrà rompere con i condizionamenti del suo passato, svincolandosi dalla logica di dominio e di potere che lo ha generato.

    Per questo Dio lo invita a parlare, a «umanizzare» quella forza istintiva che la sofferenza ha risvegliato in lui. Questo sarebbe il momento per «far parlare» la propria rabbia, ed esprimere la propria recriminazione nei confronti di Dio. Ma Caino non parla. Tiene tutto dentro nel suo mutismo animalesco e la sua sofferenza si trasforma in aggressività contro Abele. In lui «parla la violenza». Il testo ebraico sottolinea questa realtà con una costruzione di difficile traduzione: «disse Caino ad Abele suo fratello e avvenne che quando furono in campagna alzò la mano contro di lui » (4,8). Il suo «dire» non è una parola umana, ma violenza animale che si scatena contro il fratello, ritenuto causa di tutto. Guidato dall’istinto sfoga la sua rabbia, pensando così di ottenere tutto per sé.

    Ma in questo modo Caino sbaglia, perché Abele non c’entrava nulla e la causa vera del suo soffrire era dentro di lui. Per questo il Signore interviene invitandolo a riconoscere la verità, cioè il valore della fratellanza e la sua responsabilità: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (4,9). A questa domanda Caino reagisce bruscamente negando di averlo ucciso e rifiutando la via del dialogo.

    Ma Dio non può non reagire di fronte alla violenza e per questo chiede conto a Caino della sua azione: «cosa hai fatto?» (4,10). Caino è chiamato a fare quello che non ha fatto prima, cioè a «dire la violenza», «umanizzando» la sua aggressività perché questa non uccida più. Dio diventa il giudice che interviene per fermare la violenza facendo verità e mostrando a Caino le conseguenze della sua azione.

    Il rifiuto della fratellanza conduce alla maledizione. Caino è intimamente segnato dalla morte che contamina tutte le dimensioni della sua esistenza. Non avrà più cibo dalla terra, non avrà un luogo dove abitare e neppure una compagnia con cui vivere; sarà «ramingo e fuggiasco» (4,12). Lui che si è fatto padrone della vita altrui, non è più padrone della propria: sarà costretto a fuggire e a nascondersi dagli altri, e soprattutto da se stesso e dal proprio senso di colpa. Il suo desiderio di vita e di felicità, accecato dalla bramosia, si è trasformato in uno strumento di morte.

    Questo era quanto Dio gli aveva preannunciato invitandolo a parlare, perché l’unico antidoto alla violenza è il dialogo, cioè la capacità di ascoltare l’altro, accogliendolo come fratello. Ma quando Caino parla è ormai troppo tardi, e non può fare altro che riconoscere la propria colpevolezza e invocare da Dio la difesa della propria vita.

    Il racconto si chiude con queste parole: «Caino uscì da davanti al Signore e abitò nel paese di Nod»  (4,16). Caino esce così da quella situazione che lo aveva generato, nel bene e nel male, e si apre ad una vita nuova segnata dal suo passato di gelosia e violenza. La sua vicenda resta per noi un monito a non lasciarci guidare dalla nostra ansia di vita, ma a riscoprire nella presenza benevola di Dio Padre un’occasione di fiducia in lui e negli altri, sapendo che la violenza non è frutto di un animo malvagio ma la distorsione del nostro desiderio di felicità.

  • 02 Mag

    GIOBBE: UN DIO MISCONOSCIUTO

     

    E’ bene cominciare dallo scuro per poi vederci chiaro, poiché la troppa luce acceca.

    Possiamo rappresentarci l’Antico testamento come il buio in cui inizia a delinearsi lentamente ma progressivamente all’orizzonte la luce, che risplenderà nella sua pienezza nel nuovo Testamento.

    Il popolo fa esperienza di camminare nelle tenebre:

    Is 9,1: Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse.

    Lc 1,78-79: grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle  tenebre e nell’ombra della morte  e dirigere i nostri passi sulla via della pace.

    Gv 8,12: Di nuovo Gesù parlò loro: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita.

    Rm 13,12: La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.

    La figura di Giobbe in questa esperienza di tenebre è di fondamentale importanza.

    PALEONTOLOGIA DELLA RIVELAZIONE

    Forse occorreva proprio domandarsi di quale fosse la relazione con Dio di un uomo pagano, che non ha conosciuto la rivelazione.

    Il libro di Giobbe si interroga su questa, ed è dunque il tentativo di un ritorno indietro, alle origini ma scoprire la situazione dell’uomo davanti al mistero di Dio.

    Ancora: il libro di Giobbe si interroga sul dolore senza ragione, il quale dà di Dio una così deturpata immagine. Esso viene composto in esilio (nel 620). Il pio israelita si interroga angosciato nella sua fede: Perché nonostante i nostri sforzi Dio ci tratta così duramente? E’ giusto tutto questo? Che senso ha? Come devo pormi dinanzi a Dio?

    Giobbe diviene il simbolo, riassume in sé la vicenda di un popolo. Lui un pagano: il pio israelita può così gridare tutto il suo scandalo attraverso di lui.

    Alle comode e ansiose giustificazioni degli amici “credenti” Giobbe non è né consolato né rasserenato. Esse appaiono solo teorie, parole, espressioni lontane e stereotipate, tentativi di difesa…

    Così il grido di Giobbe giunge sino a noi, e si fa nostro, questo grido che è Parola di Rivelazione.

    Il problema che viene affrontato nel libro di Giobbe non è l’esistenza di Dio, ma la stessa esistenza dell’uomo.

    Evidenziamo tre fasi:

    1.

    Giobbe cap. 14:

    1 L’uomo, nato di donna,

    breve di giorni e sazio di inquietudine,

    2 come un fiore spunta e avvizzisce,

    fugge come l’ombra e mai si ferma.

    3 Tu, sopra un tal essere tieni aperti i tuoi <occhi

    e lo chiami a giudizio presso di te?

    4 Chi può trarre il puro dall’immondo? Nessuno.

    5 Se i suoi giorni sono contati,

    se il numero dei suoi mesi dipende da te,

    se hai fissato un termine che non può oltrepassare,

    6 distogli lo sguardo da lui e lascialo stare

    finché abbia compiuto, come un salariato, la sua

    giornata!

    Sono enunciati alcuni grandi motivi:

    – La vita, il bene più grande, è recisa subito. Tutte le aspirazioni che l’uomo porta in sé sono tragicamente tranciate.

    – Dinanzi a questo essere così fragile ed inconsistente Dio si presenta come giudice spietato. Perché non lo lascia in pace?

    Perché uno deve vivere con il rimorso che lo attanaglia dentro?

    2.

    Gb cap. 10

    20 non son poca cosa i giorni della mia vita?

    Lasciami, sì ch’io possa respirare un poco

    21 prima che me ne vada, senza ritornare,

    verso la terra delle tenebre e dell’ombra di morte,

    22 terra di caligine e di disordine,

    dove la luce è come le tenebre.

    Dunque lasciami in pace!

    3.

    Gb cap. 7

    16 Io mi disfaccio, non vivrò più a lungo.

    Lasciami, perché un soffio sono i miei giorni.

    17 Che è quest’uomo che tu nei fai tanto conto

    e a lui rivolgi la tua attenzione

    18 e lo scruti ogni mattina

    e ad ogni istante lo metti alla prova?

    19 Fino a quando da me non toglierai lo sguardo

    e non mi lascerai inghiottire la saliva?

    20 Se ho peccato, che cosa ti ho fatto,

    o custode dell’uomo?

    Perché m’hai preso a bersaglio

    e ti son diventato di peso?

    21 Perché non cancelli il mio peccato

    e non dimentichi la mia iniquità?

    Ben presto giacerò nella polvere,

    mi cercherai, ma più non sarò!

    Perché questa sensazione di uno sguardo così penetrante, indagante, giudice di Dio?

    L’uomo non si sente mai in casa propria: è sempre osservato e giudicato. Non può mai dire: nessuno mi vede. Situazione insopportabile.

    Anche per Sartre l’angoscia venne da questa sensazione, egli definiva la relazione religiosa come un essere osservato “agli occhi di un altro”.

    L’uomo si  sente nudo e minacciato.

    L’uomo può accusare Dio, pretendendo la sua innocenza? Troviamo in questa direzione l’incubo di Elifaz che tenta di consolare Giobbe:

    Gb 4

    12 A me fu recata, furtiva, una parola

    e il mio orecchio ne percepì il lieve sussurro.

    13 Nei fantasmi, tra visioni notturne,

    quando grava sugli uomini il sonno,

    14 terrore mi prese e spavento

    e tutte le ossa mi fece tremare;

    15 un vento mi passò sulla faccia,

    e il pelo si drizzò sulla mia carne…

    16 Stava là ritto uno, di cui non riconobbi

    l’aspetto,

    un fantasma stava davanti ai miei occhi…

    Un sussurro…, e una voce mi si fece sentire:

    17 «Può il mortale essere giusto davanti a Dio

    o innocente l’uomo davanti al suo creatore?

    18 Ecco, dei suoi servi egli non si fida

    e ai suoi angeli imputa difetti;

    19 quanto più a chi abita case di fango,

    che nella polvere hanno il loro fondamento!

    Come tarlo sono schiacciati,

    20 annientati fra il mattino e la sera:

    senza che nessuno ci badi, periscono per sempre.

    21 La funicella della loro tenda non viene forse

    strappata?

    Muoiono senza saggezza!

    L’uomo un piccolo, insignificante verme, cosa può pretendere?

    Si può accampare una propria innocenza?

    Il fatto che “non sono peggio degli altri” mi può giustificare?

    DOPPIO SCANDALO

    Giobbe sperimenta un doppio scandalo.

    1.       L’assurdità di un Dio onnipotente che spinge la sua creatura verso la morte. Una creatura colma di desideri e di speranze, che “scivola verso la morte come l’acqua che si disperde e fugge dalle screpolature della cisterna” (cf Gb 12,1-8).

    2.       E perché Dio non salva? Anzi sembra che ancor più schiacci con rimorsi, angosce. Dio demolisce e condanna.

    L’augurio di Giobbe è che Dio se ne stia lontano e non venga più ad angosciare l’uomo.

    Bildad consiglia a Giobbe di non domandare i conti a Dio. Allora Giobbe pronuncia la sua “bestemmia”. Ci si addentra così ancor più nella tenebra.

    Ma a Dio saranno più gradite le parole sincere di chi ricerca e domanda pur nella apparente impudenza che le “pie raccomandazioni”, “sentenze di cenere” (13,12) delle vecchie massime.

    UNA SPERANZA

    Giobbe sa che morrà senza aver ottenuto giustizia: ma il suo grido rimane (l’ultima parte del libro probabilmente è un’aggiunta).

    Così il sangue innocente grida la sua “vendetta”.

    Ci deve essere una giustizia: ed è qui che poggia la speranza di Giobbe.

    Una speranza che non si sa né come né quando si potrà realizzare: essa è pura e nuda.

    Gb cap 16

    12 Me ne stavo tranquillo ed egli mi ha rovinato,

    mi ha afferrato per il collo e mi ha stritolato;

    ha fatto di me il suo bersaglio.

    13 I suoi arcieri mi circondano;

    mi trafigge i fianchi senza pietà,

    versa a terra il mio fiele,

    14 mi apre ferita su ferita,

    mi si avventa contro come un guerriero.

    17 Non c’è violenza nelle mie mani

    e pura è stata la mia preghiera.

    18 O terra, non coprire il mio sangue

    e non abbia sosta il mio grido!

    19 Ma ecco, fin d’ora il mio testimone è nei <cieli,

    il mio mallevadore è lassù;

    20 miei avvocati presso Dio sono i miei lamenti,

    mentre davanti a lui sparge lacrime il mio occhio,

    21 perché difenda l’uomo davanti a Dio,

    come un mortale fa con un suo amico;

    22 poiché passano i miei anni contati

    e io me ne vado per una via senza ritorno.

    E così arriviamo al passaggio centrale: allo spiraglio di luce che riesce a forare quelle fitte tenebre:

    Gb cap. 19

    23 Oh, se le mie parole si scrivessero,

    se si fissassero in un libro,

    24 fossero impresse con stilo di ferro sul piombo,

    per sempre s’incidessero sulla roccia!

    25 Io lo so che il mio Vendicatore è vivo

    e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!

    26 Dopo che questa mia pelle sarà distrutta,

    senza la mia carne, vedrò Dio.

    27 Io lo vedrò, io stesso,

    e i miei occhi lo contempleranno non da straniero.

    Le mie viscere si consumano dentro di me.

    Giobbe fa appello ad una speranza. Una risurrezione come possibilità. E’ solo questa che può ristabilire una retta giustizia.

    E così forse può profilarsi contemporaneamente una nuova immagine di Dio.

    Forse Dio non è più il giudice spietato verso l’uomo.

    Ma quando? Come? Solo Dio conosce i tempi:

    cap 14

    7 Poiché anche per l’albero c’è speranza:

    se viene tagliato, ancora ributta

    e i suoi germogli non cessano di crescere;

    8 se sotto terra invecchia la sua radice

    e al suolo muore il suo tronco,

    9 al sentore dell’acqua rigermoglia

    e mette rami come nuova pianta.

    10 L’uomo invece, se muore, giace inerte,

    quando il mortale spira, dov’è?

    11 Potranno sparire le acque del mare

    e i fiumi prosciugarsi e disseccarsi,

    12 ma l’uomo che giace più non s’alzerà,

    finché durano i cieli non si sveglierà,

    né più si desterà dal suo sonno.

    13 Oh, se tu volessi nascondermi nella tomba,

    occultarmi, finché sarà passata la tua ira,

    fissarmi un termine e poi ricordarti di me!

    14 Se l’uomo che muore potesse rivivere,

    aspetterei tutti i giorni della mia milizia

    finché arrivi per me l’ora del cambio!

    15 Mi chiameresti e io risponderei,

    l’opera delle tue mani tu brameresti.

    A questo punto però appare lecito domandarsi: perché Dio deve apparire all’uomo così duro, spietato, crudele?

    Perché l’uomo non trova istintivo l’affidarsi a Dio?

    Cosa è successo perché si sia instaurata questa sfiducia e questa diffidenza?

    E’ l’interrogativo che si propone il libro della genesi.

  • 27 Apr

    Una speranza impossibile?

    La visione delle ossa aride: Ezechiele 36


    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Messaggio centrale

    Durante l’esilio di Babilonia il popolo di Israele vive l’esperienza angosciosa della disperazione e del proprio fallimento. E’ un’esperienza di “morte” che conduce ad un “vuoto di speranza”, ad una rassegnazione che allontana dal Dio della Promessa.  Il profeta Ezechiele è inviato ad annunciare una “buona notizia” umanamente impossibile: Dio può suscitare vita e futuro dove l’uomo non sperimenta che disperazione e morte.

    Nel 597, dopo una ribellione del re di Giuda Ioakim, l’esercito di Babilonia marciò su Gerusalemme e assediò la città.  Questa dovette arrendersi.  Il re di Giuda venne fatto prigioniero e deportato a Babilonia con parte delle classi dominanti, dell’esercito e degli artigiani.  Tra questi deportati c’era pure Ezechiele, che attorno al 593 in esilio venne chiamato alla profezia. Sedecia, l’ultimo re di Giuda (597-586), dopo alcuni anni di tregua tentò nuovamente di conquistare l’indipendenza.  Non si voleva assolutamente credere alla fine del regno di Giuda. Geremia ed Ezechiele combatterono questa speranza, ma le loro parole restarono senza un’eco sensibile. Il sogno di una restaurazione politica e di un avvenire di salvezza si infranse improvvisamente quando le truppe babilonesi occuparono il territorio di Giuda e assediarono la città. La città venne affamata e cadde nell’estate del 586.  Con la caduta di Gerusalemme erano crollate definitivamente anche le attese di salvezza degli esiliati del 597.  Rassegnazione e disperazione dilagarono.  Si diffuse una crisi di fede: Dio aveva ripudiato il suo popolo?  Valeva ancora la spesa sperare o era meglio rassegnarsi alla fine? È in questo contesto di “di-sperazione” che Ezechiele è raggiunto dalla profezia narrata nel cap. 37.

    La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare tutt’intorno accanto ad esse. Vidi che erano in grandissima quantità sulla distesa della valle e tutte inaridite.

    La pianura piena di ossa è una metafora, che si riferisce alla situazione storica concreta alla quale il profeta è mandato: è la realtà dell’esilio di Babilonia. La cosa risulta chiara dalla seguente affermazione: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti», qui viene detto esplicitamente che cosa sono le ossa dei morti, esse rappresentano la fine irrevocabile di Israele!  Prende voce la consapevolezza degli esuli di essere ormai in una situazione senza via di uscita.  Si insinua in essi una piatta rassegnazione, un terribile vuoto di speranza segno di morte.  Essi continuano a vivere sì fisicamente, ma non vale più per essi il «dum spiro spero», «fin che c’è vita c’è speranza».  Una possibilità di speranza appare impossibile. Ma sarà proprio una speranza “impossibile” l’oggetto della profezia di Ezechiele.

    Mi disse: «Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?». Io risposi: «Signore Dio, tu lo sai». Egli mi replicò: «Profetizza su queste ossa e annunzia loro: Ossa inaridite, udite la parola del Signore. Dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete: Saprete che io sono il Signore».

    Il profeta si vede interrogato da Dio stesso circa la situazione degli esiliati: la loro prospettiva di disperazione e di morte è l’unica?  Effettivamente secondo i criteri umani di giudizio la realtà appare già decisa (cfr v.11). Tuttavia Ezechiele non ha il coraggio di esprimere una decisione definitiva.  Egli conosce l’impotenza umana, ma sa anche che essa non esaurisce le possibilità sul versante di Dio.   Egli saggiamente affida la risposta alla potenza del Signore: «Signore Dio, tu lo sai» (v. 3).  E’ una risposta che riconosce sì l’impotenza umana ma nello stesso tempo riconosce l’onnipotenza divina: in essa prendono voce a un tempo la rassegnazione umana e l’apertura a Dio.  Ezechiele non decide sul futuro degli esiliati che credono di non avere più futuro ma lo mette nelle mani di Dio.

    Alla risposta di Ezechiele risponde ancora Dio stesso – e come potrebbe essere altrimenti? Lo fa mediante la visione che renderà il profeta atto ad annunciare in maniera credibile  e sicura una speranza impossibile (vv. 12-14).

    Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre io profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Guardai ed ecco sopra di esse i nervi, la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito in loro.

    Egli aggiunse: «Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano».

    Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato.

    Riscontriamo in questo passo importanti paralleli col racconto della creazione (Gn 2). Anche lì la creazione dell’uomo avviene in due fasi. Come il respiro di Dio, il suo soffio vitale, fa dell’uomo-Adamo ancora forma inerte di terra plasmata un essere vivente (cfr Gn 2,7), così anche in Ezechiele: “ma non c’era spirito in loro…lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi” (vv.8-10). Al Dio che all’origine ha infuso la vita al non vivente è possibile anche una nuova creazione: ciò che egli ha fatto all’origine può ripeterlo ora!

    Mi disse: «Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la gente d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti. Perciò profetizza e annunzia loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio.

    Ma vi è un  aspetto importante da prendere in considerazione. Al v. 14 si dice: “Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete”. In queste parole lo spirito inviato viene chiamato espressamente «il mio spirito». Ora lo “spirito di Dio” a cui qui si fa riferimento non si identifica con il soffio vitale dato a tutto ciò che vive sulla faccia della terra: animali e piante. E’ un dono più alto, ovvero quello dello “Spirito-soffio vitale” stesso di Dio che rende l’uomo partecipe della sua stessa vita divina. Questo dono straordinario crea un uomo nuovo capace di accogliere finalmente il dono dell’Alleanza con Dio rimanendovi fedele, e questo proprio in virtù della presenza dello “Spirito di Dio” che dimora in lui (cfr Rm 7,6; 8,2).

    Dio per bocca di Ezechiele non preannuncia dunque unicamente una rianimazione esterna del suo popolo, ma mediante l’effusione del “suo spirito”, JHWH vuole operare soprattutto un cambiamento  profondo e interiore. Senza questo cambiamento, il popolo presto o tardi ricadrebbe nel peccato, e si ripeterebbe l’esperienza della perdizione che lo ha condotto all’esilio.

    Viene fatto anche accenno alla presenza di sepolcri: “Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele”.  Questa nuova immagine esprime quanto ampia e definitiva sarà l’azione di Dio: essa spezzerà anche la prigionia del sepolcro, luogo emblematico che esprime la definitività della morte, e risveglierà a nuova vita anche quelli che sono irrimediabilmente “perduti” (cfr. v. 11).

    Ma quale la ragione di questo straordinario intervento divino? La ragione è che Israele deve imparare a “conoscere” il suo Dio:  “Riconoscerete che io sono il Signore”. Il Signore si dimostrerà fedele e la sua azione salvifica sarà la sua stessa manifestazione: Israele conoscerà chi è veramente il suo Dio! Israele non ha certamente meritato né di rivivere in una seconda creazione né di essere interiormente trasformato e abilitato dal dono dello stesso “Spirito di Dio” ad essere il popolo dell’Alleanza. Tutto è dono di Dio che solo rimane fedele a se stesso, e che per la propria gloria e per amore del suo popolo agirà restituendo speranza e vita.

    La visione termina con la più assoluta garanzia che ciò che è stato annunciato avverrà: «Io sono il Signore: l’ho detto e lo farò». Dio offre come garanzia unicamente la sua Parola che non mente.

    Nella visione di Ezechiele  il Signore appare come colui che può infrangere le catene della morte, come un Dio a cui nulla è impossibile.

    Nella morte e resurrezione di Cristo Gesù la promessa ha trovato il suo compimento inatteso e definitivo. Dal sepolcro sigillato del venerdì santo è rifiorita la speranza e la vita. Dopo la risurrezione di Gesù non c’è più alcun capolinea dell’attesa umana della vita.  La passione, la morte e la resurrezione di Gesù mostrano che il fallimento non è ancora la fine. Dio è potente; egli è in grado di suscitare vita dove l’uomo non vede che morte.

    Per noi che ascoltiamo, alla luce del mistero della morte e resurrezione di Gesù di Nazaret, si prospetta una domanda: c’è allora un vuoto umano di speranza che non possa sentirsi espresso nell’immagine delle ossa dei morti di Ezechiele?  Sui nostri campi di morte non giacciono infatti soltanto le speranze, i desideri, le attese e le promesse degli esiliati a Babilonia ma anche tutte le nostre.  Ogni nostro vuoto di speranza, ogni nostra rassegnazione e disperazione trovano qui la loro immagine, e possono legittimamente riferirsi ad essa. Il messaggio di Ezechiele parla anche al nostro tempo così bisognoso di speranza!

    Per la riflessione

    La nostra epoca fa sì che spesso sperimentiamo“vuoti di speranza” nei quali tutto sembra perduto, dove tutto sembra non aver più significato e futuro. In queste situazioni la profezia di Ezechiele, alla luce del mistero pasquale, si fa riudire in tutta la sua potenza capace di riaprire nel nostro cuore le porte ad una speranza impossibile.

    In quale misura la speranza è virtù ancora tipicamente cristiana? Possiamo affermare di testimoniarla avendo fatta nostra, mediante l’ascolto della Parola, la Buona Notizia della Morte e Resurrezione del Signore Gesù?

    Preghiera conclusiva

    Signore, tu sei la mia vita,

    senza di te il vivere non è vivere.

    Con te, Signore, oltre le cose,

    noi vediamo la vita,

    anzi, la sorgente della vita.

    Tu sarai la nostra vita anche nella morte;

    con te la vita è già in noi per sempre:

    tu sei per noi sorgente

    che zampilla nella vita eterna.

    Signore, tu sei la mia verità,

    sei la verità dell’uomo.

    Tu, o Padre del Cristo,

    ti sei fatto la mia verità

    e nello Spirito, ogni giorno,

    sei verità in me.

    Se tu vieni meno, se tu ti allontani,

    io non sono neppure uomo,

    sono come un relitto,

    come un naufrago che cerca salvezza e non la trova,

    un naufrago vicino alla morte.

    Signore, la tua grazia,

    la tua verità,

    la tua luce mi fanno uomo,

    e sono la mia grazia,

    la mia verità e la mia luce.

    (Card. C.M. Martini)

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