• 15 Giu

    LA VISITAZIONE
    Lc 1,39-56

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Dopo i due dittici delle annunciazioni, Luca riferisce la visita che Maria compie alla parente Elisabetta.

    E’ un racconto gioioso permeato da una atmosfera di preghiera.

    Il vangelo sottolinea anzitutto la fretta di Maria nel recarsi da Elisabetta: è questo il segno della sua totale disponibilità e della  sua incrollabile fede.

    I genitori di Giovanni Battista abitavano, secondo la tradizione a est di Gerusalemme, a sei chilometri un villaggio chiamato ‘Ein Karim posto sulla montagna.

    Nazaret distava circa 150 chilometri: un viaggio a quei tempi lunghissimo e faticoso, circa tre giorni di marcia.

    L’incontro fra le due madri “impossibili” è denso di calore umano e spirituale. Da questo incontro sgorga la gioia e la preghiera.

    Maria porta in sé il grande segreto. Un segreto che ha cambiato radicalmente la sua vita, è un segreto meraviglioso e nello stesso tempo quasi temibile, inenarrabile, agli occhi degli uomini incredibile ed incomprensibile. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto e debole…

    Maria come ogni madre sente il bisogno di annunciare ciò che porta in sé, la sua maternità è fonte di gioia ma nello stesso tempo di travaglio ed interrogativi. Maria si trova infatti sola a portare il peso del mistero.

    Ella lo comunica all’umile e dimenticata Elisabetta, la sterile già al sesto mese di gravidanza.

    Entriamo con discrezione nel testo.

    Appena Elisabetta  ebbe udito il saluto di Maria, il bambino dentro di lei ebbe un fremito ed essa fu colmata di Spirito santo.

    Letteralmente Giovanni fece le capriole (cfr. Gn 25,22): è la gioia  messianica perché Dio è venuto a visitare il suo popolo (v. 68). Giovanni esprime la sua gioia profetica non a parole ma con tutto il essere.

    La preghiera di Elisabetta

    vv. 42-45

    E’ anche in un certo modo la preghiera del piccolo Giovanni pieno di Spirito profetico. Egli inizia a profetare ancor prima di vedere la luce.

    Elisabetta risponde al saluto di Maria. Ora un saluto ha lo scopo di dare all’altro una sua identità che viene da chi saluta.

    Ora la preghiera di Elisabetta si apre con una benedizione entrata poi nell’Ave Maria: Benedetta tu fra le donne…SI tratta di una proclamazione solenne nella quale è riconosciuta l’azione di Dio (cfr. Gdc 5,24; 13,18; Dt 28,4).

    Elisabetta riconosce in Maria la madre del mio Signore (cfr. 2Sam 6,9): Maria è proclamata madre del Figlio di Dio risorto. Ella è per grazia capace di riconoscere il mistero di Maria e la presenza in lei – nuova arca dell’alleanza – del Signore.

    v.45

    Beata te… E’ una beatitudine. Maria è la credente per eccellenza, a differenza dell’incredulo Zaccaria. La maternità fisica (v 42) e la maternità spirituale (v 45) sono qui, come pure in Lc 8,21 e 11,27-28, inscindibilmente unite.

    Per Luca non esiste contraddizione tra colei che ti ha portato nel grembo e ti ha allattato e colei che ha creduto alla parola di Dio.

    La preghiera di Maria

    E’ un testo antologico, nel quale scopriamo come la preghiera deve trovare la sua fonte nella Scrittura. Lo stile è quello dei salmi.

    Luca attribuisce tale preghiera a Maria in quanto “Figlia di Sion”, che riassume in sé tutti i valori spirituali del popolo eletto.

    Il filo conduttore è l’amore di Dio per la povertà-umiltà, l’amore di Dio per gli anawim. Maria si colloca nella loro schiera.

    Nel Magnificat intravediamo in controluce un’altra preghiera, nata dal cuore di una donna che non poteva avere figli: è il cantico di Anna (1 Sam 2), ma scopriamo pure riferimenti nei libri profetici (Ml 3,12; Ab 3.18)..

    Potremmo dividerlo in due strofe con due protagonisti: Maria e Israele.

    Ogni strofa è conclusa dal memoriale dell’amore di Dio:

    v. 50: la sua misericordia di generazione in generazione su quelli che lo temono.

    V. 54b-55: ricordandosi della sua misericordia come aveva promesso ai nostri padri a favore di Abramo e della sua discendenza per sempre.

    La prima strofa contrappone Maria umile all’onnipotenza di Dio.

    La seconda strofa, parlando di Israele, allinea una serie di parallelismi antitetici:

    forza di Dio / orgogliosi

    potenti / umili

    affamati / ricchi.

    Scopriamo altri preziosi elementi: il Magnificat è invito a scoprire il Dio della gioia e del riso (Gn 18,12-13; Pr 8,30-31; Gb 40,29). Il rapporto con Dio deve essere gioioso, giocoso. Il gioco è visione opposta all’economia del mondo, è contemplazione, speranza e gioia.

    Dio in qualche modo gioca con Maria, come con tutti coloro che a lui si abbandonano.

    L’uomo trova così la gioia nel dare, nella contemplazione, nell’essere lode vivente con tutto il suo essere: Oh Signore, io sarò la tua musica (J. Donne).

    Agli occhi degli uomini Dio compie sempre scelte estrose. E’ la logica di tutta la storia della salvezza, sino ad arrivare al suo culmine che è la croce.

    Il Magnificat è il canto della speranza. Maria guarda la storia partendo, non guardando al mondo così com’è, dalla speranza riposta in Dio.  Esso si colloca così nella linea delle beatitudini.

    Nella sofferenza Maria con tutti i poveri del regno attende nella speranza il ritorno di Dio e la trasformazione dei cieli e della terra. In Lei questa venuta è già iniziata, ed è per questo che ella può celebrarla e cantarla già al presente. Ella infatti ha già sperimentato la salvezza in Dio “mio salvatore”: Maria è la prima tra i salvati.

    In tal senso Maria parte dalla sua esperienza personale per guardare la realtà che la circonda (Non si può conoscere il Dio del Vangelo se uno non fa esperienza della salvezza sua personale, C.M.Martini).

    Nel Magnificat c’è la certezza che Dio ribalterà le sorti di questa “sgemba storia umana” (G: Ravasi).

    In questo senso Il cristiano è un uomo che aspetta (H. Newmann).

    v.56

    Si fa riferimento a 2Sam 6,11. Elisabetta è benedetta e gioiosa per la presenza dell’Arca dell’Alleanza.

    Veramente Dio è ora presente in mezzo al suo popolo che è venuto a salvare.

    Linee di riflessione

    – Dio viene a visitare il suo popolo. E’ lui a prendere l’iniziativa. La salvezza promana sempre dall’amore di Dio che sempre ci precede. Maria è lo strumento attraverso il quale Dio entra nella storia e si fa incontro al suo popolo.

    – La visita di Dio è evangelo, fonte di gioia. Maria è portatrice della grazia e della gioia.

    – Dall’incontro con Dio, dal riconoscere le sue opere sgorga il ringraziamento e la preghiera di lode.

    – Dio si rende prossimo, vicino al suo popolo in modo concreto e fattibile. Maria è segno di questa concretezza d’amore di Dio.

    Dall’enciclica Redemptoris mater, 36

    Nella visitazione la fede di Maria acquista una nuova consapevolezza ed una nuova espressione. Le parole usate da Maria costituiscono una ispirata professione di questa fede, nella quale la risposta alla parola della rivelazione si esprime con un’elevazione religiosa e poetica di tutto il suo essere verso Dio.

    In queste sublimi parole traspare la personale esperienza di Maria, l’estasi del suo cuore. Splende in esse un raggio del mistero di Dio, la gloria della sua ineffabile santità, l’eterno amore che, come un dono irrevocabile, entra nella storia dell’uomo

    Da CdA, 777

    Maria non si ripiega su se stessa, ma va a far visita a Elisabetta sua parente. La prima evangelizzata diventa la prima evangelizzatrice: proclama le meraviglie del Signore, con la presenza gioiosa e santificante, il cantico di lode e il servizio.

  • 14 Giu

    Lode alla donna forte
    Lectio di Giuditta 8,1-35 (passim)

     

    di p. Attilio Franco Fabris

    La città di Betulia è assediata dall’esercito di Oloferne generale delle truppe assire. Gli abitanti sono angosciati perché sono all’estremo e prevedono ormai imminente la catastrofe, non c’è più acqua! L’angoscia percorre le strade e i cuori di tutti e fa prendere decisioni insensate. La fede vacilla e si giunge a voler mettere alla prova Dio stesso. Solo una donna rimane ferma e sicura di sé; la sua vita poggia tutta nel Signore salda roccia che mai vacilla.

    Anche oggi esistono nella Chiesa e nel mondo tante “Betulie”: ovvero situazioni in cui ci si sente assediati, finiti e rischiamo di fare a nostra volta scelte sbagliate dettate dalla paura. Occorre una saldezza e un coraggio che il nostro cuore da solo non può darsi.

    Domandiamo lo Spirito di fortezza e di sapienza per i tanti assediati di oggi e invochiamo nuovi profeti che sappiamo intraprendere vie nuove di salvezza che la nostra cecità non riesce a vedere:

    Io so, o Padre, che mi stai vicino: con tutto lo slancio del mio essere ti supplico di accordarmi il tuo Spirito santo. Grazie a lui, sarò liberato dalla mia fragilità. Il tuo Spirito mi farà amare Te con tutta la mia vita: egli è la radice di ogni vero amore. Se tu non vegli su di me, io sono una creatura perduta! Ti supplico, Padre amato: riversa nel mio cuore lo Spirito santo, perché la sua presenza mi ristori e mi riscaldi con l’Amore. Allora potrò con fermezza rischiare la mia vita su di te, amarti con tutto il cuore, con la mia anima, con il mio respiro e con tutte le mie forze” (s. Tommaso Moro, scritta nella Torre di Londra pochi mesi prima della sua esecuzione capitale 1535).

    Lectio

    Difficile è datare storicamente il nostro autore e definire il genere letterario a cui appartiene il libro da lui composto. I dati cronologici presentati nel testo sono inconciliabili con quelli della storia: nel personaggio nemico di Israele che è il re Nabucodosor re degli assiri il nostro autore vuole concentrare simbolicamente tutto ciò che sempre rischia di distruggere l’opera di Dio e la fede del suo popolo.

    Per ben sette capitoli il nostro autore si dilunga a narrare la drammatica situazione in cui il popolo di Betulia (città inesistente!) si trova a dover far fronte. L’assedio dell’esercito nemico diviene giorno per giorno sempre più insostenibile. La penuria d’acqua in città ha ridotto i suoi abitanti allo stremo e in questa situazione disperata hanno costretto i capi ad un ultimatum di cinque giorni rivolto a Dio stesso: o egli interverrà donando l’acqua oppure si consegneranno tutti al nemico (7,30-31). Tale prova a cui i capi, stretti dalle proteste del popolo, vogliono sottomettere Dio, fissandogli un termine per essere liberati è naturalmente una pretesa assurda dettata da una mancanza di autentica fede.

    È in questo momento così teso che entra all’improvviso in scena una donna: Giuditta (il nome significa “giudea”). Dal nostro testo ci viene presentata come un’autentica figlia d’Israele, alla pari di altre grandi donne che l’hanno preceduta e che hanno operato salvezza per il loro popolo quali  sono state Giaele e Debora (Giudici 5). La genealogia di Giuditta – la più lunga riservata ad una donna nella bibbia – risale fino al patriarca Giacobbe-Israele (v.1). Suo marito, grande proprietario terriero morto per un’insolazione durante la mietitura, era della sua stessa tribù (v 2-3). Un tale matrimonio denota una stretta osservanza della Legge tipica del post esilio (cf Tb 5,11). Giuditta dunque è rimasta vedova repentinamente e in giovane età e senza discendenza di figli: la sua maternità si eserciterà nei confronti dell’intero popolo di Israele. Nei vv. 4-8 Giuditta viene presentata come donna dedita ad una saggia amministrazione dell’eredità del marito, la sua vita di fede è intensa, fatta di ritiro, penitenza, digiuno e preghiera. In pochi tratti è dipinta magistralmente nel ritratto ideale della donna israelita che unisce fascino e spiritualità, ricchezza e bellezza, benessere e fede.

    Giuditta, viene a conoscenza della decisione dei capi della sua città e con un’autorevolezza inusuale per una donna, li convoca a casa sua per discutere la stolta decisione che hanno preso. Le sue parole, dettate dalla sua “sapienza” (v.29) e dai toni che possiamo rintracciare nei testi profetici, sono anzitutto di rimprovero e ammonizione: “Ora, chi siete voi che avete tentato Dio in mezzo ai figli degli uomini? Certo, voi volete mettere alla prova il Signore onnipotente, ma non comprenderete mai nulla” (vv. 12-13). Essi sono caduti nell’insipienza di voler tentare Dio, quasi sfidandolo, mettendolo alla prova affinché operi nei termini e nei modi da loro prestabiliti: l’uomo di fede al contrario deve confidare senza condizioni nel Dio che salva: “Voi non vogliate ipotecare i disegni del Signore, nostro Dio, perché Dio non è come un uomo cui si possano fare delle minacce, o un figlio d’uomo sul quale si possano esercitare delle pressioni” (v. 16).

    Le sua parole vogliono riconfermare e ribadire ai capi e al popolo il primato del Signore che dona la sua salvezza nella sua liberalità e non secondo “ultimatum” dell’uomo dettati dalla sfiducia: “Se non vorrà aiutarci in questi cinque giorni, egli ha pieno potere di difenderci i giorni che vuole” (v.15).

    Giuditta nel suo discorso fa leva anche sul tema della responsabilità della gente di Betulia nei confronti di tutto il rimanente popolo di Israele: la loro resa o la loro resistenza avrà una ricaduta su tutti: “Perché se noi saremo presi, resterà presa anche tutta la Giudea e sarà saccheggiato il nostro santuario e Dio chiederà ragione di quella profanazione al nostro sangue” (v. 21)  Le scelte operate dall’uomo non sono mai senza conseguenze né per sé né per gli altri.

    Quello che il popolo di Betulia sta vivendo è una grande e dolorosa prova ma è necessario leggere tale situazione alla luce della parola per non cadere nella disperazione: le prove a cui si va incontro non sono che una purificazione da accogliere umilmente: “Ringraziamo il Signore nostro Dio che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri” (v. 25). Giuditta rinvia dunque alla memoria dei patriarchi (v.27); tutti costoro infatti sono stati provati da Dio rimanendo fedeli. Così sul loro esempio, tutti sono invitati alla fiducia sostenendo la prova purificatrice permessa da Dio: “È a scopo di correzione che il Signore castiga quelli che gli sono vicini” (v. 27; cfr Dt 8,2-5).

    Una cosa è certa: se Israele si manterrà fedele all’alleanza Dio non potrà non intervenire a salvare il suo popolo donandogli ancora salvezza e colpendo l’oppressore.

    La reazione dei capi al discorso della donna è enigmatica. Il capo politico della città che è Ozia reagisce in modo ambiguo: anzitutto scarica la colpa della decisione sul popolo (v. 30) poi dice di affidarsi alle preghiere e alla saggezza di Giuditta (v.32) ma non si comprende se queste parole sono dette con convinzione oppure con ironia. Da parte dei capi c’è ancora la pretesa che la salvezza giunga da Dio nel modo da loro già prestabilito (v.31).

    A questo punto Giuditta trova il coraggio di staccarsi da queste esitazioni e compromessi che denotano solo calcoli umani. Per ben otto volte (nei cc. 8-16)  ripeterà l’espressione: “per mano mia il Signore visiterà Israele” indicando che attraverso di lei Dio donerà la salvezza al suo popolo. L’espressione ha un senso profondo: la “mano” di Mosè, nel libro dell’esodo, è lo strumento che Dio usa per agire (“visiterà”) nella storia (Es 9,22-23;…). Ora Dio usa la mano di una donna per ripetere le gesta gloriose di un nuovo esodo. Sappiamo dal proseguo del racconto che Giuditta “uscirà” (v.33) dalla città per entrare nell’accampamento nemico. Con uno stratagemma tutto femminile sedurrà il generale Oloferne, e al momento propizio, nella notte, gli mozzerà il capo con una spada. Le truppe senza più comandante si disperderanno e la città di Betulia e tutto Israele ritroverà la sua libertà.

    Questo piano d’azione non è rivelato da Giuditta a nessuno, è un segreto! Il che sta ad indicare che ella vi vede una collaborazione col nascosto disegno divino. Ai capi della città domanda solo fiducia.

    Meditatio

    L’istituzione, nel brano biblico commentato, fa una ben magra figura. I tre capi di Betulia  sono disposti a tradire il fondamento della fede israelita quando sono messi di fronte a scelte difficili e rischiose per la loro posizione: tra assalitore e assaliti essi cercano in ogni modo di salvare se stessi e la situazione a scapito dei valori più sacri. Per far fronte al malumore e all’insoddisfazione dei più l’istituzione corre sull’onda del “political correct” che non scontenta nessuno mancando tuttavia allo scomodo servizio alla verità.

    Certamente non è facile la situazione dei capi di Betulia che li porta ad una decisione inaccettabile e che non esitano a scaricare sul popolo (v. 30). D’altra parte il popolo è disorientato, in preda al terrore dell’imminente assalto dei nemici. Ma quel che vale la pena sottolineare è che qui si assiste all’ennesimo palleggio delle responsabilità in cui man forte e ultima parola l’ottiene la paura e più precisamente la paura di perdere. Quell’ultimatum posto a Dio non è certo atto di fede ma estremo e disperato tentativo di rimandare il problema al fine di mantenere lo “status quo” il più a lungo possibile a costo di piegarvi addirittura il Signore.

    La parola, mediata da Giuditta è quella che sempre i profeti hanno annunciato ad Israele quando si è trovato in situazioni simili: un invito alla fiducia, alla speranza, “facendo memoria” delle liberazioni-esodi operate ripetutamente da Dio: “attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui” (v. 17).

    Giuditta appare donna determinata, sicura, anticonformista, autorevole, saggia. Ha del “carisma” si direbbe oggi! Pur vedova e senza figli non è una donna che si è lasciata trascinare nel rimpianto e nel dolore a causa della sua triste situazione, non ci appare ripiegata nella sofferenza come sarebbe naturale attendersi da chi improvvisamente si trova a dover far fronte alle improvvise “disgrazie” della vita. Si direbbe in termini psicologici che abbia attraversato brillantemente la fase dell’elaborazione del suo lutto riaprendosi alla vita e a nuovi valori. Punto di forza è sicuramente il suo agganciarsi ad una fede autentica in cui essa trova una sicurezza e un’audacia inusuali: Giuditta è donna di preghiera e di penitenza, e dotata nel medesimo tempo anche di un forte senso pratico (vv 7-8) che saprà dimostrare anche in questa situazione. Dimostra in effetti di aver mantenuto un sano rapporto con la realtà che la circonda, il suo sguardo e il suo cuore abbracciano la sorte del popolo di Betulia  e anche di tutto Israele (v. 24), e in questo “prendersi a cuore” il suo popolo essa vive una nuova maternità e sponsalità più allargata e spirituale. Per questo suo “figlio” e “sposo” sarà disposta a mettere a repentaglio la sua stessa vita perché se ne sente responsabile a differenza dei capi.

    Il suo discorso assume i toni forti della profezia e in questa libertà di “spirito” Giuditta non teme di criticare aspramente la decisione presa dall’istituzione definendola stolta ed insensata e andando coraggiosamente, unica fra tutti perché unica “saggia” (v. 29) controcorrente.

    Dobbiamo riconoscere la grande valenza che assume all’interno della rivelazione biblica il racconto di Giuditta: il nostro autore non teme di affidare ad una donna un ruolo così determinante e inusuale. D’altra parte il genio femminile è legato all’intuizione, è attento ai profondi risvolti della realtà e della vita, sa cogliere una diversa verità nella realtà che il più delle volte ci sfugge ed è dotato di un senso pratico immediato che a volte all’uomo manca. La donna, fatta per accogliere e donare la vita, è più portata al dono di sé, al coraggio di perdersi per il bene dell’altro. L’uomo, che simbolicamente raffigura l’istituzione e la legge, è più portato alla prudenza, al calcolo, alle attente valutazioni, nelle situazioni complesse rischia di perdersi nei suoi interminabili ragionamenti. Giuditta non si pone a far calcoli elaborando strategie di autodifesa ma si pone totalmente in gioco con quello che è ed ha; più disarmata di Davide perché senza fionda e di Giuda Maccabeo perché senza armate ella ritenendo con certezza che Dio può operare salvezza e giustizia anche attraverso di lei si rende disponibile usando l’unica “arma” che possiede ovvero la sua femminilità unita alla fede (v.33).

    L’incontro tra istituzione e profezia nella scrittura e nella storia appare quasi sempre conflittuale.  Questa tensione irrimediabile assume tuttavia un valore pedagogico per entrambe. Le spinte sono  diverse: l’istituzione è conservatrice per natura e compito, la profezia è tensione in avanti, al nuovo anche a costo di veder distrutto quel che si è faticosamente realizzato. La profezia, con il suo “occhio spirituale” vede già realizzato quel che l’occhio “carnale” non vede ancora o ritiene impossibile. Una sana dialettica tra entrambe queste tensioni è necessaria ad un discernimento corretto e prudente dinanzi ai problemi a cui occorre dare risposta.

    L’incontro tra Giuditta e i capi non si risolve apparentemete in conflitto, ma a ben vedere sembra che ben volentieri i capi vedano la responsabilità della situazione ricadere finalmente su altri (v.35). E’ questo un altro infelice modo di risolvere la tensione tra istituzione e carisma! Solo alla fine – come d’altronde quasi sempre avviene – l’istituzione riconoscerà l’opera di Dio: “Appena furono entrati in casa sua, tutti insieme le rivolsero parole di benedizione ed esclamarono al suo indirizzo: «Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu magnifico vanto d’Israele, tu splendido onore della nostra gente. Tutto questo hai compiuto con la tua mano, egregie cose hai operato per Israele, di esse Dio si è compiaciuto. Sii sempre benedetta dall’onnipotente Signore». Tutto il popolo soggiunse: «Amen!»” (15,9-10).

    Come non ribadire a questo punto che nella rivelazione biblica Dio si compiace sempre di scegliere strumenti umanamente inadeguati perché poveri e deboli. Qui sta la sapienza divina che fa risplendere la sua potenza nella debolezza dell’essere umano, in questo caso di una donna (cf 1Cor 1,27). In Giuditta appare la forza dirompente della profezia nei confronti dell’istituzione (sia israelita come assira!) che vorrebbe preservare o allargare il proprio potere (i capi attraverso uno stolto ultimatum a Dio, Nabucodonosor attraverso le sue strategie politiche e militari). La donna debole esce vincitrice dal confronto con entrambe queste logiche ristrette. Ella infatti si pone su un altro livello e su un orizzonte più vasto ovvero quello della fede nel Dio sposo fedele e liberatore del suo popolo. Per l’uomo e la donna carismatici vi è sempre un’alternativa alla soluzione dei problemi dettata dalle visioni spesso difensive dell’istituzione. A quest’ultima l’umiltà di riconoscere umilmente l’indicazione coraggiosa del profeta, anche se apparentemente e umanamente stolta e debole. Al profeta l’umiltà del dialogo e il coraggio della parola scomoda unita all’obbedienza allo Spirito vagliato nel discernimento attento della comunità e dei suoi responsabili.

     

    Oratio

     

    Difficile giocarsi la vita per il bene altrui, prendersi a cuore concretamente l’altro, avere una parola forte e coraggiosa, affidarsi unicamente nella forza che proviene dall’alto. Più facile rifugiarsi nella sicurezza del già stabilito, nel culto della legge che rassicura la coscienza e premunisce dal rischio di giocarsi la libertà su strade nuove e rischiose. Giuditta è la “donna forte”: audace nella parola, energica nell’iniziativa, capace di rischio. Dio si è servito proprio “della sua mano per visitare il suo popolo”. E Giuditta generosamente gliel’ha offerta.

    Chiediamo al Signore la grazia di renderci disponibili alla sua opera con al stessa generosità. Sono tante le situazioni problematiche e umanamente insolubili nel mondo, nella Chiesa, nelle comunità da cui ci sembra d’esser inevitabilmente schiacciati. Ma Dio vuole ancora farci compiere nuovi esodi e per far questo ha bisogno di profeti che indichino strade nuove e siano strumenti nuovi.

    Con forza Teresa d’Avila ribadiva che Dio nella sua sapienza può scegliere modi e mezzi dinanzi ai quali il “mondo” sarebbe portato a scuotere la testa perplesso fosse anche la debolezza sapiente della donna: “Signore dell’anima mia, tu, quando pellegrinavi quaggiù, non aborrivi le donne, anzi le favorivi con benevolenza e in loro trovavi tanto amore e maggior fede che negli uomini. Tra loro vi era anche la tua santissima Madre. Perché, allora, non dovremmo riuscire a fare qualcosa di valido per te in pubblico? Perché non dovremmo osare di dire apertamente alcune verità che piangiamo in segreto? Perché tu non dovresti esaudirci quando ti rivolgiamo una giusta richiesta? Tu sei giudice giusto e non fai come i giudici del mondo, tutti uomini, per i quali non esiste virtù di donna che non ritengono sospetta. O mio Re, dovrà pur venire il giorno in cui tutti  vengano riconosciuti solo per quel che valgono!” (Cammino di perfezione).

     

     

     

     

  • 06 Giu

    “La libertà della fedeltà di Dio”
    lectio di Rm 9,1-33

     

    di p. attilio franco fabris

     

    Il capitolo affronta il grande problema di come leggere alla luce della storia della salvezza l’ostinazione del popolo ebraico di fronte all’annuncio evangelico.

    A motivo di questo rifiuto e la consecutiva nascita di un nuovo Israele sembra che Dio abbia respinto il popolo ebraico. Non ha raggiunto così la promessa.

    Ma se questo è accaduto si può dire che Dio è fedele?

    Non è un interrogativo da poco, infatti indirettamente riguarda anche la chiesa e tutti noi. Possiamo fidarci di Dio?

    In questo capitolo Paolo affronta il problema della libertà dell’uomo che può giungere sino a rifiutare il progetto di Dio. E Dio di fronte a questo rifiuto si ferma talmente egli rispetta la libertà dell’uomo.

    E’ questo un dramma che percorre tutta la storia della salvezza: come raccordare la fedeltà di Dio alla sua promessa e la libertà dell’uomo che la può rifiutare? Sembra un problema insolubile.

    vv.1-3

    1 Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: 2 ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. 3 Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne.

    Anzitutto Paolo esprime tutta la sua sofferenza per il dramma del rifiuto di Cristo da parte del suo popolo. Vorrebbe divenire lui stesso “scomunicato” purché Israele si aprisse alla promessa del Vangelo.

    vv.4-5

    4 Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, 5 i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.

    La riflessione parte dall’elenco dei privilegi concessi ad Israele lungo l’arco della storia della salvezza. Privilegi che avevano lo scopo – fallito – di preparare il popolo eletto a colui che è l’adempimento di tutto: Cristo Gesù.

    Israele aveva ricevuto:

    –         l’essere figlio dei patriarchi padri della fede e destinatari primi della promessa

    –         l’essere stato elevato alla dignità di “figlio” di Dio

    –         il dono della “gloria” di Dio presente in mezzo al suo popolo

    –         il dono delle alleanze di Abramo, di Mosè

    –         il dono della Legge

    –         il dono di un culto reso al vero Dio

    –         il dono delle promesse fatte ad Abramo e ai suoi discendenti.

    vv. 6-9

    6 Tuttavia la parola di Dio non è venuta meno. Infatti non tutti i discendenti di Israele sono Israele, 7 né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli. No, ma: in Isacco ti sarà data una discendenza, 8 cioè: non sono considerati figli di Dio i figli della carne, ma come discendenza sono considerati solo i figli della promessa. 9 Queste infatti sono le parole della promessa: Io verrò in questo tempo e Sara avrà un figlio.

    Tuttavia il rifiuto di tutti i privilegi concessi ad Israele non segna il fallimento dell’agire di Dio.

    Infatti Dio ormai non si rivolge più all’Israele secondo la “carne” perché ormai si è costituito un nuovo Israele secondo lo “spirito” ovvero costituito per la fede nelle promesse. Gli appartenenti a questo nuovo Israele sono veri figli di Abramo.

    vv. 10-13

    10 E non è tutto; c’è anche Rebecca che ebbe figli da un solo uomo, Isacco nostro padre: 11 quando essi ancora non eran nati e nulla avevano fatto di bene o di male – perché rimanesse fermo il disegno divino fondato sull’elezione non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama – 12 le fu dichiarato: Il maggiore sarà sottomesso al minore, come sta scritto: Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù.

    Dio infatti è libero nel donare i suoi doni. Il riceverli non è frutto dei “meriti” acquisiti dall’uomo. Il dono di Dio raggiunge chi vuole e quando vuole. Paolo porta l’esempio di Giacobbe ed Esaù.

    Certo questo agire di Dio sconcerta i nostri criteri umani che viaggiano secondo una nostra giustizia che tuttavia non è quella di Dio.

    Occorre qui fare attenzione: Paolo non sta affrontando il problema della predestinazione individuale ma semplicemente tentando di fare una lettura teologica della storia dei popoli. Storia che è guidata sovranamente da Dio secondo un’economia di salvezza. La ricaduta di un giudizio finale rientra nell’ambito della responsabilità individuale non collettiva.

    vv. 14-18

    14 Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente! 15 Egli infatti dice a Mosè: Userò misericordia con chi vorrò, e avrò pietà di chi vorrò averla. 16 Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia. 17 Dice infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra. 18 Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole

    A questo punto sembrerebbe quasi di poter affermare a nostro modo di vedere un “ingiustizia” presso Dio dato che egli non tratta tutti ugualmente.

    Ma che concetto abbiamo di Dio?

    Paolo esorta a riconoscere il mistero insondabile della sovrana libertà di Dio che non dipende dall’agire umano.

    (ne v. 18 si parla del cuore indurito del faraone da parte di Dio: bisogna leggere come volontà permissiva di Dio).

    Il rifiuto del dono della salvezza viene da Dio continuamente riproposto al suo popolo attraverso altre vie,

    vv. 19-24

    19 Mi potrai però dire: «Ma allora perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere?». 20 O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: «Perché mi hai fatto così?». 21 Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? 22 Se pertanto Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di collera, già pronti per la perdizione, 23 e questo per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria, 24 cioè verso di noi, che egli ha chiamati non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani, che potremmo dire?

    Se l’indurimento del cuore è permesso da Dio e viene fatto rientrare nel suo piano di salvezza come mai poi viene condannato? Non è contraddittorio?

    In realtà Dio non è ingiusto nel punire la durezza del cuore. Anche attraverso il male Dio raggiunge mete salvifiche:

    –         egli infatti usa pazienza infinita nell’attesa della conversione del cuore.

    –         la punizione dimostra la stoltezza dell’uomo che crede di poter far da sé prescindendo da Dio.

    –         la fedeltà di Dio nonostante il rifiuto manifesta la potenza del suo amore.

    –         la durezza del cuore di Israele ha fatto sì che il vangelo fosse donato ai pagani.

    Dio ci rivela che i suoi disegni non forzano mai la libertà dell’uomo né destina alcuno alla perdizione.

    Dio prevede le “ribellionii” umane alla sua proposta, ma nella sua misericordia usa di questo male per farci raggiungere beni più alti.

    vv. 25-29

    25 Esattamente come dice Osea: chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo e mia diletta quella che non era la diletta. 26 E avverrà che nel luogo stesso dove fu detto loro: «Voi non siete mio popolo», là saranno chiamati figli del Dio vivente. 27 E quanto a Israele, Isaia esclama: Se anche il numero dei figli d’Israele fosse come la sabbia del mare, sarà salvato solo il resto; 28 perché con pienezza e rapidità il Signore compirà la sua parola sopra la terra. 29 E ancora secondo ciò che predisse Isaia: Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato una discendenza, saremmo divenuti come Sòdoma e resi simili a Gomorra.

    Tutto il dramma del rifiuto dell’opera salvifica di Dio verso il suo popolo è già preannunciata dalla predicazione profetica. Paolo porta a testimonianza tre testi: uno di Osea e due di Isaia.

    Osea parla di un non popolo che è il regno del nord che ha travisato la fede che accoglie la misericordia di Dio. Isaia parla di un “resto” che accoglierà le promesse di Dio.

    Quindi la profezia non ha mancato: l’Israele spirituale ha accolto la parola a differenza dell’Israele carnale. La promessa di Dio si è perciò realizzata (Anche se non ancora pienamente dirà poi Paolo) attraverso strade completamente nuove.

    vv. 30-33

    30 Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; 31 mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. 32 E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Hanno urtato così contro la pietra d’inciampo, 33 come sta scritto: Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo e un sasso d’inciampo; ma chi crede in lui non sarà deluso.

    La colpa del rifiuto da parte di Israele non è perciò da attribuire a Dio ma solo alla durezza di cuore che fa sì che Israele cerchi la giustificazione-salvezza nella Legge. Cercando da sé una propria giustizia non l’ha raggiunta. La presunzione ha perduto Israele.

    Al contrario i pagani hanno ottenuto la giustificazione tramite la fede.

    Piste di riflessione e di dialogo

    1. Il discorso di Paolo vale per tutti, non solo per Israele. Vale per le nostre comunità, ma anche per ciascuno di noi.

    Siamo ricolmati di “privilegi” da parte di Dio. Quali? Prova ad elencarne almeno alcuni in ordine di importanza.

    2. Il dono più alto che il Creatore ha fatto a noi è una sovrana libertà dinanzi alla quale Dio si ferma. Questa libertà è un male o un bene?

    Se non l’avessimo sarebbe meglio? Perché?

    Se è un bene? Perché

    3. Questa libertà può essere usata per il bene ma anche per il male, anche verso altri e gli innocenti. Questo è uno scandalo per ogni uomo. Come Dio può permettere questo?

    Abbiamo paura della nostra libertà?

    Siamo veramente liberi?

    4. La Parola di Dio ci rivela che nonostante la nostra durezza di cuore, il nostro peccato, Dio persegue il suo disegno di salvezza per altre strade. Egli si ostina nell’aiutare ogni uomo e tutta l’umanità a raggiungere l’approdo della salvezza. Questo ci dice l’infinita misericordia di Dio.

    Puoi portare quale esempio, qualche fatto che vanga a dare testimonianza di questa verità?

    Dove ho sperimentato l’infinita pazienza di Dio nei miei confronti affinché io imparassi a gestire meglio la mia libertà?

     

  • 04 Giu

    IL PERDONO IN COMUNITA’
    Mt 5,23-24

     

    a cura di p.Attilio Franco fabris

     

    In una comunità di giusti e di perfetti il perdono sarebbe una sgradita eventualità.

    Se invece la comunità è famiglia in cui constatiamo quotidianamente la nostra debolezza e la nostra fatica ad amare, allora il perdono da dare e ricevere dev’essere una presenza costante.

    In una comunità di perfetti tutto deve andare bene e non vi è nulla da perdonarsi: si tratta di una comunità  in fin dei conti poco cristiana.

    Una comunità composta di peccatori “consente” ai propri componenti di essere limitati, diversi,  colpevoli. La comunione nasce non solo dalla condivisione di ideali, ma anche dalla convinzione di aver bisogno l’uno del perdono dell’altro.

    Non vi è un sogno di un’umanità non segnata dal peccato, ma l’accettazione di uno sforzo umile e paziente di ricerca della riconciliazione che è sempre più forte del peccato.

    CUORE DELLA VITA COMUNITARIA

    Una comunità non può costruirsi e restare in vita al di fuori di una logica di perdono.

    Infatti:

    La riconciliazione impedisce al peccato di ostacolare i rapporti fraterni. Il peccato tende ad agire rimanendo nascosto.

    Non bisogna neppure illudersi che basti un perdono sacramentale: non è sufficiente!

    Finché il male rimane nascosto distrugge e spezza la comunità, quando viene riconosciuto nel perdono fraterno non solo perde ogni suo potere malefico, ma può addirittura diventare occasione di crescita e di riscoperta di ciò che ci unisce.

    Non vi può essere comunità senza perdono in quanto la riconciliazione è l’unica via storica per la comunione.

    La vita comunitaria è una rivelazione penosissima delle nostre debolezze e delle nostre tenebre “è il luogo in cui si scopre la profonda ferita del proprio essere e in cui si impara ad accettarla” (J. Vanier).

    Se noi rinasciamo proprio da queste ferite allora significa che anche le nostre comunità nascono dall’accettazione reciproca delle ferite di ciascuno.

    LA PARABOLA DELLA COMUNITA’ RICONCILIATA

    Ogni comunità è costruita sul paradigma della parabola del figliol prodigo.

    Non ci sono ruoli fissi perché tutti siamo ora come il figliol prodigo, ora come il figlio maggiore, talvolta come… il padre misericordioso.

    Una prima cosa è quella di imparare bene il ruolo del figliol prodigo: ovvero prendere seriamente coscienza del proprio peccato, dei propri torti nei confronti della comunità. Si tratta di trovare il coraggio di chiedere il perdono.

    Quando c’è questa coscienza e quando tale coscienza si manifesta in atteggiamenti concreti, si scopre la dimensione “materna” della comunità: ci si sente accolti sempre e molto più di quanto noi meriteremmo.

    Se non percepisco così la comunità dovrei anzitutto interrogarmi su come vivo e su come interpreto il mio essere peccatore di fronte agli altri. Chi non si sente a sufficienza figliol prodigo percepirà quasi sicuramente una comunità matrigna.

    Molte altre volte ci si comporta come il fratello maggiore: non vogliamo perdonare e ci da fastidio chi lo fa: chi impedisce la vita comunitaria non è tanto chi sbaglia, ma chi s’irrigidisce nel giudizio o nella condanna, e s’ostina a non capire che il perdono dato a un fratello giova a tutti e tutti ne devono godere.

    C’è infine, fortunatamente, chi cerca di identificarsi con il padre misericordioso: sono coloro che si pongono con un atteggiamento di pazienza e di fiducia nei confronti dell’altro. Un atteggiamento che può sembrare perdente agli occhi di tanti…

    Una comunità ha bisogno ogni giorno di cucire e ricucire i propri rapporti fraterni senza meravigliarsi degli inevitabili strappi.

    QUALCHE GESTO CONCRETO

    Ecco perché vi è necessità nella vita quotidiana di porre dei segni di riconciliazione.

    Uno di questi potrebbe essere la celebrazione di liturgie penitenziali. E’ un mettersi dinanzi al Signore insieme. Sia lui a dare la forza di perdonare, sia lui a sanare le ferite che tardano a rimarginarsi, sia lui a ristabilire quei rapporti che sembrano irrimediabilmente compromessi. Sarebbe bello che queste liturgie terminassero con un momento i festa.

    Un secondo gesto da valorizzare è il quotidiano rito penitenziale iniziale e lo scambio della pace durante la celebrazione eucaristica. Abbiamo bisogno ogni giorno di riconoscere il nostro peccato che provoca divisione, ogni giorno abbiamo bisogno di rinnovare la ragione del nostro stare insieme e del nostro riconciliarci prima di sedere insieme attorno alla mensa preparata per noi.

    Proprio perché viviamo in comunità c’è necessità di ripetere gesti, semplici ma veri, che esprimano una volontà di pace e di concordia.

    Un terzo elemento prezioso è la condivisione comunitaria, ovvero la correzione fraterna e la revisione di vita.

    Un tempo la vita dei monasteri e dei conventi era regolata anche da quello che si chiamava il “capitolo delle colpe”. Esso rivestiva un ruolo importantissimo. Ricordava che tutti erano peccatori verso la comunità e tutti avevano il bisogno del perdono di Dio e dei fratelli.

    Si è perso purtroppo in tante comunità questo gesto “sacramentale”, non sostituendolo con nient’altro. Esso va ricuperato con un linguaggio diverso. Certamente si tratta di un momento estremamente delicato che va vissuto in un clima di preghiera.

    Non dimentichiamo anche la correzione vicendevole fatta per amore e non per stizza o per umiliare l’altro.

    Infine ricordiamoci (specie prima delle nostre riunioni comunitarie) che se il nostro cuore non è in pace è pressoché impossibile accogliere in tutta verità la parola di Dio, la sua volontà.

    SCHEDA DI LAVORO

    1. Leggi e medita la parabola del Padre misericordioso in Luca 15,11-32.

    2. Spesso sogniamo una comunità di perfetti in cui il perdono vicendevole è un spiacevole inconveniente di percorso. Prendi invece atto che siamo comunità di peccatori bisognosi tutti di perdono e di riconciliazione tra noi e il Padre?

    3. Confrontandoti con i vari personaggi con quale ti sembra di trovarti maggiormente in sintonia?

    4. Quali gesti di riconciliazione potresti far sì che si attuassero nella tua comunità?

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

  • 03 Giu

    Chi ama il suo fratello dimora nella luce
    1 Gv 2,6-11

     

    a cura di p. attilio franco fabris

     

    Chi dice di dimorare in lui deve comportarsi come egli si è comportato. Carissimi, scrivendo non vi propongo un comandamento nuovo, ma un comandamento antico, che voi avevate in dal principio. Il comandamento antico è la parola che voi avete ascoltata. Tuttavia è anche un comandamento nuovo che vi propongo scrivendovi. Ciò è vero in lui e in voi, poiché le tenebre ormai passano e già risplende la vera luce. Chi afferma di essere nella luce e odia suo fratello è ancora nelle tenebre. Chi ama il suo fratello dimora nella luce e in lui non vi è pericolo d’inciampo. Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre e cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi. 1Gv 2,6-11

    Siamo in comunità per vivere il Vangelo, e nessuno può pretendere di giungere alla perfezione evangelica solo con la conoscenza personale delle Scritture o l’”osservanza” esterna delle regole: è nella comunità che noi possiamo interpretare Scritture e regole, viverle e metterle in pratica.

    La comunità diviene, per usare l’espressione tipica di san Benedetto, la “dominici schola servitii- scuola del divino servizio” il divino servizio che assume il carattere di servizio ai fratelli:

    Questo è lo zelo che i monaci devono esercitare con ferventissimo amore: gareggino cioè nel rendersi onore, sopportino con tutta la pazienza le loro debolezze fisiche e morali; si rendano a gara l’obbedienza; nessuno segua ciò che stima utile per sé, ma il vantaggio altrui; la comunità dei fratelli  abbia il loro casto amore; l’amore li stabilisca nel timore di Dio; nulla, proprio nulla, antepongano al Cristo che ci conduca insieme alla vita eterna” (Reg. 72).

    Comprendiamo come la comunità è il luogo, la “scuola” dell’iniziazione alla sequela del Signore Gesù, in cui ciascuno di noi si gioca totalmente.

    IL RISCHIO DI DISTORCERE IL VANGELO

    Il vangelo è la “regola” vivente e suprema: esso deve avere il primato all’interno delle nostre comunità.

    Ma dobbiamo fare attenzione al fatto che il vangelo posto nelle nostre mani può essere benissimo distorto.

    Quando non vi è vita comunitaria, quando manca la corresponsabilità tra i membri della comunità, questo rischio diventa realtà.

    Troppo forse si è insistito in passato sulla vita religiosa intesa come cammino di perfezione individuale in cui in fin dei conti non era così fondamentale camminare insieme ai fratelli.

    Ne scaturisce una conseguenza fondamentale e decisiva: ciascuno ha bisogno che la sua vita di fedeltà a una chiamata che lo trascende sia sottoposta alla verifica costante di un’educazione e un’edificazione reciproca all’interno della comunità.

    I fratelli e le sorelle, quali chiamati come me, divengono regola vivente gli uni agli altri; vivendo la Parola e trasmettendo il loro vissuto diventano  strumento, sacramento di Cristo in mezzo a loro.

    Quando non vediamo chiaro nella nostra vita, quando non sappiamo rispondere con gioia agli appelli del vangelo, allora Cristo ci parla attraverso i fratelli. Ci dobbiamo domandare se sappiamo svolgere vicendevolmente questo servizio.

    Ci domandiamo pure se illusi da ristrette visioni e progetti comunitari siamo stati attenti e aperti nel vedere nei fratelli la regola vivente. Vi è il pericolo che le idee diventino più importanti delle persone.

    Torniamo a ripetere che la comunità evangelica per essere vissuta abbisogna di un ambito di fede, capace di leggere anche ogni nostro rapporto con i fratelli. Se manca questa dimensione, i nostri rapporti finiscono per essere determinati solo da affinità e simpatie che a lungo ostacolano o bloccano il nostro cammino di sequela.

    Solo la fede ci permette di accogliere la custodia del fratello e l’essere da lui custoditi, di superare le inevitabili diversità.

    IL FRATELLO DEBOLE

    La preghiera è la condizione che ci permette di non avere una visione deformata del fratello. L’esperienza di fede precede sempre la carità:

    Il discepolo di Cristo deve vivere unicamente attraverso Cristo. Quando amerà Cristo a tal punto, forzatamente amerà tutte le creature del buon Dio… Quando ho cominciato ad amare Dio prima di tutto, in questo amore di Dio ho ritrovato il mio prossimo, e nello stesso amore i miei nemici sono diventati i miei amici, anzi creature divine… E’ lo Spirito che parla in me e dice: occorre morire per Cristo… (A. Spiridione, Le mie missioni in Siberia).

    Nella contemplazione, nell’esperienza dello e nello Spirito, raggiungo questa certezza: di fronte a Dio ci vediamo fratelli che condividiamo il bisogno di perdono, riconciliazione, misericordia da parte del Padre, e bisognosi gli uni degli altri per una vicendevole correzione e custodia fraterna, tutti senza distinzione sono accolti nel mio cuore:

    Perdonaci tutti, benedici tutti, ladroni e samaritani, quelli che cadono lungo la via e i sacerdoti che passano senza fermarsi, tutto il nostro prossimo; i carnefici e le vittime, quelli che maledicono e quelli che sono maledetti, quelli che si ribellano contro di te e quelli che si prostrano davanti al tuo amore. Prendici tutti in te, Padre santo e giusto (Preghiera dei cristiani perseguitati in Russia)

    Chiunque fa esperienza di un’autentica preghiera non può non uscire con tali sentimenti: ne esce con gioia e gratitudine per il perdono  offertogli da Dio, con la chiara sensazione di essere un nulla di fronte al Signore. Tale esperienza ci permette allora di capire e perdonare le colpe e le debolezze del fratello.

    Ogni giorno ci troviamo di fronte fratelli deboli e poveri umanamente, affettivamente, psicologicamente, fisicamente. E’ la condizione normale della comunità cristiana! Ce lo ricorda Paolo apostolo:

    Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a dio (1Cor 1,26-29).

    La comunità cristiana non si pone sotto il segno della forza e della sapienza umana, ma sotto il segno della debolezza e stoltezza di Gesù crocifisso.

    La tentazione sarà talvolta quella di rincorrere e richiedere alla comunità forza e sapienza umana: occorre guardare alla debolezza della croce.

    La comunità e ogni singolo è chiamato a riporre la sua gloria solo nel Signore e non in ciò che è immanente.

    Perciò guai a noi se disprezziamo il fratello perché è debole e povero, o addirittura perché maggiormente crocifisso: ciò significherebbe contraddire la sapienza del vangelo.

    Allora siamo chiamati ad assumere due atteggiamenti precisi:

    1. farci custodi del fratello debole cogliendo in lui l’immagine di Gesù sofferente e il sacramento di ciascuno di noi bisognoso della misericordia di Dio
    2. stimolare, aiutare con parole e gesti, alla speranza, alla gioia del dono di sé. Essere accanto al fratello debole come sacramento di Gesù “colmo di viscere di compassione”.

    Solo a questa condizione la benedizione della Trinità, promesse dal Sal 133 come rugiada e olio prezioso, potrà scendere nel cuore di ciascuno di noi e di conseguenza nel cuore delle nostre comunità.

    Se volessimo trascrivere questo canto della fraternità in chiave cristiana potremmo usare le parole di Gesù nell’ultima cena: Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, dall’amore che avrete gli uni per gli altri (Gv 13,35).

    L’olio prezioso, l’olio della consacrazione sacerdotale, penetra nel corpo e nelle vesti santificando e trasformando tutta la persona.

    La rugiada dell’Ermon: un’immagine di freschezza in un mondo assolto e arso.

    La vita fraterna è tutto questo con la benedizione di JHWH, in un mondo in cui l’esperienza di amore è moneta rara e ansiosamente cercata.

    Le parole del salmo sulle nostre labbra si trasformino in preghiera e invocazione sul nostro vivere fraterno:

    Ecco quanto è bello e quanto è soave

    Che i fratelli abitino insieme!

    E’ come olio prezioso sul capo

    Che scende sulla barba, sulla barba di Aronne,

    che scende sull’orlo della sua veste.

    E’ come rugiada dell’Hermon che scende sui monti di Sion.

    Là JHWH dona la benedizione

    E la vita in eterno (Sal 133).

    Scheda di lavoro

    1- Leggi e medita il brano di 1 Gv  2,6-11

    2. Guardo alla mia vita: posso dire di farmi carico, per quello che mi è possibile, del fratello debole umanamente, affettivamente, psicologicamente e fisicamente?

    3.  Nel considerare la mia comunità la penso sotto il segno della “forza” e della “potenza” umana, o sotto il segno della stoltezza e debolezza della croce?

  • 01 Giu

    Da Babele alla Pentecoste:
    dalla divisione all’unità nella diversità
    At 2,1-9

     

    di p. attilio franco fabris

     

    Il giorno della Pentecoste volgeva al suo termine, ed essi stavano riuniti nello stesso luogo. D’improvviso vi fu dal cielo un rumore, come all’irrompere di un vento impetuoso, che riempì tutta la casa in cui si trovavano. Apparvero ad essi delle lingue come di fuoco che si dividevano e che andarono a posarsi su ciascuno di essi. Tutti furono riempiti di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, secondo che lo Spirito dava ad essi il potere di esprimersi. Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei devoti, provenienti da tutte le nazioni del mondo. Al prodursi di questo rumore incominciò a radunarsi una gran folla, eccitata e confusa, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Fuori di sé per la meraviglia dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? Come mai ciascuno di noi li ode parlare nella propria lingua nativa? Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle regioni della Libia presso Cirene, Romani qui residenti, sia Giudei che proseliti, Cretesi e Arabi, tutti quanti li sentiamo esprimere nelle nostre lingue le grandi opere di Dio!». (At 2,1-9)

    La comunità cristiana prende il via il giorno di Pentecoste, nella stanza superiore del Cenacolo, luogo in cui Gesù consegnò alla sua comunità il nuovo comandamento dell’amore.

    Nel giorno di Pentecoste, ci dice il brano degli Atti degli Apostoli, a Gerusalemme era un gran convenire di rappresentanti di vari popoli e nazioni: una multiforme promiscuità di razze, lingue e culture.

     

    La discesa dello Spirito santo che è amore fa sì che ogni barriera venga abbattuta, non per formare una uniformità indistinta. Continuando a parlare la propria lingua ciascuno era in grado di capire quella degli altri.

    La lezione che ci è data è quanto mai chiara: non sono le lingue, né le razze, né le culture a creare separazione ma la mancanza di amore.

    Dovunque lo Spirito d’amore è presente le diversità cessano di separare gli uomini, anzi divengono espressione di ricchezza e di dono vicendevole.

    La scena della Pentecoste si colloca in antitesi a quella di Babele. In questa città vi fu il tentativo di costruire una unità  simboleggiata dalla città e dalla sua torre. Ma si trattava di un’unità ricercata solo umanamente, frutto forse di un sogno di potenza come quello di Alessandro Magno o dell’impero romano o del regime nazista. Un’unità imposta con la violenza, con l’eliminazione della diversità, con la paura morbosa di tutti coloro che sono “diversi” da noi.

    L’episodio di Babele contiene un epilogo tragico. Dice JHWH: “Discendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro” (Gn 11,7).

    Non è possibile giungere all’unità e alla comunione tramite la violenza o i soli sforzi umani. Solo Gesù può fare dono alla comunità dell’unità dello Spirito nel vincolo della pace (Ef 4,3). Una unità in cui non c’è né ebreo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, poiché tutti sono uno in Cristo Gesù (Gal 3,28).

    La Chiesa, e in modo particolare la comunità religiosa, lancia al mondo la sfida dell’unità nella diversità.

    E questa sfida è lanciata in un mondo in cui non si crede forse più alla possibilità della comunione.

    Il filosofo Schopenhauer paragona gli uomini ai ricci coperti di aculei. Afflitti dal freddo si avvicinano gli uni agli altri per avere calore, ma ricevono solo ferite gli uni dagli altri. Per cui si allontanano per ritentare all’infinito la stessa manovra.

    Jean-Paul Sartre afferma drasticamente: L’inferno sono gli altri, siamo condannati a vivere con gli altri come persone intrappolare nell’ascensore.

    Lo scrittore Francois Mauriac contraddistingue la comunità come un gregge di solitudini.

    E arriviamo al filosofo Thomas Hobbes che in qualche modo riassume tutti gli altri definendo l’uomo come homo homini lupus.

    Dobbiamo in verità dire che queste espressioni trovano spesso riscontro anche nella nostra esperienza. In quante famiglie e in quante comunità è possibile dire che almeno in qualche occasione non si sia attraversato la tempesta della discordia. Quante convivenze, esperienze di comunità, famiglie… si sono frantumate in poco tempo?

    Ci riconosciamo tutti poveri, tutti poveri ricci pronti a pungerci…

    Gesù ha creduto nella possibilità di una comunità. E se ciò non bastasse il suo progetto fu pensato in maniera ancor più difficile. Se già è difficile vivere la comunità in una famiglia, egli pensò addirittura di costituirne una senza basarsi su vincoli di sangue o di parentela: scelse gente povera, non istruita, diversa per età, appartenente a diversi partiti politici. Un progetto folle?

    Nella comunità di Gesù c’è posto per Simone lo zelota e per Matteo il pubblicano collaborazionista, per Pietro istintivo ed irruente e per Giovanni il contemplativo. Una miscela esplosiva ed impossibile! Eppure ciò che è impossibile presso gli uomini è possibile presso Dio (Mc 10,27).

    Ed è la comunità dei discepoli, questa comunità, che rende credibile, che presenta le credenziali al mondo, della verità di Cristo e della sua resurrezione: Come tu Padre sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda (Gv 17,21).

    Il valore della testimonianza della vita comunitaria stessa è già un segno grande di fronte al mondo: Fra questi discepoli, quelli riuniti nelle comunità religiose, donne e uomini “di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Ap 7,9), sono stati e sono tuttora un’espressione particolarmente eloquente di questo sublime e sconfinato Amore. Nate “non da volontà della carne o del sangue” non da simpatie personali o da motivi umani, ma “da Dio” (Gv ,13), da una divina vocazione e da una divina attrazione, le comunità religiose sono un segno vivente del primato dell’Amore di Dio che opera le sue meraviglie, e dell’amore verso Dio e verso i fratelli, come è stato manifestato e praticato da Gesù Cristo (V.F.  1).

    Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13,35).

    Se la sapienza nell’antico testamento diceva: Di tre cose mi compiaccio e mi faccio bella di fronte al signore e agli uomini: concordia i fratelli, amicizia dei vicini, armonia tra marito e moglie (Sir 25,1), è Gesù che ora viene ornato dalla bellezza di una veste bianca senza cuciture (cfr. Gv 19,24).

    Vivere in comunità è già un fine di per sé, non è semplicemente un mezzo per dare maggiore efficacia al nostro apostolato o per potenziare i nostri sforzi individuali. La comunità non può ridursi ad un semplice strumento a servizio dell’apostolato.

    Si vive in comunità per esprimere la vita trinitaria di dio, che è comunità di persone nella loro diversità, per celebrare la presenza di Cristo che è tutto in tutti (Col 3,11).

    Si vive in comunità per vivere il vangelo della misericordia del Padre in un continuo perdono reciproco e nella reciproca accoglienza.

    Sant’Agostino scrive: L’amore tra i cristiani è suono dolce e voce soave, tuba che convoca, che chiama da tutte le parti del mondo, pietra magnetica che attira i cuori” (Enn. in Ps. 133).

    Di fronte alle mille difficoltà alcune congregazioni hanno pensato di creare comunità omogenee. In definitiva si sono fatte comunità per Parti, Medi ed Elamiti… ma non ha funzionato. Anche in queste comunità le difficoltà non sono mancate.

    Ma allora la soluzione non sta nel lacerare la tunica di Cristo? Non sta nell’eliminare le diversità? No! La soluzione sta nel vivere nel dono dello Spirito. Solo la sua presenza è in grado di creare comunità.

    Dove vi è desiderio di crescita nella comunione e di fedeltà alla Parola lì è presente lo Spirito santo: Finché vi saranno tra voi l’invidia e la discordia sarete certamente carnali e vivrete secondo la carne (1Cor 3,3).

    Paolo quando dovrà trattare le difficoltà sorte nella comunità dei cristiani di Corinto non darà alcun peso ai vari carismi lì presenti; ciò che presenterà loro come vertice dell’esperienza cristiana sarà l’unione nella carità. Ed è la carità l’unica garanzia certa della presenza dello Spirito nella comunità.

    Il messaggio di Paolo è chiaro: fino a quando quei cristiani non saranno uomini di comunione non si illudano di essere spirituali.

    SCHEDA DI LAVORO

    1. Leggi e medita approfonditamente il testo di Atti 2, 1-13.

    Cosa ti colpisce di più? Perché?

    2. Dove trovi la fonte per raggiungere l’unità? Nei tuoi sforzi, nella violenza,…. Oppure hai coscienza che l’unità procede dal dono dello Spirito che è carità? Cosa significa questo? Cosa comporta concretamente?

    3.    Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13,35). Il primo segno di    testimonianza che la comunità cristiana è chiamata a dare è la carità. Vi è in te questo desiderio? Quali gesti poni concretamente lungo la tua giornata per vivere il comandamento? Cosa senti di dover cambiare nella tua vita?

  • 31 Mag

    Chiudi la bocca con porta e chiavistello
    Gc 3,2-10

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

    Tutti quanti infatti manchiamo in tante cose e se qualcuno non manca nel parlare è un uomo perfetto, in grado di dominare tutto se stesso. Se riusciamo a mettere il freno in bocca ai cavalli e ci obbediscono, noi li guidiamo interamente. Ecco che anche le navi, pur essendo così grandi e spinte da venti impetuosi, sono guidate da un timone minuscolo, a pieno arbitrio del nocchiero. Così anche la lingua è un membro minuscolo, ma può vantare imprese straordinarie. Ecco quanto piccolo è il fuoco e quanto grande è la foresta che esso incendia! E il fuoco è la lingua! Questo mondo di malizia, la lingua, è posta tra le nostre membra: essa che contamina tutta la nostra persona, brucia la ruota della nostra vita ed è poi bruciata essa stessa nell’inferno. Gli animali terrestri, i volatili, i serpenti, gli animali marini, sono stati e vengono domati dall’uomo. Ma nessun uomo può domare la lingua: essa è un male che non dà tregua, è piena di veleno mortale. Con essa noi lodiamo Dio, Signore e Padre, e, sempre con essa, malediciamo gli uomini, che sono stati fatti a somiglianza di Dio. Dalla medesima bocca viene fuori benedizione e maledizione. No, fratelli miei, le cose non devono andare così. (Gc 3,2-10)

    La maggior parte delle offese sono fatte con la lingua.

    San Giacomo già ammoniva: la lingua è un piccolo membro e può vantarsi di grandi cose. Vedete un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare! Anche la lingua è un fuoco… (3,5-6).

    I vecchi manuali di morale specificavano puntigliosamente tutte le varie specie di peccati che si commettono con le parole.

    Ad esempio nel capitolo che trattava della diffamazione distinguevano: la calunnia (diffondere notizie negative false); la detrazione (si diffondono vizi e peccati reali segreti); la mormorazione (si discorre di vizi e peccati conosciuti). Notiamo che la diffamazione è ritenuta di per sé peccato grave, salvo restando la “parvità di materia”.

    Uno degli aspetti dell’ascesi della vita comunitaria consiste nell’impegno nel controllare la parole che escono dalla nostra bocca: Pesa le tue parole con la bilancia e chiudi la bocca con porta e chiavistello (Sir 28,25).

    Potrebbe aiutarci una preghiera che troviamo nel libro del Siracide: Chi porrà sulle mie labbra un sigillo di prudenza e un guardiano sulla mia bocca, affinché io non cada per colpa loro e la mia lingua non sia la mia rovina? O Signore, padre e padrone della mia vita, non abbandonarmi all’arbitrio delle mia labbra (Sir 22,27-23,1).

    Dominare la propria lingua non è un’impresa facile: Infatti ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di essere marini possono essere domati e, difatti, sono stati domati dall’uomo, ma nessun uomo è riuscito a domare la sua lingua; essa è un male ribelle, è piena di veleno mortale (Gc 3,7-8).

    Gli attributi che vengono applicati alla lingua sono quelli di “serpente” (Sal 140,4), “coltello affilato” (Sal 52,4), “spada di acciaio” (Sal 57,5), “flagello” (Sir 28,17).

    Però la lingua non è solo portatrice di morte fortunatamente.  Essa può dare anche la vita. Vi sono parole che incoraggiano, che infondono speranza e gioia.

    Gesù ebbe solo “parole di vita eterna”.

    Dovremmo interrogarci chiedendoci: come sono le mie parole? Danno la vita o portano la morte? Converrebbe chiederlo a quelli che mi circondano.

    Se mi accorgo di pronunciare parole di morte dovrei ricercarne la causa nel profondo di me stesso, nelle mie disposizioni interiori nei confronti della vita e degli altri. Diceva a questo proposito sant’Alberto Magno: Quando la bocca di qualcuno è maleodorante, è segno che dentro di lui il fegato e lo stomaco non funzionano bene; allo stesso modo, quando qualcuno pronuncia cattive parole, è segno che il suo cuore è malato (Trattato sulle virtù, 2).

    Un piccolo cammino ascetico potrebbe consistere in un primo tempo a riconoscere umilmente che ci piace il pettegolezzo, la mormorazione, la calunnia. Spesso si sente dire: “A me non piace pettegolare, ma…”. Dovremmo invece riconoscere: “A me piace moltissimo pettegolare… Mi piace moltissimo curiosare tra i panni sporchi degli altri”. Il primo passo per la cura è la sincerità.

    Un secondo passo sarà quello di analizzare quali sono gli atteggiamenti e i sentimenti negativi che si trovano alla radice delle nostre critiche.

    Ad esempio prenderò coscienza della leggerezza e superficialità con cui parlo degli altri.

    Teniamo presente che non è vero che “le parole sono portate via dal vento”.

    San Giovanni d’Avila ammoniva: Stupisce molto vedere come le parole, essendo di scarsa mole e leggere come il vento, acquistino un peso tanto grande da trasformarsi in chiodi profondamente conficcati. Sono leggere nella sostanza, ma molto rilevanti nel bene e nel male che producono a seconda che sono buone o cattive.

    Occorre rinunciare  di pronunciare le parole senza riflettere, di parlare tanto per parlare: Nel molto parlare non mancherà il peccato (Pr 10,19). Occorre imparare a stare in silenzio! Se la polvere delle parole morte si posa su di te, lava la tua anima col silenzio (Tagore).

    “Apri la tua bocca solo se sei sicuro che ciò che stai per dire è migliore del silenzio” (Proverbio arabo).

    Occorre ancora imparare ad ascoltare. La natura ci ha fornito di due orecchie e di una sola bocca! L’uomo sia pronto ad ascoltare e lento a parlare (Gc 1,19) perché dovremo rendere conto di tutte le parole inutili (Mt 12,36). San Vincenzo de’ Paoli diceva: dovremmo avere la stessa difficoltà ad aprire la bocca come ad aprire la borsa per pagare.

    Un altro vizio contro cui bisogna combattere  è la vanità. Ci piace essere ritenuti ben informati su tutto e su tutti. Per quante persone non c’è soddisfazione migliore che diffondere una brutta notizia. Ci ammonisce il Siracide: Hai udito qualcosa? Fa’ in modo che rimanga custodita dentro di te. Coraggio, non creperai per questo (Sir 19,10). Disgraziatamente sembra che molti ritengono di crepare se non lo fanno.

    Accanto al desiderio di apparire ben informati c’è anche quello di essere ritenuti sagaci. Ci piace fare analisi psicologiche sulle persone, psicanalisi a buon mercato mirante ovviamente a darci ragione. Siamo prodighi di aggettivi: “Tizio è un narcisista”, “Caio ha il complesso di Edipo irrisolto”, “Sempronio soffre di impulsi masochistici” .

    Accanto a questo mettiamo l’atteggiamento peggiore e più distruttivo che è l’ironia malevola, capace letteralmente di distruggere una persona.

    I diffamatori sono realmente detestabili. Osservava Diderot: Chi parla male di tutti davanti a te, parlerà anche male di te davanti a tutti.

    Un’altra causa, forse la più prevalente, è l’invidia. Non riusciamo a sopportare le persone che spiccano, che ci superano con le loro qualità. L’invidia non consiste solo nel desiderare di avere quello che hanno gli altri, è qualcosa di molto più sottile. E’ desiderare che l’altro non abbia ciò che ha. Viene definita anche “la tristezza del bene altrui”.

    Questa tristezza ci spinge a minare il terreno sotto i piedi del prossimo, con commenti, insinuazioni, sottolineature che mirano a distruggerlo. E’ un vizio difficile da riconoscere in se stessi.

    Una volta che la scopriamo in noi stessi bisogna sforzarci di non parlare mai della persona che ne è l’oggetto.

    Altre volte ancora l’origine delle nostre critiche risiede nel risentimento o peggio nel desiderio di vendetta verso coloro che ci hanno fatto del male.

    Capita ancora che causa della nostra maldicenza sia l’amarezza interiore. Allora si proietta sugli altri la propria visione negative delle cose. Talvolta costoro giustificano questo atteggiamento decantando il loro “spirito critico”.

    Ancora un altro vizio che risiede nella lingua è quello di usarla in modo battagliero. Incapaci di dialogo queste persone si rapportano sempre in modo aggressivo: si trovano sempre dinanzi ad un nemico da contraddire sistematicamente. Fanno forse questo per poter affermare se stessi a se stessi: Soffrono di una malattia che consiste nella disputa e nel contendere con la parola. Da essa nascono le invidie, i litigi, le maldicenze, i sospetti cattivi e le dispute senza fine, tutte cose proprie di uomini corrotti nella mente e privi della verità (1Tm 6,4-5).

    San Paolo ci mette sull’avviso: Evita le discussioni sciocche e stupide; sai bene che generano contese. A un servo di Dio non si addicono le dispute, ma l’essere gentile con tutti (2Tm 2,23-24).

    A conclusione potremmo riaffermare una grande verità che dovremmo sempre tener presente: noi non vediamo le cose come esse sono realmente, ma come noi le vediamo, o meglio come noi vediamo noi stessi.

    Per scoprire la bellezza che ‘è dentro di noi bisogna previamente scoprire la bellezza che c’è dentro di noi. Le persone amareggiate, che non sanno accettare né valorizzare se stesse, si tuffano nella critica, spruzzando gli altri col proprio risentimento.

    Così il rancore, la tristezza e così via.

    Dice Lanza del Vasto: Così come la luce non può vedere le tenebre, perché illumina tutto ciò che guarda, così l’uomo buono non vede che bontà intorno a sé, perché la risveglia, la semina e la intravede dappertutto.

  • 30 Mag

    L’amore verso i nemici
    Mt 5,43-48

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

    «Avete inteso che fu detto: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico. Io invece vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi. Qualora infatti amaste solo quelli che vi amano, che ricompensa avreste? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che cosa fate di speciale? Non fanno lo stesso anche i gentili? Voi dunque sarete perfetti, come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli».

    L’aspetto più caratteristico dell’insegnamento di Gesù è l’amore verso i nemici.

    Se per altri insegnamenti è facile ritrovare testi corrispettivi nell’antico testamento, constatiamo che questo non ne trova.

    Troviamo al contrario sancita chiaramente la comune “legge del taglione”: “Occhio per occhio, dente per dente” (Es 21,24).

    L’insegnamento di Gesù è sublime, ma quanto difficile ed oscurato nella nostra realizzazione. Già un’omelia del II secolo riporta: Quando i pagani ci sentono dire “amate i vostri nemici” si riempiono di ammirazione. Ma poi quando vedono che non sappiamo amare neppure coloro che ci vogliono bene, ridono di noi.

    Erasmo di Rotterdam diceva: Nel combattere contro i malfattori ci comportiamo da malfattori anche noi, e lottiamo contro i turchi come se lo fossimo anche noi.

    Dove trova anzitutto radice l’insegnamento di Gesù? Certamente nella perfezione del Padre: Avete inteso che fu detto: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico. Io invece vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi.

    Io invece vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi.

    Qualora infatti amaste solo quelli che vi amano, che ricompensa avreste? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? (Mt 5,43-46)

    Il Dio della rivelazione fatta da Gesù è un Padre che sa soltanto amare, non come il Dio della filosofia e della religione naturale sempre pronto a fare giustizia intesa umanamente.

    Se il Padre ci ama, non è perché noi siamo buoni, ma perché lo è lui. Non può comportarsi diversamente.

    Il sole scalda sempre, anche se di fronte al calore del sole, la materia reagisce in maniera diversa: la cera si ammorbidisce, il fango s’indurisce. Ma il sole non sa fare altro che scaldare. Dio è amore (Gv 4,8).

    La prova che Dio ci ama è che Cristo è morto per noi mentre eravamo ancora peccatori” (Rm 5,8).

    Per il Padre che è nei cieli, tutti sono figli, nessuno escluso. Il suo cuore non soffre tanto per l’offesa quanto per il figlio che ha deciso di abbandonarlo.

    Per amare i propri nemici è necessario che prima entri, mi compenetri, del cuore misericordioso del Padre.

    Quanto spesso invece il nostro cuore è solo pronto al giudizio e alla condanna definitiva dell’altro. Nel nostro cuore condanniamo spesso l’altro all’ergastolo del nostro giudizio.

    Se Dio agisse così chi si salverebbe?

    Sempre Giovanni Crisostomo ci riporta un dialogo: “”Tizio non è disposto a correggersi, non ammette consigli”. “E come lo sai? Lo hai consigliato? Ti sei dato da fare per correggerlo?”. “Sì – mi risponde – ci ho provato parecchie volte”. “Quante volte?”. “Molte; una volta e…un’altra volta ancora…”. “Bravo! E questo lo chiami molte volte? Anche se lo avessi fatto per tutta la tua vita, non dovresti stancarti, né desistere. Non vedi come Dio ci esorta continuamente per mezzo dei profeti, degli apostoli, degli evangelisti? E cosa succede? Forse che noi ci comportiamo bene o agiamo in tutto secondo tali esortazioni? Assolutamente no! Eppure Dio non ha smesso di correggerci, non ha taciuto, non ha cessato di fare nuovi tentativi…”.

    Giudicare è un errore col quale giudico e condanno me stesso. Perché l’implacabile giudizio che emetto su di una persona di cui ignoro la storia intima, le difficoltà, le lotte e il peso atavico che si trascina dietro quel giudizio, mediante il quale immobilizzo e pietrifico tutto ciò che ancora è in gestazione, in realtà non fa che mettere in evidenza la durezza del mio cuore, la mia incapacità di comprendere ciò che è la creazione, la mia mancanza di tenerezza e di compassione, verso un’umanità incompiuta, ancora in embrione, che cammina a tentoni e impara ad esistere con enorme lentezza” (Lopez Melùs).

    Bernard Shaw soleva dire ironicamente: L’unico uomo intelligente è il mio sarto: mi prende di nuovo le misure ogni volta che vado a trovarlo.

    Il grande testimone della non violenza il Mahatma Gandhi testimonia: Ho creduto sempre alla lealtà dei nemici. Ho tanto creduto nella lealtà che, alla fine, l’ho trovata. Sì, approfittarono del mio carattere per ingannarmi. M’ingannarono undici volte di seguito e io, con stupida ostinazione, tornai a credere nella loro lealtà. Finché, alla dodicesima volta, non poterono fare a meno di essere leali. La scoperta della propria lealtà fu per loro e anche per me una felice sorpresa”.

    Non è questo mettere in pratica l’insegnamento dell’apostolo: L’amore è comprensivo; è disposto a discolpare senza limiti, a credere senza limiti, a sperare senza limiti (1Cor 13,7).

    Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; così facendo, accumulerai la brace sulla sua testa (Rm 12,20). Queste parole indicano chiaramente che l’unica vendetta consentita al cristiano è quella di fare il bene.

    Non irritare di più colui che è già irritato (Sir 4,2). Non rispondere alla violenza con la violenza “perché il fuoco non può essere spento col fuoco, bensì con l’acqua” (s. Giovanni Crisostomo). Siate pazienti con tutti e fate il possibile affinché non si renda male per male; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti (1Ts 5,15).

    E’ con la forza della non-violenza, della mitezza, che si riesce a vincere in profondità la violenza dell’altro. Egli non abbandonerà l’aggressività se io gli restituisco lo schiaffo, ma lo farà, se io gli porgo l’altra guancia (cfr. Mt 5,39). La non-violenza è un atto di estremo coraggio e di forza. Il cedere alla violenza rispondendo con altra violenza è essere vinti, è debolezza: è aggiungere un anello alla catena interminabile del male.

    La gioia di non aver causato alcun male al fratello è superiore alla gioia di una qualsiasi rivincita (C. Carretto).

    La vittoria su se stessi è la più difficile di tutte.

    Una piccola storia: un re aveva tre figli e, tra le tante ricchezze, possedeva un diamante di inestimabile valore. Il padre promise che lo avrebbe dato a colui che fosse stato capace di compiere la più grande impresa. Il maggiore uccise un drago. Il secondo, da solo e servendosi di un pugnale, riuscì ad uccidere dieci uomini in battaglia. Il terzo incontro il suo peggiore nemico profondamente addormentato sul ciglio di un’alta scogliera e lasciò che continuasse a dormire. E’ inutile dire che il diamante venne assegnato proprio a lui.

    Una componente del nostro amore per i nemici è la nostra preghiera per loro: Pregate per i vostri persecutori (Mt 5,44); “Benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi calunniano” (Lc 6,28).

    Chiederemo per noi la forza di vincere col bene il male, come anche che lo stesso nemico si penta smettendo di fare il male.

    Numerosi sono i casi, nell’Arcipelago Gulag, riferiti da Solzenicyn di questa testimonianza umile luminosa che talvolta finisce col toccare il cuore dei torturatori. Eugenia Ginzburg, nel “Viaggio nella vertigine”, ricorda quelle donne del popolo di un campo del Nord che, prigioniere per la loro fede, si rifiutavano di lavorare la domenica di pasqua, pur impegnandosi a recuperare il tempo perduto nei giorni seguenti. Condannate a restare in piedi, scalze nel fango gelato, si accontentarono di rispondere cantando degli inni di risurrezione. “Soffro e muoio per mano tua, ma lo faccio perché tu sia salvato”, diceva una di queste martiri. Una preghiera che circolava negli ambienti cristiani russi agli inizi degli anni sessanta invocava la misericordia di Dio sulle vittime e sui carnefici. Solo così, diceva questo testo, si sarebbe potuto “consolare il Consolatore””(O. Clement, La rivolta dello Spirito, p. 90-1).

    Una preghiera dunque che non ha uno sfondo egoistico, ovvero non fatta perché io possa vivermene in pace ed indisturbato, ma perché tutti possiamo essere salvati dal peccato e raggiungere il regno.

    Scrive sant’Agostino: Un artigiano vede nel bosco un tronco di rovere ed è interessato ad esso non perché desidera che rimanga per sempre così com’è, ma per l’opera d’arte che ne può venir fuori. Ama ciò che il tronco può diventare… Così, anche tu, quando il nemico ti si  oppone, si adira contro di te, ti insulta, ti molesta, ti oltraggia e i perseguita con odio, tu vedi ciò che egli è. Ma tu, cosa dici nel tuo intimo? Signore, sii benevole con lui, perdona i suoi peccati, infondi nel suo cuore il tuo timore, cambialo. Tu non ami il nemico che c’è in lui, ma il fratello che vuoi che egli sia. Dunque, quando ami il nemico, ami il fratello.

    E se non cambia? Non desistere, stai facendo in modo che Dio stesso sia il tuo debitore. Non domandarti se l’altro è degno o no del tuo amore, ma chiediti, invece se tu come discepolo del Signore non debba amarlo: Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che i fanno del bene, che merito ne avrete? (Lc 6,32-33).

    La parola grazia esprime il concetto di gratuità, un sentimento che ci strappa dalla sfera della compravendita, del do ut des, per introdurci nella sfera dell’amore incondizionato del Padre, di Colui che non ama gli altri perché sono buoni, ma perché lui è buono per se stesso.

    E. Freud diceva: Quando mi chiedo perché ho sempre agito onestamente, disposto a perdonare gli altri e a mostrarmi gentile ogni qual volta che mi è stato possibile, e perché ho continuato sempre a comportarmi così, pur rendendomi conto che così facendo potevo recare danno a me stesso, esponendomi ai colpi degli altri, dato che esistono uomini brutali e indegni, veramente non trovo una risposta.

    Non è forse questo un influsso della grazia, una nostalgia del nostro essere fatti ad immagine e somiglianza del Creatore?

    Fratel R. Schtutz afferma: Perdonare significa rinunciare a capire ciò che l’altro farà del tuo perdono… Non bisogna perdonare affinché l’altro cambi col nostro perdono. Questo è un calcolo miserabile che non ha niente a che fare con la natura gratuita dell’amore. Si perdona soltanto per seguire le orme di Gesù Cristo. Per poter essere perfetti come è perfetto il Padre nostro che sta nei cieli.

    SCHEDA DI LAVORO

    1. Leggo e medito Mt 5, 43-48.
    1. La mia verifica sulla pratica del comandamento della carità trova il suo punto di riferimento nella perfezione d’amore del Padre? Oppure si ferma a confini posti da me stesso?  Quanti escludo dal mio amore? In che modo?
    1. Il mio impegno nel perdonare il nemico      come si concretizza nella mia vita cristiana? Pongo dei gesti concreti? Mi sforzo di pregare per i miei nemici?

     

  • 29 Mag

    I SETTANTADUE: DUE A DUE AVANTI A SÉ
    Luca: 10,1-20

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    1 Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 2 Diceva loro: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe. 3 Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi; 4 non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada. 5 In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa. 6 Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. 7 Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua mercede. Non passate di casa in casa. 8 Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi, 9 curate i malati che vi si trovano, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio. 10 Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: 11 Anche la polvere della vostra città che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino. 16 Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato». 17 I settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: «Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome». 18 Egli disse: «Io vedevo satana cadere dal cielo come la folgore. 19 Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare. 20 Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli».

    Questi settantadue discepoli svolgono un ruolo simile a quello di Giovanni. Si pongono tra la comunità apostolica e la comunità del mondo. Esprimono la varietà dei ministeri di cui il Signore (Kyrios v. 1 il risorto) ha bisogno per realizzare la sua missione.

    Essi sono per così dire la premessa di una comunità, una Chiesa, tutta ministeriale che troverà pieno sviluppo nelle seguenti comunità apostoliche. La loro missione prelude alla missione ministeriale di tutta la Chiesa, destinata a tutte le genti (72 popoli secondo Gn 10 vers. LXX)

    Essi condividono la missione di Gesù, si sono  consegnati a lui e lui si è consegnato a loro perché chi vede loro veda lui e chi ascolta loro ascolti lui. Sono la missione della Chiesa concretizzata nella vita, nella storia, negli incontri di ogni giorno.

    Questi discepolo hanno ricevuto da Gesù precise indicazioni. Essi devono rendere possibile l’incontro tra lui e l’umanità. Ciò sarà reso possibile dalla testimonianza d’amore che essi sapranno offrire al mondo; per questo sono mandati a due a due: “Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.

    Andate...”: il comando categorico di Gesù indica la serietà dell’impegno missionario.

    Gesù imprime in loro la stessa passione e urgenza (non salutate nessuno) per il regno indicando che il primo modo di viverla è desiderare che altri la condividano.

    Essi sono indifesi, poveri, deboli, (“agnelli in mezzo ai lupi”) ma totalmente concentrati sulla consapevolezza dell’importanza e dell’urgenza di quello che Gesù ordina. Egli li manda all’interno della quotidianità, della ferialità perché è lì, in quella esperienza umana, che Gesù vuol far giungere l’evangelo del regno. La casa, l’intimità, la ferialità…

    L’evangelo è destinato a diventare casa, città, stile di vita, guarigione, storia di gente concreta. I discepoli faranno in modo che chi li ascolta senta che sta ascoltando il Signore, che chi li disprezza sta disprezzando il Signore; il loro annuncio non appartiene a loro perché non è solo umano, sociologico, laico… Esso viene da Dio, ed è destinato ad irrompere nella storia per trasformarla in Regno di Dio.

    I discepoli ritornano con gioia ed essa è condivisa da Gesù stesso (vv 18-19). La loro missione è riuscita. Ma Gesù avverte: questa gioia, la vostra passione e il vostro zelo, non devono derivare dal fatto che i demoni si sottomettono…. Verranno infatti giorni in cui essi sperimenteranno la delusione, l’insuccesso, l’amarezza e la persecuzione: se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi. La loro gioia deve fondarsi su un’altra realtà: il fatto che essi stanno dando la vita per il servizio del regno e che questo merita loro che i loro nomi siano scritti nei cieli: “Siamo solo servi inutili, abbiamo fatto quello che dovevamo fare”…. “Vieni servo buono e fedele entra nella gioia del tuo padrone”. Il cercare altro è pericoloso e sempre insufficiente.

    CONFRONTANDOMI

    Con la Chiesa, come Chiesa, sono costruttore di un regno che in germe è già presente tra noi ma non ancora pienamente manifestato e realizzato.

    La missione dei settantadue dice l’amore per la Chiesa, per essere Chiesa, per consegnarmi alla Chiesa e alla missione che Gesù le ha affidato.

    Ma devo preoccuparmi sempre di far un passo in più. Da un sentirmi partecipa della vita della Chiesa al sentirmi partecipe alla vita del mondo mettendomi sempre dal punto di vista della Chiesa, palpitando con essa la sua missione per l’uomo frutto dello Spirito di vita.

    Si tratta di:

    Amare la Chiesa. Come Madre che mi ha generato alla vita della fede. Amare anche le sue rughe, e le sue stanchezze, contraddizioni. Amarla anzitutto.

    Amare la storia come la Chiesa la ama. Con la sua passione, il suo dramma. L’essere tutta di Dio pur mescolandosi in mezzo agli uomini.

    Amare la missione della Chiesa, consegnandomi sempre più ad essa. Ciò significa consegnarmi a Cristo stesso. E’ una vita donata, feconda, preziosa.

    Il mondo non capirà, ma vedendo la nostra testimonianza si innamorerà di ciò che è oltre di noi. Innamorandosi vorrà sperimentare. Sperimentando comprenderà.

    DI CONSEGUENZA

    Voglio collocare la mia piccola storia nella storia della Chiesa. Una Chiesa concreta fatta di volti precisi con le loro bellezze e i loro limiti.

    Voglio amare la Chiesa: imparando a guardare e amare il mondo attraverso i suoi occhi.

    Voglio amare la Chiesa e le chiese che fanno Chiesa. La mia comunità, la mia parrocchia…

    Prendo coscienza del mio essere consacrato alla missione.

     

  • 28 Mag

    LA LAVANDA DEI PIEDI: “IO VI HO DATO L’ESEMPIO…”
    Dal Vangelo di Giovanni: 13, 1-17

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    1 Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. 2 Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, 3 Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4 si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. 5 Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto. 6 Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». 7 Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo». 8 Gli disse Simon Pietro: «Non mi laverai mai i piedi!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». 9 Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!». 10 Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti». 11 Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete mondi». 12 Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Sapete ciò che vi ho fatto? 13 Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. 14 Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. 15 Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. 16 In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. 17 Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica.

    I gesti compiuti da Gesù durante l’ultima cena esprimono la pienezza di un amore senza riserve: “Li amò sino alla fine…”. Cioè fino alla perfezione, sino al compimento, oppure fino alla fine della vita, sino alla morte. Fine: telo; in greco sembra formare un’inclusione con l’ultima parola di Gesù in croce: Tutto è compiuto – tetélestai.(19,30) con la quale Gesù esprime il compimento dell’opera affidatagli dal Padre per la salvezza del mondo.

    I discepoli ormai sono i “suoi”: l’adesione ormai è sincera, seppur in mezzo a molti tentennamenti ed incertezze. Ma una cosa è certa: essi hanno lasciato tutto per seguire il loro Maestro e Signore….

    C’è una vita con lui, educata da lui con le parole e l’esempio. C’è una quotidianità con lui, uno stare insieme (“perché stessero con lui” – “Maestro dove abiti? Venite e vedete!”)… Si è intuito da parte dei discepoli che egli è il Messia, tuttavia… non si è andati ancora sino alla fine….

    In questo momento, in quest’ultima tappa della vita terrena di Gesù, si esige un salto di qualità: da una vita ricevuta si passa ad una vita donata. C’è da diventare come lui: la beatitudine è oltre la sequela. E’ nella conformazione: non solo servi ma amici. Non solo esecutori ma imitatori. Non solo con lui, ma come lui.

    Gesù dona se stesso nell’ultima cena ai suoi nel segno del pane spezzato e del vino versato. Corpo spezzato in sacrificio, sangue versato per la remissione dei peccati.

    Consegna se stesso ai suoi ma perché anch’essi siano consegnati al mondo. Consacro me stesso perché siano anch’essi consacrati nella verità. “Io vi ho dato l’esempio perché come ho fatto io così facciate anche voi”.

    Una vita così intesa assume significati così profondi che il mondo potrà solo ammirare: non capire “Sarete beati…”. Ammirando e ascoltando, solo allora, se vorrà, l’uomo sperimenterà che cosa succede a fare della propria vita un dono. Allora e solo allora, nella beatitudine che ne deriva, gli uomini capiranno…

    Ma Gesù deve cominciare con i suoi. Da seguaci li rende comprotagonisti. “Io nel Padre e voi in me…”-

    Il tutto è avvolto nella testimonianza di dono, di servizio. Gesù si cinge con l’asciugatoio. Il contesto è sacerdotale e questo è l’unico abito liturgico indossato da Gesù. Egli compie un gesto profetico. Per sé la lavanda dei piedi era gesto abituale all’inizio dei pasti ma non durante. Un servizio tanto umile che era demandato agli schiavi non ebrei. E’ facile immaginare lo sconcerto provocato dai discepoli.

    L’eucaristia scaturisce dalla diakonia e fa sgorgare la diakonia.

    Servi gli uni degli altri.

    Popolo regale e profetico, Signori e Maestri, si diventa se l’essere popolo sacerdotale comporta il cingersi con un grembiule per servire… “Per voi e per tutti…”

    Il gesto profetico di Gesù diventa autentica scuola di vita per il discepolo

    Si apre un orizzonte straordinario di una vita spesa, fatta dono…

    E’ questa la premessa per vivere un’autentica esperienza battesimale e vocazionale personale e matura. In qualsiasi chiamata specifica il Signore mi abbia indirizzato, sempre occorrerà vivere questa prospettiva: quella di quel Giovedì santo

    CONFRONTANDOMI

    C’è un’ultima reazione che mi appartiene. La paura di Pietro a farsi lavare i piedi dal Signore.

    Il vivace scambio di battute tra Gesù e Pietro esprime l’incomprensione del gesto misterioso e anche la contrarietà del primo degli apostoli per l’umiliazione del maestro. Pietro rifiutando l’umile azione di Gesù rifiutava senza averne coscienza tutta la sua opera di Messia sofferente che doveva offrire la sua vita per la salvezza del mondo (cfr Mc 8,31-33: “Non sia mai…”).

    Pietro ha paura di lasciarsi definitivamente amare, e perciò compromettere.

    Ma devo lasciare fare a Gesù se voglio essere da lui trasformato a sua immagine.

    Solo accogliendo in maniera docile e radicale il suo gesto d’amore per  me imparo a calare la volontà di Dio nella mia vita lì dove sono anzitutto, con quelle determinate persone, in quelle precise situazioni.

    La vita di Gesù donatami nel pane e nel vino, nella lavanda dei piedi non si fermano solo a me. “Fate questo in memoria di me… Sarete Beati se lo farete anche voi gli uni agli altri”. L’essere stato chiamato fa di me un inviato.

    Una vita nell’Eucaristia. Una vita al servizio. Una vita che diventa eucaristia.

    La struttura celebrativa dell’eucaristia diventa la sorgente e la forma del mio itinerario:

    prendo coscienza della mia fragilità e del mio peccato

    Mi pongo in ascolto della Parola.

    L’offerta di me al Padre

    Una vita consacrata dallo Spirito in Cristo, per Cristo e con Cristo

    Un vita inviata per farsi dono.

    DI CONSEGUENZA

    Si tratta di fare della mia vita un’eucaristia conformandomi a Cristo nella sua passione.

    La celebrazione dell’eucaristia: un punto di arrivo e di partenza.

    Il servizio: modalità con cui si attua, atteggiamenti che suscita, motivazioni che lo incrementano. Difficoltà nel viverlo.

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