• 27 Mag

    Acab e Michea

    ovvero della rivalità del “mi spezzo ma non mi piego!”

    1Re 22,1-38

     

    di p. Attilio Franco Fabris

     

     

     

     

    La controrisonanza della rivalità si scontra con la risonanza della coscienza dell’altro, di fronte alla verità. Come si rivela? Si manifesta nella fatica di dire: “Ho sbagliato!”, “scusa”.

    Cedere alla verità che mi si rivela mediante l’altro lo vivo come un perdere, un darla vinta, una sconfitta.

    Per cui il confronto con l’altro appare faticoso,  a volte doloroso e ci pone sulle difensive.

    Il confronto con l’altro lo si vive in modo conflittuale: l’altro appare un pericolo, una minaccia, se l’altro è o ha un “di più”, questo di più invece di rallegrarmi, mi affligge.

    Ci si pone sempre in un atteggiamento di competitività con l’altro: devo dimostrare a me e agli altri di essere più bravo, intelligente, forte, ricco, bello… Desidero la sconfitta dell’altro, e pretendo l’emergere di me stesso, la mia vittoria sull’altro.

    L’incontro con l’altro perciò è avvertito come rischioso,  viene evitato o, se vi è, vi si entra con un atteggiamento di polemica, di aggressività nel caso non si riesca a manipolare l’altro.

    Esiste una rivalità aperta ma anche una occulta, mimetizzata, difficile da individuare. Ci può essere infatti un apparente consenso in cui scindo la coscienza dalla sua manifestazione.

    Si ricerca la vittoria, ma la rivalità ottiene una vittoria fasulla, perché appoggiata a quel nulla che è la menzogna.

    Non vi è ricerca della verità ma semplicemente l’angoscia di padroneggiare sull’altro.

    L’uomo si chiude alla verità a causa della rivalità, si isola barricandosi e facendo battaglia contro tutto e tutti.

    Solo l’umile lasciarsi con-vincere dalla verità e il rinunciare alla verità può aprire all’esperienza di comunione vera.

    * * *

    Antecedenti

    Il matrimonio di Ioram figlio del re Giosafat con Atalia sorella di Acab sigillò un’alleanza politico-militare tra i regni di Israele e di Giuda che si concretizzò ben presto nel progetto della riconquista della città di Ramot rimasta in mano agli Aramei..

    Giosafat accetta la spedizione alla condizione che si consultino, secondo l’antica usanza, gli oracoli di JHWH al fine di conoscere l’esito della battaglia.. Acab così deve convocare circa quattrocento profeti di corte che gli assicureranno il successo…

    1. Trascorsero tre anni senza guerra…

    La pace costruita dall’uomo è sempre fragile e pronta ad essere distrutta per qualcosa che si ritiene più importante. All’altare dei propri interessi e tornaconti viene spesso sacrificata la pace.

    La pace rischia di divenire solo un più o meno breve intervallo tra due guerre.

    Vi è l’aspirazione messianica ad una pace che duri che tuttavia sembra inevitabilmente delusa.

    fece visita…

    Ciò che è compito della politica è il prodigarsi per il bene comune: “Coloro che sono rivestiti d’autorità, la devono esercitare come un servizio” (CCC 2235).

    La politica è il più delle volte solo un gioco di alleanze in vista di interessi da ambo le parti. Il fine è sempre identico: accrescere e conservare il potere. La massima aspirazione dell’uomo è il potere divinità al quale l’uomo è disposto a sacrificare tutto.

    E il bene comune che dovrebbe essere la prima e unica preoccupazione dell’uomo di governo? Esso viene messo troppe volte in secondo piano se non addirittura disatteso!

    3. Ramot di Gaalad: città assediata dai Siriani, situata nella transgiordania settentrionale. Una città assediata e conquistata significa ricchezza aggiunta, espansione di dominio e di potere.

    Tutti abbiamo mete ambiziose al fine di accrescere dominio e potere.

    5. consulta JHWH:  Perché Giosafat chiede questo e non Acab?[1]

    Forse Giosafat non ritiene di dover far guerra, vi si vede costretto, ma deve far buon viso a cattivo gioco. Non ha fatto alleanza col re di Israele per rinsaldare il suo trono? E ora non si può dire di No. Che fare… forse l’oracolo del Signore potrebbe avvallare il suo desiderio. Ma allora questa ricerca di un consulto non denota un desiderio di porsi in ascolto della volontà di Dio, esso è strumentalizzato al fine dei propri obiettivi. Nei confronti di Dio spesso anche noi cerchiamo ansiosamente “consulti”, il più delle volte non per porci in ascolto della Parola ma per ricercare conferme o scappatoie dinanzi alla vita. Vogliamo da Dio la conferma dei nostri progetti.

     

    6. convocò i profeti…: la richiesta di Giosafat urta il re di Israele. Egli  non ha la minima intenzione di sentire oracoli; in cui suo ha già deciso! : “I miei piani erano già decisi. E ora l’alleato pone condizioni. Devo pagare lo scotto della richiesta per non perdermelo”.

    Neppure lui allora vuole porsi in ascolto della parola.

    Ma si vede costretto, e che fare se non convocare i quattrocento profeti di corte. Non lo hanno mai deluso, lo hanno sempre appoggiato. Più i profeti sono numerosi più si sincererà della “verità” e bontà della sua decisione. Così ricerchiamo sempre l’avvallo della maggioranza, tutti mi danno ragione… allora è vero! Rassicura ritrovarsi all’interno della maggioranza.

    I due re non si stanno ponendo il problema di ricercare la Parola di Dio per il bene del popolo. L’uno cerca l’avvallo l’altro la scappatoia.

    Non è così tante volte anche per noi?

    Quelli risposero:” Sali pure…”: una risposta unanime, entusiasta di tutta una folla di profeti, che assicura l’immancabile vittoria. Questa unanimità al primo momento non fa suscitare compiacimento, soddisfazione, certezza di essere nel giusto? Perché dovrebbe essere sospettosa? Ma questa risposta così entusiasta da parte dei profeti come mai è così unanime? Quali risonanze nasconde?

    Il desiderio non sarà forse quello di avvallare il potente nei suoi desideri, di non deluderlo. Perché? Perché così ci si assicura le sue grazie e i suoi benefici. Ce sempre da guadagnare nel servire e compiacere il potente.

    Siamo disposti a negare la ricerca della verità, a tradire la nostra coscienza, pur di non perdere determinati vantaggi.

    Certo, si corre un rischio perché la cosa andrà in porto nella misura in cui andrà in porto al potente, se fosse il contrario?… Allora rimane sempre la possibilità do “cambiare” potente schierandosi magari con quello avversario.

    Il debole ha paura di deludere le aspettative del forte: paura delle conseguenze fatte di rifiuto, di condanna… è la controrisonanza della paura degli altri (cfr. la seconda controrisonanza).

    Anche per questi quattrocento profeti  il bene comune passa in secondo piano.

    L’orizzonte è fatto solo dei propri interessi e ingaggi.

    7. Non c’è nessun altro profeta?: Stranamente Giosafat, re di Samaria non si lascia almeno per il momento raggirare dal parere della maggioranza. Vuole la certezza di un responso.

    Questo perché ha sfiducia nei confronti del re di Israele? Non si fida di lui? Insicurezza da parte sua? Dovere di coscienza? Potrebbero essere molteplici le motivazioni di questa sua insistenza…

    8. v’è ancora un uomo che io detesto: la parzialità del re di Israele nell’interpellare JHWH è drammatica: ne andrà di mezzo lui stesso e il suo popolo. Egli sa e riconosce il  ruolo di profeta da parte di Michea. Ma non vuole sentire ragioni contro le sue ragioni, campane diverse mi danno fastidio, le detesto, voglio sentire la musica che decido io non un’altra!

    Pretendo che l’altro corrisponda alle mie attese, ai miei desideri. Se li delude diviene per me detestabile, non voglio aver a che fare con lui. (il grillo parlante di Pinocchio!). Voglio ascoltare solo quello che voglio ascoltare. In tal modo non sono disponibile ad una ricerca sincera della verità.

    In questo malanimo e rifiuto di convocare Michea vi è la chiusura di Acab nei confronti della verità che giudica e pone in discussione la sua vita e le sue scelte. Acab non vuole che questo accada: ha già i suoi progetti. Pone in discussione il profeta (“non mi predice che sventure”) non la sua vita… a costo di rimetterci di persona!

    Troppe volte forse noi come Acab ci rifiutiamo di porci in ascolto di chi sappiamo capace di dire la verità su noi stessi e sulle cose. Troppe volte come Pinocchio mettiamo anche noi a tacere, anche in modo violento, chi ci annuncia la verità.

    La storia dell’umanità e della Chiesa è piena di testimonianze di questo rifiuto, barriera, ostracismo nei confronti del “profeta”.

    Il re non dica queste cose: vi è sempre qualcuno o qualcosa che mi invita ad aprire la coscienza alla verità. Ma viene ascoltato?

    10. nell’aia antistante la parta di Samaria:  era l’aia usata per trebbiare il grano, che si stendeva davanti alla porta delle città antiche. E’ la grande piazza: il luogo più importante. La scena dunque è solenne. I due re al centro con gli abiti da cerimonia, abiti che proclamano il loro ruolo di potenti, di capi. (l’abito fa il monaco). Ben distinti dagli altri. Il potere esige sempre un apparato esteriore che lo avvalli e lo distingua dai “comuni mortali”.

    11. si fece corni di ferro: I due sono circondati dai quattrocento profeti di corte che profetizzano alla loro presenza assicurando vittoria e successo all’impresa. Anche questo un apparato che ammalia e rassicura, e che nasconde la verità. E la coscienza viene messa a tacere

    I profeti sono capeggiati da un capo: Sedecia figlio di Cheeanna. Anche lui impronta la sua sceneggiata: agita corni di ferro, come simbolo di forza. Con questo intende significare o forse produrre in modo magico la vittoria di Acab sugli Aramei. A questo capo si affiancano tutti gli altri. Il leader trascina sempre: affascina come una “star”.

    Preferiamo troppo spesso circondarci di tanti e tanti “profeti” che ci accontentano pensandola come noi, cerchiamo applausi e consensi in ogni direzione. Amiamo circondarci di persone che sempre ci danno ragione: è molto più appagante e tranquillizzante. Ma il prezzo quale è?

    13. il messaggero: strana figura questo personaggio che si reca da Michea. Gli comunica l’universale parere favorevole dei profeti di corte nei confronti dell’impresa. Egli vi crede o no? Il suo invito è quello di accodarsi, di non cantare fuori dal coro. Anche lui si rivela vittima e complice degli interessi di corte.

    Perché quest’invito? …probabilmente avrà avuto un preciso ordine dall’alto di ingiungere al profeta di accodarsi al parere unanime degli altri. Altrimenti…!

    Una cosa è certa: il pressante invito è di tradire la sua coscienza di profeta. E’ il ruolo di tentatore, di sabotatore della coscienza altrui.

    Non capita a volte che noi stessi invitiamo l’altro ad agire in modo diverso da ciò che la coscienza gli detta, e questo per ottenere noi vantaggi diretti o indiretti? Per giustificare la nostra stessa falsa coscienza?

    14. quel che JHWH mi dirà io annuncerò: Michea qui appare già nella statura dell’autentico profeta che fa suo il compito affidato: dire la parola di JHWH e solo quella.

    Noi al contrario o non la diciamo per paura di deludere, oppure cerchiamo di adattarla, zuccherarla: “si… però…” “è vero tuttavia…”. La parola di Michea è una parola chiara, decisa non ambivalente o accomodante.

    E’ la “parresia” dono dello Spirito: ovvero la franchezza nell’annunciare la Parola di Dio senza timore, anche a scapito di rimetterci la vita.

    15. il re disse… il profeta rispose: Lì nella piazza dinanzi ai due re, ai quattrocento profeti, a tutto il popolo si svolge il dialogo col profeta. Alla domanda del re, Michea risponde ironicamente dando apparente assenso.

    Michea conosce il cuore del re Acab, la sua incapacità di ascolto. Si prende gioco di lui, e in modo ironico ripete le stesse parole dei falsi profeti. E’ Dio stesso che prende atto di questa durezza di ascolto e d’incapacità di apertura alla verità. Questo tono ironico non è già forse un invito alla coscienza del re a prendere atto di questa sua chiusura?

    La profezia non vuole conquistare alcunché, si pone solo al servizio lasciando che la verità si faccia strada da sé, non si impone con la violenza, si offre nella sua debolezza.

    16. la verità nel nome di JHWH: Acab avverte cosa si nasconde dietro il tono con cui il profeta pronuncia le parole degli altri profeti.

    Per non smentirsi nel suo potere Acab accetta una verità che venga dal di fuori della sua cerchia, ma per poi combatterla poiché il potere non può correre il rischio di indebolirsi. Ma è questa grettezza a segnare la fine di ogni potere che ricerca solo se stesso e non il bene comune.

    Perché il profondo della coscienza opera un forte richiamo, non può tacere. Domanda la verità, anche se io cerco di farla tacere e la metterò a tacere. Si attua nella coscienza una sorta di doppiogioco di accogliere e nello stesso tempo negare la verità.

    Da un lato non voglio udire la verità, dall’altro la mia coscienza me lo impone. E’ una battaglia strenua, implacabile. Mi sento diviso. Ma anche nel caso in cui lascerò la coscienza parlare ed aprirsi avrò ancora da combattere perché la mia controrisonanza mi domanderà di porla nuovamente a tacere. Mantener disponibile la coscienza alla verità è impresa ardua e sofferta.

    17. disperso sui monti….: Michea pronuncia la sua profezia. La Parola è comunque detta per chi la richiede ed è comprensibile agli orecchi di chi sa ascoltarla. Se vi è questa richiesta in Acab, questa lotta per cui da un lato desidera conoscere e dall’altro no, allora il profeta coglie l’occasione, questo minimo spiraglio per comunicargli la Parola del Signore.

    Le sue parole predicono esplicitamente la disfatta d’Israele e velatamente anche la morte del re. Israele sarà come un gregge disperso, senza pastore! A meno che… il re non cambi idea e rinunzi al suo progetto.

    18. Non ti avevo detto…?: Sono le parole stizzite di Acab a Giosafat: “Ecco te la sei cercata e voluta. Che farmene di un profeta capace solo di preannunziare sventure?”.

    Anche qui riscontriamo la chiusura della coscienza del re. Egli sospetta che deve aspettarsi una tal profezia, e in un certo senso se ne immunizza con la frase: “Ecco lo sapevo! Lo sapevo già che sarebbe andata a finire così!”. Una frase che dice ancora una volta la non volontà di porsi in ascolto e dunque in discussione: “So già cosa pensi, quindi è inutile che stiamo qui a discutere”.

    E’ possibile un sincero ascolto e discernimento della volontà di Dio con queste premesse così grette?

    Quante volte i nostri: “Lo sapevo!”, non fanno che confermarci nella nostra falsa coscienza e il nostro non ascolto?

    Acab dinanzi a Giosafat, ai quattrocento profeti, al popolo come può piegarsi a dare ragione a quello “straccione di menagramo” che è il profeta Michea: sarebbe un perdere la faccia davanti a tutti. Non vuole certamente mostrarsi vulnerabile davanti a tutti. La sua reazione è dunque di disprezzo e di noncuranza: “Tanto lo sapevo!”.

    19. L’intera schiera celeste: Michea non può far altro che portare a termine il suo compito di profeta. Descrive un’assise celeste. JHWH è antropomorficamente presentato come un sovrano terrestre che si consulta con i suoi consiglieri. Un immaginario dialogo per decidere la sorte di Acab.

    21. lo spirito: è la personificazione dello spirito profetico, la forza mediante la quale Dio trasforma l’uomo in suo portavoce.

    Certo riuscirai a sedurlo: quanto è facile all’uomo mettersi in ascolto dei falsi profeti. Essi promettono successo, gioie e realizzazione a basso costo e per vie facili e alettanti. Sono la porta e la via larga facili da percorrere ma che conducono alla perdizione.

    Lo spirito di menzogna asseconda l’uomo nei suoi desideri e aspettative fatte di potere, successo, gloria, piacere. La seduzione è forte, irresistibile… l’uomo vi quasi trascinato incosapevolmente.

    23. JHWH ha posto uno spirito di menzogna: non si distingue nella lingua semitica volontà iussiva e volontà permissiva.

    24. Allora Sedecia…: la reazione del capo dei profeti di corte è immediata e violenta. Quando ci sentiamo minacciati nella nostra immagine ci difendiamo in ogni modo, anche a scapito della verità.

    Ma la verità ha bisogno di essere difesa con la violenza o si impone da se stessa?

    Sedecia rivendica violentemente l’esclusiva della “sua” verità. Ma quando vi è violenza nel voler difendere le proprie ragioni e la propria verità, vi è sempre la certezza che tale atteggiamento nasce solo dalla paura, dalla resistenza all’accettare la vera verità, si ha paura di scoprirsi vulnerabili.

    Quello schiaffo dato a Michea rimanda allo schiaffo dato a Gesù da parte servo in casa del sommo sacerdote: “Così rispondi al sommo sacerdote?” (Gv 18,22). Anche in quel caso la risposta di Gesù è un appello ad aprirsi alla verità.

    25 . Michea rispose: la reazione del profeta è controllata, non si lascia trascinare nel vortice della violenza dell’avversario. Egli rimanda solo al compimento della parola da lui annunciata. Il che vuol dire che rimette la sua causa e il suo diritto nella mani di Dio che lo ha mandato. Dio unica difesa e garante della verità della parola pronunciata. Non tocca a me difendere il diritto di Dio!  A me il compito di testimoniarlo: “La mai difesa è nel Signore, egli salva i retti di cuore” (Sal 7,11).

    26-27. Mettete costui in prigione: l’ordine è dato all’eunuco che l’aveva introdotto. Che il profeta sia consegnato all’ufficiale di giustizia. Ma quale “giustizia”? Che ha fatto di male il profeta?

    La verità della Parola è scomoda, urta e destabilizza: deve essere rinchiusa affinché non disturbi i nostri piani e i nostri progetti.

    Messa a tacere (ed è la sorte di tutti i profeti!) non per questo essa non agisce.

    E’ la sorte questa di tutti i profeti antichi e nuovi, è la sorte di Gesù messo a tacere sulla croce.

    27. finché non ritornerò sano e salvo: le false speranze sono dure a morire. Acab dimostra una sordità inaudita dinanzi alla parola. Non se ne lascia interpellare. La vita deve continuare secondo i suoi progetti e aspettative. Non vuole saggiamente nemmeno per un istante confrontarsi con la possibilità dello smacco e dell’insuccesso. Acab non vuole confrontarsi con la perdita! Nella vita pretende e si illude di dover essere sempre vincitore.

    28. Se tu ritornerai…: Ancora, come ha fatto con Sedecia, Michea affida la sua causa e la sua giustizia a colui che lo inviato. La sua sorte è legata alla verità della parola che è stato inviato a dire. Non ad altro.

    Michea non ricerca appoggi, non si piega ad accomodamenti.

    29 –30. Io mi travestirò: gli eserciti di Samaria e di Giuda partono dunque per Ramot. La parola di Michea non è stata presa in considerazione. Non la si è voluta ascoltare.

    Ma ecco che sul campo di battaglia Acab fa una richiesta alquanto “strana” al re di Samaria. Che Giosafat mantenga l’uniforme regale. Acab invece si travestirà da semplice comandante.

    Questa misura è adottata da Acab dopo le parole di Michea allusive al pericolo a cui sarebbero stati esposti i capi? E’ la falsità e la codardia di chi si traveste per non farsi riconoscere.

    La parola profetica dunque l’ha in certa misura destabilizzato. Acab avverte dentro di sé il disagio, la paura: “E se fosse vero”. Ma la sua rivalità nei confronti del profeta gli impedisce di cedere, di dar ragione, di rivedere le proprie posizioni. Va avanti nonostante tutto a testa bassa, cercando di adattare la realtà alle proprie paure e alle proprie false sicurezze. Si deve travestire perché ha paura di essere se stesso, di assumersi la totale responsabilità di ciò che accadrà.

    E’ una sfida nella quale vuole uscire vincitore con l’inganno. Ma è possibile ingannare così la propria coscienza? E’ possibile eluderla attraverso inganni e travestimenti? O la realtà prima o dopo mi imporrà di venire allo scoperto e di mostrarmi nudo per quel che sono?

    Troppe volte per eludere la verità della coscienza ci si traveste… inutilmente.

    31. Combattete contro il solo re d’Israele: è la vita stessa che si impegna a porre in scacco la menzogna e la falsità. Prima o dopo essa la verità e serietà della vita domanda il conto a chi si illude di sfuggirle.

    32-33. I comandanti videro Giosafat: l’apparenza a volte inganna. Giosafat lancia un grido di guerra o di soccorso? O grido di aiuto rivolto al Signore suo Dio facendo conoscere agli assalitori che non si trattava del re di Israele? Fortunatamente per Giosafat viene riconosciuto per quello che è veramente è. Nella vita se siamo quello che siamo, senza travestirci ci salviamo.

    34. Ma un uomo scoccò una freccia a caso: : Una freccia tirata a caso colpisce Acab. La corazza era un giubbotto di cuoio o di stoffa su cui erano fissate placche di metallo somiglianti a squame. La freccia riesce ad infilarsi mortalmente nelle carni del re.

    (Proviamo ad ascoltare le risonanze di Acab nel momento in cui viene ferito a morte:…..)

    35. se ne stette ritto sul carro… il sangue colò sul fondo del carro: Ad Acab vengono a mancare le forze. Sta male. Al carrista ordina di portarlo fuori dalla mischia.

    Logica vorrebbe che se sta male si facesse curare, che tornasse all’accampamento, facesse terminare la battaglia mettendo in salvo i suoi giovani guerrieri, logica vorrebbe che riconoscesse la tragicità del momento e si arrendesse dinanzi alla verità, all’evidenza.

    Ma tutto questo non accade. Come mai? Cosa si muove nel cuore di Acab? Perché non si ricrede riconoscendo il proprio errore?

    Cedere significherebbe riconoscere lo sbaglio, il torto di non aver dato retto al profeta e alla sua parola. Significherebbe riconoscere a se stesso e dinanzi al popolo di non aver agito correttamente. Ma tutto questo implica un cedere, un “perdere” dinanzi al quale Acab moribondo non si arrende. Neanche nel punto di esalare l’ultimo respiro!

    A costo di far cadere tutto il suo esercito sotto la spada del nemico e di consegnare il suo popolo allo sbaraglio più compelto Acab non si arrende. Stringe i denti nei confronti della vita che gli sfugge inesorabile tra le mani. Lo sa… ma non cede!

    Una controrisonanza dunque fortissima. Un rifiuto della verità a costo di rimettere la propria vita e la vita degli altri. Fino all’ultimo l’uomo si illude di padroneggiare la situazione e di fuggire il confronto con la verità.

    (Proviamo ad ascoltare le risonanze di Acab che ritto sul carro vede il suo sangue, la sua vita svanire sul fondo del carro e la disfatta dinanzi ai suoi occhi….)

    36. Al calar del sole un grido: il re è morto!: alla sera, dopo una giornata di combattimento, ecco il grido che dice la disfatta e l’inutilità di tutto quel spargimento di sangue, la follia di quella guerra conclusasi con nulla di fatto. Solo morte, dolore, sofferenza. Colui che doveva assicurare il bene al suo popolo è morto causando la morte di tanti e tanti altri.

    Questo è il frutto di morte dell’uomo quando si chiude alla verità volendo perseguire ad ogni costo progetti, ideali che si basano solo sulla rivalità, nel non voler dar ragione all’altro, nel non ascolto.

    38. dove si lavavano le prostitute: Il corpo è seppellito in terra straniera. Il carro lavato nella piscina della prostitute. Un particolare che aggiunge disonore a disonore.

    Secondo la parola che HJHW aveva pronunciato: una parola, quella di Dio, infallibile che fa quel che dice e dice quel che fa.

    Una parola che dice che alla verità ci si può solo arrendere, rinunciando ad ogni sorta di potere su di essa. Occorre abbandonarsi ad essa liberandosi dalla pretesa di essere dio a se stessi.


    [1] Ai tempi di Saul  e di Davide la consultazione divina era compiuta dal sommo sacerdote mediante l’apposito strumento oracolare: l’efod. Qui invece vengono impiegati i profeti, considerati gli interpreti qualificati di Dio. Siamo ad un livello di esperienza religiosa e di ascolto più raffinato e “biblico”.
  • 26 Mag

    La guarigione del cieco nato

    ovvero: del conflitto con la verità

    Gv 9,1-41


    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Il bambino al rimprovero della mamma per una malefatta in genere risponde: “Non sono stato io!”, oppure “E’ stata mia sorella!”, oppure: “Non l’ho fatto apposta!”.

    Riconoscere la verità fa male in quanto mi mette di fronte al mio limite, al mio errore. Eppure solo la verità assicura la libertà e la pienezza della vita: “La verità vi farà liberi” ha detto Gesù.

    Eppure la mia coscienza teme la verità. Se ne difende. La verità fa male (una canzone dei tempi passati anni 70 diceva: “La verità mi fa male lo so”).

    Si difende diventando parziale: si schiera dalla parte che fa più comodo.

    La coscienza mette in modo diverse tattiche per difendersi dalla verità (razionalizzazioni, proiezioni, scissione, negazione, fissazione… ovvero tutti i meccanismi di difesa).

    La controrisonanza vorrebbe piegare la verità a sé, in modo da camuffarla, reinterpretarla al proprio tornaconto.

    E’ famoso l’aneddoto di Esopo chiamato “La volpe e l’uva”. Di fronte allo smacco di non riuscire ad acchiappare l’uva posta in alto, la “coscienza” della volpe non può far altro che distorcere la realtà-verità, con una scusa, per tranquilizzarsi: “L’uva è acerba”.

    In fin dei conti il conflitto con la verità si traduce in rifiuto della realtà.

    Intorno all’ammalato grave in genere si vive profondamente questo conflitto: non si vuole accettare la verità della malattia. La si fugge: “Vedrai che tornerai a casa presto”; “Non preoccuparti…”.  Lo vive l’ammalato, lo vivono i parenti. In questo caso confrontarsi con la verità delle cose è insopportabilmente doloroso.

    Vi è un rifiuto della verità anche in chi ricerca l’assoluta infallibilità: questa ricerca affannosa nasconde il rifiuto della verità di se stessi la quale deve fare i conti la propria fallibilità.  Le certezze assolute ricercate ad ogni costo sono il tentativo estremo di tamponare le nostre insicurezze: sono la radice di tutti i fondamentalismi. L’arroccarsi nella propria presunta verità quando diviene intransigenza denota questo conflitto: la paura del confronto con una verità più grande di me.

    * * *

    1. 1. Un uomo cieco dalla nascita: Gesù è appena scampato da un tentativo di linciaggio da parte dei farisei nel tempio: ha chiaramente espresso la sua identità, suscitando scandalo e rifiuto.
      In questa situazione di tensione e di sofferenza interiore è Gesù che “vede” il cieco “dal ventre della madre”. L’iniziativa è sua. Pur soffrendo Gesù è capace di cogliere la sofferenza altrui: la sente propria.  Di nessuno dei ciechi guariti i sinottici dicono che si trattasse di un cieco dalla nascita.

    Si tratta di un povero cieco mendicante al bordo della strada (cfr. v. 8). Vive di pubblica assistenza ed è ancora legato ai suoi genitori.

    Cosa significa essere ciechi dalla nascita? Cosa comporta? Come ha vissuta la sua vita? La sua infanzia? La sua adolescenza? Che opportunità gli sono state negate? Che benefici ne ha ottenuto?

    Che tipo di relazioni con i genitori, i compagni…e con Dio?

    Prendo atto che quando vivo situazioni di tensione e di sofferenza è difficile che mi faccia attento agli altri, vedo solo me stesso, e le mie esigenze di salvare se stesso: si salvi chi può! Ciascuno salvi se stesso! Questo per Gesù non è vero.

    Come vivo il mio senso della vista? Lo vivo con consapevolezza?

    Il mio è un semplice guardare o un cercare di vedere? So interiorizzare quello che guardo, ovvero lo vedo, lo accolgo in me (come fa Gesù con il cieco!). Oppure sì, gli occhi vedono, ma non vedono perché la mia coscienza è altrove, non è aperta alla concretezza della realtà, ma ai miei concetti e pre-giudizi.

    E’ forse il caso di invitare con semplicità a riscoprire la consapevolezza del senso della vista: colori, forme, luci…

    Vivo l’esperienza della cecità?

    Ovvero:  nella mia vita ho o ho avuto le mie esperienze di buio…. Ho fatto l’esperienza del “non vederci chiaro”, di “brancolare” non sapendo che strada imbroccare?

    Come ho vissuto quei momenti? Cosa mi ha sostenuto in quelle situazioni?

    v. 2: i discepoli dissero: i discepoli esprimono l’opinione popolare che, benché confutata dall’esperienza di Giobbe, riteneva che la malattia fosse legata al peccato personale o dei genitori stessi (cfr. Lc 13,2).

    E’ tutta una vita che quest’uomo cieco dalla nascita, che chiameremo Beniamino, sente questo ritornello: “Uuh! Poverino! Chissà che cosa hai fatto per meritarti questo! Tu forse non hai colpa, ma i tuoi genitori….”. “Il Signore è buono: dunque se sei castigato così un motivo ci deve essere! La colpa o è tua o dei tuoi genitori!”.

    La persona di Beniamino è per la coscienza credente è un problema che interpella fortemente la fede. Perché? Perché il credente dinanzi a Beniamino è preso dalla paura; perché la fede dice che Dio è buono, ma accidenti! Se succedono queste cose, c’è da dubitare seriamente che Dio buono lo sia davvero. Allora Dio è buono o cattivo? Bisogna trovare a tutti i costi una giustificazione che tranquillizzi la mia coscienza, altrimenti siamo nei guai. Ecco allora! Se l’uomo soffre, se è colpito dalla sventura, non è perché Dio sia cattivo, ma perché l’uomo ha sbagliato, e quindi è castigato e punito, certo per il suo bene, ma punito! Dicendo che il peccato è causa della malattia discolpiamo Dio e assicuriamo la nostra coscienza che se si sente a posto di fronte alla legge può dormire sonni tranquilli.

    Di fronte alla sofferenza il credente sente di dover dunque trovare una spiegazione, non per consolare chi soffre, ma per tranquillizzare se stesso, per difendere ai propri occhi la reputazione di Dio.

    Ma con Beniamino, nato cieco, il problema si fa ancor più contorto e inestricabile. Un essere così perché è al mondo? Che ci sta a fare? Signore, ma perché queste cose? Come spiegarle? Occorre ancora trovare una spiegazione che mi tranquillizzi perché altrimenti sono guai… Allora? Certamente anche qui c’è peccato, se non suo, dei suoi genitori. Perché dei suoi genitori? Ma perché è cieco dalla nascita! E allora? Allora sono i suoi genitori che sono stati castigati: la causa sono loro! ”! Es 20,5 afferma: “Io sono il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso, che colpisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione”.

    Sono dunque anni, è da una vita, che la coscienza del povero Beniamino viene tartassata, martellata da queste domande. Quante volte avrà pensato e forse guidato: “Non ne posso più!”.

    Come i suoi genitori vivono poi questa situazione? Quante volte si saranno fatti la domanda: “Ma dove abbiamo sbagliato per meritarci un castigo così?”. E’ dalla nascita di Beniamino che i due poveri genitori si sentono colpevolizzati a morte, e si colpevolizzano a vicenda: “E’ colpa tua!” “No! E’ colpa tua!”. In quella casa si vive un inferno.

    E la gente del circondario che dice, che pensa? Non penserà: “E’ colpa loro!”.

    Beniamino è cresciuto sentendosi un mostro, colpevole della sua malattia, attanagliato dal senso di colpa di aver reso infelici i suoi genitori.

    Non si sarà mai ribellato? Non sarà forse un giorno esploso gridando: “La colpa della mia infelicità siete voi! Perché se io soffro, se sono ridotto in questa situazione è per colpa vostra!”. E i genitori cosa avranno risposto: “Noi? Ma è a causa tua che noi soffriamo così!”.

    Ed ecco che in quel giorno di primavera lungo il marciapiede dove è seduto Beniamino sente ancora una volta la tragica domanda: “Maestro, per subire un castigo così, chi ha peccato, lui o i suoi genitori?”.

    Già è fatica vivere, guadagnarsi mendicando un pezzo di pane vecchio, ma sentirsi perseguitati dalla maledizione in questo ballottaggio di colpa… Basta! Non ne posso più!

    Il male interpella drammaticamente la coscienza del credente perché mette in seria discussione l’immagine di Dio. Finora in che direzione ho cercato una soluzione?

    Avverti nella situazione di Beniamino qualche relazione con la tua esperienza? Prova a descriverla.

    Vi è uno scaricare la responsabilità del male  dall’uno all’altro. Nessuno si accolla la responsabilità della sofferenza che è nell’uomo. Questo come lo vedi attuarsi in te e attorno a te?

    v. 3 Rispose Gesù: Mentre Beniamino si trattiene, sperando nell’elemosina, ecco che risuona una voce nuova. Ode stupefatto parole mai udite prima: “Né lui, né i suoi genitori”.

    Quale sarà la risonanza di Ruben a queste parole?…  “Questo mi vuole prendere in giro in un altro modo? Non è cattiveria anche se detta in altro modo? … “. D’altra parte però Beniamino avverte in quelle parole una possibilità di guardare alla sua situazione con uno sguardo diverso. Affidarsi a quell’uomo e alle sue parole, non potrebbe essere una scelta diversa?

    In quel giorno qualcosa di nuovo interviene nella vita di Beniamino. Intuisce una lettura diversa  del suo dolore. Certo il problema resta: “Allora perché sono in questa situazione?”.

    Gesù offre la sua lettura: una occasione propizia alla rivelazione di Dio. Dio vuole manifestare la sua “gloria” che è azione di liberazione e guarigione nell’uomo cieco in questo mondo.

    Ma che vuol dire? “Per la gloria di Dio? E la mia sofferenza servirebbe per dare gloria a chi ne ha già? No!”.

    Questa parola suscita in Beniamino una sorta di “sconbussolamento” interiore, nella sua coscienza. E’ da una vita che ha interpretato la sua situazione nella logica della colpa. Ma ora, se queste parole fossero vere, questo comporterebbe, una nuova “visione” della vita, di se stesso, della propria “morte”. Ora si tratta di aprirsi a questa possibilità nuova: il cieco nato accetterà di aver a che fare con quest’uomo?

    Questo è il punto di partenza dell’incontro di Gesù con Beniamino.

    Quale la tua risonanza, nei panni di Beniamino, alle parole di Gesù?

    v. 4b-5: Dobbiamo operare: il plurale indica che vi sono inclusi anche i discepoli i quali sono così chiamati a condividere e continuare l’opera di Gesù. Quindi Gesù vuole associare alla sua missione i suoi discepoli. Il “giorno” è la vita terrena di Gesù in cui deve compiere la missione affidatagli dal Padre. L’allusione alla sua passione, e quindi alla sua morte, anticipa il rifiuto a cui egli stesso andrà incontro quando vedrà i molti negare l’evidenza del miracolo. Si tratta di un rifiuto colui che compie “le opere di Dio”. Gesù ha fretta di compiere il miracolo, non bisogna perdere tempo, la giornata volge al termine!

    “Io sono la luce del mondo”: questa affermazione orienta alla rivelazione di Gesù-luce nel segno del cieco-nato. In altre parole egli afferma che senza la rivelazione di Gesù.

    v. 6 detto questo egli sputò…: (cfr Mc 7,33; Mc 8,23).  Un gesto strano, difficile da decifrare, all’apparenza quasi magico. Lo spalmare fango sugli occhi di un cieco non è aggiungere cecità a cecità, un sottolinearla, portandola all’esasperazione? Serve solo a peggiorare la situazione.

    Il fare del fango poi è azione espressamente proibita in giorno di sabato, ma Gesù la compie lo stesso! Si potrebbe riandare alla creazione di Adamo, tratto dal fango e nelle narici del quale Dio pone il suo soffio. Qui Gesù in qualche modo opererebbe una “nuova creazione” dell’Adamo ferito, cieco, sordo e muto: la sua saliva è il soffio-ruah che egli impasta con la terra.

    Quali le risonanze di Beniamino? “Non sono abbastanza cieco che questo qui mi mette ancora fango sugli occhi?”. “Ma cosa? Mi stai prendendo in giro?”. “Non bastano le umiliazioni ricevute fino ad ora perché tu voglia sottolineare il mio handicap?”.

    Tuttavia quel “lasciarsi toccare” da Gesù, gli infonde una sorta di pace: finalmente qualcuno che non teme di “toccare” la mia sofferenza!

    Nei panni di Beniamino come reagirei al gesto di Gesù?

    E Gesù perché lo compie? Cosa vuol far intendere a Beniamino e ai presenti?

    Che l’uomo prenda consapevolezza della sua cecità, non inganni la verità di se stesso. Abbia il coraggio di essere se stesso nel suo limite.

    Questo sicuramente fa soffrire. Beniamino soffre al gesto di Gesù, non lo comprende ma sente che questo gli pesa, viene a marcare il suo dolore non ad alleviarlo.

    Ma è questa la via della guarigione! Proprio mettendo la mano sulla piaga la si guarisce, è invece nascondendola a sé e agli altri che essa incancrenisce,  portandomi alla morte.

    Gesù non teme di porre la sua mano sulla ferita dell’uomo, in certo qual modo la fa sua.

    v. 7 va a lavarti alla piscina di Siloe: La piscina di Siloe si trova allo sbocco del canale fatto costruire da Ezechia (2Cr 32,30; Is 8,6)), che portava l’acqua dalla fonte di Gihon all’interno della città. Sta a sud del colle orientale di Gerusalemme, all’incrocio della valle del Cedron con quella del Tiropeion. Da questa piscina veniva attinta l’acqua per la cerimonia della festa delle Capanne.

    Giovanni da’ la traduzione della parola Siloe: “Inviato” (di per se è attivo: “mandante”). Si allude a Cristo stesso. E’ Cristo che guarisce, non l’acqua.

    Il cieco nato è mandato all’inviato.

    E’ un ordine che richiama quello di Eliseo dato a Naaman (2Re 5,10-13). Una guarigione dunque non immediata ma che esige una dilazione di spazio e di tempo (cfr Lc 17,12-15: i dieci lebbrosi sono anzitutto mandati per essere sanati).

    E’ un mettere alla prova la fede?

    Un ordine oneroso, la piscina è distante qualche chilometro e per un cieco è un’impresa.

    Quali le risonanze di Beniamino durante il viaggio imbarazzante e sofferto?

    (cfr. Naaman quando viene mandato a bagnarsi nel Giordano sette volte…).

    Beniamino si sente umiliato dal gesto e dal comando di Gesù?

    Dentro di sé sente gioia o imbarazzo, forse rabbia?

    Avrà paura del giudizio degli altri?

    Si sentirà solo nel suo cammino verso la piscina? Nessuno lo accompagna? Perché Gesù o qualcun altro non lo accompagna? Non lo fa perché Beniamino si giochi tutta la sua libertà e adesione nella fede: questa è atto estremamente libero e personale.

    Non si sentirà la tentazione di fermarsi, di tornar indietro, o almeno di togliersi quel fango che lo fa ridicolo agli occhi degli altri?

    Desidera il cambiamento? Lo spera? Lo teme?

    In fondo alla sua coscienza, in messo a tante risonanze contrastanti, non vi è forse una luce rappresentata dalla speranza/fede che le parole di quell’uomo da poco incontrato siano vere? “Dopo tutto lui non si è limitato come tutti a parlare di me dietro le spalle, ma mi ha parlato, si è rivolto proprio a me!”. In altre parole: il comando di Gesù trova spazio e credibilità nella coscienza di Beniamino in quanto egli prima ha udito la parola.

    Una considerazione: il comando morale se non trova ragione nella credibilità data dalla parola non regge da solo, la coscienza vi si ribella o vi si soggiace servilmente.

    Andò, si lavò, tornò che ci vedeva: una laconica conclusione per esprimere il capovolgimento nella vita di quest’uomo. Una serie di verbi telegrafici che descrivono succintamente ciò che avvenne.

    Non rimane che immedesimarci nelle risonanze di un uomo che inizia a vedere il mondo per la prima volta.

    Prima reazione: curiosità e superficialità

    8-9. non è l’uomo…?: la lunga discussione che segue al miracolo non ha intenzioni apologetiche al fine di mostrare l’autenticità del miracolo, ma ha lo scopo di far emergere le diverse posizioni nei confronti della verità. Ci saranno infatti diverse reazioni e posizioni nei confronti della verità.

    (Ci confronteremo con queste diverse reazioni al fine di far una sorta di “esame della vista”: scorgeremo e verificheremo la nostra capacità di accogliere la verità.).

    La prima reazione è della folla: c’è incertezza e perplessità dinanzi alla verità. Fatica a riconoscere in Beniamino la stessa persona che giaceva mendicante alla porta del tempio.

    Dopo il miracolo  la folla è dubbiosa, titubante. Perché?

    Strano! Non accade come dopo i miracoli raccontati dai sinottici a cui segue l’entusiasmo, la lode a Dio e la gioia di tutti (cfr. Lc 9,43; Mc 5,20). Davanti a una sorte di tal miracolo dovrebbe esserci un’accoglienza strabiliante, unanime talmente è evidente.

    Qui è diverso: potremmo definire la folla come la personificazione dei “superficiali”: dinanzi ai fatti non si impegnano, non sono capaci di andare oltre la loro modestissima inchiesta.

    Certo confrontarsi con quest’uomo prima immobile, impotente, dipendente e ora capace di muoversi, di essere autonomo e di prendere iniziative è impegnativo, scalza tante nostre certezze:  “Mah! Che bello!” è la loro tipica espressione a cui però non segue nulla di concreto, nessun schierarsi per la verità.

    Alla folla interesserà la superficie dell’episodio: come? Chi? E’ lui o non è lui? Ma non saprà andar oltre. Siamo nella linea della curiosità e del pettegolezzo.

    Sarebbe ovvio rivolgersi in primo luogo all’interessato, dialogare con lui: ma questo avviene solo alla fine. Prima c’è un confabulare, uno “spettegolare” e basta. Prima di interpellare l’interessato, il che sarebbe la cosa più ovvia, ci si crea un’opinione dall’esterno che poi sarà confermata, o “smentita” (ma si sarà d’accordo su questo?).

    10-11 Come? Chi ? L’interrogatorio dei curiosi continua: “Come è successo?”.

    Queste domande sono solo tese a soddisfare il prurito della curiosità della folla, la ricerca infatti si arena nella pura cronaca. Saputo che è stato un certo Gesù e saputo come ha agito la folla è accontentata. Il miracolo non suscita in essa un serio interrogativo di fede!

    La folla è costituita dalle persone che si fermano alla soglia del fatto, senza cercare di andarne alla radice. Sono coloro, direbbe san Paolo che “sentono il prurito della novità” (cfr 2Tm 4,3-4), novità che cessa di essere tale nel momento stesso in cui si presenta, scatenando il prurito di altre novità, condannate a un uguale effimere esistenza.

    E’ una constatazione che fanno ad esempio molte persone nell’accostarsi al “mondo del soprannaturale”. Vi è una corsa insaziabile alla ricerca di fenomeni straordinari, che apparentemente dicono il desiderio della fede, ma che, se osservati più in profondità, denotano una scarsa volontà di un ascolto profondo, di una interiorizzazione dei fatti. Non ci si gioca infatti sino in fondo su ciò a cui ci si accosta. Ci si illude di farlo! La vita poi riprende come prima, e nulla cambia.

    Seconda reazione: il “problematicismo” (vv. 13-17)

    13. La folla conduce dai farisei il cieco guarito. Cosa cerca? Per quale motivo? Curiosità ulteriore? Godersi un ulteriore spettacolo? …

    14-16. L’incontro con i farisei si risolve in un ulteriore diatriba. I farisei rappresentano la categoria di coloro che si interrogano sul fatto senza arrivare ad una conclusione univoca, perché condizionati dai loro pregiudizi, e da un atteggiamento di problematicismo cronico (che è in fin dei conti una difesa, una fuga dal doversi porre in modo responsabile di fronte alla realtà).

    I farisei non riescono, o meglio non vogliono, conciliare il fatto miracoloso indubitabile e il precetto sabbatico.

    Come fa Gesù a compiere miracoli trasgredendo i precetti di Dio? Impastare fango è azione espressamente proibita (delle 39 azioni proibite l’impastare fango sta al secondo posto!). Non vi è l’indicazione di Dt 13,1-5 che afferma che anche un operatore di prodigi non deve essere creduto se contraddice la legge, e perciò deve essere messo a morte?

    E’ meglio preferire l’uomo o il sabato? Per Gesù non esistono dubbi! Per i farisei sì!

    Gesù non osserva il sabato: l’uomo infatti non era in pericolo di vita e dunque Gesù poteva benissimo aspettare un altro giorno.

    E’ un problema che esige un porsi in gioco, uno sbilanciamento, un mettersi da una parte. Tra i farisei è una discussione accanita, si creano due schieramenti: “Quest’uomo non viene da Dio perché non osserva il sabato” dicono alcuni; “Come può un peccatore operare tali prodigi?” dicono altri.

    La loro “teologia” non riesce a conciliare il binomio miracolo-trasgressione del sabato.

    Si crea una spaccatura (schisma). Non si riesce ad uscire dal dilemma. Allora perché non far riferimento ancora al miracolato?

    17. E’ un profeta: L’uomo guarito non ha dubbi, l’evidenza dei fatti si impone: “E’ un profeta!”.

    Elia ed Eliseo non compirono forse gli stessi miracoli?

    Ha il coraggio di schierarsi, di apparire diverso dal pensare comune, cosa che gli costerà molto cara. Ma è questo coraggio che gli permetterà di incamminarsi verso l’incontro con la luce che è Cristo.

    Terza reazione: la vigliaccheria (vv. 18-23)

    v. 18: Non credettero… La strada giusta che è quella di prendere in considerazione il fatto per arrivare a Gesù viene così ulteriormente abbandonata. Ci si rifugia in quella ben più larga e comoda delle idee prefabbricate.

    I fatti, per i farisei, non contano! Gli avvenimenti non scalfiscono minimamente le loro convinzioni.

    L’autorità dei fatti non viene presa in considerazione: in quale misura i fatti interpellano la nostra vita, mettono in discussione le teorie? La rigidità dei pregiudizi, gli schemi mentali precostituiti sono un forte impedimento alla resa alla verità.

    Ora, la perplessità circa la persona di Gesù non trova sbocco, perciò non rimane che contestare i fatti, negare l’evidenza, i fatti.  Intestardirsi nelle proprie idee contro l’evidenza dei fatti, anzi, negarli per dare spazio ai pregiudizi, è atteggiamento che caratterizza i “vigliacchi”.

    Parte di questa vigliaccheria rientra anche nei genitori del miracolato, che qui rientrano come rappresentanti che credono in certo qual modo al miracolo, ma che non sono disposte a testimoniarlo per le reazioni negative che li possono colpire (è la controrisonanza della paura degli altri).

    v. 19. I genitori sono chiamati a rispondere a tre domande precise:

    Identificano il miracolato con il loro figlio?

    Garantiscono che è nato cieco?

    Come spiegano il cambiamento avvenuto?

    v. 20-21. Alle prime due rispondono senza difficoltà. Ma alla terza inizia l’incertezza, l’evasività: si tratta di sbilanciarsi! Fare il nome di Gesù significa compromettersi, essere messi al bando dalla sinagoga, segnati a dito. La risposta dunque non può che essere evasiva: “Come poi ci veda non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di se stesso!”

    Impossibile pensare che fossero all’oscuro di un miracolo avvenuto proprio al loro figlio. Le notizie corrono…. “il paese è piccolo e la gente mormora”. La loro dunque è solo una mossa strategica per non cacciarsi nei guai. Sono paralizzati dalla paura, non manifestano neppure la gioia per il figlio guarito! Non esprimono il minimo di gratitudine nei confronti di Gesù. Si trincerano dietro un riserbo che è colpevole silenzio.

    In loro sono personificati tutti coloro che rifiutano di prendere posizione quando bisogna pagare di persona, coloro che hanno paura d’essere diversi dagli altri, non allineati. Meglio l’affinità ipocrita, ma tranquilla, con tutti gli altri, piuttosto che una diversità scottante.

    Quarta reazione: la violenza e l’ingiuria come rifiuto della verità (vv. 23-34)

    v. 24. Ora i farisei si presentano senza maschera presentando un’ulteriore categoria: il rifiuto violento della verità, la negazione dell’evidenza.

    Lo fanno addirittura invocando l’espressione biblica di giuramento di chi esorta alla verità e alla sincerità. Vogliamo tirare Dio dove noi vogliamo, utilizzarlo ai nostri miseri scopi.

    I farisei ora pretendono dal miracolato una chiara e precisa confessione-dichiarazione che Gesù è un peccatore. Si nascondono dietro l’aulico “Noi sappiamo…”: l’autorità che vuole far sentire il suo peso sulla coscienza dell’uomo.

    E’ scomparsa l’incertezza e l’ambivalenza iniziale: la soluzione è trovata! Una soverchiante maggioranza impone al nostro miracolato l’allineamento: Gesù è un peccatore e non si discuta più!

    v. 25-27. Ma il fattore maggioritario qui non funziona. L’ex cieco non si lascia avviluppare dalla loro serie di fasulle argomentazioni. Egli si rifà costantemente ai fatti non alle interpretazioni.  Arriva a fare ironia quando si accorge della prevenzione che esiste dall’altra parte, prende atto della non volontà di ascolto e di dialogo.

    A questo punto le carte si scoprono, non è più possibile barare.. Il contrasto si fa acido e insostenibile. Da ambe le parti si fa verità di ciò che è nel cuore.

    Il rifiuto da parte dei farisei di prendere atto dei fatti e da questi rileggere tutta la tradizione porta alla cecità, alla schiavitù di principi umani. La legge a questo punto uccide!

    Bisogna difendersi dalla tentazione dell’orgoglio che mira a mettere al centro se stessi e non la verità e il bene. E’ indispensabile che si impari a porsi domande profonde, che sappiano spingerci al di là della superficialità e del conformismo dilagante.

    vv. 30-33. L’ex cieco espone le sue argomentazioni velate di amara ironia che egli detrae non da una teologia studiata a tavolino, ma da quella che scaturisce dalla vita, dal confronto con la realtà nella quale egli scorge la presenza di Dio. Da ciò che gli ha sperimentato concretamente nella sua vita. Nessun nato cieco è mai stato guarito al mondo.

    Egli pur non conoscendo ancora Gesù in profondità è disposto a pagare di persona il suo mettersi dalla parte della verità.

    v. 34. La reazione dei farisei è feroce. Ora il peccatore non è più solo Gesù ma è il  miracolato stesso. E’ una attribuzione della sua ex cecità al peccato in cui è nato, cosa smentita già all’inizio da Gesù stesso.

    Ormai le argomentazioni dei farisei sono contraddittorie e quando queste non bastano più eccoli passare all’insulto, al disprezzo, come ultima arma

    Vogliono far sentire tutto il loro peso derivante dalla loro collocazione culturale, sociale, religiosa: Tu… Noi…. Ma a ragion del vero questo corrisponde alla realtà dei fatti: tra loro esiste ormai un divario insanabile.

    Non esiste più possibilità di comunicazione, cosa che si radicalizza e si concretizza nell’espulsione dalla sinagoga. Scacciare l’intruso, colui che può mettere in dubbio le loro certezze è l’ultimo maldestro tentativo di difendere la “loro” verità.

    Ora il nostro Beniamino si ritrova più che mai solo. Ha perso ogni aggancio a livello sociale e religioso. Anche il rapporto con i genitori si è incrinato. Non è più legato alla sua fede, ma non è ancora cristiano. La situazione è tremendamente sospesa, inconclusa.

    Ha pagato per la verità ma questa verità non ha ancora un nome, un volto. Occorre un’ulteriore passo.

    Quinta reazione: La ricerca della verità ricompensata (vv 35-41)

    Il cieco guarito rappresenta la categoria di coloro che hanno il coraggio di mettersi dalla parte della verità anche a costo di pagare di persona, di essere segnati a dito, calunniati e allontanati.

    Beniamino è l’uomo che si pone in ascolto dei fatti e da essi trae la coerenza di porsi dalla parte della verità. Ma questa scelta l’ha posto nella solitudine, potrebbe far sua tante espressioni dei salmi in cui si racconta tale situazione e abbandono.

    L’episodio ci dice una grande verità a riguardo della vita: la fatica,la sofferenza che deriva dal tentativo di schierarci dalla parte della verità. Sempre la storia ci racconta della persecuzione di coloro che si sono posti dalla parte della verità.

    E’ Gesù che ricerca e incontra l’ex cieco. Non è un incontro casuale, fortuito. Il testo dice meglio: “trovatolo”. Da parte di Gesù c’è la precisa volontà di incontrarlo. Egli conosce la situazione in cui si trova a sa di dover far fare a Beniamino un altro e decisivo tratto di strada, ovvero a dare un nome alla verità per cui ha sofferto.

    Gesù intende dunque fargli un dono ancor più grande della guarigione fisica, vuole aprirlo alla fede in lui. Il miracolato ha percorso già un bel tratto di strada in questa direzione: la sua coscienza è ormai aperta ad accogliere la rivelazione. (egli è passato dall’affermazione di Gesù “uomo”, a “profeta”, a “da Dio”, a “Signore”).

    E’ stata una strada difficile e sofferta nella quale Beniamino si è dimostrato sempre più capace di accogliere la rivelazione.

    v. 35. “Tu credi nel figlio dell’uomo?”. Gesù rivolge all’uomo una domanda che cerca la disponibilità di andar oltre le apparenze, per scoprire in Gesù l’inviato di Dio. (Figlio dell’Uomo: titolo messianico che fa riferimento al ruolo di giudice escatologico del Messia. Qui Gesù opera un giudizio decisivo tra chi è nella luce e chi è nelle tenebre).

    v. 36 “E chi è?”. La disponibilità in Beniamino esiste,  pone una domanda molto pratica come è nel suo stile e che esprime il desiderio di camminare ancora verso la verità.

    v. 38 “Io credo Signore!”. All’autorivelazione di Gesù segue l’adesione piena e incondizionata dell’uomo: “Io credo, Signore!”. Un’adesione sottolineata anche attraverso la sua corporeità: la sua prostrazione è adorazione, riconoscimento. Siamo al vertice del racconto.

    Gesù porta luce ai non vedenti e l’accecamento per i vedenti. La Parola per coloro che credono di vedere diviene sorda e tenebrosa. Ma rimane aperto il suo invito all’ascolto, alla visione: Ascolta!

    A Beniamino quanto tempo sarà occorso per fare questo itinerario?

    A noi quanto ne occorrerà per compiere questo cammino catecumenale dalle tenebre alla luce, dalla menzogna alla verità? Ognuno avrà i suoi ritmi e le sue tappe.

    Quanto saremo disposti a pagare per rinascere alla luce della verità che è Cristo?

    Non saremo forse tentati da ripiegamenti, compromessi, tergiversazioni? Ma la Parola a cosa ci invita?

     

     

  • 25 Mag

     

    Marta e Maria: ovvero della frenesia
    Lc 10,38-42

     

    di p. Attilio Franco Fabris


    All’opposto della controrisonanza dell’indolenza sta la frenesia.

    Si tratta di un’agitazione continua, un correre affannati, un avere l’orologio sempre in mano perché sono tante le cose da fare… tante, troppe. “Mi manca il tempo”; “Ci sono così tante cose da fare”; “Sono troppo impegnato”…

    Il guaio è che tra queste cose “troppo importanti” spesso mancano quelle più importanti!

    Presi dal vortice della corsa autoimposta si vive alienati da sé, mai presenti a se stessi.

    Così la coscienza è dis-tratta: ovvero strappata in mille direzioni.

    La coscienza qui fugge se stessa, non si vuole fermare perché non si vuole ascoltare. Ha paura di farlo. Fermarsi significa infatti lasciare che le domande impegnative emergano, e con esse l’esigenza di una riposta che potrebbe mettere in discussione le scelte della nostra vita.

    E’ una controrisonanza che dice una coscienza incapace di ascolto di se stessa, degli altri, della realtà. Ascoltare significa fermarsi, porsi in clima di silenzio, lasciare spazio e tempo per sé e l’altro. Ma questo indispone, mi mette a disagio, esigerebbe da me sicuramente dei cambiamenti. Ecco allora il correre agitati, sempre ma correre per chi, per che cosa?…

    “Quando si parla di pienezza di vita, si intende una vita raccolta, perché non esiste il possesso di sé senza raccoglimento; ma questo è possibile solo da dentro, dove collochiamo, in senso figurato, il polo unificante di tutte le nostre attività. Il termine raccoglimento porta, nella sua radice, l’idea del “raccogliere qua e là e mettere insieme”… Dobbiamo ricercare la pienezza della nostra realizzazione non solo nel saper fare, ma anche nel saper essere, nel curare e affinare la qualità della nostra vita. Il primo suggerimento che mi permetto di dare è questo: impariamo a fermarci. Impariamo a controllare l’ansia, a fare le cose adagio, perbene, una dopo l’altra, non tre insieme…Fermarsi significa uscire dal ritmo frenetico cui la società ci costringe o ci condanna, questa società che sembra premiare solo chi va forte e arriva primo, e assumere un ritmo di vita più consono alla nostra natura… Fermarsi è il primo regalo che possiamo fare a noi stessi, perché significa portarsi su una dimensione diversa della vita, che non è quella di correre sempre, col cuore in gola, di non sapere mai che cosa fare prima perché tutto è urgente, di sentirsi sempre in ritardo su qualcosa, ma è quella d’un rapporto pacato e dialogante con sé, del contatto con la propria interiorità e del parteciparla agli altri, lasciandola semplicemente trasparire. Dover fare le cose in fretta non è una virtù, è un castigo e, in certi casi, malattia…. Una caratteristica della nostra epoca è proprio questa: non saper vivere nel presente, e meno ancora il presente, voler vivere sempre un giorno avanti a se stessi, cento metri oltre il luogo in cui ci si trova. Voler sempre essere là, non qua. Così non ci si incontra con se stessi perché il nostro io è qui, non là, né ci si concentra su ciò che si sta facendo, tanto meno se ne gustano i risultati. L’urgenza, parola mitica del nostro tempo, in evidenza su tutte le scrivanie, ci mette addosso un’agitazione che ci fa sentire vivi, ma in realtà ci svuota. Fino al giorno in cui ci si scopre aridi e, in un ssussulto di resipiscenza, ci si domanda: ma tutto questo che senso ha?” (G. Colombero, Cammino di guarigione interiore, San Paolo, pp. 56-60)

    * * *

    v. 38

    mentre camminavano… entrò: Gesù e i discepoli in cammino verso Gerusalemme. All’inizio si parla al plurale poi al singolare. Come mai? Forse per l’evangelista i discepoli non possono ancora entrare nel luogo in cui il Signore sancirà la fine di uno degli usi e costumi più consolidati in una società a forte impronta maschilista.

    Gesù dunque “entra in un villaggio”: dove villaggio sta ad indicare un luogo arretrato, tenacemente attaccato alle tradizioni, diffidente verso le novità viste con sospetto: “Si è sempre fatto così!”.

    una donna…:

    Il forestiero si fermava infatti sulla piazza del villaggio, posta all’inizio e lì attendeva che qualcuno lo invitasse nella propria casa.  Ospitare il forestiero nella cultura orientale era ed è un dovere tra i più importanti. Ma essere ospitato da una donna (e per giunta non sposata) era gesto quantomai sconveniente per quella stessa cultura. Da qui il gesto che così anticonformista di Marta. Toccava all’uomo fare gli onori di casa.

    Marta: il nome è già un programma. In lingua aramaica significa “padrona della casa”. In effetti la casa è “sua”.

    Perché Marta ospita questo “rabbì” in casa sua?

    Forse lo conosce già o ne ha sentito parlare. Il suo invito è totalmente gratuito? O si attende forse un ritorno di immagine nei confronti dei propri compaesani? Invitare un personaggio illustre è sempre motivo di vanto e di distinzione. Oppure….

    v. 39.

    Maria: è la sorella minore.

    Seduta ai piedi: o meglio “ stando ai piedi” in quanto nella casa palestinese non esitono sedie, ma solo stuoie dove tutti si adagiano.

    Ma quest’atteggiamento assunto da Maria ha una valenza specifica: è il gesto tipico del discepolo. La sua attività consiste nell’ascoltare il maestro. Anche questo un gesto anticonformista : alle donne era vietato interessarsi della Legge, ascoltare i rabbini, essere discepole. Questo è un diritto solo dell’uomo.

    Il posto della donna è la cucina tra i fornelli, proprio come sta facendo Marta la padrona di casa, tutta presa dalle tante cose da fare.

    ascoltava: si mette negli orecchi la Parola Maria in tutto l’episodio narrato tace: non si affanna ad affermarsi ad ogni costo pur di essere protagonista del momento. Maria è dimentica di sé, tutta intenta in colui che ascolta. Vive  la beatitudine del discepolo: vedere e ascoltare (v. 23s).

    v. 40

    Marta invece…: Essa si crede  la “regina della casa”, non accorgendosi di essere invece schiava della sua condizione, e vittima di un modo di pensare che le impone determinati ruoli e non altri, e in questi ruoli crede di trovare la sua realizzazione. Ella si crede “padrona” ma in realtà non lo è. E’ l’immagine perfetta di coloro che vivono sulle aspettative degli altri, e per questo attendono insaziabili approvazioni e complimenti (cfr. Pr 31,13.15.17-19.21-22.24).

    Così Marta è presa, agitata, divisa in se stessa da tutte le cose che “si devono fare”. Conosce il suo dovere! Sua sorella seduta, e lei tutta così indaffarata!

    Occorre ascoltare profondamente le sue risonanze.

    Si sente probabilmnte vittima incompresa “del dovere” (“Ecco che cosa mi tocca fare!”) , estromessa e quindi gelosa della sorella (“Guardali lì, come se la intendono! E io qui a faticare!”), indispettita del maestro che non la degna di una considerazione (“Neanche si accorgano di me, come se non esistessi! Possibile che Gesù non richiami quella pelandrona al suo dovere che è stare in cucina?”).

    Le “tante cose da fare”, che la costringono a correre di qua e di là affannosamente, divengono uno schermo che le impedisce di ascoltare se stessa, i suoi desideri profondi, le sue emozioni.

    In questa agitazione e frenesia Marta “perde se stessa”, ovvero è strappata in mille direzione che le impediscono di ritrovare se stessa. Questo non ascolto frenetico non può che avere se non una conclusione “logica”: scaricare sugli altri il suo disagio, perché la situazione è insostenibile.Scaricarlo razionalizzando il suo disagio.

    Fattasi sopra: visto che Gesù non interviene è allora Marta ad irrompere furibonda in salotto. Maria e Gesù sono seduti. Marta, in piedi incombe in atteggiamento di superiorità e di giudizio su loro due. Il rimprovero è a tutti e due.

    Signore non ti curi?: In queste parole riscontriamo una cosa importante. Marta ha un orizzonte molto limitato e tutto centrato su se stessa. Il mondo intero deve girare intorno a lei (mia sorella, mi abbia lasciata sola… mi aiuti).

    Intravvediamo che più che dell’aiuto di Maria, Marta è invidiosa dell’approvazione che il Signore dà alla sorella. Desidera che il Signore la rimproveri e così approvi lei, che sì sa cosa bisogna fare e fa ciò che sa! A Marta interessa l’approvazione implicita di quanto fa lei nella disapprovazione esplicita di sua sorella.

    La situazione di Marta è triste. Vive male. E’ come la situazione degli schiavi contenti di esserlo. Schiavi che non aspirano alla libertà, e addirittura spiano i tentativi di libertà degli altri allo scopo di ricacciarli nella schiavitù (cfr Gal 2,4).

    v. 41

    Marta, Marta: è un solerte e solenne richiamo.

    Ti affanni…ti agiti per molte cose: principio del servizio di Marta è il proprio io. Il suo voler essere al centro dell’attenzione, la sua pretesa di essere riconosciuta, che sia applaudito il suo sacrificarsi e affannarsi. Questo voler essere al centro le impedisce di trovare il centro, il punto focale e il cardine, su cui appoggiare il suo servizio e in fin dei conti la sua vita. Questo è frutto di un non ascolto!

    I suoi molti servizi nascono perciò non da una gratuità dettata dall’amore, ma da una sorgente inquinata e sono segnati perciò da turbamento e affanno. Si può arrivare fino a morire per l’altro per affermare il proprio io (cfr 22,33).

    v. 42

    di una sola cosa c’è bisogno: Maria ha compreso che il cardine su cui deve ruotare la vita, i molteplici servizi… è uno solo: l’ascolto della Parola. Qui Maria ha trovato la sua libertà. Se manca questo allora tutto diviene affanno e agitazione per la paura di perdere se stessi.

    L’uomo che non vuole “perdere se stesso” nell’Ascolto è inevitabile che cada nell’affanno e nell’agitazione illuso com’è di dover costruire da solo la propria vita e il proprio ruolo nel mondo.

    La parte buona:  è l’eredità (cfr Sal 16,5-6). E per il credente vera eredità è il Signore, la comunione con lui che scaturisce dall’ascolto. Una eredità che nulla potrà toglierci: “Marta, tu navighi, Maria è in porto” (sant’Agostino).

  • 24 Mag

    La parabola delle dieci fanciulle

    L’INDOLENZA, L’INERZIA DI QUIETE

    Mt 25,1-13


    di p. Attilio Franco Fabris


    Una telefonata da fare, un impegno da assumere, una visita da fare, un incontro a cui partecipare….

    “Vedremo… ora no. Ho altro da fare. Sono troppo stanco”. “Lo farò quando ne avrò voglia”. “in futuro forse, quando avrò tempo…”.

    Nella nostra vita si presentano tante situazioni, persone che ci interpellano e suscitano in noi risonanze in vista di passi per il futuro, ma…

    La coscienza fatica a mettersi in moto al presentarsi della risonanza.

    L’inerzia di quiete mette a tacere con mille giustificazioni (razionalizzazioni) la risonanza nella coscienza.

    La coscienza si perde di vista, disattende il momento presente.

    Questa controrisonanza è all’origine del conservatorismo perché il cambiamento scomoda.

    Perché?

    Perché generalmente la risonanza emergente disturba e indispone. Mi domanda di cambiare, di fare delle scelte, di andare incontro al nuovo. “Ma chi me lo fa fare?”.

    Quali le conseguenze?

    Tante possibilità di sviluppo ed espansione della nostra vita vengono mortificate dall’indolenza della coscienza. Tante  potenzialità vengono tristemente frustrate.

    La vita mi scorre accanto senza che io abbia il coraggio di buttarmicisi dentro, fino in fondo.

    Ci può aiutare nella riflessione un testo di Masters, tratto dall’antologia di “Spoon river”, è la lapide di Geroge Gray:

    Molte volte ho studiato
    la lapide che mi hanno scolpito: una barca con vele ammainate, in un porto.

    In realtà non è questa la mia destinazione, ma la mia vita.

    Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;

    il dolore bussò alla mia porta, io ebbi paura:

    l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.

    Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.

    Ma adesso so che bisogna alzare le vele

    e prendere i venti del destino

    dovunque spingano la barca,

    dare un senso alla vita può condurre a follia

    ma una vita senza senso è una tortura

    dell’inquietudine e del vano desiderio –

    è una barca che anela al mare

    eppure lo teme”.

    * * *

    La parabola è una metafora dell’esistenza umana, paragonata a un “uscire per andare incontro allo sposo”.

    Tutta la nostra vita è un’“uscita”: usciamo dal grembo di nostra madre, usciamo dal caldo clima della famiglia per avventurarci del mondo, usciamo ogni qual volta la vita ci chieda di prendere posizione dinanzi al nuovo e al futuro, usciamo dalla vita al termine di essa con la speranza di incontrare l’altra vita nascosta in Cristo. Non sappiamo il giorno e l’ora di questa uscita-incontro, ma sappiamo che ogni istante è un passo in più verso quel momento.

    La parabola non vuole spaventare ma invitare a prendere posizione sull’importanza del momento presente: è l’unico che ci è dato per vivere e acquistare l’olio necessario. Il mio futuro è determinato dal modo con cui vivo e opero nel mio presente.

    La parabola vuole evidenziare un modo sbagliato di vivere il tempo: quello di non cogliere l’opportunità del momento presente, di sprecare le occasioni. In effetti troppo spesso la vita è trascinata via dall’indolenza, dall’incoscienza, dall’ozio. Davanti alla vita, al tempo, che passa può nascere in noi una domanda: perché darmi da fare? Tanto a che serve?

    In quest’ottica possiamo già leggere la nostra storia quotidiana in termini di salvezza o di perdizione.

    Il disagio di partenza è dovuto alla fatica di farmi carico di me stesso. Tento di fuggire da questo mio compito o con l’apatia o con la superattività utilizzando la strategia che dice: “Non ho tempo!”.

    Alla fine mi ritrovo chiuso, fuori dalla festa nella quale incontrare me stesso, la vita, lo sposo.

    v. 1.

    Il regno di Dio: verso cui qui, sulla terra, noi ci incamminiamo giorno dopo giorno. Un cammino che può essere compiuto responsabilmente, nella vigilanza e nell’operosità, oppure trascinato nell’indolenza, trascurato, perdendo occasioni di crescita…

    Dieci vergini: il numero dieci indica la totalità, ovvero la comunità, la Chiesa. Ma esse possono rappresentare anche la nostra coscienza chiamata a relazionarsi con la realtà che ci circonda, con le situazioni della vita.

    Prese le loro fiaccole: non sono lampade ad olio che possono essere spente dal vento, né lanterne con la luce troppo fioca. Sono fiaccole luminose adatte al corteo. Nel nostro cammino nel mondo più la nostra fiaccola è luminosa meno temiamo di perderci nel buio. Quali potrebbero essere queste fiaccole poste nelle nostre mani?

    Uscirono: la vita è un’uscita, un “esodo” incessante. Uscire è sempre lacerante: implica un abbandono, una rottura con il passato conosciuto, per un futuro sconosciuto atteso nella speranza.

    Per l’incontro con lo sposo: è ciò che attendiamo, ciò che speriamo dalla vita… Cosa attendo nella mia vita? Quale attese sono riposte nel più profondo del cuore?

    Per il credente è il Signore stesso che vuole unirsi indissolubilmente a noi. Il fine della vita è incontrarlo.

    v. 2.

    Cinque sagge/cinque stolte: stoltezza e saggezza sono in pari percentuale. In noi si dibattono in egual misura. Quale crescerà a spese dell’altra?

    Una contrapposizione netta che ricorda la parabola dei due costruttori (Mt 7,24-27)..

    E’ saggezza fondare la propria esistenza sull’ascolto e sulla pratica, è stoltezza ascoltare e non fare.

    v. 3.

    Le stolte prese le loro fiaccole non presero olio. Non avere ciò che da’ luce. E’ la superficialità con cui si può vivere la vita. E’ vivere al momento (“carpe diem”), ma in modo irresponsabile. E’ lasciarsi vivere, senza assumere la propria responsabilità di fronte alla vita. E’ vivere senza progettualità, o con una scarsa progettualità troppo evanescente, piena di buone intenzione, ma incapace di porre delle scelte concrete in modo che essa sia fattibile.

    v. 4.

    Le sagge presero olio in vasetti. Ogni istante di tempo è come un “vasetto”: o pieno dell’olio dell’amore o vuoto, è il ripiegamento su noi stessi. La vita che ci è data è occasione per procurarci la riserva d’olio. Quest’olio è l’assunzione delle proprie responsabilità dinanzi alla vita, una responsabilità che non devo rimandare all’infinito, ma che sono chiamato a porre esattamente in questo momento, né prima né dopo. Ora sono chiamato a scegliere e a non lasciar sfuggire l’occasione, rimandandola al futuro.

    v. 5.

    Tardando lo sposo: Vi è il rischio che il tempo che passa affievolisca la tensione dell’attesa, che si dimentichi, che si tralasci. Che l’attenzione venga distolta ad altro. E’ necessario ogni giorno riconfermare la scelta fatta, rifarla in ogni istante perché non accada che ci si “dimentichi”, solo così è assicurato l’olio alla lampada.

    v. 6-7

    A metà della notte: ecco lo sposo… uscite: è il grido che ci sorprende inatteso e che ci fa riprendere coscienza, con gioia o con rammarico e disperazione, come realmente siamo e con ciò che realmente abbiamo.

    v. 8

    dateci del vostro olio: solo ora si accorgono di essere prive di olio, la luce si spegne: “quando mai non ci siamo date da fare per procurarcelo quand’era il tempo… Abbiamo rimandato… E ora che fare?”.

    Ma se l’olio è la mia decisione che ero chiamato a prendere e non ho preso, non lo posso domandare ad altri.

    v. 9-10.

    risposero: no: nessuno ci può dare il nostro olio. Il suo acquisto non può essere delegabile, fa appello unicamente alla mia responsabilità. E’ la nostra identità e responsabilità di fronte alla vita.

    La porta fu chiusa: la morte chiude la porta del tempo utile per acquisire l’olio. La partita è finita: il risultato dipende da ciò che si è fatto prima.

    Quanto è importante al fine di capire il valore del presente: è sempre l’unico tempo realmente disponibile in cui possiamo perdere o guadagnare la vita.

    C’è il pericolo di passare la vita a pensare e rimandare ciò che si dovrà fare, per poi rimpiangere ciò che non si è fatto. O di passare la vita a rimpiangere ciò che non si è fatto lasciandosi scappare il presente.

    v. 13:

    Vegliate dunque: E’ momento di svegliarsi, di convertirsi. E’ la caratteristica peculiare del credente di fronte alla vita. Sii vigile al fine di essere pronto, per non lasciar perdere l’occasione presente di far rifornimento di quell’olio che dopo non sai se potrai ritrovare.

     

  • 22 Mag

    La frode di Anania e Saffira
    Atti 5,1-11

     

    di p. Attilio Franco Fabris

    La gelosia di sé è’ la ricerca di un angolo della mia vita di cui non devo rendere conto a nessuno.

    Non voglio condividere i miei segreti, perché voglio essere io il padrone di me stesso: “Sono io che decido quanto, come, dove dare me stesso agli altri”. “Io sono mio: e basta!”. “Io mi metto in gioco tanto quanto io decido”. “Faccio entrare l’altro nella mia vita tanto quanto voglio”.

    “Ho già condiviso tutto e basta!” dove il tutto sono io che lo decido.

    Tale risonanza riguarda ovviamente e anzitutto i rapporti seri e vitali della nostra esistenza.

    Cosa distingue la gelosia di sé dalla “privacy”, o meglio al diritto alla riservatezza?

    Sicuramente la sua impermeabilità e la sua intransigenza.

    Da dove nasce questo desiderio? Esso nasce dalla paura di essere spossessati. Dal timore che l’altro possa sfruttarmi. Paura di lasciarmi invadere il territorio di cui io solo voglio essere il padrone. Ma questo territorio diventa presto un’isola in cui io mi condanno alla solitudine.

    Cosa ne scaturisce?

    Partendo dalla premessa che l’uomo è fatto per la comunione e che la comunione esige la condivisione. Allora più condivido e più vivrò la comunione, più mi sentirò la mia coscienza respirare ed espandersi.

    Se invece vivo questa controrisonanza nella mia vita allora l’evoluzione della mia coscienza si ferma, non evolve.

    Intere regioni della mia coscienza rimangono inesplorate perché non condivise. La coscienza si atrofizza in vasti settori.

    Affermare il principio della gelosia di sé è una perdita secca per la coscienza. Nego al mio io più profondo la crescita dell’interazione, mi ritrovo in un isolamento mortale.

    Quello che chiamo la mia ricchezza diviene la mia più grande povertà. Se impedisco all’altro di entrare, non mi permetto di entrare in relazione con il mio io più vero e più profondo, e dunque mi impedisco di conoscermi sempre più.

    L’interazione che avviene nell’incontro e nel dialogo è negata.

    Non bisogna mai affermare il principio della gelosia di sé ma occorre al contrario aprirsi progressivamente alla relazione nello scambio delle nostre risonanze. E’ questo l’ambito vitale in cui la coscienza respira, evolve, matura, impara a conoscersi.

    Nei vv. 32-35 del capitolo quarto degli atti Luca descrive la condivisione dei beni della comunità di Gerusalemme: “La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”.

    Tale condivisione è vera ed è frutto solo dell’accoglienza della buona Notizia, dell’ascolto della Parola. Altri fondamenti si rivelano molto fragili ed inconsistenti.

    Così ai vv. 36-37 viene portato l’esempio di Barnaba: “Così Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba, che significa «figlio dell’esortazione», un levita originario di Cipro, che era padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l’importo deponendolo ai piedi degli apostoli”.

    A questi due quadri così edificanti ed esemplari l’autore accosta immediatamente la tragica vicenda  di Anania e Saffira. Tale vicenda viene ad offuscare il quadro così positivo sinora descritto dagli Atti.

    Il loro peccato è presentato come il “peccato originale” nella nuova comunità. Drammaticamente esso pone il problema della sussistenza del male anche all’interno della comunità dei discepoli di Gesù: questa non può ritenersi al riparo dal peccato. Nel gesto di Anania che introduce la menzogna e la bramosia del denaro dentro la comunità dei discepoli, quasi fosse il peccato originale della comunità, è all’opera la potenza menzognera si satana stesso.

    E’ significativo che il peccato per cui ci si esclude dalla comunità dei discepoli prenda il volto della menzogna e della bramosia di denaro. Due vie privilegiate per fare alleanza con il padre della menzogna e il divisore.

    Dunque una “buona notizia” che inizia con due morti?!

    E’ una storia che mozza il fiato.

    Chi sono i protagonisti?

    Sono due sposi. Da quel che appare se l’intendono bene e viaggiano di comun accordo.

    Forse senza figli.

    Sono in uno stadio avanzato nel loro itinerario di fede: sono giunti alla proposta della sequela radicale del Signore rivolta al giovane ricco: “Vendi tutto, da’ il ricavato ai poveri, poi vieni e seguimi”, dunque quasi al culmine del cammino di fede (=la proposta dei consigli evangelici).

    vv. 1-2. L’introduzione descrive il raggiro perpetrato dai due coniugi nei riguardi della comunità, al fine di presentare una bella figura senza perdere il vantaggio della proprietà. Si tratta di un atteggiamento ipocrita.

    Che cosa ha agito nella coscienza dei due per giungere a tale decisione? Come ci sono arrivati? Che giustificazioni avranno portato per razionalizzare la loro scelta? (“Chi mi dice che anche gli altri e lo stesso Barnaba non abbiamo agito come vogliamo fare noi?”). (drammatizzazione).

    La condivisione del denaro che doveva essere segno di fraternità, condivisione, comunione diventa occasione invece per essere gesto di prestigio, cioè fonte di divisioni fondate sulla menzogna.

    Perché accade ciò? Perché essi condividono con la comunità solo un’immagine costruita di sé stessi, che porta a desiderare di corrispondere a determinati parametri che in realtà sono ancor ben lontani dal vissuto reale della propria coscienza (illudersi di fare i passi più lunghi della gamba; volermi far vedere più bravo di quel che veramente sono).

    Vi è sicuramente spirito di competizione e di rivalità nel loro atteggiamento: farsi vedere esemplari, ligi e coerenti ma solo esteriormente.

    Grave scelta questa perché la fede e la comunità vengono strumentalizzate in vista della loro autorealizzazione. Si giunge a vivere in uno stato di menzogna più o meno cosciente.

    La strategia che Anania e Saffira mettono in atto è quella del finto-abbandono, e questo è frutto di un mancato e serio ascolto della Parola.

    E’ una vita impostata in un circolo vizioso di cui rimango io stesso vittima, un circolo vizioso che mi porta a non condividere realmente la vita, a giocare tenendo per me dei segreti: l’obiettivo: essere l’unico padrone della mia vita.

    vv. 3-4... Forse prima di vendere la proprietà Anania aveva formalmente e solennemente destinato il ricavato alla comunità (Dt 23,22-24).

    Ma Pietro di fronte al gesto di Anania risponde mettendolo in guardia contro tale falsità. Egli scopre l’inganno di Anania come il profeta Eliseo lo scoprì nei confronti del suo servo Giezi (4Re 5,26) ricevendone adeguata punizione. In chiari termini Pietro ammonisce: “Ti sei trattenuto parte del denaro”: un’espressione che troviamo solo altre due volte nell’AT in relazione alla colpa commessa dal popolo dopo  dopo la morte di Mosé quando giunse alla terra promessa (Gs 7,1ss).

    Il responsabile della comunità in questo momento sta compiendo un importante servizio della Parola: nella vicenda di Anania e Saffira, Pietro ha il coraggio di compiere tale servizio fino in fondo, ben sapendo che la Parola è spada a doppio taglio che può ferire ed anche uccidere (cfr Ebr 4,12-13). Lo fa certamente con timore e tremore perché sa bene che chi annuncia la Parola è anch’egli sottoposto allo stesso suo giudizio.

    Ci domandiamo: oggi nelle nostre comunità sappiamo porgere al fratello il servizio della Parola, anche quando può ferire? Oppure “pro bono pacis” si fa finta di niente. Ma in questo modo tradiamo il servizio al quale il Signore ci chiama. E se non lo facciamo non sarà forse perché tutti noi siamo un po’ come Anania e Saffira con i nostri “gruzzoletti” nascosti da difendere? Ma in questo modo non si fa servizio alla verità della Parola e le nostre paure fanno da signore sulla nostra vita.

    v. 5. Al termine del discorso di Pietro troviamo solo la confusione, l’indurimento del cuore, il silenzio di Anania. Egli non risponde nulla alle sue domande.

    Si tratta di un vero e proprio indurimento nei confronti della Parola, pur tanto ascoltata.

    In verità il peccato dei due coniugi non si risolve solo in un po’ di vanità e di menzogna, ma in un affronto e attentato contro la santità e l’integrità della fede in Cristo e della vita della comunità. La menzogna è nei confronti di Dio e della sua famiglia (5,4).

    Anania (e Saffira) vuole rimanere l’unica autorità della sua vita, senza doverne rendere conto ad alcuno. E’ geloso di sé, e non permette a Dio né tantomeno alla comunità di aver a che fare con la sua vita. E questo atteggiamento di Anania esprime il suo effettivo isolamento, logica conseguenza della sua scelta.[1] L’isolamento è in fin dei conti la sua morte, il tagliasi fuori dalla logica vita della condivisione. Anania crolla ai piedi dell’apostolo spirando.

    Il giudizio di Dio non può non essere drastico e improvviso, e Pietro, con tremore, ne è testimone e interprete autorevole.

    Nella comunità si fa largo un senso di paura e di timore di fronte a questo tragico fatto.

    * I cristiani lì presenti  prendono consapevolezza che nella comunità è presente ed agisce lo Spirito del Signore.

    * La comunità comprende che la Parola di Dio è in grado di discernere la comunione vera da quella inficiata dalla  paura di perdere e dalle  controrisonanze.

    * La comunità si sarà domandata: “Che ne è della garanzie offerte dalla spontaneità nel vivere la carità?”. Troppo fragili nei loro progetti e nelle loro buone intenzioni, gli uomini hanno anche bisogno che in mezzo a loro gli Apostoli siano i segni della potenza di Dio che viene in aiuto alla loro debolezza..

    vv. 7-10 Saffira assume il medesimo atteggiamento/peccato del marito. E dunque anche la conclusione è identica. La Parola agisce immancabilmente con il suo giudizio.

    La vita vissuta nella logica della paura di perdere e nella menzogna è contagiosa.


    [1] La regola di Qumram prescriveva nei suoi ordinamenti: “Se tra loro si trova un uomo che mente a proposito dei beni, ed egli ne è conscio, lo escluderanno di mezzo alla purificazione dei molti per un anno (=esclusione dai riti quotidiani di purificazione, il che significa portare con sé l’impurità) e sarà privato di un quarto del suo pane” (1QS VI,24-25).

     

  • 21 Mag

    GIOVANNI BATTISTA: SI’ ANCHE PIU’ DI UN PROFETA
    Matteo: 11,7-11

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

    7 Mentre questi se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? 8 Che cosa dunque siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re! 9 E allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta. 10 Egli è colui, del quale sta scritto: Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te”. 11 In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui.

    Se da lato la sequela esige uno stile di vita contemplativo, dall’altro essa richiede lo stile deciso e sicuro della coerenza morale di cui Giovanni Battista può essere benissimo l’emblema.

    Perché si attui la testimonianza autentica, la sequela ha bisogno di una duplice esperienza:

    1.l’ascolto

    2.la conversione (la tensione ad una conformazione sempre più piena alla parola ascoltata).

    Per Giovanni l’incontro con Gesù è avvenuto prima ancora di poterne comprendere tutta la portata. C’è un sussulto, un sobbalzo di gioia: non c’è né cecità, né lacrime, né sguardi, né parole. C’è una sintonia, una immedesimazione, un’adesione viscerale, una intuizione…

    Per Giovanni si viene a creare un incredibile senso di appartenenza: egli viene al mondo per il Messia. La sua esistenza è tesa a  Colui che deve venire. La sua consapevolezza vocazionale avvolge la sua vita sin dall’inizio. Egli inizia la sua missione fin dal seno materno.

    Egli vivrà di quest’attesa nostalgica fino al momento del battesimo di Gesù al Giordano. Allora tutto sarà compiuto per lui: la sua vita ha svolto la sua missione. Giovanni vive per quell’ora, in cui egli potrà dire al mondo: Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che deve venire.

    Gesù dirà di Giovanni che “tra i nati da donna non è sorto uno più grande di Giovanni Battista”: egli ha adempiuto e riassunto in sé tutta l’attesa per l’incontro con il Messia.

    Diviene testimone di Cristo e prepara il suo incontro con l’umanità quando il suo primo incontro con lui assume la dimensione di una scelta di vita e di una scelta per tutta la vita. Giovanni si lascia toccare da lui, abbracciare, decisamente e definitivamente.

    Allora ogni legame gli diventa pesante. Gli basta miele selvatico e una povera tunica di pelle. Ormai ha colto altrove il significato della mia vita… Questo incontro lo ha reso estremamente libero… Può dire senza timore la verità, senza paura di perdere niente…

    E’ costituito profeta poiché la sua vita fa riferimento, dipende costantemente da Dio, e lui vivo per Lui…. Vive le attese di Dio e le annuncia….

    Per questo Giovanni è grande.

    CONFRONTANDOMI

    Gesù mi addita Giovanni come modello di coerenza. Egli diviene per me un modello straordinario di coerenza alla propria vocazione di discepolo del Signore.

    L’incontro con Gesù, se è vero, fa di me un profeta. La sequela di Cristo diventa così proposta di libertà “da” e di libertà “per”.

    Libertà da tutto quanto non serve alla mia sequela. Libertà da ciò che può apparire ricchezza. Libertà dalla mia carne. Dalla mia preoccupazione di riuscire e di essere al centro. Libertà dal protagonismo…

    Libertà per un’appartenenza a Cristo sempre più profonda, perché dal mio essere di Cristo fiorisca in me una nuova vita di salvato e di mandato a salvare… Libero di diventare un dono e un sacrificio…

    La verifica della mia crescita spirituale sta proprio nella misura della mia appartenenza e testimonianza… se mi viene spontaneo, naturale, ricordare agli uomini la bellezza e la verità del progetto di Dio su di noi… Se trovo naturale additare Gesù come esperienza umana pienamente realizzata… se le opere scaturiscono ovviamente dal mio ascolto e conversione…

    In una parola: se la mia vita diventa progressivamente trasparenza di Cristo. “Lui deve crescere, io diminuire”.

    DI CONSEGUENZA

    Due conseguenze importanti:

    1. una vita nella coerenza

    2. una vita a servizio della parola.

    Quali le correzioni di rotta da operare?

    Quale il mio rapporto con le cose, con gli altri?

    Quali aspetti faticano in me a diventare operativi nella traduzione morale della sequela di Gesù?

    Come sto vivendo il servizio della Parola?

    Come realizzo la mia testimonianza?

    A mio parere posso dire che vedendo me gli altri siano facilitati a vedere la presenza vitale di Cristo che agisce in me?

  • 20 Mag

    MARIA DI BETANIA: SEDUTA AI PIEDI DI GESÙ
    Luca: 10, 38-42


    a cura di p. Attilio Franco Fabris


    38 Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. 39 Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; 40 Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». 41 Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, 42 ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta».

    Questa volta ai piedi di Gesù c’è un’altra donna, ma senza lacrime né profumo… Anche la casa è diversa. Gesù lì vi è accolto come ospite e amico graditissimo, circondato di ogni affetto e attenzione. 

    E’ Marta che fa gli onori di casa verso Lui e i suoi discepoli; la sorella, Maria, si accomoda con calma, con cura ai suoi piedi. Il suoi occhi sono rivolti a Gesù, non sono rivolti a terra pieni di lacrime: il suo sguardo è aperto, attento, gioioso.

    A Maria è sufficiente stare ai piedi del suo Maestro: Guarda il suo Gesù e lo ama. Pende dalle sue labbra: non si lascia sfuggire una sola parola. Per lei non c’è nulla di meglio da fare!

    Non c’è nulla e nessuno che si frappone tra lei e Gesù… 

    All’improvviso la voce di sua sorella: certamente amata e rispettata. Marta sta svolgendo un servizio: ha scelto un altro modo di amare Gesù. E Gesù non l’ha disprezzata. Un giorno risponderà alle parole di Marta con la resurrezione di Lazzaro.

    Certamente Gesù ama anche Marta e il suo modo di prendersi cura di lui, della sua attenzione alla sua umanità di Redentore. 

    Maria è bruscamente distratta e richiamata da parole umane, certo vere e sincere: “Dille che mi aiuti”. 

    La situazione è delicata. Non bisogna disorientare Marta: non bisogna dirle che sta sbagliando. Non è vero! Ma il primo servizio è quello di Maria: un servizio che sta facendo anche alla sorella indaffarata: ella porta in quella casa la capacità intensa straordinaria e  gioiosa di incontro e ascolto della Parola di Vita. 

    “Marta, Marta…”: è un’espressione dolce, detta col sorriso, da parte di Gesù… Una parola che ne significava cento altre. “Non devi agitarti per le cose, tra le cose, non devi perdere te stessa… Quello che sta facendo Maria è il primo dono che porta nella tua casa… Ella apre la porta all’ascolto, alla luce, alla Parola…

    “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori… 

    La disponibilità al servizio nella tua casa non può prescindere dall’essere innanzitutto comunione con Gesù, nel lasciarti amare: Maria ha scelto la parte migliore e non sarà Gesù a togliergliela. 

    Però, ora Maria: aiuta Marta!.. Va beh! Se lo dici tu…   

    CONFRONTANDOMI

      La sequela di Gesù è innanzitutto una vita di ascolto e di preghiera.

    Seguimi!  Dove, come, quando? Anzitutto mettendoti ai piedi di Gesù maestro. Ascoltando desideroso la sua parola, cosa ha da dirti. E’ da Gesù che ricevi via, verità e vita per la tua sequela. 

    Gesù non mi sta chiedendo se non di lasciarmi amare da lui. 

    Allora che cos’è la preghiera: quale posto deve avere nella mia vita? La tua preghiera è il tuo tempo dato a Dio, necessario a Dio per farmi suo.

    Una preghiera fatta anzitutto di silenzio e di ascolto. Creando uno spazio vuoto dentro di me affinché la sua parola possa risuonare in me liberamente. 

    Ciò richiede impegno, esercizio, perseveranza e non certo improvvisazione. 

    Nessuno forse mi ha insegnato il silenzio. Tanti mi hanno insegnato solo parole e parole… Devo far mia l’arte di saper ascoltare, accogliere, comprendere. Forse nella stessa comunità cristiani ci si educa al “dire”, al “fare”, al “sentire”, al “pensare”… 

    Che dire poi di quel frastuono e continuo rumore che caratterizza questa nostra cultura, questo tempo, il mio tempo, la mia vita quotidiana. Forse ho paura del silenzio… 

    Si tratta di vivere la vocazione alla sequela del Signore con uno stile contemplativo. lo stile di Maria di Betania. 

    Il mio pregare deve divenire traduzione del mio voler essere del Signore, del voler essere “nelle cose del Padre”. Nessuno mi dovrà distrarre. 

    Certo si tratterà di dare una mano anche a Marta: ma quando sarà Gesù a chiedermelo.       

    DI CONSEGUENZA

      La mia vita ha come scopo il divenire esclusiva proprietà di Dio. 

    1.Analizzo il mio ritmo e stile di preghiera: quali gli aspetti positivi e negativi?

    E’ momento privilegiato di ascolto?

    – a cosa mi sento invitato?

    * cosa devo lasciare o modificare

    * cosa devo invece privilegiare o scegliere 

    2.Faccio sì che la mia comunità sia anzitutto una comunità di ascolto e preghiera.

    Come? 

    3.Quale il ruolo dell’eucaristia? Diviene momento privilegiato di incontro con il Signore?

    momento di ascolto e risposta

    momento di intensa comunione tra me e il Signore

    spinta alla carità concreta?

  • 18 Mag

    LA PECCATRICE: LACRIME E PROFUMO…
    Luca: 7,36-50


    a cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    36 Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. 37 Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; 38 e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato.39 A quella vista il fariseo che l’aveva invitato pensò tra sé. «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice». 40 Gesù allora gli disse: «Simone, ho una cosa da dirti». Ed egli: «Maestro, dì pure». 41 «Un creditore aveva due debitori: l’uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. 42 Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?». 43 Simone rispose: «Suppongo quello a cui ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». 44 E volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. 45 Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. 46 Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. 47 Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco». 48 Poi disse a lei: «Ti sono perdonati i tuoi peccati». 49 Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?». 50 Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».

    Questo incontro ha come protagonista una donna: una peccatrice. Ci viene presentata con dettagli caratteristici: lacrime, capelli, baci, profumi…

    Gesù sa e conosce, accoglie. Non si sente a disagio.

    Colpisce quel pianto, quelle lacrime. Si tratta di un’esperienza caratteristica ed importante disseminata in tutto il vangelo: il pianto amaro di Pietro la notte della passione, il pianto della vedova che vede morire il suo unico figlio, il pianto di Gesù su Gerusalemme, il pianto di Marta e il pianto di Gesù davanti alla tomba di Lazzaro…

    Nel discorso della montagna Gesù annunzia: Beati coloro che piangono… s. Paolo esorta i cristiani: Piangete con quelli che sono nel pianto…

    Quando si parla di pianto si parla di quel mondo misterioso che sono le nostre emozioni più profonde. Anche la gioia più profonda si esprime nel pianto! Il pianto sgorga da una forte provocazione esterna che scuote, modifica, provoca profondamente.

    E’ Gesù che provoca le lacrime di quella peccatrice. Ciò che era dalla donna vissuto “senza pianto” ora diventa una dolorosa coscienza di peccato. La sua abitudine a vivere una vita dissoluta, al di sotto delle possibilità offerte dall’amore ora è scossa e provocata… alla donna si apre improvvisamente la possibilità di un nuovo modo di vivere…

    Le sue lacrime esprimono, senza vergogna, la sua riconoscenza verso Gesù. Per la sua parola che gli ha aperto nuove prospettive di vita.

    E’ Gesù che rivela la donna a se stessa. Le lacrime parlano di una resa, di una presa di coscienza. La donna ora può vedere realmente la strada imboccata dalla sua vita.

    Gesù ha colto in lei un travaglio più profondo di quanto essa stessa potesse sospettare.

    Ella è ai piedi di Gesù. Si sente compresa e perdonata. Ella è finalmente “beata”… testimonia la gioia delle beatitudini. E’ il pianto che si apre alla speranza. La certezza che domani non sarà lo stesso giorno di ieri. Tra quel passato e un futuro nuovo  ci sono quei piedi. Piedi del Verbo venuto incontro all’umanità per portare una parola di salvezza. “Come sono belli i piedi di chi reca buoni annunzi… piedi  che annunziano la pace…” (Is).

    Ben diverso l’atteggiamento duro, incapace di cogliere il mistero del profondo sentimento della donna, del fariseo Simone. La sua mente è attraversata da pensieri maligni e verso Gesù e verso la donna. Egli è scandalizzato dalla misericordia di Gesù.

    Gesù ripercorre ogni gesto della donna interpretandolo nella sua profondità: sono gesti che rivelano un grande amore.

    La donna ha amato e ama la vita. La sua dignità. Non ha mai smesso di amare anche quando si è consegnata a storie senza amore… ora ha trovato finalmente un perché, una ragione, un futuro al suo bisogno di amore e di vita…

    Dal suo passato porta sì ancora quei lunghi capelli, quella bocca e quel profumo che faceva parte del mestiere… Ma ora  che quelle lacrime hanno inaugurato. Mette tutta se stessa e ciò che ha in un servizio nuovo.

    Su di sé sente quelle parola di liberazione e di pace. Parola che troncano un passato: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”. Gli si apre una storia nuova.

    CONFRONTANDOMI

    Il pianto rivela la nostra vulnerabilità di fronte a ciò che avviene fuori di noi e in noi.

    Il pianto di questa donna dice il suo essere “segnata” dall’amore… la donna che è accoglienza, dono, attenzione piange spesso perché è più disposta a lasciarsi coinvolgere da ciò che accade nella vita.

    Ma il pianto può essere anche sterile. Segno di impotenza, scoraggiamento ripiegamento non appartenente all’ordine dell’amore. Il pianto, quello vero, scaturisce sempre dall’amore.

    Questa donna desidera incontrare Gesù, e trova in Gesù colui che la accoglie. Ella può finalmente apparire quella che è, senza vergogna o rispetto umano: il suo pianto è dolce e amaro nello stesso tempo.

    L’incontro con Gesù mi costringe a misurarmi con la sua verità perché io possa misurarmi con la mia e possa così fermarmi, valutare, discernere…

    Mi costringe a domandarmi quale vita e quale amore sta nascendo dalla mia fede… quale coerenza nella mia sequela…

    Se Gesù è di casa nella mia casa e io divento familiare del suo cammino vengo invitato ad imparare l’arte della verifica: egli mi offre continuamente l’occasione per crescere umanamente e spiritualmente.

    Dovrei imparare a accostarmi con grande umiltà a quei suoi piedi trafitti dai chiodi del mio peccato e del suo amore, a versare abbondanti lacrime capaci di scavare quel vuoto in me capace di essere riempito dalla presenza della grazia.

    So che Gesù considera un dono le mie lacrime perché esse sono frutto di una nuova consapevolezza circa la mia storia fatta così spesso di inadeguatezza, incoerenza, frammentarietà…

    Questo dai miei occhi sgorgano lacrime significa che sto cominciando ad amare.

    DI CONSEGUENZA

    * Il sacramento della riconciliazione-penitenza:  è appuntamento prezioso e gioioso di incontro con Gesù.

    Esso mi dona una certezza basilare: Gesù è in comunione con me, sta dalla mia parte. Egli continuamente mi prende per mano quando mi fermo, devio o mi volto indietro…

    E’ il momento in cui scopro l’amore fedele di Dio capace di aprirmi dinanzi sempre nuovi orizzonti.

  • 17 Mag

    NICODEMO: ovvero la fatica del dialogo
    Giovanni: 3,1-21


    a cura di p. Attilio Franco Fabris


    L’incontro con Nicodemo ha molti  aspetti che ricordano l’incontro con il giovane ricco.

    Anche qui l’iniziativa parte da Nicodemo desideroso di interrogare Gesù, per capire, comprendere di più.

    Nicodemo è un fariseo, uno dei capi, uno stretto osservante della Legge. Probabilmente un membro del sinedrio. Dunque un “maestro d’Israele”. Egli è colpito non tanto dall’insegnamento di Gesù, quanto dai “segni” che gli compie che lo spingono a porsi degli interrogativi su Gesù, che lo discostano dalla linea ufficiale adottata da quella del suo partito fatta di rifiuto e di ostruzionismo. Come tutti gli altri è sicuramente condizionato da una concezione terrena e politica del Messia.

    Egli va da Gesù di notte. Un particolare che rivela molto dell’atteggiamento, del carattere e delle preoccupazioni di Nicodemo.

    Noi sappiamo come Giovanni usa molto la simbologia del contrasto: luce-tenebre, giorno-notte, spirito-carne… per sottolineare alcuni elementi non solo psicologici ma anche spirituali. Ad es. Giuda quando decide di tradire di Gesù esce dal cenacolo: “Ed era notte”. Anche nel prologo al suo vangelo troviamo espressamente la lotta tra le tenebre e la luce che è da esse rifiutata. Vi potrebbe essere tuttavia un rimando al fatto che la notte era considerata dai rabbini il tempo più opportuno per dedicarsi allo studio della Thoràh.

    In fin dei conti si vuole dire che Nicodemo non ha fatto ancora nessuna scelta. Non si è posto dinanzi ad un’alternativa. Egli vuole anzitutto capire.  Vuole vedere se è possibile conciliare un dialogo con Gesù pur non compromettendosi e sblilanciandosi pubblicamente. Non si mai…: “Rabbi, sappiamo che…”.  ben diverso fu l’atteggiamento di Zaccheo.

    Nicodemo è ancora troppo preoccupato di sé, è soprattutto attento alle sue domande: vuole avere prima delle certezze. Si avvicina sì, ma di notte…

    In un certo senso Gesù lo aggredisce. Gesù comprende che il dialogo con Nicodemo è possibile solo nella misura in cui egli  si lascerà scalfire le sue certezze teologiche. Ancora una volta Gesù non rifiuta un incontro ambiguo: è venuto per tutti perché tutti siano salvi.

    Usa gli stessi strumenti di Nicodemo: lo invita a guardare, a vedere: se non riesce a vedere in quello che dice e fa la “diversità” con quella ha visto e sentito dai profeti che lo hanno preceduto non c’è niente da fare. Occorre rinascere: questa è la condizione per entrare nel Regno che egli sta aspettando. E questa nuova nascita avviene solo nella fede in lui: “chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio” (1 Gv 5,1).

    Gesù vuole aprirgli lo sguardo su una realtà nuova, a lui che è immerso talmente nei problemi teologici da divenire incapace di scoprire il regno nella vita che gli sta intorno. La vita non si identifica con l’osservanza delle leggi, che per l’ebreo potevano rigenerare l’uomo, ma con la Sapienza divina che scruta in profondità la “verità” di ogni cosa. Occorre lo Spirito che è vita e che apre a risposte nuove, sconosciute, imprevedibili: la pienezza consiste nel vivere non solo come Dio vuole ma nel vivere la stessa vita di Dio.

    Nicodemo viene strappato alle sue sicurezze farisaiche per essere rimandato all’esperienza dell’Esodo: la rinascita nello Spirito scaturisce dal costato di Cristo innalzato sulla croce. Gesù gli domanda di lasciare le tenebre e di “venire alla luce” (v 21).

    Ma il dialogo non decolla: “Come può accadere ciò?”.  Che risonanza avranno avuto in lui le parole di Gesù?

    Ritroveremo Nicodemo al momento della sepoltura di Gesù, accanto a Giuseppe d’Arimatea. Lo immaginiamo turbato, ancora perplesso. Non riesce a fare il passo: non sarà né discepolo né apostolo.

    Gesù non ha insistito. Ha rispettato, con il pianto nel cuore, la sua libertà.

    Nicodemo è tornato a cercare, lui “maestro”, altrove: probabilmente ancora nelle leggi che sono precetti di uomini.

    CONFRONTANDOMI

    Sono messo dinanzi ad una verità: la realizzazione della mia vita non dipende anzitutto dai miei sforzi ma dalla mia docilità all’asacolto della Parola viva che mi trasforma.

    Si tratta di fare lo sforzo per rendersi disponibili all’azione rigenerante dello Spirito di Gesù.

    Gesù mi sta chiedendo, e in un certo senso costringendo, ad andare con la mia fede ad una profondità ancora più grande, che va al di là delle mie possibilità. A non accontentarmi del già visto, sentito, vissuto: egli mi vuole aprire alla novità: “Ecco io faccio nuove tutte le cose”. E’ la vita stessa che nel suo evolversi mi chiede questa docilità e apertura in avanti: in fin dei conti essa si spiega solo con una chiamata; e solo in una mia risposta di adesione totale essa può svolgersi, svilupparsi in tutta la sua pienezza. Io sarò quello che Dio mi farà se mi lascerò fare da lui. E solo così vivrò al massimo tutte le mie potenzialità e possibilità: ciò significa accogliere l’invito a “rinascere” continuamente e nuovamente e dall’alto.

    In altre parole si tratta di percorrere una strada che mi consenta di piegare me stesso, tutto ciò che in me di intelligenza, affettività, volontà, si oppone alla novità di Dio.

    Se avviene ciò si apre dinanzi a me una spazio straordinario: l’apertura alla verità di Dio e alla sua vita che riempie di senso e mi apre al dono.

    Come non pregare il salmo 138: Signore tu mi scruti e mi conosci…”?.

    L’episodio di Nicodemo mi fa comprendere come sia solo Dio colui che fa rinascere e crescere con il dono dello Spirito donatomi dal Figlio.

    DI CONSEGUENZA

    Mi pongo dinanzi allo Spirito che mi abita e nel quale sono stato rigenerato. Lo Spirito di vita che mi apre alla sorgente del vero, del buono e del bello.

    1.       Essere docili alla sua azione: lasciare che il vasaio crei un’opera d’arte dalla creta con le sue mani: cosa comporta questa docilità, dove si concretizza?

    2:       Lo Spirito è novità di vita: guardo al mio vissuto. Posso dire di essere aperto a questa novità. Capace di accogliere ciò che mi viene offerto come dono di Dio per la mia crescita anche se questo comporta un distacco e un cambiamento.

    3.       Prendere coscienza del dono dello Spirito fattomi nel battesimo, nella confermazione, (nell’ordinazione). Come ricomprendere la mia iniziazione cristiana?

    Quali strumenti utilizzare per giungere a questo scopo?

    4.       Vivere un’etica battesimale: cosa comporta? Provo a dare una definizione e una serie di caratteristiche in ordine di importanza.

  • 16 Mag

    Un Dio per disperare?
    Geremia 15,10-21


    di p. Attilio Franco Fabris

     

    I versetti citati vengono per lo più spostati cronologicamente al tempo di Ioiakim (608-598) perché proprio sotto questo re Geremia ebbe molto da soffrire.  Ma quella datazione è tutt’altro che sicura; il brano potrebbe stare altrettanto bene al tempo di Sedecia (597-586).

    I vv. 13 e 14 sono stati inseriti in questa pagina più tardi.

    Il contenuto è un confronto personale tra Geremia messo alla prova e il suo Dio.

    Dal punto di vista terminologico, la presente Confessio è imparentata con le lamentazioni veterotestamentarie.

    La caratteristica linguistica induce a pensare che Geremia si lamenti di Jahvè con Jahvè stesso, e anzi in ultima analisi lo metta sotto accusa.

    L’insuccesso di Geremia

    Nell’esercizio del suo ministero profetico, nella sua predicazione di profeta, Geremia è diventato «oggetto di litigio e di contrasto per tutto il paese» (v. 10).  La sua critica al comportamento asociale dei ricchi, all’ottusità del popolo, la sua critica al tempio e al culto, ai sacerdoti e ai profeti di salvezza, la sua critica al re, gli hanno tirato addosso l’ostilità di tutti.

    Tuttavia egli non ha nutrito sentimenti cattivi nei confronti dei suoi nemici.

    “Forse, Signore, non ti ho servito del mio meglio, non mi sono rivolto a te con preghiere per il mio nemico, nel tempo della sventura e nel tempo dell’angoscia? (v. 11).

    Eppure la predicazione profetica lo ha gettato nella solitudine.  Chi infatti sarebbe disposto a coltivare l’amicizia con un profeta che non ha altro da annunciare se non: per voi non c’è salvezza?

    Come sarebbe stato volentieri una persona normale, come tutte le altre!  Ma questa possibilità gli era negata.

    Non mi sono seduto per divertirmi nelle brigate dei buontemponi, ma spinto dalla tua mano sedevo solitario, poiché mi avevi riempito di sdegno” (v. 17).

    L’emarginazione dalla società come conseguenza del suo insuccesso professionale, profetico, spinge Geremia ad esclamare: «Me infelice, madre mia, che mi hai partorito» (v. 10).

    Ma non è soltanto il fallimento esterno che lo spinge a questa confessione.  Bisogna prendere in considerazione un punto ancor più essenziale.

    L’inattendibilità di jahve

    Geremia ha affrontato e percorso la stoltezza dell’esistenza profetica. «Mi hai sedotto, Signore, e io stolto mi sono lasciato sedurre» (Ger. 20,7).

    La forza di questa espressione acquista tutto il suo rilievo soltanto se si avverte che il verbo ebraico qui adottato ptb è la formula specifica per indicare la seduzione di una ragazza.  Geremia viene allora a dire: Dio, tu hai approfittato della mia buona fede, della mia fiducia, della mia disponibilità, del mio affetto e amore.  Sono stato stolto a fidarmi di te.

    Nel racconto della vocazione di Geremia (Ger. 1), in cui egli avanza delle obiezioni contro la sua vocazione, preoccupazioni e obiezioni di Geremia vengono respinte da Jahvè con queste parole:

    1,8 Non temerle, perché io sono con te per proteggerti.

    E in 1,17-19 la promessa viene continuata:

    «Tu, poi, cingiti i fianchi, alzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti, alla loro vista, altrimenti ti farò temere davanti a loro. Ed ecco oggi io faccio di te come una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti».

    Geremia aveva prestato fede a questa promessa.

    Ma ora egli ha fatto l’esperienza che Dio non è di parola.

    Se richiamiamo il significato del verbo    già ricordato pth («sedurre»), possiamo tradurre a         un dipresso così l’esperienza di Geremia: « … tu hai approfittato della mia ingenuità … mi hai fatto tutte le promesse possibili, e io sono stato così sciocco da abbandonarmi a te…, tu mi hai piantato nella mia vergogna».

    Così egli comincia a dubitare, a disperare. Questo è il dolore continuo, la ferita inguaribile di cui egli soffre e di cui parla in 15,18a:

    “Perché il mio dolore è senza fine

    e la mia piaga incurabile non vuol guarire?”

    Se Geremia terminasse il suo lamento con il v. 18a, allora – secondo la struttura delle lamentazioni cultuali d’Israele – ci sarebbe ancora per lui speranza, allora forse la sua delusione non sarebbe ancora definitiva.  Infatti l’interrogativo – «perché?» – nelle lamentazioni punta a una risposta di Dio, risposta di consolazione e di liberazione, alla assicurazione che le sofferenze finiranno presto o anche subito.  Nelle lamentazioni la domanda del «perché» è un grido fiducioso a Jahvè, affinché operi un cambiamento e torni a guardare con bontà l’orante.

    Ma in base alla propria esperienza Geremia è evidentemente ormai incapace di piegarsi alle movenze della lamentazione; egli le oltrepassa e sfocia nell’accusa, ed esprime così di non riuscire più a sperare.

    Tu sei diventato per me un torrente infido,

    dalle acque incostanti (18 b).

    Che cosa significhi un torrente infido lo descrive Giobbe 6,15-20.  Al tempo delle piogge invernali anch’essi sono colmi d’acque, ma nei periodi di secca inaridiscono.  Chi s’abbandona a loro nei tempi di siccità, finisce male. Chi si fida dei torrenti infidi perisce.

    Quando Geremia rimprovera a Jahvè di essere per lui come un torrente infido, si deve richiamare anche Ger. 2,13.  Qui il profeta rimprovera il popolo in nome di Dio:

    Perché il mio popolo ha commesso due iniquità:

    essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva,

    per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l’acqua.

    Le cisterne screpolate sono gli dèi a cui Israele si è affidato.  Non servono a nulla, non ci si può fidare.  Orbene questa stessa denuncia Geremia la fa ora (15, 18) anche nei riguardi di Jahvè.  Implicitamente il profeta colloca Jahvè sul banco delle divinità, da cui egli peraltro non si aspetta nulla.

    Certo, egli non esplicita quest’idea; ma il suo confronto con il torrente infido non lascia altra conclusione.

    La lamentazione trasformatasi in accusa raggiunge qui indubbiamente il suo punto più alto; tanto più che, nell’Antico Testamento, si può mettere in dubbio tutto ma non il dogma della fedeltà e credibilità di Jahvè e della sua superiorità sugli dèi.

    Quando Geremia ha accettato il suo incarico, se poteva contare su qualcosa, era la fedeltà di Jahvè, che per l’israelita rappresentava il punto assolutamente sicuro.  Quella fedeltà è la base autentica dell’esistenza profetica.  Ma ora egli deve costatare che Jahvè non è fedele, che la sua parola non è credibile.  Ne rimane sconvolto.

    Come può infatti un profeta essere ancora profeta se sperimenta che la parola di Dio non è credibile? Qui è intaccata la radice del profetismo, di ogni fiducia, di ogni fede  personale.  Forse Geremia sarebbe riuscito a reggere, più o meno volentieri il suo pesante destino di profeta e la solitudine umana, se in base alla sua esperienza personale non gli fosse diventata problematica la fedeltà di Jahvè e non avesse invece conosciuto la sua apparente inattendibilità.

    Presupposti teologici

    Per poter comprendere la situazione disperata di Geremia, bisogna avere ancora presenti due presupposti teologici.

    Al tempo di Geremia, la fede dell’Antico Testamento non conosce ancora una vita di segno positivo dopo la morte.

    Se dunque ora il profeta viene ingannato da Dio, quest’inganno coinvolge la vita e il suo senso perché, se questo senso fallisce ora, fallisce per sempre.

    Attorno al 600 a.C., lo Sheol è il luogo dei morti, la patria del silenzio.  L’uomo è in cammino verso lo Sheol; ma qui non c’è più né azione né pensiero né conoscenza né saggezza (Eccl. 9,10).  Non c’è neppure sofferenza e tormento.  Ombra, silenzio, inghiottimento nel nulla: né attività positiva né passività negativa: ecco lo Sheol.  Un infinito ammutolire e spegnersi.

    Se non si può sperare in un’esistenza positiva e piena di senso dopo la morte, diventa naturalmente anche più pesante aver a che fare con un Dio che tace in questa vita.  E nella situazione descritta al cap. 15 Geremia fa chiaramente l’esperienza di un Dio silenzioso, al punto che egli deve chiedersi se le parole pronunciate in passato da Dio, con cui questi gli si era manifestato, non fossero pura fantasia invece che realtà divina.

    In qualità di cristiani – dopo che in Gesù è apparsa la parola decisiva di Dio – ci è più facile accettare il silenzio di Dio, anche se ne soffriamo.  Come possibilità di accettare questo silenzio, rimeditiamo alcune espressioni di Karl Rahner in Tu sei il silenzio: «Perché dunque tu taci?… Se tu taci, non è questo un segno che tu non mi ascolti?  Oppure tu ascolti attentamente la mia parola, forse tu ascolti a lungo la mia vita, fino a che io mi sia detto tutt’intero a te, ti abbia dispiegata tutta la mia vita?  Tu taci proprio perché ascolti spiando silenziosamente finché io non sia davvero compiuto, al termine, per dirmi allora la tua parola, la parola della tua eternità, per mettere allora fine una buona volta al monologo di un pover’uomo, questo monologo che dura tutta una vita nella pesante oscurità di questo mondo, mettervi fine con la parola illuminante della vita eterna, in cui tu stesso ti dirai a me dentro il mio cuore?».

    Ma per Geremia la possibilità di vita eterna a cui si richiama Rahner non esiste ancora. E neppure gli passa per la mente che il silenzio divino è la garanzia della libertà umana. Inoltre, egli ha non solo ascoltato qualcosa di Dio; ha ascoltato – in qualche modo Dio stesso. Almeno, così ha pensato finora.  Come potrà allora predicare la parola se non gli viene più pronunciata?  Se Dio tace, Geremia non può più essere profeta.

    La seconda cosa che va tenuta presente è che Geremia non vede ancora nella sofferenza dell’innocente una possibilità ricca di senso da parte di Dio.  E Geremia si considera uno che soffre da innocente; non per nulla egli sottolinea: «Forse, Signore, non ti ho servito del mio meglio, non mi sono rivolto a te con preghiere per il mio nemico, nel tempo della sventura e nel tempo dell’angoscia?» (v. 11).

    Ciò che la Passione di Gesù ci ha reso quasi troppo familiare, la sofferenza vicaria per la salvezza dei peccatori, ciò che si trova già con piena maturità teologica nel quarto canto del Servo di Dio, non è ancora chiaro per Geremia, e quindi neppure affermabile, sebbene un tempo breve lo separi dal Deuteroisaia, l’autore del canto del Servo, e sebbene più di una volta si possa avere l’impressione che egli partecipi già alla sofferenza vicaria del Servo (cfr.  Ger. 11,19; 10,19 s.; 14,17.19, in questi testi il profeta non piange la propria miseria ma quella del popolo, che è come diventata sua; egli soffre già quello di cui gli altri non hanno ancora coscienza).

    L’alternativa di Geremia

    Nella confessio di Geremia si può anche riconoscere soltanto lamentazione e accusa.

    Ma l’accusa diventa comprensibile soltanto se si è prima riconosciuta l’alternativa del profeta, quella che egli pone al suo Dio, cioè alla sua idea di Dio alla sua immagine di Dio.

    Se questa alternativa sia stata del tutto chiara a Geremia stesso, è un altro paio di maniche.  Di fatto egli la offre.  Ed essa soltanto riesce a spiegare il suo dubbio nella fedeltà di Dio, la sua disperazione.

    «Tu lo sai, Signore,

    ricordati di me e aiutami, vendicati per me dei miei persecutori.

    Nella tua clemenza non lasciarmi perire,

    sappi che io sopporto insulti per te» (15, 15).

    In queste frasi Geremia chiede al suo Dio un intervento decisivo, e proprio in questo modo gli pone un’alternativa. O Jahvè si riconosce nel suo profeta, o con la sua clemenza finisce per mettersi dalla parte dei nemici di Geremia e per lasciarlo perire.  Nella prospettiva di Geremia, Jahvè deve intervenire in favore del profeta, poiché la rovina di questi dimostrerebbe che le sue parole non erano messaggio di Jahvè.

    Geremia è molto abile nell’evidenziare che nel suo destino è in gioco in ultima analisi la causa stessa di Jahvè; perciò egli può anche dire: «Vendicati per me dei miei persecutori».  Geremia non vede che un’alternativa: io o i nemici.  Non vede altra possibilità, e quindi assolutizza la propria alternativa come l’unica possibile.  Ma in questo modo egli limita le possibilità di Dio a quelle che sono da lui contemplabili e comprensibili.

    Ma dato che Jahvè non interviene contro i nemici del profeta, Geremia – nel senso della sua alternativa – si vede oramai in balia della rovina definitiva.  Dio non si riconosce in lui, non si riconosce dunque nel suo messaggio Egli non comprende più il suo Dio.  Perciò egli dispera della sua esistenza profetica e del suo Dio, a cui non può non negare allora l’attendibilità, la fedeltà alla sua stessa parola.

    Questo Dio, della cui esistenza il profeta non dubita, non corrisponde più all’immagine di Dio che Geremia si era fatta in base alla teologia tradizionale veterotestamentaria e alla propria esperienza personale.  Dio gli è diventato estraneo.  Egli si trova in presenza di uno sconosciuto, di cui non si può più fidare.

    Geremia non è (ancora) disposto ad abbandonarsi a questa nuova realtà divina, egli si attiene a quanto gli è stato tramandato e a quanto ha finora sperimentato.  Anch’egli ha le sue idee su com’è il Dio d’Israele e su come, di conseguenza, Jahvè come Dio deve essere e comportarsi.  Perciò può esigere come alternativa che non esageri in pazienza ma si decida finalmente a prendere pubblicamente posizione a fianco del profeta. Se Dio non fa così, sulla base di quanto è accaduto finora non resta che accusarlo di infedeltà.

    Che Dio è se non mantiene la sua parola così come ci si aspetta da lui?

    La risposta di Jahvè

    Tutto quanto abbiamo finora ripetutamente incontrato viene confermato e approfondito nella risposta di Jahvè.  Il fatto che questa risposta venga data significa che Geremia non è più capace di uscire dal suo vicolo cieco.  Non vede più via d’uscita dalla situazione vissuta della sua esistenza; Dio – e con lui ogni cosa – gli è diventato problematico.  Al tempo stesso, la risposta mette in luce che Dio non ha ricusato il suo profeta, non si è ritirato da lui.  Lamentazione e accusa non sono cadute nel vuoto; Jahvè lo ha ascoltato, era quindi vicino a lui, anche quando Geremia non riusciva più a crederlo perché si era immaginata in modo diverso la promessa «presenza» di Dio.

    Dobbiamo pensare che Geremia abbia creduto di sperimentare l’inattendibilità di Dio soprattutto nel fatto che la promessa legata alla sua vocazione «Non temerli, perché io sono con te per proteggerti» (1,8. 19) non era stata mantenuta.  Egli non poteva infatti accordare la sua situazione, quale la presenta al cap. 15, con questa promessa; l’una divergeva dall’altra.  Ma la risposta di Dio gli dice: la sua solitudine, il suo insuccesso e il silenzio divino non comportano senz’altro una separazione e un’infedeltà di JahvèDio era ed è vicino al suo profeta, ne conosce il destino, sta al suo fianco – ma in maniera diversa da come Geremia se l’aspettava.  Dio non è diverso soltanto nel suo essere, ma anche nel suo agire, nel modo in cui realizza la parola data.

    In che maniera sia giunta a Geremia la risposta di Jahvè non possiamo saperlo.  Dio ha parlato esplicitamente al suo profeta? O si è trattato di una conoscenza interiore fondata su un’ispirazione divina?  Non è possibile risolvere questi problemi.  Soltanto un punto si presenta verosimile: non può trattarsi di una riflessione puramente umana, in cui la ragione riacquisti il controllo sul dolore e sulla delusione.  La cosiddetta formula di messaggio «oracolo di Jahvè» induce a pensare a un’ispirazione, comunque modulata.

    Ha risposto allora il Signore:

    «Se tu ritornerai a me, io ti riprenderò

    e starai alla mia presenza; se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile,

    sarai come la mia bocca.

    Essi torneranno a te,

    mentre tu non dovrai tornare a loro» (15,19).

    Geremia ha parlato di Dio con leggerezza, proprio perché lo ha giudicato in base a presupposti puramente umani, perché implicitamente ha prescritto a Dio come egli deve agire, come deve essere Dio, perché ha assolutizzato il proprio pensiero umano.

    In questo modo Geremia può ben essere un uomo che contende con il suo Dio, che perde la fiducia in lui, ma non può più così essere profeta, essere la bocca di Dio.  Perciò egli deve convertirsi.

    Convertirsi significa sempre nel messaggio di Geremia: indirizzarsi con tutta la propria esistenza a Jahvè e prenderlo seriamente nella sua qualifica divina.  Se ora è Geremia stesso che deve convertirsi, ciò significa per il profeta: dimenticare se stesso, non pensare a ciò che nei versi precedenti egli ha esposto con parole appassionate.

    Ma se Geremia deve trasformare il proprio modo di pensare, se deve abbandonare i pensieri che ha prima espressi, ciò significa al tempo stesso che quando si pensa Dio e l’uomo non si può pretendere di misurare e giudicare con un modello di pensiero bell’e fatto l’azione di Dio sull’uomo, sul profeta come sui suoi nemici.  E perciò non si può neanche pretendere di presentare a Jahvè un’altemativa più o meno rigida, come ha fatto Geremia, perché quest’alternativa scaturisce dall’interesse personale, e non rende quindi giustizia alla realtà divina.

    Ma allora l’invito alla conversione significa anche prendere sul serio il fatto che Dio non solo non è affatto un nostro conoscente ma è anzi essenzialmente un estraneo. che può fare questo e quello, da cui ci si deve veramente aspettare questa e quella sorpresa.

    Nella evoluzione dell’Antico Testamento c’è voluto molto tempo prima che la percezione e il riconoscimento dell’estraneità di Dio riuscissero a esprimersi in formule chiare, indipendenti dall’esperienza dei singoli. L’idea si trova poi sviluppata nel Deuteroisaia dei tempi dell’esilio. «Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – oracolo del Signore.  Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre, i miei pensieri sovrastano i vostri» (Is. 55,8 S.).

    Geremia deve convertirsi, deve rovesciare il proprio pensiero, secondo cui soltanto le possibilità e le alternative umane sarebbero le possibilità di Dio.  In fondo, ritroviamo qui la stessa posizione che in Giobbe: costui deve troncare la sua disputa pro e contro Dio nel momento in cui viene messo a confronto con il pensiero e l’azione di Dio, che trascendono le possibilità di Giobbe.

    Un insegnamento anche per noi

    Se da tutte queste riflessioni si vuol trarre un guadagno teologico – forse anche di significato generale – si impone anzitutto la constatazione quasi banale: Dio è diverso da come noi uomini lo pensiamo.

    Non si tratta soltanto di ammettere che gli uomini possono sbagliarsi nelle loro affermazioni su Dio.

    Si tratta piuttosto di avvertire che Dio è diverso da come la persona teologicamente formata e da come l’uomo carismaticamente dotato pensa il suo Dio. Perché Geremia non è un uomo della strada; proviene da una famiglia sacerdotale, è stato educato secondo le tradizioni teologiche d’Israele, sa pure che cosa bisogna pensare e credere di Jahvè, e che cosa bisogna fare.  E proprio a lui è capitato di smerciare idee sue come realtà divine, mentalità umana come prospettiva ultima, di parlare di Dio con leggerezza.

    Orbene, che le persone ufficiali si possano sbagliare nelle «cose» attinenti a Dio e alla sua volontà, è un fatto che oggi non sorprende più un certo gruppo di persone impegnate.

    Ma può essere sorprendente per loro che Geremia non possa essere annoverato appunto tra i cosiddetti conservatori di Israele, tra quei credenti ortodossi che nella loro fede difendono le proprie posizioni.  Geremia appartiene invece ai critici più accaniti del sistema.

    Egli attacca teologia e prassi cultuali; attacca le istituzioni religiose, smaschera come menzogna la fede nel tempio, consacrata dalla tradizione, rinfaccia i loro difetti ai padroni dell’altare e del trono che – quasi per assicurarsi il favore divino – hanno alle spalle la garanzia dei teologi.

    Ma anche Geremia può sbagliarsi nel suo pensare e parlare di Dio, anch’egli può parlare con leggerezza del suo Dio.

    Davanti al Dio che compare in Ger. 15 non c’è che l’atteggiamento della totale apertura, non ci si può trincerare dietro posizioni ufficiali, scientifiche, umane, se si vuol incontrare lui e non unicamente se stessi nel proprio pensiero.

    L’uomo deve tenersi aperto per la realtà di Dio, che nella sua attività, e specificamente nella sua azione sull’uomo, si fa strada e si manifesta.  L’uomo deve aprirsi a questa realtà, deve mettersi a disposizione di Dio, anche se non riesce a penetrare i suoi pensieri.  Infatti non è determinante riuscire a penetrare e ad esprimere esperienze adeguate.  Determinante è soltanto la fiducia nell’abbandonarsi tra le mani di questo Dio divino, non umano.  Determinante è che la propria realtà, la propria umanità – anche se passata attraverso il crogiolo della sofferenza e quindi in apparenza legittimata – non venga contrabbandata come realtà divina; qui infatti è il tentativo più o meno consapevole di circoscrivere le possibilità di Dio a possibilità umanamente pensabili e rappresentabili.

    Le nostre conclusioni potrebbero suscitare l’impressione che si abbia a che fare con una problematico puramente teologica.  Non è così; lo dimostra l’espressione corrente in tutti gli strati sociali: «Se c’è un Dio, non può permettere questo o quest’altro».  Espressioni come queste possono scaturire da una profonda sofferenza umana ed essere quindi fin troppo, comprensibili; e tuttavia esse nascondono un modo di pensare e di parlare che prescrive a Dio come egli, debba essere in quanto Dio, che cosa debba fare come DioSe non è così, se non agisce così, si dispera di lui, o si nega la sua esistenza.

    Con quanta facilità proprio i credenti e praticanti, corrano il pericolo di voler disporre di Dio – naturalmente «in buona fede» – perché sono convinti di conoscerlo, può essere documentato da un episodio narrato in Ger. 42-43.

    Godolia, posto da Nabuccodonosor come governatore di Giuda dopo la distruzione di Gerusalemme, venne assassinato a Mizpa per motivi sconosciuti.  Temendo un’azione punitiva del re babilonese, un gruppo, consistente di Giudei che dimoravano a Mizpa o che si erano adunati in questa città, fuggirono verso l’Egitto.  Ma, da bravi credenti, non si volle fare questo

    passo senza avere la garanzia divina: Jahvè doveva benedire l’impresa, accompagnarli per così dire nel bagaglio di marcia, essere loro presente.  Perciò questo gruppo di fuggiaschi si rivolse a Geremia perché cercasse qual era la volontà di Dio e la facesse loro conoscere. Ed essendo brave persone, non volevano naturalmente disporre di Dio ma compiere la sua volontà.

    E’ quanto essi assicurano a Geremia: «Il Signore sia contro di noi testimone verace e fedele se non faremo quanto il Signore tuo Dio ti rivelerà per noi.  Che ci sia gradita o no, noi ascolteremo la voce del Signore nostro Dio al quale ti mandiamo, perché ce ne venga bene obbedendo alla voce del Signore nostro Dio» (Ger. 42,5 s.).

    La situazione è chiara.  Ci si sottomette interamente alla volontà di Dio.  Come potrebbe essere altrimenti, se ci si rivolge a Dio?  Dieci giorni dopo il profeta comunica loro la volontà di Dio: devono restare in Giuda e non fuggire in Egitto!  Anche questa comunicazione è chiara.

    Eppure i devoti commissionari della preghiera rifiutano questo verdetto divino. «Una menzogna stai dicendo!  Non ti ha inviato il Signore nostro Dio a dirci: non andate in Egitto per dimorare là; ma Baruch figlio di Neria ti istiga contro di noi per consegnarci nelle mani dei Caldei, perché, ci uccidano e ci deportino in Babilonia» (43,2 s.). Questa reazione al verdetto del profeta mostra ormai il vero volto di quelle persone pie.  Esse non volevano conoscere la volontà di Jahvè ma soltanto vedere confermati da Dio i propri progetti e propositi così ragionevoli.  Malgrado le loro parole buone e religiose, mancava loro qualunque apertura a Dio.  E poiché Dio attraverso Geremia non aveva deciso come essi avevano pensato e desiderato, quella risposta non poteva venire da Dio.  Essi infatti avevano le loro idee ben solide a riguardo di Dio e sapevano già in partenza che cosa egli dovesse dire e fare, anzi che cosa egli potesse pensare e volere. La loro immagine di Dio, che emerge attraverso le loro parole, costituiva il criterio sicuro che permetteva loro di distinguere l’umano dal divino.  Ma è proprio contro questa posizione che Geremia si esprime.  Ed egli è in grado di farlo perché nell’esperienza narrata in Ger. 15 ha conosciuto qual è la collocazione del pensiero umano su Dio, ha visto come un’immagine consolidata di Dio deve cadere di fronte alla realtà divina, se ci si abbandona a questa realtà e non la si liquida come impossibile.

    Il profeta parla per trovare ascolto; diversamente, il suo messaggio cade nel vuoto.  Tuttavia, egli deve tenere dinanzi agli occhi la propria missione.  Non può piegare e adattare la parola di Dio per trovare consenso e approvazione; deve annunciare senza riduzioni il messaggio affidatogli, opportune et importune!

    L’episodio di Geremia richiama emblematicamente al messaggero della parola il suo ruolo.  Il profeta deve contrastare chi pretende di avere il sigillo di Dio sulla propria azionePerciò in Ger. 15,20s. vengono rinnovate le promesse legate alla vocazione, già annunciate in 1,18 s. Toccando Geremia, esse cadono ormai su un terreno ben diversamente preparato, trovano una comprensione ben più profonda che quando vennero pronunciate la prima volta, alla vocazione.

    Il profeta ha oramai imparato, e ora sa perché quasi inevitabilmente egli dovesse diventare «oggetto di litigio e di contrasto per tutto il paese» (v. 10). Ora egli potrà prendere su di sé più facilmente o almeno con più sicurezza il confronto e lo scontro con il suo popolo, perché ha sperimentato in se stesso di che si tratta.  Deve diventare l’uomo del contrasto e del litigio perché nella sua persona al pensiero umano, alla chiusura umana dell’io e alla sua schiavitù deve contrapporsi la sfera del divino come il contropolo autentico, come l’unica realtà valida, davanti a cui non c’è che da tenersi aperti e da mettersi a sua disposizione.  Tutto ciò è possibile soltanto se ci si affida a Dio anche quando non lo si capisce.

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