Non abbiamo che un solo Padre
Lectio di Mt 6,9-10; Lc 11,2
di p. attilio franco fabris
E’ interessante notare che la religione monoteistica mussulmana tra i “Novantanove Nomi” dati a Dio non contiene quello di “padre”. Troppo forte è per questa religione la concezione di una trascendenza assoluta di Dio per potergli applicare una simbolica che troppo fa riferimento all’esperienza umana e alla fede cristiana. Dalla mancanza di questo titolo attribuito a Dio difficilmente può scaturire la consapevolezza che tutti siamo suoi figli, che l’umanità deve costruirsi come un’unica grande famiglia in cui ciascuno viene accolto, come in ogni famiglia, nella sua uguale dignità, diversità e libertà.
In contrapposizione mi piace riportare un episodio tratto dalla vita di Teresa di Lisieux, una piccola del Regno, che ha sperimentato nella sua vita un abbandono totale e fiducioso nelle mani del Padre, sapendo allargare il suo cuore in un abbraccio a tutta l’umanità fosse anche quella più lontana da Dio. Un giorno – racconta Celina sorella di Teresa – entrando nella cella della nostra cara sorella rimasi sorpresa dalla sua espressione di grande raccoglimento. Cuciva con slancio e tuttavia sembrava perduta in una profonda contemplazione. “A che pensi?” le chiesi. “Medito il Pater noster” mi rispose “ è così dolce chiamare Dio Padre Nostro!”. E le spuntarono le lacrime agli occhi. Teresa amò Dio come un bambino vuole bene al babbo con incredibili manifestazioni di tenerezza. Durante la sua malattia accadde che, parlando di lui, prese una parola per un’altra e lo chiamò papà. Noi ridemmo ma lei riprese tutta commossa: “Oh sì, è proprio mio papà, e quanto mi è dolce dargli questo nome (Consigli e ricordi).
Invochiamo dallo Spirito di Gesù la grazia di fare la stessa esperienza della dolce e forte paternità di Dio che aprendoci gli occhi ci fa scoprire nell’altro il fratello e la sorella che lui ci dona: O Spirito santo di Dio, / colomba che scendi dall’alto, / aleggia su noi qui raccolti, / ispira la nostra preghiera./ Un cuore unito chiediamo, / un cuore che sappia ascoltare, / un labbro capace di lode, / che sappia al Padre parlare. / Tu operi tutto in tutti, / i doni son molti e diversi, / ci chiami a formare un sol corpo / e l’unico tempio tuo santo. Amen (dalla Liturgia di Bose).
Lectio
Numerosi erano i popoli antichi che usavano chiamare Dio con il nome di “Padre”. Ma occorre fare attenzione; non tutti coloro che chiamano Dio col nome di Padre si rivolgono allo stesso Dio; anche Assur il dio sanguinario di Ninive, a cui venivano offerti anche sacrifici umani, era chiamato “padre”. Quindi non basta fermarsi al titolo, ma occorre guardare la realtà che esso indica per comprenderne il significato vero.
Si rimane meravigliati constatando che, nell’Antico Testamento, l’appellativo “Padre” riferito a Dio sia usato pochissime volte (15 in tutto!). Israele infatti ha osato rivolgersi a JHWH con l’appellativo di “Padre” molto tardi. Questo per il semplice fatto che nelle mitologie pagane limitrofe la paternità di Dio era intesa in senso troppo fisico-materiale, e questa era una visione incompatibile con l’altissima concezione spirituale che Israele aveva di Dio. L’Antico Testamento userà il titolo di Padre per sottolineare soprattutto la coscienza di Israele di essere stato generato come popolo da parte di JHWH attraverso il dono dell’alleanza. Da cui scaturisce il dovere di un’obbedienza filiale nei suoi confronti: “Voi siete figli di JHWH, vostro Dio” (Dt 14,1). Successivamente questa paternità di Dio, attraverso la predicazione profetica, viene estesa a tutti gli altri popoli: “Non abbiamo noi tutti un unico padre? Non ci ha creati un solo Dio? (Ml 2,10).
Ma chiamare Dio “Padre” non significa ancora chiamarlo “Abbà”: parola con cui i bambini si rivolgevano al loro “papà”. E’ il termine aramaico affettuoso e confidenziale con cui il bambino si rivolge al proprio “babbo”. E Gesù, quando parla di Dio e si relaziona con lui nella preghiera, usa abitualmente questo appellativo, suscitando lo scandalo presso i teologi dell’epoca: “Proprio per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo: perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio” (Gv 5,18). Il che non può che indicare che il suo rapporto con Dio è caratterizzato da un’assoluta e unica confidenza, intimità e fiducia.
Dunque nel Nuovo Testamento il volto di Dio “Abbà” è una rivelazione di Gesù anzitutto perché egli stesso si pone dinanzi a lui sin dall’inizio con una chiara autocoscienza del suo essere a pieno titolo suo “Figlio” (cfr Lc 2,49).
Ma a cosa fa riferimento la rivelazione di Dio “padre-abbà”? Il primo e fondamentale significato dell’appellativo è quello di Dio riconosciuto come fonte originaria della vita e di relazione filiale. E’ da lui che “proviene ogni paternità in cielo e in terra” (Ef 3,15) per Gesù prima di tutto in quanto Figlio per natura, ma anche per noi che attraverso il nostro unirci a Cristo mediante la fede, incorporati a lui col battesimo, diveniamo a tutti gli effetti figli adottivi: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12); “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1Gv 3,1). Certamente il rapporto tra Gesù e il suo “Abbà” è unico; non troviamo mai che egli preghi insieme ai suoi discepoli dicendo con i discepoli “Padre nostro” (cfr Gv 20,27). Tuttavia i discepoli di Gesù, entrando a far parte della sua famiglia, imparano a loro volta a rivolgersi a Dio come figli, chiamando Dio familiarmente “Padre” come ha fatto Gesù. E questo è dono dello Spirito (Gal 4,6; Rm 8,15) che ci dona la capcità della parresia ovvero di una “disinvolta confidente familiarità” con Dio (osiamo dire…). Per il cristiano si instaura perciò con Dio-Abbà un rapporto di grande familiarità che deriva dalla consapevolezza di essere figli nel Figlio (cfr. Ef 3,11-12). Quando nei testi neotestamentari troviamo l’appellativo “Padre” probabilmente esso traduce sempre l’unica espressione aramaica usata da Gesù: “Abbà”. Egli ci ha rivelato l’immagine di Dio come Padre colmo di misericordia che ha cura dei suoi figli (cfr Lc 15), di cui non si deve e non si può avere paura. Ci ha insegnato a rivolgerci a lui con la semplicità dei bambini (Mt 5,15) perché Egli conosce e ha cura di ogni sua creatura (Mt 6,25-31; Lc 12,6). È esattamente il contrario di un padre-padrone perché la sua paternità è viscerale, compassionevole, mai possessiva anzi desiderosa di promuovere la vera libertà dei figli.
L’aggettivo “nostro” nel Pater riportato da Matteo è riferito ovviamente a Dio (“di noi”) e non sta ad indicare certamente possesso: Egli è il nostro Dio e noi siamo il suo popolo. Si tratta di un’appartenenza reciproca che ci è stata offerta gratuitamente nell’Alleanza: Io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio (Ap 21,7).
La paternità di Dio si esprime al plurale perché il suo amore è per tutti. Egli invita gli uomini a percepirsi e raccogliersi da fratelli in un’unica famiglia, questa è una dimensione fondamentale della richiesta del Regno invocato dalla preghiera del Pater (Mt 5,44-45). Un “Nostro” che è riferito in primo luogo a quella realtà sacramentale del Regno già presente che è la Chiesa, famiglia di Dio.
Una ulteriore sfaccettatura dell’aggettivo “nostro” è che il Pater è la preghiera che ci fa passare dall’inizio alla fine dal Tu al Noi; constatiamo infatti che nella prima parte al centro vi è un Tu: il tuo nome, il tuo regno, la tua volontà, e nella seconda parte predomina il noi: da a noi il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti, non indurre noi in tentazione, libera noi dal male. Siamo figli, un unico corpo, un’unica famiglia, fratelli e sorelle raccolti attorno a Cristo che crea tra noi legami più forti di quelli del sangue (cfr Mt 23,8). Mette in luce che l’essere suo popolo è una immensa e gratuita degnazione da parte di lui senza alcun nostro merito, cosa che impedisce di trasformare la grazia dell’elezione in spirito di gretto settarismo.
Infine, sempre Matteo, inserisce l’espressione “che sei nei cieli” comunissima al tempo del giudaismo. Ad esempio un rabbino contemporaneo degli apostoli dice: “Le pietre dell’altare fanno nascere la pace fra Israele e il Padre suo che è nei cieli”.
Gli antichi erano meravigliati dalla profondità del cielo a loro inaccessibile che rievocava il mistero, la trascendenza, l’infinito. Nella loro cosmologia il cielo appariva loro come una realtà solida sulla quale sta il trono di Dio, la sua dimora, la sua corte celeste, il suo palazzo (cf Sal 2,2s; 104,2; Gb 1,6-12). L’espressione “che sei nei cieli” sta dunque ad indicare la totale trascendenza di Dio, il suo mistero inaccessibile, ma non la sua lontananza! Dio è vicino e lontano, Padre e Signore. Il credente unisce confidenza e timore, familiarità e obbedienza. Certo l’espressione che “sei nei cieli” unita a “Padre” può generare un certo disagio: un vero padre non è mai lontano, staccato, inaccessibile. Tuttavia nella fede siamo chiamati a conciliare questi due aspetti di Dio: la sua paternità non esclude la sua trascendenza e viceversa. E’ un mistero di amore che ci avvolge e che nello stesso tempo ci trascende. E ancora: “che sei nei cieli” è richiamo a Dio come Creatore divenendo invito a scorgere in ogni cosa un suo dono.
Sono cieli, che un tempo chiusi, sono ormai spalancati da Gesù (“si spalancarono i cieli” Mt 3,16) a tutta l’umanità perché in lui cielo (Dio) e terra (umanità) sono ormai eternamente riconciliati. Paolo può dire: Il Padre ci ha fatti sedere (ovvero possiamo rimanervi, sono ormai nostra dimora) nei cieli in Cristo (Ef 3,6). Il peccato ci aveva allontanato da questi cieli, ma essi sono ridiventati la “nostra patria”. Viviamo come esiliati: Sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste (2Cor 5,2). La nostra conversione non è altro che un ritorno al cielo di Dio dove finalmente l’umanità sarà unica famiglia raccolta nella casa del Padre.
Meditatio
Psicologi e sociologi affermano che la nostra società ha rifiutato la presenza e il ruolo del padre per cui si è parlato per la cultura occidentale di una sorta di “morte del padre”. La sua figura legata ad ogni forma di autorità è stata infatti rifiutata – anche violentemente – a partire soprattutto dagli anni ’60 perché avvertita come un ruolo bloccante e frustrante della spontaneità della vita. Si è visto nella figura del “padre” l’avversario-padrone da combattere in quanto rappresentante di tutti i condizionamenti e alienazioni e si è rivendicato, in una società improntata sull’ideologia radicale che rivendica un’autonomia assoluta (fonte di ogni relativismo) il diritto da parte di ognuno di decidere della sua vita, senza riferimento a nessun “padre”, come meglio crede: anche per quanto riguarda la morte. Anche l’ingegneria genetica – quando ha prescisso dal “padre” rivendicando una sua autonomia da ogni valore di riferimento, è entrata talvolta in un gorgo delirante di onnipotenza, dando luogo ad esistenze che alla loro origine mancano del volto del padre-madre. Anzi questo “padre-madre” anonimo è contrassegnato inevitabilmente da una maschera di morte (per ogni embrione fatto crescere molti altri sono lasciati morire!). La conseguenza è che ci troviamo ad aver a che fare sempre più, soprattutto nell’ambito delle nuove generazioni, con un uomo orfano, solo, sperduto, senza radici, frutto unicamente del caso e perciò incapace di affermare la propria identità e dignità più profonda. La vita, propria e altrui, non avendo significato non vale nulla: il quattordicenne può sparare benissimo al barista per non pagare il conto di 20 euro, o se ammalati ci si può gettare dal balcone perché tanto non c’è nessun padre che abbracci e consoli. La conseguenza è che nell’ “altro” che mi sta di fronte spesso non si è più capaci di vedere il dono di un fratello o di una sorella da accogliere e amare perché parte di me, della mia vita e della mia storia. L’“altro”, spesso anche all’interno della famiglia, è tutt’al più un “qualcuno”, o forse “qualcosa” da sfruttare se debole, da cui sbarazzarsene se dà fastidio, o da cui difendersi se troppo forte perché minaccia la mia libertà. La nostra è così una società di orfani e di figli unici: senza famiglia, senza padre/madre e perciò senza fratelli né sorelle!
Questa “orfanezza” invece di spingere alla ricerca del volto del vero padre sembra premere in un parossistico tentativo di spegnere solo l’angoscia che da questa assenza deriva: piccoli orizzonti individuali o incontri racchiusi nel “tutto e subito” di piaceri passeggeri e fine a se stessi, ossessioni di incontri “virtuali” (più si è meglio è!) che vorrebbero rappresentare quella casa in cui toccare con mano il calore dell’affetto e dell’abbraccio che tutti vorrebbero e che, invece, si rivelano come case fredde e anonime che non riscaldano mai a sufficienza il cuore e in cui, nel riflesso del monitor, è sempre e solo il proprio volto a specchiarsi.
Tutto questa cultura ha inciso fortemente e negativamente anche sul pensare Dio e Dio come Padre. Lo spauracchio di Dio non funziona più per obbligare i più a stare “in casa”, e il “buon Dio”al massimo è utile per le donne e i bambini. Il giovane e l’adulto non ha bisogno di un “Padre”, può rischiare benissimo da sé la vita che sente solo sua. Tutt’al più può far riferimento a una religiosità vaga e universale, ad un cosmo divinizzato… in cui non ci si sente minacciati nella propria indipendenza e autonomia perché non mi interpella chiamandomi per nome.
Questi sono alcuni tra i tanti motivi dell’allontanamento dalla chiesa, la casa della famiglia di Dio, soprattutto da parte delle nuove generazioni. La religione del Padre è rifiutata o, il che è peggio, lascia completamente indifferenti. Lo scrittore E. Hemingway scriveva in uno dei suoi “49 Racconti” una parodia del Padre Nostro: O nulla nostro che sei nulla, / sia nulla il tuo nome / nulla il regno tuo / e sia nulla la tua volontà / così in nulla come in nulla/. Dacci oggi il nostro nulla quotidiano / Ave, nulla, pieno di nulla, / il nulla sia con te”. Sono parole estremamente drammatiche che risuonano in un buio vuoto colmo di assurdità, ma quanto mai rappresentative della nostra epoca.
Questa mala comprensione di Dio non è altro che frutto del peccato, del lasciar continuamente insinuare nel cuore il sospetto di un Dio geloso che non vuole il bene e la gioia delle sue creature: Giovanni Paolo II scriveva nella sua enciclica “Dominus et Vivificantem”: “Lo spirito delle tenebre (Ef 6,12) è capace di mostrare Dio come nemico della propria creatura e prima di tutto come nemico dell’uomo, come fonte di pericolo e di minaccia per l’uomo. In questo modo viene innestato da Satana nella psicologia dell’uomo il germe dell’opposizione nei riguardi di colui che “sin dall’inizio” dev’essere considerato come nemico dell’uomo e non come Padre. L’uomo viene sfidato a diventare l’avversario di Dio” . Ma se Dio che dovrebbe essere mio Padre mi è nemico, come allora posso fidarmi del fratello che mi sta accanto? Come è possibile “metter su famiglia” sia nel senso dello sposarsi come dell’entrare in una comunità cristiana o religiosa?
È urgente mettere in atto quella nuova evangelizzazione, desiderio profondo di tutta la Chiesa, capace di annunciare il vero volto del Padre rivelatoci da Gesù. Non è che forse in verità si rifiuti un’immagine caricaturale che di Dio era stata data e che forse la stessa Chiesa in tanti modi aveva avvallato allontanandosi dalla rivelazione biblica? O ancora: quanto le esperienze negative che tanti hanno fatto e fanno nell’ambito delle proprie relazioni familiari hanno influenzato in modo negativo anche il loro rapporto con Dio Padre (e con la Chiesa)?
Questo Padre-Abbà di certo non possiede le caratteristiche frustranti che vengono rifiutate dalla nostra cultura. Gesù ci rivela un Dio-Abbà-papà che è garante e fonte di vera vita e libertà per tutti i suoi figli e che desidera fortemente che tra loro si instauri l’autentica fraternità, una sola famiglia, racchiusa nel suo progetto “sin dal principio”, inaugurata da Gesù con la Chiesa e che è promessa per tutta l’umanità alla fine dei tempi: “Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro” (Ap 21,2-3).
L’“Abbà” di Gesù non è certo un padre-padrone geloso della vera libertà dei figli, anzi egli la promuove continuamente in tutti i modi, correndone tutti i rischi e anche perdendoci (cfr la parabola del “figlio prodigo e del padre misericordioso Lc 15). I tratti del volto di questo Dio-Abbà, che si manifestano nell’umanità di Gesù suo Figlio, sono caratterizzati dalla tenerezza, dalla compassione, dalla misericordia, dal perdono, da un amore gratuito senza “se” e senza “ma”.
La preghiera del Padre Nostro ci propone in sintesi tutto questo come programma non solo di preghiera ma anche di vita. L’orazione del Signore ci fa uscire dal rischio di una religiosità falsa caratterizzata dall’intimismo e individualismo: davanti al Padre, anche nel segreto della nostra stanza (cfr Mt 6,6), Gesù ci insegna a portare non solo noi stessi ma anche tutti coloro per i quali egli ha offerto se stesso. Il Catechismo afferma che “i battezzati non possono pregare il Padre “nostro” senza portare davanti a lui tutti coloro per i quali egli ha dato il Figlio suo diletto. L’amore di Dio è senza frontiere, anche la nostra preghiera deve esserlo” (2793). “Pregando il Padre Nostro ci collochiamo sicuramente nell’ambito della preghiera di Gesù, la sua grande preghiera sacerdotale, nella quale lui stesso chiede al Padre che tutti siano “una cosa sola”, come lui è “una cosa sola col Padre” (cfr Gv 17,21).
In famiglia pregare insieme il Pater significherà allora riconoscere gli uni di fronte agli altri – genitori e figli – in una comune professione di fede la comune paternità di Dio da cui procede ogni paternità e questo riconoscimento sarà garanzia di libertà, di dignità e responsabilità vicendevole. In una comunità cristiana e religiosa significherà riconoscere che si è “famiglia” nella misura in cui non si cerca anzitutto di trovare punti di convergenza in se stessi, nei programmi o nelle simpatie vicendevoli, ma unicamente nella fede in Cristo che ci raccoglie nella sua famiglia: “la Chiesa è questa nuova comunione di Dio e degli uomini: unita al Figlio unico diventato “il primogenito di molti fratelli” (Rm 8,29 ), essa è in comunione con un solo e medesimo Padre, in un solo e medesimo Spirito Santo (Cf Ef 4,4-6)” (CCC 2790). Ci si riconosce figli di un unico padre e fratelli tra noi non per legami di sangue (motivazioni umane), ma per una “consaguineità” di fede ancor più profonda di fede nel Signore Gesù. “Chi fa la volontà del Padre, questi è fratello, sorella e madre” (Mt 12,50).
Come sono tristi e controtestimonianti comunità grette, chiuse, divise, fredde incapaci di trasmettere una minima esperienza di Dio-Abbà! Come non chiedere allora al Signore che le nostre comunità sappiano dare testimoniare al mondo del nostro essere “famiglia di Dio”, fratelli tra noi, in cui tutti possano sperimentare l’accoglienza, l’abbraccio, il calore, la misericordia del comune Padre-Abbà? Che l’uomo “orfano” e vagabondo solitario nel mondo possa trovare finalmente una casa in cui scoprire che c’è un Padre desideroso di far festa con tutti i suoi figli.
Oratio
Non dire: Padre se ogni giorno non ti comporti come un figlio.
Non dire: nostro se vivi isolato nel tuo egoismo.
Non dire: che sei nei cieli se pensi solo alle cose terrestri.
Non dire: Sia santificato il tuo nome se non lo onori.
Non dire: Venga il tuo regno, se lo confondi con il successo materiale.
Non dire: Sia fatta la tua volontà se non l’accetti quando essa è dolorosa.
Non dire: Dacci oggi il nostro pane quotidiano se non ti preoccupi di chi non ha nulla da mangiare.
Non dire: Rimetti a noi i nostri debiti se conservi rancore verso tuo fratello.
Non dire: Liberaci dal male se non prendi posizione contro il male.
Non dire: Amen se non hai inteso e non hai accolto la Parola del Padre Nostro.
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