• 02 Dic

    Eccomi sono la serva del Signore”

    Il racconto della vocazione di Maria:

    Luca 1,26-38

    Il racconto della vocazione di Maria (Lc 1,26-38), più noto co­me l’annunciazione a Maria, è di una ricchezza esorbitante. Si può in­fatti leggere la pericope sotto il profilo cristologico, appuntando l’attenzione sull’identità e sulla missione del Figlio annunciato a Maria, oppure si può appuntare maggiormente l’attenzione al volto di Dio che emerge da tale racconto.

    Infine – ed è quanto fa­remo qui – si può privilegiare la contemplazione della figura di Maria, dalla sua prima reazione all’annuncio dell’angelo alla ce­lebre domanda sulla modalità di quella gravidanza, fino alla sua totale e gioiosa accettazione del progetto divino.

    Un sorprendente saluto

    Innanzitutto sostiamo sul saluto angelico, causa del turbamen­to interiore di Maria, saluto che, nell’attuale traduzione liturgica, suona con un troppo neutro: «Ti saluto, o piena di grazia». Poiché Luca è l’evangelista della gioia, sembra preferibile tradurre l’e­spressione letterale del saluto, nel suo significato filologico di gioire‘. In tal modo, la frase suonerebbe così: «gioisci…»; diven­ta allora evidente il richiamo a quegli appelli alla gioia che i pro­feti del Primo Testamento rivolgono appassionatamente al popo­lo di Dio, affinchè non si lasci schiacciare dal dolore, ma accolga la consolazione divina. Maria è come la ‘figlia di Sion’, esortata a gioire per la presenza salvifica del Signore nella sua comunità.

    L’angelo, oltre che invitarla a gioire, non si rivolge a lei chia­mandola per nome, ma le conferisce un nome nuovo, carico di un’enorme promessa: «colei che viene riempita di grazia» (infat­ti in greco non c’è un aggettivo, ma il participio perfetto passivo del verbo charitóó = fare grazia). E infine, come nei testi di mis­sione dei grandi personaggi del Primo Testamento, Maria riceve l’esaltante assicurazione che il Signore è con lei.

    Ella, davanti a tutto ciò, non può non porsi domande, e non può non essere turbata da un saluto così sorprendente. Da ciò emerge implicitamente il ritratto dell’umiltà di Maria, la quale non si ritiene certo meritevole di tanta attenzione da parte di Dio. Lo sconvolgimento interiore di Maria non è soltanto emo­zionale, ma è un interrogarsi pieno di intelligenza spirituale, ed è proprio per tale intelligenza che essa avverte tutta la spropor­zione tra il proprio essere – quello che nel Magnificat dirà esse­re la sua ‘bassezza/infimità’ – e l’iniziativa di Dio verso di lei.

    L’a­scolto è una caratteristica della figura spirituale di Maria fin dal­l’inizio della presentazione che ne fa l’evangelista; ebbene, l’a­scolto è dare peso alle parole, coglierle nel loro spessore e nella loro eco. Si comprende allora che Maria, ascoltando queste pa­role dell’inviato divino, ne rimanga come sconvolta.

    Seguendo lo schema tradizionale dei racconti di vocazione/ missione, alla reazione umana corrisponde l’invito divino a non temere (cfr. Gen 15,1; Gdc 6,23; ecc.), come avviene appunto an­che in questa occasione. Ma le parole dell’angelo non rendono più leggero il saluto, anzi lo gravano di un significato ulteriore, perché dichiarando che lei, Maria, ha «trovato grazia presso Dio», indica una relazione personalissima e singolare di Dio con lei, relazione attribuita nel Primo Testamento ai grandi protagonisti della storia della salvezza.

    Il lettore, così, comprende con Maria quali possa­no essere i motivi profondi dell’iniziale invito alla gioia. Le ragio­ni di Maria per gioire non stanno certo nelle sue prospettive di promozione sociale mediante l’ormai prossimo matrimonio, né tanto meno nella condizione storica in cui versa il suo popolo, op­presso dai romani, ma è l’amore di Dio che si sta manifestando su di lei, come lascia intuire la parola angelica sul fatto che ella ha trovato grazia. In tal modo la figura di Maria si carica di una valenza simbolica, e lei diventa quasi l’icona della gioia, che è una dimensione intrinseca della fede del popolo di Dio,

    Subito dopo il messaggero di Dio le indica anche in che cosa consista la sua missione: avere un Figlio le cui caratteristiche sa­ranno di natura messianica, anzi divina. Infatti egli sarà l’erede delle promesse davidiche, sarà ‘grande’ in assoluto, sarà chiama­to ‘Figlio dell’Altissimo’ da Dio stesso, come suggerisce l’uso del passivo teologico.

    Le parole angeliche a riguardo del Figlio che Maria concepirà e partorirà richiederebbero un approfondimento fin nel minimo dettaglio filologico, ma qui ci limiteremo a riflettere sull’ulterio­re domanda di Maria, questa volta espressa e non trattenuta nel segreto del cuore.

    Come avverrà questo?

    Di fronte ad un annuncio tanto sbalorditivo – poiché si pro­spetta la nascita di un personaggio dalle caratteristiche regali, as­solutamente incomparabili con quelle dei re che Israele aveva conosciuto, e ancor più dalle caratteristiche divine, con una fi­gliolanza ineffabile nei confronti di Dio – , Maria non può fare a meno di porre una domanda. Purtroppo, come ben si sa, la tra­duzione CEI è davvero infelice e fuorviante, poiché rende Lc 1,34 con «Come è possibile? Non conosco uomo».

    In attesa di una traduzione più adeguata, ci limitiamo a segna­lare che una resa letterale della frase greca suona più convin­centemente: «Come avverrà questo?», traduzione che risolve già varie perplessità sorte nel lettore.

    Maria chiede spiegazioni, ma lo fa senza pretendere una pro­va o avanzare dubbi sulla veridicità della parola angelica, come ha fatto invece Zaccaria (cfr. Le 1,18). La domanda di Maria è le­gittima, poiché negli altri annunci biblici prospettanti la nascita prodigiosa di un bimbo viene sempre indicato in qualche modo il genitore del piccolo. Maria, attenta ascoltatrice della parola del Signore, nella sua domanda chiede pertanto quali siano le ulte­riori disposizioni del Signore verso di lei, visto che l’angelo non indica in alcun modo le modalità del concepimento.

    Va allora ribadito che la domanda di Maria non è affatto se­gno di incredulità o di dubbio, come era stato il riso di Sara, quando aveva udito, da parte dei tre visitatori, l’annunzio di una sua gravidanza (cfr. Gen 18,12ss.). Anche Abramo, il grande pa­dre nella fede, che pure aveva creduto in Dio, si era lasciato tra­scinare dalla logica umana, quando, dopo aver ricevuto la pro­messa divina, aveva cercato di adattare le cose secondo il crite­rio di possibilità. La faccenda sembrava a lui e a Sara abbastan­za chiara: non potendo avere da lei un figlio, lo avrebbe avuto dalla sua schiava (cfr. Gen 16); mostrava in tal modo di non aver capito fino in fondo che Dio è davvero il Signore dell’impossibi­le, e che il suo agire trascende le vie e le logiche umane.

    Al contrario Maria, da credente assolutamente integra nella sua fede, non persegue la propria logica, ma si affida totalmente alla volontà di Dio, chiedendo che Egli, attraverso il suo messag­gero, le manifesti le modalità del concepimento. La sua condi­zione di ragazza vergine, «che non conosce uomo», rende ancora più evidente l’affidarsi di Maria alle vie di Dio.

    Bisogna però chiedersi come si debba intendere questo «non conosco uomo». Tradizionalmente è inteso come indicazione della sua condizione verginale, del suo non aver rapporti con un uomo. Qualche autore cattolico si era spinto più in là, vedendo in questa affermazione un voto di verginità perpetua; così si esprimeva, ad esempio, il grande esegeta M. Zerwick: «Describit statum virginalem cum implicita voluntate retinendi eum». Que­sta lettura è oggi abbandonata, ma resta quella più diffusa per cui Maria segnala la sua condizione verginale all’angelo. Questo comunque suona un po’ strano, dal momento che tale precisa­zione risulta inutile, visto che il lettore già per due volte ha in­contrato il termine parthénos (vergine/giovane ragazza non spo­sata) e non si capisce perché Maria debba informare di ciò il mi­sterioso visitatore, che già la conosce così nel profondo, da sape­re qual è la sua condizione davanti a Dio.

    La domanda di Maria e la sua precisazione sul non conoscere uomo può essere forse meglio intesa alla luce del contesto. In­fatti, immediatamente prima l’angelo ha prospettato le qualità messianiche divine di quel bambino che lei avrebbe concepito, qualità così alte e così incomparabili che non possono derivare dall’uomo. In questo senso allora la sua domanda dice almeno due cose.

    La prima è che lei non vuole anticipare le proprie vie, ma si mette a disposizione della volontà del Signore, e resta in attesa delle sue indicazioni. La seconda è che la sua fede è davvero lu­cida, poiché sa bene che nessuna creatura umana è in grado di
    generare un figlio che abbia le qualità e la natura divina come
    l’angelo ha appena annunziato!

    Scenderà la potenza dell’Altissimo

    A questo punto l’angelo spiega a Maria come si verificherà la sua maternità e quale sarà l’origine del bambino. Qui il testo si ca­rica di grande densità teologica, poiché non solo indica le modali­tà ‘misteriose’ del concepimento, ma ribadisce l’origine ‘altra’ del Figlio che Maria avrà. Proprio in conseguenza di tale origine ‘san­ta’, il bambino «sarà chiamato figlio di Dio». Suggeriamo qui la preferenza per questa traduzione del testo evangelico: «quello che nascerà santo, sarà chiamato figlio di Dio» (CEI invece traduce: «Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio». In tal caso si intenderebbe dire che è l’origine santa, divina, di que­sto Figlio di Maria che indica, segnala la sua figliolanza divina).

    L’angelo poi afferma che sarà lo Spirito Santo ad agire in lei. La frase risulta composta di due parti parallele, di cui la seconda suona così: «la potenza dell’Altissimo stenderà la sua ombra su di te». Il verbo ‘stendere l’ombra’, in tutti i passi del Primo e del Nuovo Testamento in cui ricorre, indica sempre un’attività divi­na, il mistero dell’agire di Dio in una persona. L’espressione an­gelica richiama poi anche il celebre passo di Es 40,35, in cui vie­ne presentata la nube di Dio che ricopre la tenda, e la gloria del Signore che riempie la dimora. Orbene, Maria diventerà ‘dimora di Dio’, diventerà come il tempio nel quale Dio pone la sua pre­senza, fa riposare la sua gloria.

    È utile qui richiamare alcuni aspetti della ricchissima teologia del Primo Testamento sul tema del dimorare di Dio. Ebbene, nel Sal 132, che ha anche un chiaro colorito messianico, Dio è pre­sentato come inquieto, perché è alla ricerca di una Dimora in cui rimanere in modo stabile con il suo popolo. Alla luce di questa immagine Maria appare qui come la Dimora degna, tanto sospi­rata, come quel cuore in cui Dio può finalmente far riposare il suo Nome, per essere vicino non solo a lei ma all’intero suo popolo.

    Che in un certo senso il Signore trovi casa proprio presso Ma­ria lo si era già visto in quel misterioso «entrare dell’angelo del Signore da lei» (cfr. v. 28). Se per Zaccaria l’evangelista parla di un’apparizione di Gabriele, ora invece si realizza un incontro molto più profondo, coinvolgente, reso possibile dal fatto che la casa interiore di Maria è completamente ospitale.

    Le ultime parole dell’angelo si interessano poi al tema del ‘se­gno’, costituito dalla gravidanza di Elisabetta. Questo segno – elemento ricorrente nei racconti di vocazione, in quanto soste­gno per la fiducia del chiamato – non è preteso da Maria, ma da lei accolto con prontezza, senza esitazione, come si vedrà nella pericope successiva della visitazione ad Elisabetta. Esso serve a sottolineare il carattere eccezionale e reale del concepimento annunciato a Maria. Nella maternità di Elisabetta Maria riceve un segno per credere che «nessuna parola sarà impossibile a Dio» (questa è la traduzione letterale del versetto che la tradu­zione CEI rende impropriamente con «nulla è impossibile a Dio»). Maria crede non solo all’inattesa maternità di una donna anziana e sterile, ma a qualcosa di infinitamente più grande, e cioè che Dio voglia entrare in questa storia in modo così intimo e concreto da farsi ‘nato da donna’, da assumere la condizione umana. Questa è la parola che non sarà impossibile a Dio e che ella crede con tutta se stessa.

    La serva del Signore

    «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». Secondo quanto affermato in Lc 1,27, nella vita di questa vergine di Nazaret vi è il progetto di un matrimonio, or­mai prossimo. Ma, come credente, ella coltiva un sogno più gran­de, che trascende anche questi progetti personali: che il Signore compia prontamente le sue promesse e che nella sua vita possa vedere i giorni del Messia! È questa infatti la preghiera, il kaddish, che – come tanti altri credenti del suo popolo – ella recita quotidianamente per la santificazione del Nome, invocando di potere sperimentare nei giorni della propria esistenza il venire del Regno di Dio: «Sia proclamata la grandezza e la santità del Nome grande di Dio nel mondo che egli ha creato secondo la sua volontà, e stabilisca egli il suo Regno durante la nostra vita e nei nostri giorni e durante la vita di tutta la casa d’Israele, presto, in tempo prossimo… ». Ora il sogno diventa realtà e Dio le chiede di prendere posizione, di dare il suo ‘sì!’.

    La promessa sposa di Giuseppe viene così associata alla schiera dei grandi protagoni­sti della storia della salvezza, come Abramo, Mosè, Isaia, uomini chiamati da Dio a collaborare al suo piano di salvezza per Israe­le e per le genti. Il passo biblico più vicino all’assenso di Maria alla parola di Dio, comunicatale dal messaggero divino, è però quello in cui, al Sinai, Israele accetta per la prima volta la pro­posta di un’alleanza da parte del Signore. Il popolo promette: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremol» (Es 19,8).

    Propriamente il Signore non ha ancora comandato qualcosa al popolo, ma ha soltanto chiesto se esso voglia acconsentire alla sua iniziativa di fare alleanza con Lui. Alla luce di questo passo biblico, si vede come il primo ‘sì’ da dire a Dio non sia tanto l’obbedienza ai suoi ordini e decreti, ma la fede nella sua promessa, l’adesione piena al suo progetto, che vuole il bene dell’uomo. Il ‘sì’ di Maria è come quello di Israele perché è un credere fermamente alla sua volontà di salvezza e fiorisce da un cuore vergine, abitato dal desiderare ciò che Dio stesso desidera e plasmato da una totale fiducia nel Signore.

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