• 09 Mar

    Sono ancora “malata d’amore”?

    Lectio di Ct 5,2-8

    Il concilio ebraico di Jamnia del 90 d.C. inserì il Cantico dei Cantici, dopo notevoli dispute, nel Corpus degli “Scritti” ispirati. Le dispute erano causate dalla apparente profanità del testo in cui non compare mai il nome di Dio. Rabbì Aqiba, principale difensore dell’ispirazione del Cantico, disse in quell’occasione che “il mondo intero non vale il giorno nel quale fu dato ad Israele il Cantico dei Cantici. Tutti i libri della Bibbia sono santi, ma il Cantico è il più santo di tutti”. Infatti la tradizione biblica sia ebraica che cristiana riconobbe sempre, senza alcun timore, il piccolo libro del Cantico dei Cantici come ispirato perché vi lesse non solo la bontà e la bellezza dell’amore umano creato da Dio (cfr Gen 1), bensì il suo rimando al grande tema dell’alleanza sponsale che intercorre tra Dio e Israele, e di riflesso tra Cristo e la sua Chiesa, tra il Signore e l’anima di ciascun credente. In quel libretto, per usare l’espressione di san Tommaso d’A., la fede vi vede racchiusa “la ricchezza dell’amore divino” per l’intera umanità.
    Un’autentica vita di consacrazione vive e cresce unicamente se attinge incessantemente alla sorgente dell’amore sponsale di Dio per noi. Senza amore la vita, per tutti, diventa solo peso e incubo, routine malamente sopportata e sempre bisognosa di scappatoie più o meno nevrotiche. Affermare che il nostro essere discepoli ha la sua radice nell’esperienza dell’amore sponsale di Dio per noi significa ricordarci sempre che non viviamo di un ideale, di un progetto, o di una filosofia: viviamo dentro una relazione che ha un volto ben preciso sempre vivo e presente: quello di Gesù di Nazaret. Il documento vaticano “Ripartire da Cristo” (CIVCSVA, 2002) è un forte richiamo a questa realtà:  “Ripartire da Cristo significa ritrovare il primo amore, la scintilla ispiratrice da cui è iniziata la sequela. È suo il primato dell’amore. La sequela è soltanto risposta d’amore all’amore di Dio. Se «noi amiamo» è «perché egli ci ha amato per primo» (1 Gv 4, 10.19). Ciò significa riconoscere il suo amore personale con quella intima consapevolezza che faceva dire all’apostolo Paolo: «Cristo mi ha amato e ha dato la sua vita per me» (Gal 2, 20)” (n.23).
    Ci domanderemo alla luce della Parola: il mio rapporto con Dio sgorga dalla sorgente del sentirmi amato da lui (cfr Gal 2,20)? Questo suo innamoramento riempie e scalda il mio cuore, lo rende vigilante affinché non venga meno la mia risposta alla sua offerta? Oppure la mia relazione con Dio, venendo meno l’amore, si sta trascinando sull’onda del dovere, della legge, delle cose da fare, quasi che ormai Dio fosse assente? Non è che mi ritrovo così preoccupato di me stesso da lasciarmi sfuggire di mano l’essenziale ritrovandomi così spaesato e vuoto, incapace di “correre nella notte” perché non attendo più nulla? E infine: il mio cuore è ancora “malato di amore” per il Cristo sposo di sangue?
    Invochiamo lo Spirito santo perché apra mente e cuore all’ascolto della Parola di vita e riaccenda in ciascuno il desiderio di ritrovare la “fiamma del primo amore”: “Lo Spirito Santo effettuerà in me una continua incarnazione del Verbo: io posso dare al Verbo un cuore umano per amare ancora nel tempo i fratelli e il Padre, gli posso dare le mie membra e il mio spirito perché vi compia “ciò che manca alla passione per il Corpo di Lui che è la Chiesa”. Lasciar vivere Gesù in me: lui la mia umiltà, la mia purezza, la mia carità, la mia pazienza, la mia forza, la mia amabilità. Sparire per lasciar regnare lui; non devo imitare Gesù ma rimanere io; devo sparire e lasciar vivere lui divenire il mio io, le specie trasparenti che nascondono Cristo” (Maria Gubbi).

    Lectio

    Dopo l’esultanza gioiosa dell’ “incontro nel giardino” (c.1), il testo ci riporta in un’atmosfera profondamente diversa: alla solarità si sostituisce un notturno non privo di incubi e sofferenze, all’abbraccio subentra l’esperienza della solitudine, alla dolce presenza dell’amato quella di un’angosciosa assenza.
    E’ notte tarda e tutti dormono. Anche la ragazza ci si presenta “addormentata” (v.2) nel suo letto. Eppure ella ribadisce che “il suo cuore rimaneva sveglio”: il ricordo dell’amato non viene mai meno in lei, neppure durante il sonno. Il cuore rimane vigilante a motivo dell’amore che continuamente vi pulsa: esso è come un fuoco sempre acceso (cfr 8,6), come il cuore che incessantemente pulsa la vita.  E’ motivo insistente nella Scrittura (soprattutto nella tradizione deuteronomista) l’invito alla “sposa” Israele a non dimenticare mai l’amore del suo sposo Jhwh: “Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti dò, ti stiano fissi nel cuore; (Dt 6,4-6). Il farne incessante memoria è condizione perché l’alleanza con JHWH rimanga viva e non venga dimenticata (cfr Gr 2,32).
    Nel cuore della notte “un rumore” improvviso fa sobbalzare la giovane: è il suo innamorato che sta bussando alla porta chiedendo di entrare. È una visita inaspettata come tante visite di Dio che non possono essere programmate (cfr Gv 20,19). Gesù amerà paragonare la venuta del Figlio dell’Uomo alla sortita di “un ladro nella notte” (Lc 12,39; Gv 10,1; 1 Tess 5,2…).
    L’innamorato alla porta insiste: «Aprimi, sorella mia, amica mia, colomba mia, mio tutto!». Usa una cascata di vocativi a cui si aggiunge (come in 6, 9) l’appellativo tipico che sta ad indicare l’unicità dell’amore vero: «Mio tutto». Come non riandare al testo dell’Apocalisse dove il Risorto si presenta mendicante alla porta chiedendo di entrare? “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). L’entrare nel talamo o il cenare insieme sono immagini che dicono in fondo la stessa realtà: il desiderio della condivisione, la passione di una comunione vicendevole.
    La scusa addotta dal giovane per entrare  è che la notte è fredda e i suoi capelli sono “madidi di rugiada” (cfr Gdc 6,37-40). L’amato porta con sé la rugiada che nella Scrittura simboleggia il dono della grazia – la vita – che JHWH riversa continuamente su Israele sua sposa ( “sarò come rugiada per Israele” Os 14,6; cfr Sal 109,3; Dt 33,28).
    Al bussare del giovane, la donna si fa desiderare mostrandosi quasi indifferente (v. 3). Si tratta forse di una capricciosa ritrosia tipicamente femminile, una tipica schermaglia d’amore. Ella avanza scuse banali per farlo attendere alla porta: è già a letto e poiché deve scendere e andare alla porta si sporcherebbe i piedi. Mentre l’innamorato le offre il suo capo coronato di riccioli e pregno di rugiada l’amata sembra preoccupata dei suoi piedi! Queste scuse e rimandi sono il sale dell’amore, ma possono degenerare nell’incomprensione, nella gelosia, nell’allontanamento. L’amore infatti raramente ammette troppi ritardi e lungaggini! Nel sottofondo udiamo la voce del Dio innamorato che chiede alla sua sposa-Israele un’alleanza senza troppi rimandi: “Ascoltate oggi la sua voce: Non indurite il cuore” (Sal 94,8); “Egli dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! (2Cor 6,2).
    Dinanzi a questa ritrosia della fidanzata il giovane innamorato non si rassegna e tenta un’ultima strada per entrare cercando di forzare la serratura della porta che lo tiene lontano dal suo amore (v. 4). Con la mano cerca, attraverso una fessura, di sollevare il chiavistello. È un modo furtivo per ribadire la sua passione e il suo ardente desiderio di entrare e risvegliare nell’amata il desiderio amoroso. Dio non desiste mai, non si arrende, nei suoi tentativi per rinnovare la sua alleanza con la sua sposa e la storia della salvezza ne è chiara testimonianza (cfr Is 5,1ss; Ebr 1,1).
    La ragazza, appena sente che la mano del suo amato armeggia al chiavistello viene percorsa da un fremito d’amore e di gioia (le sue viscere fremono). È lo stesso sentimento di tenerezza che è applicato nelle Scritture vetero e neotestamentarie alle “viscere” misericordiose di Dio per il suo popolo (cfr Gr 4,19; 31,20; Is 16,11; Mt 15,32; Mc 8,2…).
    Subentra però improvviso il silenzio: la ragazza capisce che è successo qualcosa di grave. Si alza immediatamente dal letto senza più alcuna tergiversazione per aprire all’amato (v.5). Nell’armeggiare la serratura le sue mani si ungono di unguento di preziosa mirra profumata. L’amato ha lasciato la sua impronta, quasi un alone della sua presenza: il profumo è segno dell’intimità, e soprattutto della gratuità dell’amore (1,13; 4,6; cfr Gv 12,23). La sapienza, nel libro dei Proverbi, predispone il talamo per i suoi amanti preoccupandosi che non manchi “il profumo di mirra” (17,7).
    La porta spalancata si apre solo sul buio e sul silenzio  della notte (v. 6). L’innamorato si è dissolto come un’ombra (cfr Sal 144,4). E mentre poco prima la fidanzata si sentiva quasi svenire di gioia e di emozione, ora: “viene meno per la sua scomparsa”. Ella chiama per nome l’amato: silenzio e vuoto la circondano.
    L’innamorata non si può ormai dar pace, non si rassegna alla perdita: violando tutte le norme del buon senso, superando i condizionamenti sociali, mossa solo dal suo desiderio di ritrovare il suo amore, esce sola dalla sua casa e inizia a percorrere nella notte fredda e pericolosa  vicoli e piazze della città alla ricerca affannosa del suo amore (v.7, cfr Gr 31,22 in cui la figlia di Israele infedele diventa vagabonda). È una ricerca disperata che non porta a nulla di fatto. È il dramma dell’assenza, della solitudine che sperimentiamo nelle nostre relazioni, ma è anche il dramma del silenzio di Dio che percorre tante pagine della Scrittura: “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. Di te ha detto il mio cuore: «Cercate il suo volto»; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” (Sal 26,6-8) ; “Perché, Signore, stai lontano, nel tempo dell’angoscia ti nascondi?” (Sal 9,22).
    Ma è un’assenza che costringe a cercare, a porsi in cammino verso colui che ci viene incontro. Ad un andare sempre oltre, come “oltre” è sempre il mistero dell’Altro: “Voi mi cercherete, e non mi troverete; e dove sono io, voi non potrete venire” (Gv 7,34).
    All’improvviso appare una ronda delle guardie della città (v.7) e la ragazza viene scambiata per una prostituta in cerca di chissà quali avventure. È la stessa scena presentata in 3,3-4 ma qui c’è un particolare nuovo: ella ora viene ferita mentre le viene strappato di dosso il velo che la nasconde. La ricerca dell’amore non è mai senza dolore e sofferenza!
    Ma nonostante l’umiliazione e le ferite l’innamorata ancora non si arrende (v. 8). Lancia un appello alle  «figlie di Gerusalemme» perché si associno a lei nella ricerca del suo amato di cui non può far a meno. E nel caso lo trovino ella dice di riferirgli da parte sua un unico messaggio, quello stesso che aveva già loro affidato in un momento più felice (2,5): «Sono malata d’amore, io!» (v.8; nei LXX “sono ferita dall’amore”).
    Così una notte serena, piena di attese e di emozioni amorose, è approdata alla tragedia di una scomparsa e di una ricerca affannosa e disperata: ma questa forse è la condizione per una riscoperta della preziosità dell’amore ancora più profonda e appassionata.

    Meditatio

    San Bernardo abate di Clairvaux, fu uno dei più grandi commentatori medievali del Cantico dei Cantici. Un testo altamente amato da tutta la tradizione monastica. In un passo egli afferma una realtà di fondamentale importanza per la vita religiosa:  “grande cosa è l’amore se si rifà al suo principio, se ricondotto alla sua origine, se riportato alla sua sorgente. Di là sempre prende alimento per continuare a scorrere”. In altre parole: se l’amore vuole continuare a divampare come fuoco deve alimentarsi alla sua sorgente, altrimenti si spegne.
    Nella vita cristiana e di consacrazione questa sorgente è nella fede, nella certezza che Dio ti ha amato e ha donato il suo Figlio per te perché ti desidera in comunione con lui per tutta l’eternità (cfr Gv 3,16). Non per nulla il Concilio Vaticano  dichiara che “i religiosi davanti a tutti i cristiani evocano quel mirabile connubio voluto da Dio e che si manifesterà pienamente nel secolo futuro, il connubio per la cui la Chiesa ha Cristo come suo unico sposo”  (PC 25).
    La memoria di questo “mirabile connubio” deve rimanere ben sveglia in te: “Io dormo ma il mio cuore veglia” (v.2). Hai bisogno di un cuore che non si addormenti; e ogni aspetto della tua vita dovrebbe aiutarti a raggiungere questo scopo: “I consigli evangelici hanno senso in quanto aiutano a custodire e favorire l’amore per il Signore in piena docilità alla sua volontà; la vita fraterna è motivata da lui che raduna attorno a sé ed è finalizzata a goderne la sua costante presenza; la missione è il suo mandato e muove alla ricerca del suo volto nel volto di quelli a cui si è inviati per condividere con loro l’esperienza di Cristo” (Ripartire da Cristo, n.22).
    Lo sposo dalla mano trafitta “bussa” discretamente e incessantemente alla tua porta, di certo non la sfonda con la violenza perché è rispettoso della tua libertà, perché questa è condizione essenziale alla gratuità dell’amore su cui si fonda la tua vita: “Benché sia capace di entrare non vuole introdursi con forza. Non vuole costringere coloro che si rifiutano. Beato dunque colui alla cui porta il Cristo bussa. Ma ascolta colui che bussa, ascolta colui che desidera entrare in modo che lo sposo al momento della sua venuta non si ritiri perché la casa è chiusa per lui” (Sant’Ambrogio).
    Hai bisogno di lasciar entrare lo sposo nell’intimità della tua vita se vuoi gioire dell’amicizia con lui: se non accadesse perderesti il senso della tua scelta, perderesti il senso del tuo servizio, il senso della tua stessa vita. Tutto alla fine ti apparirebbe vuoto e tu sprofonderesti in una interminabile notte senza alcuna attesa. Ricorda che la tua sequela non consiste soltanto e anzitutto in una imitazione esterna dei gesti e delle parole del tuo Signore e sposo, bensì necessita di una stretta unione nuziale con lui. E’ questa la condizione di una vita consacrata feconda di frutti: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me” (Gv 15,4; cfr Rm 6,5).  A chi spalanca la porta allo Sposo che bussa all’improvviso egli promette la gioia della sua amicizia: “Io cenerò con lui ed egli con me” (cfr Ap 6,23).
    Sarebbe inutile per te avere occhi vigili alle tante cose da fare, ai compiti e ruoli da svolgere, l’indaffararti a volte frenetico nelle tue mille attività e accorgerti ad un certo punto d‘avere un cuore spento, in cui non pulsa l’amore per l’Amato, che chiedeva di entrare per dare senso ad ogni cosa. Siano vere per le parole della “Perfectae Caritatis”: “Quanto più fervorosamente si uniscono a Cristo con la donazione che abbraccia tutta la vita, tanto più rigogliosa diventa la vita della Chiesa e il suo apostolato si fa vigorosamente fecondo” (n.12).
    Potresti portare la scusa di non avere tempo, di aver tante cose da fare “per lui”, ma di non aver tempo per stare “con lui”.  Se ciò accadesse lentamente sprofonderesti in una sorta di “addormentamento” in cui i tuoi riflessi interiori non più vigili divengono sempre più lenti, intorpiditi e alla fine incapaci di cogliere la visita della grazia. Come la ragazza del Cantico faresti fatica ad acconsentire – lei così troppo occupata, civettuola e centrata su se stessa – ad alzarti immediatamente al bussare dell’amato. Invece di lasciarti prendere dal desiderio dell’amore per stare finalmente e totalmente accanto all’amato nudo e bagnato com’è dalla rugiada del suo sangue, vorresti ancora ricoprirti della “tua” veste, quella dei suoi desideri, della stima dinanzi al mondo ritardando così l’incontro. Non dimenticare che il tuo unico desiderio è di “seguire nudo Cristo nudo” (s. Gerolamo). I tanti rimandi, le pigrizie, i ripiegamenti su di te fanno sì che il tuo “io” abbia il sopravvento sul desiderio e la bellezza dell’unione sponsale a cui un giorno ti ha chiamato. Nella tua vita interiore c’è sempre il rischio di divenire col tempo accomodante, facile al compromesso. Nulla di più pericoloso di una sublimazione che mascheri la non voglia di piegarsi a tutte le esigenze concrete di una relazione autentica che va coltivata con somma cura. Scrive san Giovanni della Croce che ha amato in particolar modo il Cantico dei Cantici: “Chi rifiutasse di uscire nella notte in cerca dell’amato ed essere spogliato e mortificato della sua volontà, e volesse cercarlo nella tranquillità del suo letto, come faceva la sposa, non lo troverebbe” (s. Giovanni della Croce, Notte oscura). Non dare per scontato una relazione sponsale con Cristo: essa va coltivata, protetta e rinnovata ogni giorno con somma cura.
    Troppe volte invece purtroppo accade che la presenza dell’Amato si dissolva dalla vista e al suo posto subentri un vuoto insopportabile. Se si vuole uscire da questa insopportabilità che oggi assale talvolta la vita di singoli consacrati e di intere comunità vi è una sola via di guarigione. Uscire nuovamente da noi stessi e metterci, anche se è notte, in cammino. Il “mendicante dell’amore” (Sant’Agostino) va cercato e inseguito di nuovo. Allora l’amata imparerà, nel dolore dell’assenza e in una dolorosa ricerca, non solo a conoscere nuovamente l’Amore, ma anche a misurarne l’unicità e quando gli sia impossibile farne a meno.
    Questo è grazia! L’amore viene così a scuoterti dal tuo intorpidimento quasi obbligandoti nuovamente alla sequela “Egli veglia, anzi non dorme, ma riposa sempre accanto al nostro cuore e, insistentemente, lo ferisce per dirgli: Aprimi!” (Luis de Lèon). Inizia così per te una corsa “senza indugio” (Lc 24,33.
    Per metterti alla ricerca dovrai lasciare la tua comoda stanza e metterti in cammino sopportando incertezze, umiliazioni, percosse e forse il disonore. Ti esporrai al rischio del buio della strada e delle sue incognite. Sarà un andare sempre oltre le tappe già raggiunte. Ma nel tuo cuore arderà nuovamente il desiderio dell’essenziale, se non ti lascerai sopraffare dallo scoraggiamento. D’altra parte non si misura l’amore se non nella fedeltà e nella perseveranza con cui lo si cerca:  “Ti ho consacrato tutta la mia vita: ora, mio sposo, vengo a te con la lampada accesa” (Liturgia delle Ore).
    La notte del carnevale del 1367 ad una giovane senese, Caterina Benincasa, appare Cristo accompagnato dalla Vergine e da una folla di santi. A Caterina in quel tempo provata e umiliata in ogni modo, ma assetata dell’amore di Cristo, il Signore in veste di sposo dona un anello nuziale. La visione sparisce, Cristo sembra dissolversi, ma l’anello rimane visibile a lei sola quale testimone silenzioso di un amore che mai viene meno.

    Oratio

    Terminiamo la nostra lectio con una preghiera tratta dalla divina liturgia dei nostri fratelli d’oriente. Ringraziamo con essa il Cristo sposo per la sua alleanza nuziale con ciascuno di noi. A lui nudo sulla croce chiediamo di essere spogliati della nostra pigrizia, dimenticanza, e superficialità nel vivere la nostra consacrazione che è patto d’amore con lui che per primo ci ha amato. Che il cuore non si raffreddi nell’attesa della sua venuta e rimanga vigile e desideroso d’incontrarlo quando egli busserà alla porta. Sia Lui stesso allora a rivestirci della veste nuziale, quella stessa di coloro che seguono l’Agnello.
    O Sposo bellissimo,
    che ci hai invitato al convito spirituale del tuo talamo,
    spogliami della veste dei peccati con la partecipazione alle tue sofferenze
    e, ornandomi con la veste di gloria della tua bellezza,
    rendimi splendido commensale del tuo Regno,
    “Andiamogli incontro…” .
    Stringiamoci attorno “al più Bello tra i figli dell’uomo” con i segni della bellezza.
    Santo Dio, Santo forte, Santo immortale abbi pietà di noi.

  • 03 Mar

    La trasfigurazione Pasqua anticipata
    Mc 9,2-10

    Lectio

    Con Gesù non si finisce mai… Appena sei giorni fa’, a Cesarea di Filippo, i Dodici hanno riferito al Maestro le opinioni della gente sul suo conto – chi pensa che sia il Battista ritornato in vita, chi Elia, chi uno dei profeti – ma lui li ha subito spiazzati con quella domanda tagliente: “Ma voi chi dite che io sia?”. Solo Pietro ha detto le parole giuste, che il Padre gli ha messo nel cuore e sulle labbra: “Tu sei il Messia”. La risposta è vera – è l’unica esatta – ma l’idea di Messia che il primo dei Dodici si porta in cuore non combacia affatto con quella di Gesù. L’idea di Gesù prevede per il Messia una dolorosa passione e addirittura una morte ignominiosa. Pietro invece sogna successi, vittorie e trionfi e, al solo sentire di un Messia sconfitto, si è subito ribellato con violenza brutale, al punto che la sua “confessione” o riconoscimento di Gesù come Cristo si è risolta in una drammatica “sconfessione” da parte dello stesso Cristo: “Via da me, satana! Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.

    Chi è dunque Gesù? La trama del testo di Marco è tessuta sull’ordito di un filo tanto sottile quanto tenace, il filo di quell’interrogativo ricorrente: ma chi è veramente Gesù di Nazaret? Ora siamo al settimo giorno dall’incontro-scontro di Cesarea di Filippo. Questo dettaglio a prima vista puramente cronologico, acquista un emblematico colore teologico: vi si intravede in filigrana l’esperienza di Mosè al Sinai: “Mosè salì sul monte e la nube coprì il monte. La gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube” (Es 24,13-16).

    Dunque sei giorni dopo i fatti di Cesarea di Filippo, ebbe luogo la trasfigurazione. Ci è stato proclamato il racconto nella versione di Marco, ma l’evento viene riportato anche da Matteo e da Luca: si tratta di testi “di una tale ricchezza che, se fanno la gioia del contemplativo, spesso mettono in imbarazzo l’esegeta e lo storico” (Léon-Dufour). Conviene quindi scomporre il brano nei vari elementi che lo strutturano, prima di contemplare l’evento in una visione unitaria. Il primo è il particolare cronologico dei “sei giorni dopo”, appena evidenziato.

    Il secondo elemento è il monte alto. Nella storia delle religioni è sulle montagne che gli dèi hanno la loro residenza ed è lì, sulle alte cime, che il cielo incontra la terra. Il monte Sinai è il luogo della rivelazione per eccellenza, in cui Mosè ricevette le tavole della Legge, e dove anche Elia salì, a ritemprare la sua fede alle sorgenti della rivelazione del Signore (cfr. 1Re 19). Il monte della trasfigurazione viene identificato dalla tradizione nel Tabor, ma l’assenza di localizzazione nei sinottici è eloquente: la montagna in cui Dio viene a parlare al Figlio suo trasfigurato è il nuovo Sinai. Va colta anche una intenzione neanche troppo velatamente polemica: scegliendo questo monte anonimo, Dio ha rigettato la piccola collina su cui era costruita Gerusalemme, il santo monte di Sion. Secondo la topografia teologica degli evangelisti, non sarà Gerusalemme il luogo dell’ultima rivelazione di Dio, ma la Galilea delle genti, anzi è l’al di là della Galilea che riceve ora la visita di Dio.

    Il terzo elemento è la gloria: Gesù “si trasfigurò davanti a loro. Le sue vesti divennero splendenti, bianchissime”. Non si tratta tanto della tonalità di un colore, ma dello splendore della gloria divina che fa risplendere il volto di Gesù come il sole e fa brillare le sue vesti come la luce (Matteo). La gloria che Gesù, sei giorni prima, aveva appena annunciato a Cesarea per la fine dei tempi, quando “il Figlio dell’uomo verrà con gli angeli santi nella gloria del Padre” (Mc 8,38), viene ora anticipata sotto lo sguardo abbagliato dei tre testimoni. Se è vero che la gloria appartiene a Dio, unico essere glorioso in senso proprio, perché unico veramente santo, ora essa risplende sul volto di Gesù, non come un semplice riflesso della gloria di YHWH – come per Mosè – ma come lo splendore che rivela l’intima sua identità: egli è lo stesso Dio.

    Accanto a Gesù appaiono Mosè ed Elia: è il quarto dettaglio della teofania. Rappresentano rispettivamente la Legge e i Profeti. In particolare, Mosè, il portavoce di Dio, viene a salutare il profeta definitivo, da lui stesso annunciato (Dt 18,15); Elia doveva essere il precursore del Messia. Ambedue erano saliti al Sinai; con la loro apparizione su questo monte – il nuovo Sinai – annunciano che è giunto il tempo della nuova ed eterna alleanza.

    Con la sua proposta di fare tre tende – è il quinto particolare – Pietro conferma il senso escatologico della visione: la tenda infatti era un segno della visita di Dio che viene ad abitare in mezzo al suo popolo (cfr. Os 12,10). Pietro vorrebbe quindi inaugurare il cielo sulla terra, perché l’apparizione di un giorno duri per sempre. Ma l’evangelista Marco annota: “non sapeva cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento”. Ora questa frase rassomiglia stranamente all’osservazione che segue il terzo tentativo, da parte di Gesù, di trovare conforto al Getsemani nei discepoli addormentati: “non sapevano che cosa rispondergli” (Mc 14,40). Le due scene sono affini: gli stessi testimoni privilegiati, lo stesso sbalordimento, qui davanti alla gloria, là davanti all’umiliazione di Gesù. Nei due casi i tre discepoli rimangono in presenza di un mistero incomprensibile.

    Il sesto particolare della scena è la nube: “e venne una nube che li avvolse nella sua ombra”. La nube è il segno inequivocabile della manifestazione di Dio, come lo era stata sul Sinai, sulla tenda del convegno durante la marcia nel deserto, e sul tempio di Salomone, all’atto della consacrazione del nuovo edificio. La nube, che ricopre e protegge, è in qualche modo una tenda per Dio stesso: delle nubi, infatti, egli fa la sua tenda (cfr. Sal 18,12).

    Infine, come ultimo elemento, va registrata la voce dalla nube: è la stessa voce già ascoltata al Giordano, che aveva presentato Gesù come il Figlio e il Servo del Signore. Ora a quelle parole si aggiunge il comando: “Ascoltatelo!”. Ai discepoli dubbiosi e timorosi, Dio in persona parla e dice che essi possono, devono ascoltare e obbedire, devono e possono avere fiducia in Gesù e seguirlo sulla via che ha intrapreso: è la via della croce che prevede la tappa del Golgotha, ma poi culminerà nella risurrezione.

    Meditatio

    L’evento della trasfigurazione “ha inaugurato un giorno ciò che rimane ogni giorno il compito del cristiano: lasciar irradiare il mistero pasquale nel presente del suo cammino doloroso, già prima della sua consumazione nella gloria (…)” (Léon-Dufour). Grazie a tale anticipazione della gloria definitiva in una esperienza precaria, continuamente minacciata, il cristiano sa bene che il cielo è disceso sulla terra, l’eternità è entrata nel tempo, mentre la tela della felicità viene intessuta con il filo del dolore, vissuto con fede.

    Prima di concludere, non possiamo non fissare almeno alcune domande:
    –    c’è stato nella mia vita un momento in cui ho sperimentato una “trasfigurazione” di Gesù ai miei occhi, in cui l’ho visto finalmente per quello che egli veramente è: il Figlio di Dio, mio salvatore?
    –    da allora si è fatta sempre più frequente e intensa nella mia vita l’esperienza dell’ascolto della sua parola?
    –    vado via via assimilando il “pensiero di Cristo”, per vedere la storia come Lui, per giudicare la vita come Lui, per scegliere e amare come Lui, per vivere in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo?
    –    E agli altri dico solo quello che so su di Lui o soprattutto quello che ho imparato da Lui?
    –    Chi mi incontra, vede in me almeno qualche tratto di somiglianza con Gesù?

    Ora, dopo aver ascoltato il Signore che ci ha parlato, siamo invitati ad incontrarlo nel segno del pane condiviso. La realtà del Cristo rimane ancora velata. Tuttavia l’eucaristia ci fa partecipare al movimento della sua vita: entriamo nella sua morte per accedere – nell’attesa della sua venuta – alla luce della sua risurrezione. Ed è già Pasqua.

    Oratio

    È veramente cosa buona e giusta,
    nostro dovere e fonte di salvezza,
    rendere grazie sempre e in ogni luogo
    a te, Signore, Padre santo,
    Dio onnipotente ed eterno,
    per Cristo nostro Signore.
    Egli, dopo aver dato ai discepoli
    l’annunzio della sua morte,

    sul santo monte manifestò la sua gloria
    e chiamando a testimoni la legge e i profeti
    indicò agli apostoli che solo attraverso
    la passione possiamo giungere
    al trionfo della risurrezione.
    E noi, uniti agli angeli del cielo,
    acclamiamo senza fine la tua santità,
    cantando l’inno di lode:
    Gloria al Padre…….

  • 24 Feb

    Il pianto di Pietro:
    una illuminazione pasquale.
    Marco: 14, 66-72


    Proviamo a fare un’ipotesi per capire un po’ questo brano prima di entrarvi. Pietro aveva detto poche ore prima che era disposto a morire per Gesù, che se tutti gli altri lo avessero rinnegato, lui no. Supponiamo che Pietro a questo punto fosse stato così bravo da andare li a morire per Gesù e non l’avesse rinnegato. Cosa sarebbe successo? Pietro non avrebbe sperimentato la salvezza che è il sentirsi amato e perdonato, perché quel che mi salva non è il mio morire per Dio, Dio non vuole che io muoia per Lui, è che Lui ha dato la vita per me e mi ama: è questa la salvezza, è questo che Pietro non ha capito.

    In Pietro vediamo evidenziato la radice delle nostre tristezze, preoccupazioni, ansie, paure di perdere. Perché? io voglio vivere della mia bravura, voglio essere protagonista. Per questo sono disposto anche a morire per Dio. Ma Dio non vuole che tu capisca che Lui ti ama e dà la vita per te.

    Per cui questo brano è il passaggio necessario dalla legge al Vangelo. La legge può portarmi fino a dar la vita per Dio; è il meglio della legge; cosa vuoi più di così? Ma Dio non vuole la vita di nessuno, non è una sanguisuga! Dio dà la vita a tutti e ama tutti. E Pietro deve capire di essere amato gratuitamente; non perché è bravo come pensava lui, ma perché è povero peccatore come noi.

    E allora capisce cos’è il battesimo: essere amati, accettati gratuitamente nel proprio male e la mia identità è l’amore che Lui ha per me, non la mia bravura reale o presunta e questo vuol dire nascere figli amati e accettarsi. E’ lasciarsi immergere nell’oceano dell’infinita gratuità dell’amore di Dio che Lui stesso ci ha rivelato donandoci il suo Figlio.

    Quindi questo brano rappresenta il punto più delicato del Vangelo che riporta il racconto di Pietro, il suo battesimo che è il battesimo del cuore, il pianto, dove Pietro scopre la propria identità.

    Pietro vuoi dire pietra. Ma Pietro è una frana, ma proprio franando tutto questo fa sì che rimanga la solida pietra che è la fedeltà di Dio. La cosa da capire è che noi viviamo della fedeltà e dell’amore di Dio, non della nostra fedeltà e del nostro amore, se no poveri noi.

    Ed è questa la conversione di Paolo che era perfettissimo, irreprensibile nell’osservanza della legge. E’ la conversione più difficile: «Ma come, allora?». Allora è così, il battesimo è vivere di grazia, cioè dell’amore gratuito del Signore e Pietro è il primo che sperimenta questo e lo prova, dove il suo peccato non è come quello di Giuda che è addirittura è pentito e vuole mettere a posto i conti ma quando questo non è più possibile rimane solo posto per la disperazione; difatti il peccato di Giuda non è tanto l’aver tradito Gesù ma il voler rimettere a posto i conti; ed è lo stesso di Pietro che vorrebbe pagare in anticipo dando la vita per Cristo, invece non ci riesce, grazie a Dio. Ci potrà essere così il suo battesimo, il lasciare entrare negli occhi del cuore lo sguardo del Signore che dà la vita per me.

    66 E mentre Pietro era da basso nel cortile, viene una delle serve del sommo sacerdote 67 e vedendo Pietro che si scalda, guardandogli dentro dice: «Anche tu eri col Nazareno Gesù».

    Pietro è coi servi e cosa deve fare? Prima di tutto nessuno gli ha detto di venire, e poi è venuto perché si è ricordato che aveva detto «Anche se gli altri ti abbandonassero, io non ti abbandonerò mai!». É un uomo serio e di parola, vuol mostrare a Gesù che lui è bravo. «Se no, si è sbagliato a chiamarmi Pietro, gli altri sono tutte frane; io invece son Pietro e gli devo mostrare che sono migliore e che dunque ha riposto bene la sua fiducia. Poi presto o tardi Lui se la cava, perché so chi è… ». Era lì per mostrare che era bravo e anche per affetto per Gesù, perché gli vuol bene, per proteggerlo, per dirgli: «Guarda, io sono qui, puoi contate su di me! Non ho parlato a vanvera».

    Allora c’è una serva, anzi una servetta che dice «Tu eri col Nazareno». Come fa a dirlo? Negli ultimi cinque giorni Gesù è stato sulla spianata del tempio e Pietro era davanti a lui. Gesù ha messo a tacere scribi, farisei, sadducei, erodiani e Pietro era li davanti che diceva: «Bravo il maestro! Io sono il successore». Si metteva in mostra ovviamente. E avevano litigato poco prima su chi sarebbe stato a desta e chi a sinistra; Pietro era in vista, la serva l’ha riconosciuto: «Tu eri lì con Lui».

    Ora “essere con” Gesù il Nazareno è l’essenza dell’apostolo. Gesù fece i dodici per essere con Lui (Marco 3, 14). Quindi la sua domanda non è solo per dire: eri in compagnia sua? No, essere con Gesù è la definizione del discepolo in Marco; essere con Lui vuoi dire essere in sua compagnia, fare le stesse scelte, aver gli stessi criteri. Questa è la domanda definitiva al discepolo, la domanda fatta a ogni discepolo a questo punto del Vangelo: tu sei con Gesù? Col Nazareno? Pensi come Lui? Desideri le cose che desidera Lui? Hai gli stessi obiettivi? Cosa vuol dire “essere con”? Sei solidale con Lui? Fai lo stesso cammino? Fai le stesse scelte? Questo vuoi dire “essere con”.

    In realtà Pietro era stato con Gesù, ma con quale Gesù? Con quello che desiderava Lui. E quando ad un certo punto Gesù ha fatto balenare che la storia era un po’ diversa al centro del Vangelo, Pietro dice «Non sia mai! Ti sbagli, ascolta me che sono Pietro, infallibile». Come accadde al primo annuncio della passione! Ma vediamo un poco la risposta.

    68 Ma egli negò dicendo: «Né so, né capisco che tu dici». E uscì fuori nell’atrio e un gallo cantò.

    Ci fermiamo un po’ qui. Noi siamo abituati a dire che qui Pietro ha mentito, invece qui Pietro è la prima volta che dice la verità: «Io non so e non capisco quello che dici». Non so cosa vuoi dire essere con Gesù il Nazareno, anzi per essere sincero io ero con un altro, non con questo qui. E stato uno scambio di persona. Ero con Gesù Nazareno che moltiplicava il pane, che risuscitava i morti, che tutti osannavano, che tutti cercavano. Ero con quello li. Questo qui, arrestato, legato, sputacchiato, deriso, debole come tutti, fragile, stolto io non lo conosco; non so e non lo capisco. «Ha sbagliato a fare quel che ha fatto, perché se avesse ascoltato me, sarebbe andata meglio».

    Ma ancora dopo duemila anni, la domanda è: con quale Gesù sto? Gesù è la proiezione dei miei deliri di potere? Tant’è vero che quando non mi esaudisce lo abbandono, me ne invento un altro. Il problema della fede cristiana è accogliere Gesù il Nazareno nella sua passione e morte per poter sperimentare la forza del suo amore e resurrezione. Allora capisco:
    – chi è Dio: amore assoluto e gratuito per me,
    – e chi sono io: amato in modo assoluto e gratuito da Dio.
    E accetto di vivere di questo.

    Ed è qui che Pietro non sa e non capisce (e non può ancora capire): perciò crollano le sue certezze.  «… Uscì nell’atrio e un gallo cantò».

    Il gallo canta prima del sorgere del sole, comincia la prima luce in Pietro, la prima Luce è capire che lui non capisce questo Cristo, comincia l’illuminazione di Pietro. Il battesimo è l’illuminazione. Il principio di illuminazione è capire che «non so e non capisco quello che tu dici». Io capivo le cose che pensavo io. Gesù era un brav’uomo, anche Dio se vuoi, comunque tutto restava intatto e tutto consisteva nel fatto di imitarlo, nell’essere bravi come Lui, dar la vita per Lui in modo da essere importanti come Lui. E’ l’ottica nella quale credeva di vedere.

    Ma l’ottica di Gesù è un’altra: è che Lui dà la vita per me, non vuole la vita di nessuno, ama gratuitamente me e vuole che io viva. Non è che desiderasse morire perché io vivessi, l’ho ammazzato io se è per questo, Lui desiderava vivere, ammazzato dal mio non riconoscimento.

    È difficile passare da quel rapporto con Dio che è radicato nell’uomo, tipico di ogni religione, del Dio esigente, del Dio giusto comunque, anche amorevole, ma col quale devi sempre sdebitarti, devi pagare e dar la vita. No, non devo dare la vita, la vita è un dono da ricevere dicendo si grazie. Anche con i miei genitori non sono in debito, anche se devo loro tutto, ma non è un debito.
    Così, con Dio non abbiamo alcun debito. E’ Lui che ha dei debiti con noi; ha il debito di un amore infinito e siccome noi non crediamo a questo amore infinito, poveretto non sa più come pagare questo debito; le ha dovute inventare tutte nella storia, fino a morire in croce per pagare questo debito nei nostri confronti, per farci capire che siamo amati gratuitamente e totalmente.

    Ed è questo il peccato: il non capire questo, è il male.

    69 E la serva vedendolo cominciò di nuovo a dire ai presenti: “Costui è di quelli… 70 Ma egli di nuovo negava.

    Ecco la prima domanda è sapere se si è con Gesù. E’ il centro della fede. Essere credente vuol dire essere in compagnia di Gesù, non con il Gesù che mi invento io, ma con quel Gesù che mi ha amato e ha dato se stesso per me e che è il mio Signore e mio Dio.

    Poi, secondo esame della fede cristiana: va bene tu dici che non sei con Gesù, ma è chiaro che sei di quelli. “Di quelli” vuol dire comunità. Tu appartieni alla comunità cristiana?

    Non appartieni alla comunità se non sei con Lui. Appartenenza è essere con Lui, stando con Lui siamo tra noi in modo corretto. Posso avere tutte le etichette possibili e non essere di fatto… cristiano.   

    Essere cristiano è essere con Gesù, che mi ha amato e ha dato se stesso per me, non col Gesù che voglio andare a salvare io. Quindi l’immergersi, l’essere battezzati nel suo amore per me: è questo che mi fa esistere e mi permette di essere poi di quelli che vivono, sperano e amano a partire da questo evento di trasformazione.

    L’appartenenza alla Chiesa viene dopo: perché son cristiano e appartengo alla Chiesa? Perché sono con Gesù. Tant’è vero che uno che non è battezzato non appartiene alla Chiesa.

    Il battesimo cos’è? É l’essere immersi in Gesù, battezzati in Cristo. E l’essere battezzato in Cristo mi rende fratello degli altri, mi mette nella Chiesa. Ma se non sono in Lui, non sono nella Chiesa, anche se ho tutte le appartenenze, anche se faccio parte del Consiglio Pastorale, e anche se di mestiere annuncio la parola di Dio, non sono cristiano. Perché l’essere cristiano è l’essere con Lui, con Lui che è cosi con me. Quindi non basta l’appartenenza alla comunità cristiana.

    C’è tanta gente anche impegnatissima che fa tante cose e fatte bene. Attenti: non sono le cose che fai e l’organizzazione a cui appartieni che ti fanno credente, è il tuo rapporto personale col Signore Gesù; è questo che ti forma e ti costituisce. Anche come prete e religioso, oltre che come uomo della strada. Io posso essere prete e religioso e far tante cose belle e paradossalmente non essere credente. Mi fa credente il mio rapporto con Gesù. E accettare il suo amore per me e vivere di quell’amore. E’ questo il nocciolo della fede che ci fa tutti fratelli e tutti liberi, la nostra identità.

    E Pietro non appartenendo a Cristo non può che rispondere negativamente alla seconda domanda: sei di quelli? Pietro nega, no non sono di quelli; se non sono con lui, non posso essere “di quelli”.

    E dopo un po’ di nuovo i presenti dicevano a Pietro: “Veramente sei di quelli, infatti sei anche galileo

    Essere galileo voleva dire forse anche essere sovversivo, comunque qui chiaramente essere galileo, essere di quelle parti, vuol dire che il tuo linguaggio ti rende manifesto – dice Matteo. Ora è chiaro che tu sei cristiano…. Ma non è detto che sono cristiano. Mi fa cristiano il mio essere con Gesù; non sono tutti i titoli né culturali, né cultuali, né le appartenenze che ti fanno cristiano: è il mio rapporto personale con Gesù. E’ questo il battesimo, sapere che il mio Signore mi ha amato e ha dato se stesso per me. E io vivo rispondendo a questo amore che è la mia identità. E’ questo il battesimo, e vivo quindi nella libertà di figlio, quindi di fratello di tutti e posso essere “di quelli”, della comunità. Ma non è né il mio modo di parlare, né la mia cultura, né le mie appartenenze che mi fanno cristiano. E qui Pietro dà la terza risposta.

    71 Ma egli cominciò a imprecare, a giurare: «Non conosco quell’uomo di cui dite». 72 E subito per la seconda volta un gallo cantò».

    Ecco Pietro si dissocia totalmente per la terza volta, come Gesù che, tre volte interrogato, confessa. Pietro alla fine si dissocia totalmente da “quell’uomo che voi dite” addirittura neanche lo nomina. E qui il gallo canta per la seconda volta. Ora vediamo cosa avviene.

    E ricordò Pietro la parola che disse Gesù: “Prima che il gallo canti due volte, tre volte mi rinnegherai”. E si gettò a piangere.

    In Luca 22, 61 c’è un dettaglio interessante che ci può interessare: 60 Ma Pietro disse: «O uomo non so quello che dici». In quell’istante mentre ancora parlava un gallo cantò. 61 Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi, mi rinnegherai tre volte». E, uscito, pianse amaramente.

    Ecco ci sono due dettagli di più in Luca; Gesù che guarda dentro il cuore di Pietro. Anche qui è Gesù che guarda dentro come prima la servetta. Il Signore guarda dentro Pietro. Come l’avrà guardato? «Te l’avevo detto! Hai visto? Anche tu come gli altri! Sei proprio.. chi credevi d’essere… Io ti ho chiamato Pietro perché hai la testa dura, di pietra».
    Se Gesù l’avesse giudicato, Pietro si sarebbe sentito un po’ tranquillo, almeno pago, in qualche modo avrebbe pagato. Ho sbagliato, scusa, è giusto che paghi.

    Mettiamoci sotto questo sguardo. Gesù lo riconosce, lo guarda dentro e lo accoglie nella sua povertà, non si era sbagliato a chiamarlo. Non è che l’abbia chiamato perché era bravo, infallibile o generosissimo; no, no, «lo sapevo che eri così: ti voglio bene come sei e non mi sono sbagliato a chiamarti». Non ha detto Gesù: «Sai io sono di parola, pensavo tu fossi bravo, tu mi hai tradito, ma io non ti tradisco perché io son di parola». No: «sapevo che eri cosi, che è così e ti amo». Il suo io “ideale” si fa in pezzi. Non sono quello che credevo. E il peggio è che Lui lo sapeva già, non l’avesse saputo almeno! Ma lo sapeva già e mi voleva bene lo stesso e continua a volermelo.
    C’è questo sguardo che fa vivere anche se trafigge. Pietro deve accettare, a questo punto, o di vivere di questo sguardo di accettazione e perdono assoluti – allora nasce come uomo libero – oppure non gli resta che ammazzarsi, come Giuda. E avrebbe infiniti modi per “ammazzarsi”: espierà questo peccato, farà sempre di più il bravo, cercherà di non sbagliare più, cercherà di essere infallibile…. Invece no.

    Qui si pone nell’alternativa di vivere o di un’accettazione assoluta gratuita dell’Altro – e questa è la condizione per vivere – o di pagare in qualche modo questo debito, ed è la condizione per morire. Il battesimo è accettare la grazia, la gratuità, il dono, l’amore incondizionato e assoluto.

    Io di cosa vivo, di che sguardo vivo? Di quello della servetta che mi giudica e degli altri che mi condannano? Del mio sguardo su di me? Che diventa l’inferno su questo punto, perché, se mi giudico, mi condanno.

    Pietro  sotto lo sguardo di Gesù perde la sua falsa identità. Quella che si era costruita. Pietro uscì e fuggì da Gesù: il che vuol dire – è il primo modo – che io rifiuto di essere accettato così. Mi è più facile pagare personalmente, mi sembra più onesto.

    Accettare un amore gratuito e incondizionato – che è l’unico modo per poter vivere – è la vera morte di ogni falso io ed è più duro di qualunque altra cosa e bisogna passarci per vivere della libertà di uno che è amato e che capisce che la sua identità è li, non era quel che pensava.

    È davvero la fine di tutto un mondo. Quando si parla del battesimo come nascita dell’uomo nuovo nella libertà dei figli, si dice qualcosa di preciso. Quando si parla di Illuminazione si dice qualcosa di preciso. Questa illuminazione non è la mia bravura, non è la mia presunzione, né quell’immagine di Dio che avevo, né l’immagine dell’io che avevo, né la mia sconfitta, né la mia vittoria. E’ qualcos’altro: è la scoperta di un amore incondizionato, gratuito e a fondo perduto che Cristo ha per me.

    Ed è lento il cammino per arrivare a questa scoperta e a questo pianto battesimale. Prima deve uscire tutta l’amarezza, la sconfitta anche del falso io che deve scomparire perché sperimenta l’incapacità di autosalvezza. Ma da quel pianto purificatore verrà la Luce che mi permetterà di “vedere” il Crocifisso Risorto che mi accoglie e mi dona la sua vita: il suo Spirito.

  • 26 Dic

    UNA COMUNITÀ CHE ASCOLTA:  AT 2,42

    a cura du p. Attilio franco Fabris

    Il retroterra della comunità cristiana primitiva è costituito da una profonda esperienza di ascolto della Parola, e tale esperienza si svolge nel solco della tradizione di Israele. La consegna di Gesù ai suoi nel Cenacolo suona: “Ascolta il primo annuncio e contempla il mistero della passione e resurrezione del Signore”. La differenza tra l’”ecclesia” neotestamentaria e quella veterotestamentaria sta nella nuova esperienza di ascolto indotta dall’esperienza pasquale di Gesù. Ma  a questa esperienza il gruppo dei discepoli erano ben rodati dalla tradizione di fede ebraica.
    L’analogia e la distinzione tra ecclesia antico e vetero testamentaria è importante. Essa pone un interrogativo importante: siamo noi davvero ecclesia neotestamentaria? Cioè: la buona notizia è veramente, in modo vitale, al centro del nostro stare insieme, la forza che ci aggrega? Oppure è una specie di etichetta che si sovrappone dall’esterno alla nostra realtà comunitaria?
    Ma non possiamo rispondere a questa domanda se prima non ce ne facciamo un’altra: possiamo noi considerarci ecclesia dal punto di vista veterotestamentario? Possiamo cioè dire che il nostro stare insieme, il nostro fare comunità si impernia sulla Parola prepasquale e che abbiamo titolo a far concorrenza alla sinagoga, comunità di fede centrata sull’ascolto della Parola di tipo prepasquale?
    Quando ci accorgiamo che la Buona Notizia è ai margini della nostra realtà socio-religiosa, quasi confinata nella soffitta del nostro bagaglio teologico, c’è il rischio di renderci conto che noi non siamo ancora neppure una comunità ecclesiale veterotestamentaria. Se la nostra aggregazione comunitaria non è ancora ispirata, informata dalla Parola di Dio, né del nuovo né del vecchio testamento, vuol dire che abbiamo molto da imparare dalla sinagoga.
    Infatti il Gesù con cui noi ce la facciamo e che presentiamo ai fedeli il più delle volte si identifica prevalentemente con il Gesù prepasquale, ossia con il Gesù della predicazione, dei miracoli, dei segni, che non è ancora il Servo sofferente del Signore, il Kyrios crocifisso, morto e risorto. Ne segue che tutta la pastorale assume un taglio prepasquale piuttosto che pasquale, ossia propriamente evangelico, e noi finiamo col fare una pastorale di tipo più veterotestamentario che neotestamentario. Infatti il Gesù prepasquale, per il fatto che la sua Pasqua non è ancora venuta a mostrare la novità del suo servizio all’uomo, appartiene, come Giovanni Battista ancora all’economia del vecchio testamento. Ne segue che la cristologia che noi proponiamo è di fatto una cristologia prevalentemente prepasquale.

    PISTE DI RIFLESSIONE

    ∑    La Parola che ascoltiamo si impernia sulla Buona Notizia ovvero sul mistero pasquale, o è ancora una Parola improntata all’esperienza di fede veterotestamentaria?
    ∑    La predicazione, il Cristo che annunciamo, è prevalentemente quello prepasquale o pasquale? Cosa proporre per rinnovare la nostra pastorale?

  • 19 Dic

    Il servizio dell’evangelizzazione di Gesù :
    Luca 24,36-49

     

    a cura di p. attilio franco fabris

    Appare evidente che Gesù nel Cenacolo si comporta esattamente come si è comportato con i due di Emmaus. E’ la pedagogia del Kerigma: offrire a chi è disposto ad ascoltare e a condividere un servizio della Parola che, alla luce della morte e della resurrezione di Gesù, permetta di rileggere tutta la storia della salvezza. Per poter offrire agli uomini questo servizio dell’evangelizzazione, Dio ha lavorato molto nella storia dell’umanità. E Gesù ha faticato molto allo stesso scopo.

    Ci spieghiamo.

    Distinguiamo l’esistenza di Gesù in tre fasi: la fase prepasquale, la fase pasquale e quella post-pasquale. Nel corso di tutte queste fasi Gesù ha sempre evangelizzato, ma non nello stesso modo. Vediamo perché.

    Il servizio di evangelizzazione del Gesù prepasquale non è molto diverso da quello dei profeti, non per nulla l’evangelizzazione di Giovanni Battista si salda con quella di Gesù e il messaggio iniziale è identico: “Il Regno di Dio è vicino. Convertitevi!”. E’ una buona notizia. La piccola comunità dei discepoli di Gesù è tutta protesa all’evangelizzazione del Gesù prepasquale. E quando questi cerca di prepararla agli avvenimenti della passione si trova sempre dinanzi all’incomprensione.

    Ma quando Gesù entra nella sua passione evangelizza? Certo, ma non più con le parole ma con i fatti. Il Gesù pasquale parla pochissimo, la sua evangelizzazione consiste nella materialità del suo consegnarsi nelle mani degli uomini. Questa consegna, semplice e totale, è in sé e per sé la Buona Notizia. Il servizio decisivo di Gesù non sta anzitutto nei grandi discorsi ch’egli ha fatto durante la sua predicazione, ma essenzialmente nella sua consegna pasquale. Sono i fatti che evangelizzano più che le parole. Allora a che servono le parole? Le parole servono prima e dopo i fatti a rendere intelligibili questi ultimi, ossia a decifrare, decodificare i fatti che l’uomo non è altrimenti capace di interpretare. Le parole del Gesù prepasquale servono a interpretare la Buona Notizia pasquale. E così le parole del Gesù post-pasquale.

    Con la sua resurrezione Gesù entra nella fase post-pasquale del suo ministero di evangelizzazione. Esso consiste nello spiegare a coloro che non hanno assistito alla sua passione e morte il significato dell’una e dell’altra. Perciò il servizio di evangelizzazione del Gesù post-pasquale costituisce il primo “primo annuncio” della storia dell’umanità. In quell’annuncio c’è tutto lui, c’è tutta la sua storia di uomo, la storia della sua relazione con Dio, il suo travaglio, il suo cammino nella speranza, il suo dolore e sofferenza, la sua consolazione e il suo riposo nell’esperienza della fedeltà di Dio.

    Il servizio che il Gesù post-pasquale rende ai suoi è di una qualità, di uno spessore culturale inimmaginabile. Esso è la chiave di comprensione del mistero di Dio e del mistero dell’uomo; è la chiave di interpretazione del mistero della creazione e della redenzione, del principio e della fine, di ciò che era prima della creazione del mondo e di ciò che sarà dopo la fine del mondo, l’eternità; è la chiave di lettura dell’escatologia, è la chiave di accesso al mistero della Trinità.

    La gloria del Signore della Buona Notizia che si manifesta al piccolo e spaurito gruppo dei discepoli nel Cenacolo non consiste nello splendore della sua onnipotenza, ma nelle piaghe di Gesù crocifisso. Questo è l’identikit del Signore della Buona Notizia. La storia dell’umanità, la vicenda della creazione e della caduta, l’avvio con Abramo della storia della salvezza, la storia di Israele, l’incarnazione, il ministero prepasquale e quello pasquale… Tutto è stato, è e sarà in funzione di questo momento. Da rivolgere a chi? A quattro gatti spauriti! Perché proprio a loro? Perché solo a loro? Perché non una manifestazione a tutto il popolo?

    La risposta è chiara: perché il “Primo Annuncio” suppone il confronto con la morte di Gesù, si radica in questo confronto. Suppone ancora che su questa morte ci si interroghi. Ora, i testimoni della morte di Gesù più diretti sono proprio i discepoli. Se Gesù si presentasse al mondo tutta la credibilità della buona notizia sarebbe legata ad un uomo che è resuscitato dai morti, ma nulla più!

    La serietà della buona notizia richiede che un prodotto così raffinato, culturalmente sofisticato come è il kerygma si rivolga proprio a coloro che si confrontano con la morte e la resurrezione di Gesù. Questa indicazione costituisce un criterio metodologico di estrema importanza per noi e per i nostri tentativi di evangelizzazione.

    La contemplazione delle apparizioni di Gesù risorto ci dice che i discepoli non lo accolgono a braccia aperte. Precisiamo che gli evangelisti non ci aiutano a comprendere questo nello stesso modo.

    Mt 28,16-17 (“Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano”); Mc 16,8 (“fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di paura”; 16,9-14 (“ Ma essi udito che era vivo ed era stato visto da lei, non vollero credere… neanche a loro vollero credere… li rimproverò per la loro incredulità”). Giovanni fa eccezione: Gv 20.19-20 (“gioirono nel vedere il Signore”), ma vi l’episodio di Tommaso: Gv 20,27 (“non essere incredulo”), e poi perché quel silenzio in cui non risuona nulla nell’episodio della colazione in riva al lago (Gv 21,9-12)? E’ normale questo comportamento?. In Luca 24,38 Gesù dice: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?”

    Capiamo che i discepoli dinanzi a Gesù risorto provano dentro di loro risonanze ambivalenti. La presenza di Gesù rinnova lo scandalo della croce e scatena nelle loro coscienze lo scandalo della resurrezione.

    Se il primo scandalo mette in discussione l’identità di Gesù come messia, il secondo scandalo, quello della resurrezione, mette in discussione la stessa identità di Dio scompaginando tutta la struttura di fede prepasquale dei discepoli. E’ per loro un trauma tremendo che mette in discussione tutta la loro fede nell’immagine di Dio fino a quel momento coltivata. Ecco le resistenze da dove nascono. Queste resistenze sono l’ultima disperata battaglia che il Separatore ingaggia contro l’evidenza della Buona Notizia. Si fa forte addirittura della fede prepasquale dei discepoli per opporre resistenza alla Buona Notizia.

    Dinanzi a queste resistenze Gesù avrà sofferto molto. E’ per lui ancora una pasqua di passione: non si sente accolto dai suoi (cfr Gv 1). Ma Gesù non si arrende e continua ad offrire ai suoi il servizio della Parola. Questa riflessione ci consente di capire che la disponibilità dell’amore di Dio alla Passione non si è esaurita con l’esperienza pasquale di Gesù, ma è una disponibilità eterna. Una “passione” che continua nel cuore di Dio dal suo essere e farsi Amore-dono. Quindi una passione che non è solo pasquale, ma anche prepasquale e postpasquale.

    Gesù consegna questo grande tesoro ai discepoli nel cenacolo. Affinché essi digeriscano, assimilino la ricchezza del primo annuncio, Gesù li affida all’azione dello Spirito. E’ un segno di “impotenza” da parte di Gesù. Egli sa che le sue parole e la sua presenza non basteranno, se il cuore dei discepoli non viene scalfito e penetrato dalla Buona Notizia. Ma questa è un’azione che solo lo Spirito può compiere (cfr Gv 14,26).

    Piste di riflessione

    ∑    Il nucleo della buona notizia è la consegna di se stesso che Gesù fa al Padre e agli uomini. Le parole di Gesù prima e dopo gli avvenimenti della passione e morte servono a spiegare, aprire l’intelligenza a questo mistero. Possiamo affermare che la nostra vita e la nostra predicazione ruoti effettivamente intorno a questo nucleo, oppure esso rappresenta uno dei tanti elementi?

    ∑    Ritieni importante il cammino che la provincia sta compiendo per incamminarci verso una consapevolezza sempre più profonda del nostro essere radicati nel “Primo Annuncio”? Cosa suggeriresti concretamente? (cfr Regole e Costituzioni, n. 5)

    ∑    Avvicinarsi ad un Capitolo significa rivivere tutte le dinamiche sinora affrontate. La Chiesa del nostro tempo, per ritrovare la sua identità, ha un bisogno disperato di riscoprire il primo annuncio, per ruminarlo, condividerlo intensamente nei vari cenacoli del nostro tempo. La Chiesa ha affidato il tesoro dell’annuncio del “primo annuncio” proprio alla nostra Congregazione. Questo percorso a ritroso circa il cammino della comunità cristiana primitiva ci porta a riscoprire le origini della nostra stessa identità passionista. E’ tempo di domandarci: la comunità passionista cosa può far di più e meglio, oggi, al servizio del Signore e della Chiesa, per coltivare il tesoro della memoria e del memoriale della Passione?

    ∑    Spesso siamo presi dall’ansia e ci preoccupiamo di convincere, di persuadere a forza di discorsi e di ragionamenti, di iniziative più o meno eclatanti. Non diamo forse sufficiente peso al fatto che  solo la potenza dello Spirito può “convincere” il cuore dell’uomo dell’autenticità della Buona Notizia che annunciamo. E’ Gesù stesso che consegna i suoi all’azione dello Spirito santo, sapendo che essa richiederà tempo, un lungo processo…. E solo dopo questo processo, fatto essenzialmente di “fractio verbi” gli apostoli arriveranno ad un docilità tale da vivere la loro Pentecoste. Solo allora il primo annuncio decolla nel mondo. Tutto questo trova riscontro nella nostra esperienza spirituale ed apostolica?

  • 18 Dic

    Gesù evangelizza i due discepoli di Emmaus:
    Luca 24,13-35

     

    a cura di p. attilio franco fabris

    Troviamo una conferma di quanto sinora detto anche nel famoso brano dei discepoli di Emmaus. Con il racconto dei due di Emmaus inizia la narrazione del ministero di evangelizzazione da parte del Gesù postpasquale. Ci basti dire che i due sanno tutto della morte di Gesù, (e non solo! Sono in possesso di tutti gli elementi: sepolcro vuoto, testimonianza delle donne…), ma essa non costituisce assolutamente per loro una buona notizia, anzi! Il loro abbandono della comunità ci dice che la comunità prepasquale dei discepoli di Gesù non ha futuro, il suo destino è la disgregazione.

    La sfiducia dei due discepoli è massima, tale da respingere ogni proposta di buona notizia. Loro al sepolcro non ci hanno preso neppure la briga di andarci: non ne valeva la pena. E’ proprio a questa coscienza comunitaria prepasquale in agonia, abortita, che si rivolge la Buona Notizia.

    Gesù si accompagna a loro, ma i “loro occhi erano incapaci di riconoscerlo”, velati dalla loro disperazione. Il viandante discretamente interroga e riceve la risposta delusa di Cleopa che svuota il sacco. Cosa fa il viandante? Ascolta e condivide, condivide e ascolta…. E a un certo punto comincia a dire la sua. Non è questo il circuito della “datio”, della “redditito”, della “fractio verbi”?

    Il viandante offre una chiave di letture degli avvenimenti di tipo biblico: “non bisognava….”. ripercorre in breve tutta la tradizione biblica: da Mosè ai profeti. Facendo questo il viandante fa il “primo annuncio”: è la Buona Notizia. Vorremmo sapere di più circa lo svolgimento di questo dialogo. Luca non lo riporta, lo accenna soltanto. Perché, se questo è il punto decisivo? Perché per la comunità cristiana Luca non sentiva il bisogno di descriverlo talmente era noto e assimilato.  L’essenziale era conosciuto e fatto proprio da tutti.

    Dopo la prima evangelizzazione lungo il cammino il viandante e i due discepoli arrivano all’albergo. “Resta con noi” è la risonanza di Cleopa e del suo compagno. Cosa vuol dire questa risonanza? Vuol dire che la “datio verbi” da parte di Gesù è divenuta “redditio verbi”, poi “fractio verbi” e infine “fractio vitae”. Attraverso il servizio della Parola offerto da Gesù si è innescata tra lui e i due discepoli di Emmaus una relazione così importante, che essi dal viandante-Gesù non vogliono separarsi. Non è questa la riprova che l’ascolto e la condivisione della Parola aggregano, cementano relazioni nuove?

    Gesù si consegna volentieri ai due di Emmaus. Non impone la sua presenza, ma si consegna volentieri. La “fractio vitae” è la condivisione dell’essere. La risonanza “resta con noi” è un invito alla condivisione ed una richiesta di condivisione. Gesù, con la sua iniziativa, condividendo se stesso con Cleopa e il suo compagno, ha risposto a questo bisogno ancor prima che essi ne prendessero coscienza. L’amore dono, sempre pronto ad amare per primo, risveglia nell’uomo il suo bisogno di essere amato e suscita una domanda di amore.

    La condivisione dell’essere fra i tre di Emmaus si completa con la condivisione dell’avere. I tre siedono insieme a mensa. Arriva il momento della “fractio panis”. Perché i due discepoli di Emmaus riconoscono Gesù proprio in quel momento. Forse perché nessuno al mondo spezzava il pane come lo spezzava Gesù, ossia con una convinzione, una partecipazione, una immedesimazione tali, da conferire a quel gesto un’eloquenza imitabile? O forse perché mentre alzava le mani al cielo per la benedizione del pane i discepoli videro ai polsi le piaghe del Crocifisso? Allora l’incontro con quelle piaghe determina la saldatura fra tutto ciò che il viandante ha detto e la morte dell’amico Gesù: quella morte acquista tutta la sua vitalità, la vitalità stessa della Buona Notizia. Ogni uomo per incontrare la Buona Notizia ha bisogno di incontrare le piaghe del Signore?

    Il viandante scompare. Perché?

    Una lettura in profondità ci fa intravedere che lo scomparire di Gesù, il suo interrompere l’esperienza di condivisione con i due discepoli, è un ulteriore dono. Egli infatti vuole offrire loro l’opportunità di ritrovare la sua presenza in seno alla comunità di Gerusalemme (cfr Mt 18,20). Proprio in quella comunità che essi hanno abbandonato in agonia nel Cenacolo. Lo scomparire di Gesù è un segno ed una promessa. Infatti i due, nonostante il buio e la stanchezza, tornano di corsa a Gerusalemme, e la risonanza che li mette in moto è: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?”. In termini teologici: ecco il frutto della condivisione della Parola, la dilatazione del cuore. Il valore sacramentale e salvifico della parola illumina l’intelligenza, pacifica e purifica il cuore, infiamma gli affetti, muove la volontà, apre alla speranza.

    Quando i due tornano al cenacolo trovano una comunità in effervescenza. Non fanno tempo ad aprire bocca che i loro compagni vanno loro incontro dicendo: “Gesù è risorto! L’ha visto Simone”. I versetti successivi raccontano, come già abbiamo visto, della nuova apparizione di Gesù nel cenacolo.

    Piste di riflessione∑    Assomigliamo sotto tanti aspetti i due di Emmaus. Stanchezza, delusione, abbandono di iniziative, dispersione …affliggono le singole persone e le comunità: Portiamo mille giustificazioni. Riscontri questi aspetti forse in te stesso o nella tua comunità, o in certi settori della vita di provincia. Quali le tue considerazioni? Quali le tue proposte?

    ∑    Gesù si fa compagno di viaggio, viandante con i viandanti, ascolta e condivide, dice la sua. Nelle nostre comunità ci rendiamo disponibili ad essere compagni di viaggio con i fratelli, durante il quale ci si ascolti e si condivida il proprio vissuto di fede? Se la condividi come pensi di fare per rendere concreta questa prospettiva?

    ∑    Dalla “fractio verbi” il viandante e i due discepoli passano alla “fractio vitae” e alla “fractio panis”: una suppone l’altra. E tutte e tre costruiscono le autentiche coordinate ecclesiali. Secondo te su quale delle tre risultiamo carenti? Su quale dovremmo insistere in vista di un rinnovamento delle nostre comunità? Cosa proporre?

    ∑    La delusione rischia di allontanarci gli uni dagli altri. Fuggiamo dal Cenacolo in cerca d’altro. E’ solo la presenza del Crocifisso Risorto che può divenire punto di aggregazione e di convergenza. Nella nostra esperienza la comunità è il luogo nel quale ci annunciamo la presenza del risorto o luogo dal quale ci “allontaniamo”?

     

     

  • 16 Dic

    Gesù evangelista del regno e il compito dello Spirito:
    Atti 1,3-5

     

    a cura di p. attilio franco fabris

     

    Ci domandiamo: nel corso del periodo di “incubazione del kerygma” i discepoli avranno proceduto tutti con lo stesso passo? Crediamo di no: ciascuno avrà avuto il suo passo più o meno veloce. Ma Luca ci suggerisce che la sapienza di Dio ha voluto che essi arrivassero insieme alla meta. Allorché, attraverso la “fractio verbi” del primo annuncio offerto da Gesù, l’intelligenza e l’accoglienza della Buona Notizia è maturata nella coscienza di tutti, il dono del Signore attiva per tutti nello stesso giorno e nello stesso momento.

    A questo punto notiamo che il Gesù postpasquale affida completamente l’efficacia e l’esito del suo servizio nel Cenacolo all’azione dello Spirito santo. Il Gesù prepasquale, esperto e fedele servitore della Parola, aveva da tempo imparato che il ruolo e la funzione dello Spirito santo nel cuore dell’uomo sono insostituibili. A Gesù compete la semina della Parola attraverso le sue parole e la sua testimonianza. Ma tocca allo Spirito far sì che tutto questo possa essere accolto e “metabolizzato” nella mente e nel cuore dell’uomo.

    Svolto il suo compito Gesù si ritira per lasciare spazio all’azione dello Spirito. Splendida testimonianza di come egli vive la sua creaturalità di strumento di Dio nella storia della salvezza.

    Soffermiamoci a contemplare la docilità dell’evangelista Gesù: egli attualizza, incarna alla perfezione le disposizioni al servizio della Buona Notizia. Potrebbe far sue le parole di Paolo: “Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione, e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza” (1Cor 2,3-4).

    Notiamo ancora che nella sua docilità allo Spirito Gesù si guarda bene dall’esercitare sui suoi pressioni di carattere culturale o affettivo. Li richiama all’ascolto, ma non prende il martello pneumatico per perforare le loro coscienze e introdurre in esse con forza la Buona Notizia.  Il seme è gettato! Sarà la collaborazione tra lo Spirito santo e i suoi amici a far germogliare e maturare quel seme.

    Le considerazioni svolte sin qui ci chiariscono perché per Gesù la consegna ai discepoli di rimanere in città sia così importante. Nella fedeltà a questa consegna si gioca il futuro della buona notizia, della comunità, della storia della salvezza. L’epicentro di tutto è la “memoria-memoriale passionis” proposto da Gesù: è da qui che tutto procede.

    Piste di riflessione

    ∑    siamo convinti che coltivare la “memoria” e il “memoriale passionis” sia la cosa più importante? In teoria certamente sì. Ma nella pratica come questo si concretizza? Non abbiamo tempo da perdere nel cenacolo, ci sono tante cose da fare per dedicarci veramente alla “memoria-memoriale passionis”. Per curare gli interessi del Regno finiamo col disobbedire alla consegna di Gesù ai suoi. Non è forse questo il motivo di base della nostra evangelizzazione così stanca e disorientata?

    ∑    L’atteggiamento di Gesù nella sua opera di evangelizzazione pre e postpasquale trova riscontro nel nostro stile apostolico? La nostra proposta di predicazione con quale atteggiamento viene offerta?

  • 15 Dic

    L’ “incubazione” del Kerygma:
    Luca 24,36-43

     

    a cura di p. attilio franco fabris

     

    Il processo di assimilazione della Buona Notizia si presenta senta a Gesù così problematico da dover egli prevedere per la sua piccola comunità un itinerario di ascolto molto laborioso. Il racconto dell’apparizione di Gesù nel cenacolo in Luca 24,36-43 sottolinea la difficoltà dei discepoli ad accogliere la presenza di Gesù risorto. Egli appare loro come un “fantasma”, ovvero una realtà irreale che non ha nulla da condividere con la nostra esperienza umana. Da dove proviene questa chiusura? Questa difficoltà? Tale difficoltà è dovuta al sovrapporsi, nella coscienza dei discepoli, allo scandalo della crocifissione, dello scandalo della risurrezione. Gesù si rende conto che la sua passione non è ancora terminata: la durezza del cuore dei discepoli, non ancora arresi alla buona notizia, gli chiede di morire ancora una volta per loro. Questo vuol dire che l’incontro fra il Gesù postpasquale e i suoi amici non è ancora una festa, ma una battaglia. A questa passione nuova Gesù si dispone con gratuità e generosità a lui consuete.

    Questo vuol dire che la “memoria passionis” che Gesù, nel Cenacolo propone ai suoi, è nel momento stesso in cui egli la propone un “memoriale passionis”: in altre parole, nel momento in cui Gesù in persona fa della “memoria passionis”, spiega cioè ai suoi il significato della sua morte e questa morte ricorda e ripresenta loro (le piaghe rimangono nel corpo di Cristo!), in quello stesso momento egli è disposto a nuovamente “morire” per loro. Questo “memoriale passionis” è necessario per  introdurre i discepoli nell’intelligenza della Pasqua di Gesù e delle Scritture. Nessuno, al di fuori di Gesù, può offrire ai discepoli il servizio di questa “memoria passionis”. Ma per offrire         questo servizio che si scontra con la durezza di cuore e l’incredulità è necessario che Gesù sia disposto nuovamente a morire .

    Ed ecco: nel Cenacolo, proprio lì, non può esserci “memoria passionis” senza “memoriale passionis”, senza che si rinnovi nuovamente la morte di Cristo. Chi c’è al mondo, se non Gesù stesso, che possa sostenere l’impegno di questo memoriale?

    Nel Cenacolo questa “memoria” e questo “memoriale” non sono elaborati dalla comunità. Non sono proposti dai testimoni della Passione, non da Giovanni, non da Pietro, neppure da Maria. Questa “memoria e memoriale” sono offerti dalla comunità solo dall’unico che li può offrire: Gesù in persona. Se fosse mancata questa auto-testimonianza la buona notizia non si sarebbe mai messa in moto.

    La comunità degli apostoli riceve da Gesù questo tesoro immenso. Un tesoro così grande che i poveri discepoli barcollano, vacillano.

    Gesù consegna questo tesoro ai suoi ripetutamente. Poi affida la comunità all’accompagnamento di Maria e da le sue due consegne alla comunità (restare in città – attendere l’adempimento del dono di Dio). Nel cenacolo a furia di ruminare la testimonianza autobiografica di Gesù la coscienza della comunità arriverà pian piano a comprendere ed accogliere la portata della Buona Notizia, ed entrerà in sintonia con quella “memoria” e quel “memoriale” che Gesù le ha affidato.

    E’ un processo di assimilazione che permette alle loro coscienze di aprirsi alla comprensione del kerygma. Potremmo definirlo il tempo di “incubazione” del primo annuncio. La coscienza si dispone così ad accogliere il dono della pentecoste: quando il cuore accoglie finalmente la Buona Notizia, allora il dono del Signore irrompe generosamente nella vita, e la comunità postpasquale diviene finalmente cristiana.

    Piste di riflessione

    ∑    Ritieni che il kerigma sia da noi già sufficientemente assimilato e annunciato? Da cosa lo deduci?

    ∑    Avverti l’esigenza di attivare tale “incubazione” del Kerygma nel nostro vissuto comunitario ed apostolico. In quale modo si potrebbe farlo?

    ∑    Perché avvertiamo la fatica di fermarci nelle nostre comunità per metterci insieme in ascolto della Parola del Crocifisso Risorto? Da che cosa dipende? Solo dall’educazione ricevuta, o forse anche da una scarsa volontà di attuare condizioni tali da permetterlo? E perché questa scarsa volontà? Forse manchiamo di fiducia in tal senso?

     

     

  • 14 Dic

    Perché “restare in citta’… a far che ?”:
    Luca 24,44-49

     

     a cura di p. attilio franco fabris

    Gesù nel corso della sua apparizione nel cenacolo da’ ai suoi la duplice consegna: “restate in città finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”. Parole di grande immediatezza ed autorità. Quasi un testamento!

    Quel “restate in città” così vago ed indeterminato che senso ha? Possibile che sia la cosa più utile da farsi? Possibile che in questa proposta si giochi tutto il vangelo, tutto il senso dell’esistenza prepasquale e pasquale di Gesù e della comunità e l’esistenza postpasquale di entrambi? “Restare” a far che? Per che cosa?

    Ma occorre fare un altro passo indietro.

    Nel v. 48 si dice: “di queste cose voi siete testimoni”. E’ un versetto chiave, che ci fa comprendere due cose: la prima è che l’adempimento della promessa e la relativa consegna di Gesù sono in funzione di una testimonianza, la seconda che il “di queste cose” rinvia ad un discorso precedente, vale a dire che in contenuto della testimonianza ch’egli affida ai discepoli, lo possiamo cercare e trovare solo proseguendo nel nostro percorso all’indietro.

    Nei vv. 46-47 si dice: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e resuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme”: ecco in sintesi il contenuto della testimonianza affidata da Gesù ai suoi.

    Questa sintesi rappresenta il kerygma, il cuore stesso della Buona Notizia: Gesù crocifisso, morto e risorto costituisce l’adempimento fedele, da parte di Dio, della sua Promessa.

    Ma cosa ha a che vedere la testimonianza del kerygma con il dover restare in città?

    Ce lo spiega Luca stesso con le parole di Gesù al v. 45: “Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse…”.  Queste parole costituiscono un’altra chiave di lettura, esse attestano sei cose fondamentali: 1) la Pasqua di Gesù è l’adempimento delle Scritture; 2) che i discepoli di tutto questo non hanno capito nulla; 3) che la comunità incagliata nelle secche dello scandalo della croce è ancora ferma allo stadio prepasquale; 4) che Gesù è l’unico che della sua Pasqua abbia capito qualcosa; 5) che Gesù è l’unico a poter introdurre i discepoli nell’intelligenza degli avvenimenti pasquali  e delle scritture; 6) che da questo intervento di Gesù dipende la fecondità e il futuro della buona notizia e della comunità dei discepoli. E’ evidente che nell’offrire ai discepoli il servizio di introdurli nell’intelligenza delle scritture, il Gesù postpasquale riconosce il proprio compito fondamentale ed il senso stesso di tutta la sua missione. L’esistenza ed il ministero di Gesù risorto si incentrano su questo servizio da lui reso ai discepoli. E da questo servizio discenderà un giorno la forza della testimonianza al mondo della Buona Notizia da parte degli stessi discepoli.

    Gesù prevede per i suoi amici un processo di maturazione lungo e laborioso. Al fine di comprendere ciò che è avvenuto, e per poter ricevere dal Padre un dono del tutto particolare per trovare il coraggio necessario a testimoniare in piazza la Buona Notizia.

    Tirando la conclusione di quanto detto possiamo allora comprendere il significato delle due consegne: garantire ai suoi un tempo, un luogo, un ambito (At 1,14) in cui assimilare, si potrebbe dire metabolizzare il contenuto della Buona Notizia e così prepararsi a ricevere il dono dello Spirito. Mettere la comunità nella condizione di coltivare la “memoria passionis! Si tratta di una grande esperienza di ascolto, un ascolto che conduca la comunità, attraverso il ministero del Gesù postpasquale, incagliata nelle risonanze prepasquali, all’intelligenza e all’accoglienza del significato della buona notizia.

    Piste di riflessione

    ∑    Gesù vuole assicurare un tempo , un luogo, un ambito in cui la comunità possa metabolizzare attraverso l’ascolto il contenuto della buona notizia. Ti sembra che le nostre comunità offrano questo itinerario e questo servizio, anzitutto ai suoi membri e ad altri? Se no perché? Avverti l’urgenza di questa proposta?

    ∑    Il nostro “predicare la parola” nasce dopo un itinerario vitale di ascolto come quello vissuto dagli apostoli nel cenacolo? Non rischia spesso di tradursi in un ripetere semplicemente dei contenuti-informazioni religiosi, senza che ciò che viene annunciato sia stato elaborato a livello personale e comunitario in un vissuto di ascolto?

     

  • 12 Dic

    Una comunità che riceve un mandato

    At 1,1-12

    a cura di p. attilio franco fabris

    La manifestazione della presenza del dono del Signore alla prima comunità cristiana viene descritta secondo le categorie delle teofanie del Sinai. Questo sta ad indicare il parallelismo fra la festa ebraica della pentecoste e la Pentecoste cristiana.

    Come nell’A.T. l’antico Israele riceve sul Sinai le tavole della legge (e la Pentecoste ebraica è la festa che celebra il dono della Legge), così la comunità cristiana riunita nel cenacolo riceve il dono della Legge nuova, il dono dello Spirito, la nuova legge del cristiano.

    Come si ricava dal resto del racconto i frutti della pentecoste sono: anzitutto la “parresia”, poi la libertà di comunicare con tutti, nessuno escluso.

    La comunità degli apostoli è nel Cenacolo, sono tutti insieme nello stesso luogo. Da quanto tempo? Cosa ci stanno a fare?

    Non  è possibile stare alla cronologia certo simbolica degli Atti. Stando a questa cronologia verrebbe da dire: “Sono lì da dieci giorni”. In realtà questa cronologia rispecchia l’intenzione di Luca di far cadere il giorno della Pentecoste cristiana nel giorno della Pentecoste ebraica.

    Ma proseguiamo nel cammino a ritroso.

    Luca racconta che dopo l’ascensione gli apostoli tornano a Gerusalemme, ritirandosi nel Cenacolo. Ecco il retroterra della Pentecoste: il gruppo degli apostoli e delle donne, con Maria, è accampato notte e giorno nel “piano superiore” del Cenacolo. A che scopo?

    Dicono gli Atti “tutti erano assidui e concordi nella preghiera” (v.14). Luca sottolinea la fedeltà di questa comunità all’ascolto della Parola, persevera in essa.

    Ma perché gli apostoli sono fermi nel cenacolo? Perché non fanno altro?

    Questa situazione, socio-religiosa, incomprensibile trova la sua giustificazione nella tradizione della consegna ferma, decisa, che Gesù ha dato prima di lasciarli ai suoi amici. Tale tradizione riveste un’importanza fondamentale.

    Facciamo ancora un passo indietro. Cosa può fare Gesù, dopo la sua resurrezione, se non condividere con i discepoli intensamente gli interessi e le vicende del regno di Dio al quale ha consacrato la vita? E’ Gesù che ordina ai discepoli di non allontanarsi da Gerusalemme e di attendere “l’adempimento della promessa del Padre”. Le consegne sono due: non allontanarsi e attendere. Una è condizione per l’altra. E ambedue assicurano l’adempimento “fra non molti giorni” (Quanti? La promessa si adempirà quando Dio vorrà).

    I discepoli non possono valutare anzitempo la portata del dono. E’ impossibile comprendere senza prima averne fatto esperienza.

    Dunque questa comunità accampata nel cenacolo vive questa consegna non in nome di una propria iniziativa, ma in ubbidienza alla parola di Gesù. Quanto durerà? Nessuno lo sa. Gli Atti non ci offrono una spiegazione. Come mai?

    Occorre risalire ancora più indietro. Alla conclusione del Vangelo di Luca, Gesù dà ai suoi la medesima consegna (Lc 24,49). E’ un dettaglio di una grandissima importanza dal punto di vista teologico. Luca lo pone proprio a cerniera tra vangelo e atti, quasi ad affermare che tale consegna costituisce l’epicentro come della sua opera, di tutta l’esperienza cristiana. Ci ritorneremo.

     

    Piste di riflessione

    ∑    Quale significato attribuisci alle consegne date da Gesù ai suoi: di fermarsi a Gerusalemme e di attendere?

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