• 05 Feb

    di p. Attilio F. Fabris

     * * * 

    v. 1. Gesù è a Gerusalemme per una delle tre feste alle quali i pii israeliti vi si recavano in pellegrinaggio: Pasqua, Pentecoste, Capanne. Non si dice di quale festa si tratti.
    Vi è una forte sottolineatura della salita a Gerusalemme da parte di Gesù: è nella città santa che si svilupperà per il nostro evangelista il conflitto tra Gesù e le autorità giudaiche. 

    v. 2. La piscina miracolosa era a nord est del Tempio, presso la “porta delle pecore”. Si tratta di un grande spazio: cinque portici! Un luogo di guarigione come erano ritenute nell’antichità alcune sorgenti. In questa infatti piscina avvengono guarigioni; e il particolare che esse avvengono da parte dell'”angelo del Signore” che muove l’acqua è forse uno sforzo di integrare nell’ortodossia una pratica pagana estranea alla religione ufficiale. Una sorta di santuario dei miracoli. E’ il luogo di ritrovo per chi spera di ottenere o riottenere la salute. L’uomo infatti è disposto a tutto per avere vita: pellegrinaggi, santuari, medici… una corsa senza fine ed estenuante, che si rivela il più delle volte deludente: la vita ci sfugge di mano anche se non la vorremmo perdere. Siamo disposti a tutti i riti e a tutte le pratiche, anche le più esoteriche, per possedere la vita. Attendiamo un “angelo” che venga a sanarci. Tutti attendiamo l’intervento miracoloso che venga a sanarci dalla nostra angoscia di vivere. 

    v. 3. ciechi, infermi, zoppi, paralitici ecco la carrellata di situazioni umane che si ritrova lungo i portici della piscina. Sono tutti poveracci in canna. I ricchi hanno le loro case di cura, i loro medici, le loro medicine con cui guarire. Lungo quei portici invece ritroviamo un’umanità sofferente senza speranza, allo sbando, in  preda al suo dolore e alla sua disperazione.
    Ritroviamo una categoria di esseri umani che al Tempio non ci può stare: la malattia lo impedisce per il suo carico simbolico di peccato e di morte (cfr. Lv 21,18; 2Sam 5,8)
    Proviamo ad immaginare questa lunga fila di derelitti, stesi gli uni accanto agli altri, non c’è posto talmente c’è ressa.
    (Proviamo ad ascoltare le loro risonanze interiori ed esteriori che percorrono il loro animo). 
    La maggior parte vive di elemosina, della pietà del passante. Una vita che dipende dall’altro. Queste persone di fronte alla vita si sentono defraudati, vivere per loro non è una gioia, ma un dramma: è necessario addirittura trovare strategie per riuscire solo a sopravvivere. Le loro malattie e le loro paralisi sono le loro uniche fonti di reddito. 

    v. 4. ma l’atmosfera che circola in quella piscina  è tesa. Solo qualcuno di loro può essere guarito. La tradizione dice il primo che arriva all’acqua quando essa comincia a fluire. E arriva per primo chi è meno malato degli altri, chi ha appoggi, chi riesce a farsi strada con la forza. Il più debole difficilmente arriverà all’acqua per ottenere la guarigione. E’ una corsa, una lotta per la vita… a spese degli altri. Qualcuno avrà rinunciato alla sua guarigione, al suo primo posto, per lasciar spazio a chi questa possibilità non ce l’avrebbe mai avuta?
    E’ un’attesa estenuante… uno sguardo all’acqua e uno al vicino colto come un possibile antagonista, nemico nei miei confronti e nei riguardi delle mie attese e speranze.

     v. 5. Tra gli ammalati ve ne è uno, senza nome, che lo è da trentotto anni. Tutta una vita (cfr Dt 2,14). Una situazione cronica ormai, che dice l’impossibilità del cambiamento. Dice invece rassegnazione. Quest’uomo senza nome si identifica con la sua malattia. Un cambiamento a 40 anni è ormai impensabile: quanti problemi creerebbe (lavoro, amici, relazioni, famiglia…). Dopo 40 anni forse non lo si desidera neppure più talmente quel cambiamento provocherebbe incertezza, imbarazzo, con tutta le conseguenze di presa di posizione nuova di fronte alla vita.
    Egli nel mondo è la sua malattia, e lui stesso si riconosce solo in questa sua triste e drammatica realtà. Non si specifica di che malattia si tratti: si dice solo che è disteso, incapace di reggersi in piedi, il che vuol suggerire la condizione umana, dell’uomo incapace di camminare, in senso biblico di vivere in comunione con Dio e con gli altri ed è incapace di rimettersi in piedi da solo. 

                v. 6. Gesù si trova lì, alla piscina. Perché è lì? Cosa vi fa? E’ di passaggio? Vi si reca intenzionalmente?
    Una cosa è certa: egli non disdegna, non teme, di entrare in contatto con questo mondo fatto di sofferenza, disperazione, povertà, speranza, superstizione. Gesù scende (anche materialmente) in mezzo a quella folla accalcata in attesa del miracolo che non giunge.
    Si sarà guardato attorno, avrà percorso quei portici scavalcando malati e lettucci. Qualche parola, un sorriso, una carezza.
    (Noi facciamo spesso fatica a “scendere” in questi mondi: ci troviamo a disagio? Da dove nasce questa risonanza? Forse dal dover fare i conti con la morte, dal volerla fuggire non guardandola in faccia, ovvero nasce dalla nostra paura di perderci).
    Ad un certo punto l’uomo malato disteso sul lettuccio colpisce l’attenzione di Gesù.
    Perché proprio lui? Cosa lo contraddistingue dagli altri?
    Probabilmente proprio la sua solitudine, il suo essere appartato lontano dal bordo della piscina dove tutti si accalcano.
    E’ disteso: è la posizione della morte, una postura fossilizzata, inamovibile. Questa sua presentazione dice la sua posizione rinunciataria nei confronti della vita.
    Sono questi gli indizi che dicono a Gesù della sua lunga malattia? Una malattia che non è solo fisica, ma spirituale che ha intaccato la sua coscienza di uomo di fronte alla vita.
    Gesù rivolge una domanda a quest’uomo? “Vuoi guarire?”. Una domanda che apparentemente appare insensata ed illogica. Risponderemmo a Gesù: ma perché allora sono qui? Sono domande da farsi?
    Ma questa domanda, così solo apparentemente scontata, intende invece andare molto più in profondità, vuole raggiungere il cuore e la coscienza di quell’uomo. Gesù desidera, vuole riuscire a strappare quell’uomo da quella situazione di “stagnazione”, ma lo può fare solo a condizione che riemerga il desiderio ormai sepolto nel cuore nei riguardi della vita, di fronte alla quale quell’uomo invece è in una situazione di rinuncia, di morte, di rassegnazione. Se  non scatta il desiderio di rinascere, di rivivere il che comporta la presa di coscienza della propria situazione di morte come può operarsi un cambiamento nella nostra vita?
    Questa domanda, in verità, è un invito alla riscoperta della propria identità non di malato, ma di uomo chiamato a emergere, a “alzarsi”  nella ricerca della propria identità non schiacciata né sepolta sotto cumuli di compromessi, atteggiamenti errati, convenienze, disperazioni, ripiegamenti.
    (La stessa domanda è rivolta a ciascuno di noi: “Vuoi veramente guarire?”. Se ci ascoltiamo onestamente  ci accorgeremo che dentro la nostra coscienza si muovono due risonanze: da un lato il desiderio vivo e vero della guarigione, dall’altro la paura, l’incertezza, la diffidenza. A quale risonanze generalmente diamo ascolto?).
    Ma Gesù è sconosciuto all’uomo malato. Per lui è solo una persona fra le tante che si aggirano per i portici. Il malato perciò non ripone alcuna aspettativa nei suoi confronti. Anzi la sua domanda gli può apparire impertinente: “Ma cosa vuole questo qui da me? Cosa cerca?”.
    Da parte dello sconosciuto vi è solo quella parola che può apparirgli ironica, banale, oppure… che sia una parola di speranza (ovvero profetica!) che domanda fiducia e accoglienza.
    Gesù è veramente l’angelo che tutti lì attendono per essere sanati. Ma quest’uomo si rivela incapace di riconoscerlo… questo angelo infatti si manifesta in modo diverso dalle sue/nostre attese “religiose”.  

    v. 7. La risposta dell’uomo malato rivela molto della sua indole. Attraverso quelle poche parole possiamo entrare un po’ nelle risonanze della sua coscienza.
    Questa risposta è quanto mai ambigua. Infatti egli non dice né sì né no. Egli dribbla la domanda. Perché? Non sarebbe molto più semplice dire direttamente sì o no? Perché questo contorcimento?
    E di che tipo è questa risposta ambigua? E’ una lamentela e condanna nei confronti del disinteresse e della prepotenza degli altri. Sono loro la colpa della sua situazione!
    Si lamenta di non avere nessuno, nessun “salvatore” che si occupi di lui (e in effetti è questa la sua esperienza). Gesù dinanzi a lui non esiste, esiste solo la sua disperazione. Certo vi è un’effettiva solitudine ed incapacità da parte di quest’uomo di risolvere il problema, ne prendiamo atto. Ma perché questa risposta, quando dinanzi a lui sta una persona concreta che si vuole occupare di lui?
    Le parole di quest’uomo dicono come ormai egli abbia scavato per sé una nicchia sicura in questo mondo dal quale osservare criticando e condannando gli altri.  Si è relegato in quest’angolo, e ormai gli va bene, e della possibilità di cambiare non se ne parla. In quest’uomo anche il desiderio della guarigione ormai è oscurato; è passivo dinanzi alla vita (oggi diremmo in preda alla “depressione”). E’ un escluso dalla vita.
    (Quante volte l’uomo sta male, vive male, ma di fronte alla prospettiva del cambiamento può talmente essere attanagliato dalla paura, da rinunciarvi. “Ma ormai non posso più cambiare!”: è una frase che spesso ne sottintende un’altra: “Ho paura di cambiare… non ne ho voglia”. Sono risonanze che anche noi conosciamo (o che il più delle volte subiamo inconsciamente): stiamo male, potremmo assumerci la responsabilità di un cambiamento, ma esso ci fa paura. Dobbiamo allora trovare qualcuno su cui scaricare la colpa del nostro malessere.
    Spesso ci vengono offerte possibilità di cambiamento, di miglioramento, ma noi svicoliamo. Preferiamo continuare a star male piuttosto che affrontare il rischio di stravolgere la nostra vita. E per giustificarci in questo troviamo mille pretesti e giustificazioni per sollevarci da questa responsabilità nei confronti di noi stessi). 

                    v.8. Gesù avrà intavolato un dialogo con quest’uomo? Il vangelo sembra suggerire che egli sia immediatamente passato all’iniziativa di offrigli la guarigione, scavalcando in un certo senso l’elaborazione della coscienza. Quell’uomo infatti da solo, ripiegato nelle sue risonanze di rinuncia e di paura, non si sarebbe mai spontaneamente aperto al dono. Gesù offre immediatamente una parola profetica di salvezza.
    Ma questo “scavalcare la coscienza” del malato da parte di Gesù, se da un lato dice la gratuità del dono dall’altro dice il rischio che esso sia o rifiutato o usato male. Gesù questo rischio lo corre: gli preme ridonare la vita a quest’uomo, sa che probabilmente tutto ciò che sta per donare potrà essere usato male (e infatti ne farà le spese sulla sua pelle).
    Gesù  pronuncia una parola che è un comando. Una parola che non è accompagnato da alcun gesto: quindi efficace per se stessa. E’ la potenza della parola che opera la guarigione.
    Alzati! E’ il verbo della resurrezione, della rinascita, della vita nuova.
    Prendi il tuo lettuccio! Offri la tua testimonianza nei confronti del Dio della vita (un po’ come lo sarà la tomba vuota). Porta con  te il segno della sua morte per manifestare che proprio in questo giorno si è compiuta per te la salvezza di Dio.
    Cammina! Apriti alla vita, all’incontro, non ripiegarti più. Assumi il tuo posto e il tuo ruolo nel mondo, con responsabilità. Cammina incontro alla promessa di Dio che hai sperimentato aprendoti alla comunione con Lui, con gli altri, con te stesso. 

                v. 9. Proviamo ad ascoltare le risonanze della coscienza di quest’uomo di fronte alle parole dette da questo sconosciuto: incredulità? Speranza? Paura? Gioia? Rabbia? Incertezza sul da farsi (se fosse una presa in giro?)?…
    Immaginiamo Gesù che lo prende per mano incoraggiandolo. Incitandolo ad alzarsi vincendo tutte le sue controrisonanze.
    Vacillando ed appoggiandosi a Gesù quell’uomo, paralizzato “da trentotto anni”, si alza. Qualche piccolo passo indeciso e incredulo. La gambe reggono! E’ incredulo. In fretta prende il suo piccolo materasso: l’unica cosa che possiede. E guardandosi le gambe e guardandosi in giro incredulo si avvia lungo i portici e poi sulle scale per uscire al più presto da quel luogo di morte, contento che stavolta la buona sorte sia toccata a lui e non agli altri. Finalmente ce l’ho fatta, sono come gli altri!
    Ma sono risonanze che durano poco; il cuore da un lato avverte la gioia dall’altro la preoccupazione e l’ansia per il futuro. “Ora che farò? Come mi guadagnerò da vivere? Non ho lavoro, non ho mai potuto imparare un lavoro. Dove e da chi andare? Non ho famiglia e le poche persone che conoscevo le ho lasciate laggiù alla piscina sotto i portici e di certo non ho intenzione di tornarci. Chi mi accoglierà?….”. Un terribile sospetto: “La guarigione forse mi creerà più problemi della malattia”.
    La paura e l’incertezza bussano sempre più forte alla porta della coscienza dell’uomo. Un lampo, un pensiero velocissimo: “Quando mai ho accettato di ascoltare quell’uomo. E chi era? Nella fretta di uscire non gli ho neppure chiesto il nome, non gli ho detto neppure grazie, ma se lo merita poi? Lo ho ascoltato ma ora mi ritroverò con più problemi di prima”.
    Nella coscienza di quest’uomo si alternano dunque gioia e paura, entusiasmo e incertezza. E’ l’andamento pendolare delle risonanze nella nostra coscienza. 

                Era sabato!: Ma il giorno in cui avviene tutto questo è di Sabato.
    Nei vangeli sembra che Gesù faccia apposta a cogliere proprio di sabato le occasioni di operare segni di salvezza (cfr. Gv 9,14-16). Non è il sabato il giorno del riposo, della gioia, della festa della vita. E quale giorno è il più indicato per ridonare la vita se non proprio il Sabato (cfr. Es 20,8)? La guarigione dei malati non deve forse contrassegnare il giorno della salvezza definitiva che è il significato del sabato  (cfr. Is 35,4-6; cfr. v. 17)?
    Gesù sa bene di chiedere all’uomo di infrangere i precetti della Legge (cfr. Gr 17,21-27). Ma è altrettanto consapevole che la Legge debba essere a servizio della vita e non viceversa: il sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato.
    Il suo comando all’uomo di prendere la sua barella è dato perché sia manifesta agli occhi di tutti la presenza della salvezza escatologica di cui la sua guarigione è segno. 

                v. 10. I “Giudei”, che non hanno visto la guarigione alla piscina, vedono però l’uomo guarito compiere il gesto contrario alla legge: portare un peso. 
    L’uomo viene fermato in mezzo all strada in mezzo a tutti, si forma un cappannello di curiosi. Immaginiamo le risonanze di quest’uomo che già in preda ai suoi pensieri e preoccupazioni si vede subito chiamato a confrontarsi con l’ostilità del mondo, con la grettezza dei detentori della legge. Come inizio della vita nuova non c’è male! Avrebbe preferito sentirsi sprofondare, essere rimasto là presso la piscina, piuttosto che dover fare i conti con questo mondo in cui è così faticoso vivere.
    L’atteggiamento dei “giudei” ci invita all’esame di come l’uomo sia molto propenso alla condanna dei gesti altrui. Condannare l’atto è molto più semplice e non coinvolgente che mettersi in ascolto della coscienza di colui che lo compie. Mettersi insieme in ascolto della coscienza è faticoso, a volte destabilizzante. Certamente ci renderebbe meno presuntosi e precipitosi nel voler atteggiarci a giudici spietati dell’altro: “Uno solo è il legislatore e il giudice e tu chi sei che giudichi il tuo prossimo?”. 

                v. 11. La risposta dell’uomo guarito è ancora emblematica e rivelatrice delle risonanze della sua coscienza. Egli scarica la responsabilità del suo gesto su colui che lo ha guarito ridonandolo alla vita: “E’ colpa sua, non mia… è stato lui! Io non c’entro… lui mi ha detto”.
    E’ questa una dinamica che conosciamo bene: scaricare sull’altro, esimerci dalla responsabilità, trovare un colpevole.
    (E’ sempre la paura la risonanza profonda che provoca questo: paura della disapprovazione degli altri, paura di andare incontro al rifiuto degli altri. Questo anche al prezzo di rinunciare ad essere noi stessi, o, come in questo caso, facendo addirittura del male a coloro che ci fanno del bene. Ci vogliamo difendere al costo di tirare in campo altri: quello che ci preme è salvare noi stessi).
    Quale l’origine di questa paura in quest’uomo? Forse il ritrovarsi in un mondo nuovo e complesso col quale sinora non aveva fatto i conti e che gli incute timore e disagio, il suo sentirsi inadeguato e incapace di affrontarlo, il suo bisogno di sicurezza, le delusioni che sinora ha accumulato nella vita che gli insinuano incertezza e incapacità di aprirsi al nuovo.
    Di tutto questo il “capro espiatorio” diviene l’uomo che lo ha guarito: Gesù.

                v. 12. Ci si aspetterebbe un atteggiamento da parte degli accusatori di stupore e di meraviglia dinanzi a una dichiarazione di guarigione miracolosa. Ma la grettezza umana è sconfinata. Agli accusatori che vi sia stata una guarigione non interessa. Quante volte non prendiamo atto dei fatti e continuiamo ad affrontare la realtà attraverso i nostri schemi mentali, le nostre ideologie politiche o religiose. I fatti così non contano.
    La domanda dei giudei è così di accusa: chi è quest’uomo? Chi è stato?
    Quante volte nella storia l’uomo atteggiandosi a giudice a rivolto imperioso la domanda: chi è stato?
    Siamo ancora nella logica della ricerca di un colpevole! Questa ricerca di un colpevole dice la profonda angoscia che l’uomo avverte dentro di sé, intollerabile, insostenibile: una morte che si cerca di scaricare sull’altro. 

                v. 13. A questo punto l’uomo sanato si rende conto di non sapere neppure chi è il suo benefattore. E’ stato riportato alla vita e neppure sa da chi.
    Il Signore gli ha reso il servizio della vita, lui ne ha ricevuto i benefici.  Se Gesù si è allontanato lui non l’ha cercato, ma ha lasciato che andasse per la sua strada. Prendo e sono incapace di dire grazie.
    Gesù si era allontanato subito dopo il miracolo: un servizio il suo alla vita fatto nel nascondimento, nell’umiltà e non certamente nella ricerca del plauso della folla. E’ lo stile di Gesù: il suo far del bene per il gusto di far del bene senza attendersi nulla. Un servizio che raggiungerà il suo culmine nel giorno della passione.
    Cosa avrà fatto l’uomo guarito a questo punto? Per non aver ulteriori grane pauroso com’è probabilmente avrà accontentato i suoi accusatori. Avrà appoggiato il suo lettuccio da qualche parte: ma ora che fare?…
    Il tempio è vicino… mischiarsi con la folla, scomparire anonimo in mezzo agli altri, fuggire dagli occhi inquisitori dei suoi accusatori. Questo forse gli darà un po’ di sicurezza e pace. 

                v. 14. E’ Gesù che lo ritrova nel Tempio. Non sarà stato certamente l’uomo guarito a corrergli incontro, forse avrà fatto finta di non riconoscerlo, oppure avrà cercato di nascondersi…. La paura di ulteriori coinvolgimenti con quest’uomo gli fa adottare la tattica di dileguarsi senza farsi accorgere.
    Ma Gesù lo vede, gli va incontro una seconda volta. L’iniziativa è sempre sua. Che cosa spinge Gesù a questo ulteriore incontro? Sicuramente la consapevolezza che il precedente incontro è stato insufficiente, incompleto, manca di un tassello importante. Non basta una guarigione fisica per ridonare la vita all’uomo: occorre una guarigione interiore, dalle ferite  della vita, dalla propria angoscia. Sa che quest’uomo ha bisogno di incontrare un volto amico nel quale finalmente ritrovare fiducia nei confronti di se stesso, della vita, degli altri, di Dio. Perciò Gesù non si arrende dinanzi alle sue chiusure e paure: gli stende nuovamente la mano, non se lo vuol far sfuggire.
    Le parole di Gesù sono di incoraggiamento nel proseguire il cammino di progressiva apertura alla vita (la conversione come cambiamento radicale dell’impostazione della propria vita). Il dono di una vita sana richiede una condotta retta. La santità che gli è stata donata testimonia al guarito che gli viene proposta un’esistenza nuova. Forse nel riferimento al non peccare più Gesù intende riferirsi alla disperazione che c’era in lui prima di scoprire che Dio vuole la vita.
    Avverte quest’uomo che la grazia della guarigione  lo impegna alla conversione: dimenticandolo rischierebbe peggio dell’infermità passata. Dunque la guarigione miracolosa vuole essere solo un “segno” di una guarigione più profonda, di risurrezione.
    Vuoi veramente guarire? non accontentarti solo di qualche rimedio di facciata, cambia te stesso e imposta la vita diversamente. 

                v. 15. Ma l’invito di Gesù è disatteso da quest’uomo, non riesce ad accogliere una nuova prospettiva nella vita. L’uomo sanato invece di aprirsi alla fiducia nei confronti del Rabbì che lo ha guarito, obbedisce ancora una volta alla sua paura di perdersi.
    Non vede meglio da farsi che denunciare ai giudei Gesù come istigatore alla disobbedienza del precetto del sabato. Gesù diviene il capro espiatorio.  Così io mi metto in salvo, apparentemente sicuro: “mors tua vita mea”. E’ paura, più che ingratitudine. Una paura che giunge a rispondere al bene col male.  

                v. 16. La persecuzione di Gesù è la conseguenza di tutta questa vicenda. Su Gesù si scarica tutto il male: da parte di chi è stato sanato e da parte di chi è detentore della Legge. Dunque quest’iniziativa di Gesù si rivela un insuccesso a livello umano.
    Il bene appare sconfitto, la prepotenza e la paura hanno la meglio. La gratuità del dono è rifiutata e ricambiata dalla comune ostilità.
    Ma Gesù non si lascia bloccare da queste nostre controrisonanze, andrà sino in fondo senza paura di perdersi solo per farci del bene.

  • 05 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

      

    Alcune note introduttive

     E’l’ultimo miracolo di guarigione narrato nel vangelo ed è l’unico in tutta la seconda parte del vangelo stesso.
    Da questi dettagli ricaviamo che per Marco la guarigione del cieco viene a rappresentare una sintesi di tutto l’insegnamento della sequela.
    Le parole e i gesti di Bartimeo descrivono il dinamismo della fede: esso parte dall’annuncio e giunge alla decisione di seguire il Maestro a Gerusalemme.
    Per compiere questo itinerario è necessario che gli occhi si aprano al mistero di Cristo e siano aperti soprattutto nel momento in cui Egli sarà innalzato sulla croce. 

    Gesù con i discepoli e la folla

     Stanno uscendo da Gerico: la strada che si apre dinanzi è la lunga salita a Gerusalemme dove Gesù sarà messo a morte.
    Gesù è circondato dai discepoli e da tutta una folla.
    L’esercizio di meditazione sarà quello di immergerci in mezzo a queste persone: quali i sentimenti, le attese, le paure…. 

    Bartimeo

     Il “figlio di Timeo” una sottolineatura che dice probabilmente un personaggio noto nella comunità.
    Di lui si dice che è:
    – cieco: cosa significa? Cosa comporta?
    – ridotto in miseria
    – emarginato a motivo sociale e religioso
    Cosa gli ha dato la vita? Dio “datore di ogni bene”?
    Non ha nulla se non quell’handicap che gli procura la commiserazione dei passanti.
    Si trova a dipendere dalla pietà altrui.
    Come è stata la sua vita: la sua infanzia, la sua adolescenza, la sua maturità…?
    E’ utile cercare di analizzare il rapporto (le risonanze) che si è instaurato:
    – con se stesso
    – con gli altri
    – con Dio 

    Lungo la strada

     È ai bordi della vita, che sente passare accanto a sé, ma da cui sente di essere tagliato fuori. Chi potrà sobbarcarsi della sua vita per aiutarlo a farsi strada nella vita?
    Chi avrà cura di lui? 

    A mendicare

     Quanto è umiliante domandare, stendere la mano per chiedere di poter sopravvivere, quasi che la vita non fosse un diritto.
    Stendere la mano è ammettere la propria  impotenza e insufficienza: accettare che la vita dipenda dal capriccio degli altri.
    E’ una fortissima esperienza di morte che si aggiunge alla cecità che lo priva della gioia della luce.
    Bartimeo è immerso in una grande esperienza di morte e come vi si rapporta?
    L’esercizio sarà immergerci nell’esperienza quotidiana di Bartimeo. 

    Al sentire che passava Gesù

     La folla fa scorre la voce. Gesù sta arrivando, sta uscendo per andare a Gerusalemme. E’ tutto un fermento, un via vai di curiosi, di fedeli, di malati…
    Bartimeo sente la notizia. Indirettamente gli è annunciata la buona notizia (questa è sempre mediata nell’economia salvifica di tipo biblico: è il servizio profetico).
    Nella nostra esperienza abbiamo incontrato queste mediazioni?
    Poteva sfruttare l’occasione di questo passaggio eccezionale di folla per i suoi pur miseri guadagni.
    Questo annuncio suscita nel cuore di Bartimeo una speranza di salvezza, di guarigione: è il moto spontaneo del cuore. Ma immediatamente possono essere scattate anche delle controrisonanze: servirà? Gesù così impegnato si interesserà di me? Non sarà tutto inutile per cui è meglio rinunciare? La delusione non aggiungerebbe solo sofferenza? 

    Cominciò a gridare

     Con la forza della speranza e della disperazione. Bartimeo vince la controrisonanze della sfiducia e del ripiegamento, della rassegnazione e grida al mondo e a Gesù la sua infermità.
    E’ il grido del povero, dell’afflitto, dell’ammalato che tante volte ritroviamo nella preghiera dei salmi.
    Il povero che spera che finalmente qualcuno gli presti attenzione, si metta dalla sua parte, abbia compassione e faccia solidarietà con lui.
    In alcune situazioni questo grido è talmente forte che non riesce ad uscire (vedi la madre del figlio morto di Naim): il cuore è talmente oppresso, schiacciato dal dolore che l’angoscia blocca ogni sfogo. E’ difficile in questi momenti che il cuore si apra al bisogno di incontro con l’altro, non si riesce a condividere il peso del dolore. E come si avverte una liberazione quando finalmente il grido di dolore riesce ad abbattere il blocco: quando qualcuno raccoglie  questo grido e lo condivide. Già questa condivisione rappresenta una grande esperienza di liberazione e quindi di guarigione. 

    Figlio di Davide, Gesù abbi pietà di me

     Se di Bartimeo insieme al nome si indica il casato, sembra non casuale che il grido del cieco sia composto dal nome dell’invocato e dal suo casato.
    Il pieno riconoscimento di sé e dell’altro sembra permettere un reale incontro che vince la paura e infonde coraggio.
    Il grido di Bartimeo è un’invocazione a Gesù. Egli è professato come Messia promesso e atteso: la sua venuta annunziata dai profeti avrebbe riportato la guarigione da ogni male all’interno del popolo santo: sarebbe stata una nuova creazione. (“Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi” Is 35,5)
    Gesù accetta questa invocazione prima rifiutata: ora che sta andando a Gerusalemme non vi è più il rischio che sia equivocata.
    Un grido che chiede misericordia: è preghiera! (cfr. la preghiera del nome) 

    Molti lo sgridavano

     Chi sono questi molti? Discepoli, presenti….
    Perché?
    – da fastidio, disturba i loro progetti, Bartimeo si inserisce come elemento detabilizzante
    – distoglie Gesù dai “suoi” compiti (loro sanno quali sono!)
    – ma soprattutto egli è colto come “diverso”: e costui non ha i diritti degli altri, e provoca disagio e imbarazzo. Meglio farlo tacere e lasciare che le cose procedano tranquille senza troppi problemi: il “diverso” è un problema!
    – Volevano svolegere funzioni “educative”?
    Una lettura psicologica potrebbe indirizzare verso una riflessione di questo tipo: esistono dentro ciascuno di noi delle situazioni, dei “problemi”, dei “Bartimei” che gridano per attirare l’attenzione al loro diritto di esistere e di essere presi in considerazione. Ma il nostro “Io” il più delle volte mette tutto a tacere consciamente o inconsciamente: accettare questo significa entrare in una situazione destabilizzante con cui fare i conti con la sofferenza. Bisogna impedirlo. Ma la conseguenza è sempre disastrosa. 

    Ma egli…

     Non si scoraggia, non si mette a discutere, ma continua imperterrito gridare per farsi sentire da Gesù è questo il suo unico obiettivo. Accadrà quello che spera? Non lo sa, non può vedere quello che sta accadendo attorno a lui.
    Non ha paura di scontrarsi con gli altri, non si lascia vincere dal rispetto umano, dai rimproveri, dai giudizi malevoli e ironici.
    Il suo grido possiede una caratteristica: è insistente. La preghiera insistente e importuna è insegnata da Gesù (l’amico importuno, la vedova assillante…)Quanto avrà dovuto gridare? 

    Gesù si fermò

     Se ci si ferma mentre si sta facendo altro significa che vi è qualcosa che è prioritario, che non si può rimandare.
    Gesù ode il grido non può, non “deve” passare oltre facendo finta di niente o rimandando. Si ferma come il samaritano presso l’uomo ferito lungo la strada.
    A volte sarà lui stesso a voler fermare (come il seguito funebre a Naim).
    Bartimeo ha la priorità su tutto, viene prima di tutto. Gesù si interessa di lui, lo prende a cuore. 

    Chiamatelo

     Si rivolge proprio a quelli che lo stavano seguendo e che volevano mettere a tacere il cieco Bartimeo. Proprio a loro domanda ora di farsi mediatori per l’incontro.
    Cosa avranno provato? Loro che credevano di far bene e sentirsi nel giusto?  Senso di colpa, stizza, disagio e imbarazzo… gioia?
    Gesù domanda alla sua comunità di  chiamare proprio quelli che vorrebbe, desidererebbe, lasciar fuori, deve superare la tentazione di ritenersi comunità di perfetti ed autosufficienti.
    Nella famiglia di Gesù tutti sono chiamati a sedersi al banchetto del regno: ciechi, zoppi, malati, pubblicani, prostitute  e peccatori ( Matteo 22:8 Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni;  Luca 5:29 Poi Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa. C’era una folla di pubblicani e d’altra gente seduta con loro a tavola. Luca 14:13 Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi ).
    E il gruppo dei mediatori si reca su comando di Gesù da Bartimeo
    (sarebbe utile una drammatizzazione)

    Coraggio…. 

    La prima parola detta è l’invito alla speranza, a non temere (Matteo 9:2 Ed ecco, gli portarono un paralitico steso su un letto. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: «Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati». Matteo 9:22 Gesù, voltatosi, la vide e disse: «Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita». E in quell’istante la donna guarì. Matteo 14:27 Ma subito Gesù parlò loro: «Coraggio, sono io, non abbiate paura». Marco 6:50 perché tutti lo avevano visto ed erano rimasti turbati. Ma egli subito rivolse loro la parola e disse: «Coraggio, sono io, non temete!».) 

    Alzati

     E’ un verbo caro alla tradizione neotestamentaria. E’ il verbo della rinascita, della vita nuova, della risurrezione. E’ uscire da una situazione di morte ( Matteo 9:5 Che cosa dunque è più facile, dire: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati e cammina? Matteo 9:6 Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati: alzati, disse allora il paralitico, prendi il tuo letto e va’ a casa tua».  Marco 2:9 Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? Marco 2:11 ti ordino – disse al paralitico – alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua». Marco 5:41 Presa la mano della bambina, le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico, alzati!». Luca 6:8 Ma Gesù era a conoscenza dei loro pensieri e disse all’uomo che aveva la mano inaridita: «Alzati e mettiti nel mezzo!». L’uomo, alzatosi, si mise nel punto indicato. Luca 7:14 E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Giovinetto, dico a te, alzati!». Luca 8:54 ma egli, prendendole la mano, disse ad alta voce: «Fanciulla, alzati!». Luca 17:19 «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». 

    Ti chiama

     Ora è Gesù che chiama (cfr Zaccheo). Non è più Bartimeo che grida. Ora Gesù prende l’iniziativa di rispondere.
    Il chiamare poi nell’ottica del dinamismo della fede implica che la fede pur partendo da una situazione di bisogno dell’uomo sia essenzialmente un dono che scaturisce da una chiamata. (“Chiamò a sé quelli che egli volle”) 

    Gettato via il mantello

     Equivale a lasciar ogni cosa da parte dei primi discepoli.
    Il mantello è l’unica ricchezza e sicurezza di Bartimeo.
    Il lasciarlo comporta l’abbandono di tutte le sicurezze e protezione di cui sinora ha avuto bisogno nella sua cecità.
    Il dinamismo della fede (che è cammino battesimale) implica una progressiva spoliazione.
    Questo gesto indica perciò la certezza che la sua vita non sarà più quella di prima: non si svolgerà più ai bordi della strada. 

    Balzò in piedi

     Sta a dire la pronta risposta e la disponibilità all’incontro. Balzare in piedi è già mettere atto al cambiamento, è sollevarsi dal proprio ripiegamento. E’ già esperienza di risurrezione.
    E’ mettere in atto le condizioni perché si attui l’incontro: è disponibilità ad iniziare il cammino. 

    Venne da Gesù 

    Accompagnato dai mediatori Bartimeo va incontro a Gesù.
    Immaginiamo questo tragitto e le risonanze di Bartimeo, dei mediatori, della folla, di Gesù.
    Il suo coraggio e la sua fiducia sono grandi ma saranno sufficienti per il cambiamento, il loro “effetto” sarà automatico?

    Che vuoi che io ti faccia? 

    Perché questa domanda?
    Forse Gesù sta aiutando Bartimeo a fare chiarezza nella sua coscienza, ad operare un discernimento su ciò che è fondamentale per lui. E’ un aiuto a fare verità dentro di sé prendendo atto del suo limite dinanzi a Gesù.
    Probabilmente Gesù vuole qualcosa di più di un generico invito ad avere pietà: vuole incontrare l’uomo, non solo compiere un gesto di “carità” nei suoi confronti, come questa da sempre è stata abituata a ricevere. Vuole che questa persona, consapevole del proprio bisogno, non si affidi solo all’iniziativa dell’altro, ma che si assuma la responsabilità di chiedere in modo adulto e chiaro ciò di cui ha bisogno.
    Gesù assume e fa assumere con questa domanda l’atteggiamento di un vero incontro. Non intende ricambiare il grido di pietà con un gesto di compassione. Il fare al cieco questa ulteriore “elemosina” non avrebbe cambiato la vita di quell’uomo, come non la cambiavano le monete che riceveva di tanto in tanto da qualche passante frettoloso, impietosito, desideroso di toglierselo di torno al più presto: se avesse fatto questo quell’uomo con ogni probabilità lo stesso giorno avrebbe chiesto qualcos’altro per avere ancora  di più, non essendo uscito da quella perenne condizione di eterno mendicante.
    Il coraggio di gridare il proprio bisogno è un requisito essenziale, ma non ancora sufficiente. Una fede così si presterebbe a trasformarsi in pretesa di rapidi ritorni  passività per ottenere ulteriori forme di benessere, mai pienamente soddisfatte e soddisfacenti.
    Una fede fragile poi avrebbe potuto entrare in crisi: “Come può guarirmi uno che non capisce nemmeno di che cosa ha bisogno un cieco?”. 

    Che io veda

     Ecco quello che chiede e di cui sente di aver bisogno.
    Perché? Cosa comporta? 

    La tua fede ti ha salvato 

    E’ la fede in Gesù che può operare la guarigione, l’apertura degli occhi. La parola diventa efficace perché trova la disponibilità a metterla in pratica.
    E subito riacquistò la vista
    Bartimeo ora vede, gli occhi gli si sono spalancati. Per prima cosa vede il volto di Gesù.
    Uno sguardo che coglie un mistero di amore che va infinitamente più in profondità.
    Sente di essere accolto, amato gratuitamente. La sua vita è amata nella sua povertà e nel suo limite.
    Bartimeo acquista una vista nuova: di che tipo? Solo fisica? Anche ma non solo! Egli acquista uno sguardo diverso sul mondo, sulla vita, su Dio, sugli altri. Uno sguardo segnato dalla gratuità dell’amore-dono. Questa esperienza diviene ragione di vita e di luce in mezzo alle tenebre del mondo. 

    Prese a seguirlo

     Ottenuta la guarigione Bartimeo avrebbe potuto prendere tante decisioni, ma tra tutte scegli di seguire Gesù.
    Cristo luce diventa cammino da seguire, non ci possono essere, per chi l’ha incontrato e visto, altre strade. Seguirlo è dare senso e speranza al mio vivere. “Io sono la luce del mondo: chi crede in me avrà la luce della vita e non cammina nelle tenebre”.
     La sua vita vissuta in solitudine ai margini della strada, ora cambia radicalmente la direzione: esce dall’immobilità e affronta con Gesù la strada.

  • 04 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

     Il brano segue immediatamente quello del fallito tentativo di arresto di Gesù da parte dei farisei e dei capi dei sacerdoti. Il clima attorno a Gesù è dunque molto teso. La nostra pericope è poi seguita dall’insegnamento di Gesù che si proclama luce del mondo, e il retto giudizio e retta testimonianza che necessitano per incontrarsi con lui (cfr. 8, 15.17).

     v. 1: verso il Monte degli Ulivi
     Siamo a Gerusalemme, nel Tempio. Gesù è ormai conosciuto. Sono molti quelli che lo incontrano e lo ascoltano.
    Questo andare e venire dal Monte degli Ulivi al Tempio è un particolare che fa riferimento soprattutto all’ultima settimana della vita di Gesù (cfr Lc 21,37-38; 22,39; At 1,12). Indirettamente è un rimando al dramma della passione, dell’arresto, della condanna a morte di Gesù stesso.

     v. 2 All’alba:
    annotazione temporale. La scena si svolge sul far del giorno. L’adultera viene dunque sorpresa e arrestata dopo la notte.

     v. 2: sedutosi li ammaestrava.
    Sul far del mattino Gesù sale al Tempio. E qui svolge il suo insegnamento: è un insegnamento quotidiano che Gesù tiene a tutto il popolo (Lc 19,47; 20,1; 21,37).
    Questo riferimento a “tutto” il popolo è espressione che rimanda a tutto il popolo di Israele quando si pone in ascolto della Parola di Dio: Neemia 8:9 «Neemia, che era il governatore, Esdra sacerdote e scriba e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Perché tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge».
    E’ immagine del nuovo popolo di Israele, la Chiesa, che si pone in ascolto della Parola. Ma ci interroghiamo: che spazio ha l’ascolto nel nostro vissuto comunitario?
    Il suo insegnamento sembra qui prendere il posto del culto liturgico al santuario.
    Gesù è nella posizione del maestro. “sedutosi”. La sua parola è una parola che intende “ammaestrare”, “istruire” (edidasken): riguardo chi? Che cosa? Sicuramente Gesù parlava del Regno di Dio che lui desiderava veder instaurarsi in Israele.

    v. 3: scribi e farisei
    Chi sono?
    Gli “scribi” all’interno della struttura del popolo ebraico postesilico, e dopo la scomparsa dell’istituzione profetica, avevano assunto il ruolo di guida spirituale del popolo. Erano molto stimati e apprezzati dal popolo. Essi svolgevano un ruolo preminente nell’ambito sinagogale dove l’istituzione sacerdotale non era indispensabile. La loro preoccupazione era di difendere la purezza della legge “ergendole intorno una siepe” fatta di minuziosa casistica di comandi e proibizioni.
    I “farisei” (“separati”) al tempo di Gesù si erano radunati in un partito politico-religioso. Essi si appoggiavano alla classe degli scribi e sull’istituzione sinagogale. Erano uomini “votati alla legge”. Erano forti del loro zelo e dell’ideaale religioso. Questa ricerca li opponeva al resto del popolo.
    Sono costoro dunque che portano a Gesù la donna adultera che ha tradito la Legge di Dio.
    Scribi e farisei rappresentano l’uomo nella sua ricerca di giustificazione di se stesso dinanzi a Dio e agli altri. Ma questa ricerca rischia di operare divisione, spaccatura, durezza, intransigenza perché è rifiuto costante di quel limite morale che comporta un’esperienza di morte nel cuore dell’uomo.

     Una donna sorpresa in adulterio
    Cerchiamo di identificare questa donna nella sue esperienza.
    E’ una donna probabilmente sposata. Una donna del popolo che non è difesa da nessuno. Forse una poveraccia. Com’è la sua vita matrimoniale? Perché e da che cosa è dettato questo tradimento?Una donna, che probabilmente non ha mai visto Gesù. O se l’ha visto certamente non è stato per lei sinora un incontro determinante. Una donna che continua a “cercare” il senso della sua vita, ma su strade diverse, lontano dallo sguardo di Gesù. Questa donna vive una sua storia fatta di bisogni e di attese. Non gli basta quello che ha. Una storia forse che non ha neppure scelto né voluto. Una cosa comunque è certa: non ha trovato quello che cercava all’interno del suo legame familiare e nell’intimità della sua relazione matrimoniale. Non è riuscita a saziare la sua sete di amore ricevuto e dato. Come mai? Perché?
    Ha sì cercato un incontro. Solo umano. Fatto di sotterfugi. Si accontenta. Si lascia cadere di una ricerca di soddisfazione che forse sa’ già che si rivelerà un’altra volta deludente.
    E’ accaduto l’imprevisto. Un fatto drammatico. Ancora una volta essa prende coscienza di essere fatta solo strumento, e forse per l’ultima volta! Strumento di un uomo che ha approfittato di lei per poi abbandonarla senza cercare di difenderla…   Dopo averla usata l’abbandona al suo destino in modo irresponsabile. E quante volte il più debole è abbandonato alla sua sorte nello stesso modo! L’amante si salva la vita a scapito di quella donna. Ma l’amore dov’era?
    E’ vittima di una violenza, che le toglie l’intimità, l’identità, la dignità… Scopre l’amarezza e il disgusto per essersi accontentata degli uomini…
    Come hanno fatto a scoprirla? Chi l’ha scoperta? Il marito? Un complotto ordito da lui?
    Cosa passa nel suo cuore nel momento in cui viene scoperta?
    Cosa prova mentre viene trascinata da Gesù?
    Cosa fa? Cosa dice?
    La gente la vede? Cosa fa? Cosa dice?
    Lei vedendo la folla che la osserva come reagisce?
    La donna tra le mani di quegli scribi e farisei è nuovamente uno “strumento”: essi infatti vogliono “usarla” per scopi che neppure lei lontanamente immagina….
    Proviamo ad analizzare le risonanze che si stanno muovendo nel cuore degli accusatori che stanno trascinando la donna da Gesù. Come decidono di portarla da Gesù?
    Perché stanno facendo questo? Il testo parla di un “tranello” che vogliono tendere al giovane rabbi. Ma quale il motivo di fondo che detta l’orchestare di questo “tranello”?
    Cosa vogliono dimostrare? Che cosa vogliono difendere? Quale l’obiettivo che vogliono raggiungere? Raggirare Gesù: perché?
    Una cosa è certa: essi stanno comportandosi con cuore doppio, con un secondo obiettivo (quello vero che non è esplicitato).

     Postala nel mezzo:
    E’ l’atteggiamento dell’interrogatorio giudiziale (cfr At 4,7).
    Quella donna è lì al centro: in piedi dinanzi a tutti. Nella sua veste strappata e nel ruolo di condannata, vede dinanzi a sé immediatamente la fine tragica della sua vita così sbandata. Nei suoi occhi vediamo il terrore e la solitudine.
    E’ sola, pur in mezzo alla folla, posta al centro degli sguardi perfidi e perversi dei suoi accusatori e di tutti i presenti. Sotto gli occhi della Legge di quel Dio nel Tempio che è la sua dimora e nel quale ora si trova. (cf Dt 22,22ss; Lv 18,20; 20,10; Es 20,14)).
    Per l’accusa erano indispensabili due testimoni escluso il marito (Dt 19,15).
    Proviamo ad ascoltare le sue risonanze

    v. 5: Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa.
    Vi è qui un raccordo tra Gesù che “insegna” al popolo e l’appellativo e la  richiesta da parte di costoro di un verdetto dinanzi ad un fatto incontestabile: “Maestro – Didàskale…”. Ossequiosi quanto al titolo da dare, certamente! L’etichetta è rispettata, ma nella coscienza ben altro si muove. 

    ci ha comandato di lapidare” (cfr Lv 20,10; Dt 22,21; Ez 16, 38-40).
    E’ la condanna a morte decretata per adulterio.
    L’accusa è chiara. Senza appello di giustificazioni o di ricerca dei motivi. Quel che conta è l’accaduto criminoso e basta. Il vissuto della donna a loro non interessa minimamente. Gli interessi sono rivolti ad altro: la Legge deve essere difesa a scapito della persona! Per cui se la situazione per loro è quanto mai chiara allora la condanna è già decisa. Probabilmente non è stato ancora pronunciato il giudizio ufficiale del tribunale religioso. (nel 30 dC viene tolto la sinedrio lo “jus gladii”).
    Ma allora che cosa vogliono da Gesù? Qual è il loro vero obiettivo?“Tu che ne dici?. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo”.
    Quindi l’obiettivo che vogliono raggiungere in realtà è un altro. E’ quel che si suol dire: “Prendere due piccioni con una fava”!.
    Essi sperano all’interno di un confronto religioso-giuridico con Gesù di aver di che per condannarlo. La situazione vuole essere un tranello teso a Gesù: egli avrebbe dovuto pronunciarsi pro o contro il diritto giudaico, oppure contro il diritto romano che non permetteva ai giudei la pena di morte e quindi passare per un rivoluzionario (vedi il racconto del tributo a Cesare: Mt 22,15-22).
    In questo subdolo atteggiamento vediamo svelata tanta malignità nel cuore dell’uomo. Egli spesso non si confronta con la realtà nella ricerca spassionata della verità ma vuole sottomettere la realtà e la verità ai suoi meschini obiettivi che sono in questo caso di potere. La realtà non conta ma contano i miei progetti e le mete che mi prefiggo. 

    v. 6b: tracciava segni per terra:
    Gesù non intende intervenire. Vuole spostare la questione su un altro livello. Gesù non si fa’ immediatamente incontrare da dalla donna né dai suoi accusatori. E’ chino a terra a testa bassa.
    Che risonanze prova dentro di sé mentre è chino a terra? Annoiato. Amareggiato. Silenzioso. Sofferente?
     Comprende l’animo doppio degli accusatori a cui non interessa la ricerca della verità ma solo trovare un espediente per la condanna della donna e sua. I  fin dei conti lì gli accusati sono due: Gesù e l’adultera! 

    vv.7-8 E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei».  E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 
    Alla fine dietro le loro insistenze impazienti e malignamente ansiose, Gesù volge uno sguardo alla donna, un sussulto di infinita tenerezza. Deve liberarla dalla mano degli assassini: amante e scribi. Sente di doverla riconsegnare a se stessa nella libertà.
    scagli la prima pietra“: occorre confrontare l’importanza data al primo che scagliava la pietra: “La mano dei testimoni sarà la prima contro di lui per farlo morire; poi la mano di tutto il popolo; così estirperai il male in mezzo a te” (Dt 17,7). I testimoni lancino la prima pietra.
    In fin dei conti Gesù, con queste parole “lapidarie”,  ribalta il dettame della legge: se lì è il testimone del male che condanna qui dev’essere la cosceinza di chi è senza peccato. Gesù mette così a confronto gli accusatori non con la legge, ma con la loro coscienza.
    Gesù non si lascia intrappolare da scribi e farisei in una discussione di tipo giuridico-religiosa. Pronuncia sì una sentenza di giustizia penale ma in termini religiosi e non semplicemente giuridici. Gesù non si ferma alla lettera della legge ma discende in profondità per cogliervi lo spirito che la anima e senza il quale essa è solo portatrice di morte.
    Gesù invita a passare dalla legge da eseguire e obbedire ad una legge da assimilare interiormente e che interpella la coscienza e la responsabilità personale.

    v. 9 se ne andarono
    Tutti se ne vanno. (anche la folla?).
    Proprio tutti: dal più anziano al più giovane. Dai più “autorevoli” agli ultimi. Perché in quest’ordine?

    v. 10 Rimasero solo loro due
    Sono ormai soli, finalmente, lui e la donna. La donna lo guarda in modo interrogativo. “Relicti sunt duo, misera et misericordia” (Agostino).
    Gesù trae fuori dalla sua solitudine e dalla sua angoscia quella donna e le apre un nuovo orizzonte. Gesù non vuole giudicare né condannare in base alla legge. Non vuole un giudizio che prenda in considerazione la persona nel suo passato.
    La donna si rende conto di essere stata salvata da lui: ma perché? Si rasserena. Finalmente incontra il suo sguardo.
    Una domanda Gesù le rivolge: “Nessuno ti ha condannata?”. Una domanda evasiva, scontata ma è un ponte gettato tra Lui e lei.
    Non potrà avvenire infatti un incontro con lui se non nella dignità, nella libertà, nel desiderio di incontrarlo. Quella donna se avesse potuto sarebbe scappata ovunque. Certamente non avrebbe mai voluto trovarsi lì. E finalmente vi può essere l’incontro che riconsegna la donna a se stessa rimettendola in cammino nella sua dignità.
    Nei cortili del Tempio, luogo della salvaguardia della Legge divina, Gesù libera una donna peccatrice dalla morte. E’ un annuncio solenne che Dio è il Dio della vita e non della morte.

    v. 11 Va’ in pace e non peccare più
    Una sola parola esce dalla bocca di Gesù. L’invito a vivere il suo futuro in una nuova condizione quella inaugurata dal dono. Gesù le restituisce la sua libertà e dignità, le dice di cercare ancora ma oltre ciò che aveva cercato fino a quel momento. Un invito a non continuare a sbagliare il bersaglio nella sua ricerca di vita e di amore.
    Il peccato non è più stabilito in rapporto alla legge, ma alla libertà. La condizione per vivere nella libertà da quella condanna che fa leva sulla legge, coincide con la libertà di non peccare più. Ma questo è un dono non un imperativo di tipo morale. La legge condanna al passato la parola di Gesù, la sua buona notizia, libera puntando al futuro.
    Certo che questo schierarsi di Gesù dalla parte della libertà e della vita diverrà per lui ulteriore capo di accusa e motivo di odio.
    Se egli libera la donna assume però su di sé il peso del suo peccato. Ancora una volta contempliamo l’amore-dono che preferisce perdere la sua vita per donarla all’uomo nella gratuità più grande, “fino alla fine”, “fino alla morte”.

     

     

  • 02 Feb

    di p. Attilio F. Fabris

    Mc 10,17-22
     

    Si resta sorpresi al termine di questo brano evangelico.

    L’inizio infatti sembra molto promettente… c’è una corsa, un desiderio, un atteggiamento di umiltà, parole piene di stima, ed è il caso di dirlo, così… stranamente “azzeccate” e deferenti.

    Tuttavia, nonostante le ottime premesse, è l’unica storia di una chiamata che finisce con un netto insuccesso.

    Come mai una conclusione così sconcertante?

     

    v. 17: “in cammino”

    Gesù si sta dirigendo verso Gerusalemme. Sa che sarà consegnato nelle mani degli uomini per essere ucciso. Egli vive questo come dono di sé sino alla fine, fedeltà all’amore al Padre e agli uomini a cui è stato mandato.

    Sarà questa la sua esperienza di massima povertà come espropriazione totale di sé, per amore.

     

             Uno

    Matteo dice che era giovane (19,22), Luca che era un notabile (18,18).

    E’ quindi giovane, ricco e nobile: un uomo realizzato pienamente sotto tutti gli aspetti. Cosa chiedere di più alla vita?

    “Se si chiede… oggi alle persone che cosa è che… le rende veramente felici, la risposta che riceviamo è che si possono permettere tutto quel che desiderano. Il concetto popolare di felicità, diffuso oggi probabilmente tra la maggior parte della gente è che nel consumismo non solo è fondata la libertà, ma anche la felicità e che l’unica cosa che impedisce la libertà e la felicità consiste nel non aver aver abbastanza soldi per consumare tutto quel che si desidera consumare” (E. Fromm).

    Tuttavia la coscienza di quest’uomo permane ancora viva: si sta ponendo delle domande, intuisce che quella perseguita non è forse l’unica via per raggiungere la felicità e la vita.

    Non avvertiamo talvolta anche a noi un certo disagio che ci dice che stiamo percorrendo una strada non buona?

     

    Gli corse incontro, si inginocchiò

    Queste azioni raccontano le buone disposizione che abitano la coscienza di quest’uomo. Ma buone e ottime disposizioni possono ben convivere con disposizioni esattamente contrarie, opposte. Ne facciamo esperienza ogni giorno.

    E quando si deve giungere ad una decisione allora si scatena nella coscienza la battaglia, la lotta.

    Quali disposizioni vinceranno? La nostra esperienza che cosa dice a proposito?

     

             Che devo fare?

    Il giovane ricco chiede “la vita eterna”: l’uomo cerca la vita vera, quella che dura. Alla fine ogni ansia si riferisce ad essa. E l’angoscia scaturisce dalla paura di perderla.

    Ecco allora innanzitutto la domanda in questa direzione: “Che cosa devo fare per avere (lett. ereditare) la vita eterna”: siamo dell’ottica dell’avere, del possedere, del fare; è la linea finora percorsa da quest’uomo.

    Perché non porre la domanda in altro modo es.: “Come devo essere per…”.

    Il ricco vuole essere il protagonista dell’incontro, di ciò che sta avvenendo. E’ lui che cerca di collocare Gesù all’interno della sua esperienza, dei suoi desideri e delle sue aspettative…

     

    v. 18 Perché mi chiami buono?

    Gesù afferma l’unicità della bontà divina, e facendo questo suggerisce la sua identità. E’ come se dicesse: “Se non sai chi sono, non chiamami buono, perché lo è solo Dio. Se sai chi sono, chiamami pure buono e traine le conseguenze”.

    Solo se in Gesù si scopre il tesoro prezioso dalla Buona Notizia, il “Sommo Bene” (san Paolo della Croce) allora per comprarlo si può vendere tutto, sbarazzarsi di tutto. La povertà è espressione concreta della fede in Gesù “per il quale mi sono spogliato di tutto e ho stimato tutto come spazzatura allo scopo di conquistare Cristo” (Fil. 3,8).

     

    v. 19: Conosci i comandamenti

    Gesù rispetta la libertà di quest’uomo, accetta inizialmente la sua logica cercando di mettersi in sintonia con lui.

    Gesù dunque rimanda il giovane a ciò che ha già sperimentato e che gli appartiene: l’osservanza dei comandamenti.

    Rimanda ai comandamenti di cui cita quelli riguardanti i rapporti interpersonali: la fedeltà a questa indicazione sta a dire quale sia la condizione preliminare al fine di ricevere la vita eterna.

    Viene tralasciato il comandamento fondamentale quello dell’amore di Dio, perché questo comandamento riceverà da Gesù una nuova formulazione come sua sequela.

     

    v.20 Tutto questo ho custodito fin dalla mia giovinezza

    La risposta del giovane è istantanea: “E’ ciò che ho sempre fatto!”. Con un senso di sufficienza l’uomo si meraviglia della risposta così “semplicistica” di Gesù…

    Egli come Paolo si gloria dell’irreprensibilità nei confronti della legge (cfr Fil 3,6). Ma la Legge è incapace di produrre vita preoccupata com’è di barricare la morte.

     

    v. 21 Guardandolo dentro

    Ora tocca a Gesù rispondere.

    La sua risposta è avvolta dall’amore: lo fissa, lo fa’ sentire al centro della sua attenzione (emblépsas: guardare dentro). Vuole porre la premessa per andare oltre: questa premessa è l’amore (egàpesen). Il suo sguardo rivolto al cuore è invito al giovane ricco di far altrettanto: si metta in ascolto delle profondità del suo cuore (1Cor 13,12).

    “Lo amò”: E’ il centro del racconto. Si tratta di lasciarsi prendere o meno da questo amore.

     

             “Una cosa sola ti manca”

    Ora è Gesù a prendere l’iniziativa e a fare la sua proposta: egli invita il giovane chiaramente alla sua sequela, a possedere unicamente il regno che è venuto ad annunciare e a portare, lasciando dietro di sé ciò che era solo premessa ad una pienezza di vita: l’osservanza dei comandamenti.

    “Una cosa sola ti manca”: paradossalmente quel che manca è proprio quel che si possiede.

     

     

    va vendi…”

    A differenza del testo di Matteo che usa il verbo al condizionale, Marco riporta la parola di Gesù sotto forma di comando.

    Il possesso dei beni materiali impedisce sul serio di prendere sul serio la parola di Dio, così da farla divenire criterio di scelte di vita. I beni di questo mondo non sono per nulla neutri per il discepolo che vuole impegnarsi nella sequela: egli deve prendere dinanzi ad essi una posizione ben precisa e non ambivalente. “Non si può servire Dio e a Mammona” dirà categoricamente Gesù: è un aut-aut!

    Chi ascolta questo comando diviene come Gesù: piccolo, povere, erede del regno

     

             E avrai un tesoro

    L’arricchirsi presso Dio significa saper dare. Uno avrà quanto avrà donato, non posseduto: e dare ai poveri! A coloro che non possono ricambiarti, nella gratuità più assoluta.

     

             Vieni, seguimi

    Essere povero come e con Gesù significa seguirlo. È modo concreto di attuare il primo comandamento dell’amore. Povertà non fine a se stessa ma come premessa di libertà di scegliere Cristo, la perla preziosa per la quale si è disposti a rinunciare a tutto.

    Possiamo dire di vivere questa libertà nella nostra sequela?

     

     

             Inorridito per la parola

    La Parola getta l’uomo nello sconcerto. Essa è scintilla capace di far scoppiare una battaglia feroce nel cuore dell’uomo.

    Il ricco rimane sorpreso, sconcertato. Non è troppo? Volendo incontrare Gesù non aveva nessuna intenzione di fare un salto del genere. Credeva che il discorso si fermasse soltanto alla sua esperienza, a qualche piccolo aggiustamento; ma Gesù vuole provocare un sovvertimento: quando mai…!?

    E poi perché rinunciare a tutto? La ricchezza non è poi dono di Dio, segno della sua benedizione? Non è possibile trovare un accordo, un compromesso che permetta di avere tutto senza lasciare niente?

     

             Se ne andò intristito

    L’abbraccio di Gesù è troppo stretto. E’ troppo esigente. E l’uomo si divincola: è arrivato alla soglia di una nuova tappa della sua vita ma non ha il coraggio di varcarla. Non si fida.

    Se ne va afflitto, rattristato (lett. “corrugando la fronte”).

    In fondo non può bastare la religiosità che già si possiede?

    Questa tristezza perdurerà sino a quando perdurerà l’attaccamento ai suoi beni. Finché non scoprirà dove sta il vero tesoro.

     

             Aveva infatti molti beni

    La ricchezza è impedimento alla sequela e ad ereditare il regno. La ricchezza da segno della benedizione dall’alto, diviene impedimento, ostacolo all’accoglienza del regno

    Le ricchezze sono le spine che soffocano la Parola (4,19). Gesù non aveva parlato dell’ “inganno della ricchezza” (4,19)?

    “L’uomo, anche se non vuole ammetterlo in alcun modo, serve sempre e adora sempre qualcuno o qualcosa: è essenzialmente feticista! Detto in altre parole, ha sempre qualcosa che assorbe tutta la sua esistenza, come “cura”, ossia preoccupazione ultima del suo agire. Questo è il suo peccato contro Dio – la sua idolatria – che gli fa porre come valore supremo un idolo che non è il Dio dei vivi, e che quindi lo tiene nella sua morte” (Fausti).

     

    Alcune considerazioni

     

    Ma perché la ricchezza rappresenta un serio impedimento alla sequela e quindi al regno?

    Proviamo una volta a dimenticare le continue giustificazioni e le scuse motivate dalle apparenti necessità, dalle costrizioni e dagli obblighi oggettivi che ci spingono a possedere denaro, e vedremo che il vero nocciolo della nostra dipendenza da Mammona sta nel fatto che il denaro possiede il potere di placare in apparenza le nostre angosce esistenziali più importanti, angosce che abbiamo solo noi esseri umani e che perciò ci costringono di continuo a cercare risposte smodate e illusorie… rispetto alla nostra angoscia, non riusciamo mai a mettere da parte riserve sufficienti “per l’inverno” (come gli animali ndr), e non ci sarà mai un limite alla nostra angoscia, mai un termine al nostro terrore, neppure se siamo molto ricchi.

    In realtà esiste un’unica strada che ci consente di trattare in modo sensato la continua minaccia che incombe sulla nostra esistenza, ed essa consiste nell’accettare la nostra intrinseca povertà a partire da Dio e nel rendere in questo modo più vasto il nostro cuore per la povertà relativa degli altri…

     

    La verità è che il ricorso continuo a ciò che abbiamo, ci impedisce alla fine di essere e di vivere. Come morti viventi ci seppelliamo letteralmente con il “possesso”, sia esso morale, finanziario o spirituale, come se, secondo l’esempio degli egizi, dovessimo innalzare attorno a noi, mentre siamo ancora in vita, una camera sepolcrale tutta d’oro, e il denaro che diciamo nostro ci rende necessariamente ciechi alla miseria che sta al nostro fianco, rende i nostri orecchi sordi al grido di dolore degli impoveriti e rende il nostro cuore verso i sentimenti più semplici della compassione e della misericordia.

    Alla fine non ci accorgiamo neanche più di essere diventati degli autentici mostri, ma consideriamo il nostro stato assolutamente normale e giusto…

    Finiamo col cadere nella più grossa delle bugie, quella cioè, che il denaro è lo strumento che ci rende liberi e indipendenti. E’ vero il contrario: siamo diventati servi prezzolati del denaro, dipendenti nel tritatutto del capitale, e più ci inseriamo nella logica del denaro più diventiamo dipendenti e dominati dall’angoscia. Alla fine, niente ci pesa di più che “rinunciare” ad una cosa qualunque…

    Ma cosa abbiamo da perdere veramente?…

    Per vivere abbiamo bisogno di una sensazione di sicurezza. Ma più ci organizziamo nella sicurezza di questo mondo, più ci risulterà evidente che nei confronti della morte non esiste sicurezza. L’unica cosa che ci resta è quello che noi siamo… (Mt 6,19-21)…

    Finché le persone hanno paura, penseranno di doversi proteggere con ogni sorta di possessi.

    Ma c’è la felicità di uno starsene protetti e al sicuro, che sa di non aver bisogno di simili corazze. Questa è la povertà che soltanto Dio ci può dare; essa è un dono, non una prestazione morale…

    Delle persone che ricevono la certezza che la bontà di Dio sostiene e mantiene la loro vita, non hanno più bisogno di preoccuparsi ogni giorno del proprio sostentamento, ma possono chiedere come bambini: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano.

     La scelta della povertà non è frutto di ascesi, o espedienti umani, ma puro dono di Dio: è anzi frutto dell’essere “presso” Dio. L’uomo non è mai tanto lontano dal regno di quando pretende di possedere dei titoli per entrarci, o semplicemente possiede qualcosa. Il semplice possedere, invece di dare, è un titolo di esclusione: non si è “presso Dio” che è dono di vita.

     

     

  • 28 Gen

    di p. Attilio Franco Fabris 

     

     

    Apriamo una parentesi per intenderci sul significato di coscienza. Come abbiamo già sperimentato, si tratta di chiamare per nome quello che c’è dentro di noi senza darci subito un giudizio di buono e cattivo come invece spesso ci è stato insegnato.

    La lettura della Bibbia che fa appello alla coscienza, la lettura vissuta in modo coinvolgente, fa risuonare quello che c’è in noi e fa emergere l’appello che Dio ci fa, che è diverso dall’immagine che ci siamo fatti di lui e da quello che ci atttendiamo da lui.

    Il nostro è un itinerario biblico non solo perchè prende in mano testi della Bibbia (lo fanno anche i T.d.G.!) ma soprattutto perchè ci porta ad un affidamento alla parola di Dio, senza cercare altre sicurezze e garanzie. La Parola di Dio ascoltata ci rivela di volta in volta la nostra paura di fidarci di Dio e ci mette di fronte al fatto che solo lo spirito può aprirci ad una comprensione diversa della presenza di Dio nella nostra vita.

    Ogni itinerario biblico, quando ci si inoltra un po’ dentro, manifesta dei segreti o misteri che sembrano complicarsi piuttosto che dipanarsi. E’ invece il passo che posso fare ogni giorno. La strada si apre passo dopo passo, Dio mi domanda di passare dalle mie carestie quotidiane, dalle mancanze che condizionano la mia vita quotidiana alla pienezza del dono della vita. E’ esperienza di Esodo e di deserto, come ascoltiamo in questo Vangelo. Vivremo l’esodo dall’immagine del Padre ricevuta fin dall’infanzia per camminare verso quella conosciuta e sperimentata con l’ascolto.

     

     

    Gesù cammina sulle acque e Pietro con lui

     

    “Subito dopo Gesù ordinò ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull’altra sponda, mentre lui avrebbe congedato la folla.” (v. 22)

    Come prendono i discepoli questo ordine di Gesù?

    Quali sono le risonanze di Simone e compagni?

     Con che stato d’animo di accostiamo a queste docce fredde che spesso il Vangelo ci propone?

    …Già lo sapevo che la felicità non può durare.

    …Ma perchè non possiamo gustare il positivo della vita?

    …I cristiani sono sempre sfigati che non possono godere come gli altri dei loro successi?

    …Alla fine la lingua batte sempre dove il dente duole e così avviene in questo campo che si finisce sempre per sottolineare le cose negative. Non c’è un altro sistema?

     “La barca, intanto distava già qualche miglio da terra ed era a­gitata dalle onde, a causa del vento contrario. (v. 24)

    I discepoli si imbarcano. E come se non bastasse la batosta appe­na presa ecco che scoppia sul lago la tempesta.

    Siamo ancora in contesto di Esodo: acqua e vento.

     “Verso la fine della notte egli venne verso di loro camminando sul mare.”

    “Le parole “Verso la fine della notte” ci riportano ancora nel contesto dell’Esodo.

     Che cosa significa “camminare sul mare”? Cioè passare sopra le onde, attraversare il mare, restando a piedi asciutti?

    Che cosa rappresenta il mare?

    Che cosa ha significato per il popolo d’Israele attraversare il Mare Rosso a piedi asciutti?

    Che cosa vuol significare questo camminare di Gesù sul lago per gli apostoli e per noi?

     Per cogliere bene questi significati è importante cogliere la ri­sonanza degli apostoli al vedere Gesù restare, nella notte, col vento impetuoso, sulle onde senza sprofondare.

     “I discepoli a vederlo camminare sul mare furono turbati e disse­ro: “E’ un fantasma!” e si misero a gridare dalla paura.” (v. 26)

    Il fantasma evoca la morte. Questo fantasma che compare è il se­gno che nel lago aleggia la morte.

    Nella tradizione biblica il mare è il simbolo della morte per la presenza del Leviatan: la forza della morte. Il mare ingoia e non restituisce nessuno…

    Qui Gesù è riconosciuto un fantasma: una forza di morte che mette terrore.

     Perché Dio è preso, normalmente, per un fantasma?

    Perché mi fa morire a me stesso e io non voglio morire.

    La paura della morte mi fa vedere Dio come un fantasma, come uno che non vuole la mia vita, che anzi vuole la mia morte, vuole il sacrificio del dover essere…

    Così dove Dio si presenta l’uomo grida  di terrore perché non lo riconosce come è veramente cioè colui che vince la morte, che mi fa superare la morte senza che la morte mi faccia niente: mi fa passare attraverso il fuoco senza che mi bruci e mi fa passare attraverso l’acqua senza che mi bagni!

     

     

    “Ma subito Gesù parlò loro:

    “Coraggio, sono io, non abbiate pau­ra”

     

    Gesù si presenta nella sua identità, come colui che cammina sulle acque, che ha la possibilità di vincere la morte. Non c’è motivo di spaventarsi; anzi c’è motivo di rallegrarsi perché con questa capacità Gesù rimane nella sua disponibilità ad aiutarli, a libe­rarli dal pericolo sempre incombente della morte, a far sì che anche loro passano infischiarsene della morte (delle onde minac­ciose del lago) come sta facendo lui.

    Infatti Pietro coglie subito questa possibilità e lo prende il desiderio di fare come Gesù, di stare con Gesù sulle acque, di vincere con Gesù la morte, e quindi la paura della morte.

     “Pietro gli disse: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. Ed egli disse “Vieni!”  (v. 28-29a)

     C’è sempre una Parola mi ha fatto partire, richiamo alla memoria esempi di brani del Vangelo che mi hanno fatto uscire da situazioni, ecc… Quando Gesù mi ha detto “Vieni!”

     Gesù accoglie volentieri il desiderio di Pietro di camminare sul­le acque, di vincere la morte, di non aver paura della morte. E’ venuto per questo tra gli uomini, appunto per dare loro la possi­bilità di infischiarsene della morte, e quindi di essere liberi dalla conseguente paura che rovina loro la vita. Gesù sembra dire a Pietro:

    ATTUALIZZAZIONE: “Sí, caro Pietro, sono io che cammino senza sprofondare nel mare, nella morte. E ben volentieri comando alla morte di non farti del male, perché io posso vincere la morte e come vorrei che gli uomini fidandosi di me se ne infischiassero della morte. la morte è innocua perché ci sono io a proteggerti a proteggere chiunque confida in me e non confida in se stesso: confidare in se stessi è fidarsi della paura della morte; quella paura della morte che rende insopportabile e invivibile la vita.

    Vieni Pietro e vedrai che anche tu puoi camminare sulla morte!”

     “Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù.” (v. 29b)

     

    DRAMMATIZZAZIONE SULLA SPONDA DELLA BARCA

     

    Risonanze di Pietro.

    Come si comporta Pietro all’invito di Gesù?

    Scende subito? Chiede qualcosa a Gesù?

    Quali risonanze ha provato sentendo il mare solido sotto i suoi piedi?

    Che cosa ha detto? A sè, a Gesù, ai suoi compagni?

     “Ma per la violenza del vento, s’impaurì e, cominciando ad affon­dare gridò: “Signore, salvami!”. (v. 30)

    Come mai si impaurì? Non aveva sperimentato che si poteva cammi­nare sul mare?

    Come mai la paura che inizialmente era stata vinta, prende poi il sopravvento?

     Eccolo, Pietro, ciascuno di noi. Diciamo che prima di tutto si FIDA DI SE STESSO. Inizia a camminare sull’acqua attratto da un’esperienza nuova e che ritiene nelle sue possibilità. Poi ad un certo punto cosa interviene? Paura di soffrire? E’ quando la fatica è tale da aumentare lo stress e possiamo riassumere il tutto quando diciamo: non ce la faccio più!

     La parola vieni può dar frutto al 30, al 60 al 100% lasciare alle persone di esprimersi…

                 Cosa mi succede?

    1.         Incomincio a non aver più fiducia nelle mie possibilità.

    2.         Allora interviene il ragionamento, rapido e deciso, che lascia libera la fantasia di immaginare quello che succederà.

    3.         Aumenta la sensazione di essere incastrato in qualcosa di più grande di me. Ma guarda un po’ che amici, che compagnia mi sono trovato: mi portamo dove non ce la faccio ad arrivare. Quanto bene stavo a casa mia, con le mie sicurezze…

    4.         Una spinta forte da dentro: devi scegliere finchè sei in tempo, puoi ancora trovare una strada per fuggire dignitosamente, senza farti sorprendere dagli eventi…

    5.         Ancora la fantasia che elabora vie di fuga cercando la migliore nel più breve tempo possibile.

    6.         Mi sfogo su me stesso. Sono proprio ammalato, incapace, finito, mi faccio del male per apparire quello che la paura mi ha delineato davanti in modo così chiaro che ormai mi appare come l’unica verità.

    7.         Sposo questa mia verità e rifiuto ogni altra proposta oppure mi affido ad un altro punto di vista, che sia più libero del mio dalla paura di non farcela, che mi ridona l’oggettività e la salvezza che da solo non riesco a riconoscere presente nella mia vita.

    8.         Pietro incontra Cristo perchè impara a fuggire dalla sua paura e dal suo soffocante circolo vizioso. 

     

    Certamente Pietro, ad un certo punto, smette di guardare a Gesù: perché si impossessa del dono, si fa bello del dono, incomincia a confidare in se stesso… La forza che gli veniva dalla fiducia in Gesù un pò alla volta diminuisce e così cresce, invece, l’in­sicurezza, la paura; tanto che la morte attraverso la paura ri­prende il sopravvento: ecco allora che incomincia a sprofondare. Di nuovo, proprio perché viene a cadere la fiducia in Gesù, domi­na nella vita di Pietro la morte, attraverso al paura.

     Cerco ora, a partire dall’ascolto delle mie risonanze, di tradurre quella parola dura: nella vita di Pietro domina la morte.

    La paura della morte e inversamente proporzionale alla fiducia in Gesù.

    E’ la fiducia che garantisce la vittoria sulla morte e quindi sulla paura!

    Pietro fortunatamente ha a portata di mano Gesù, e gli è sponta­neo gridare il suo bisogno di essere salvato.

    In quel grido c’è il ricupero del rapporto con Gesù, il quale lo afferra e lo tira fuori dalle onde, dalla morte.

     

     

    “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”

     

     “E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”

    “Subito”: Gesù non attende un attimo; all’invocazione immediata­mente soccorre, senza perdere un attimo di tempo. Gesù, il Signo­re, è sempre pronto a venirci in aiuto, a liberarci dalla morte.

    ma rispetta la nostra libertà: ci libera solo se glielo chiedia­mo.

    Anzi sembra dire a Pietro: Eccomi! Sono qui. Sono sempre stato qui a tua disposizione. Perché non mi hai tenuto presente sempre?

    Perché hai dubitato di me? Perché hai ad un certo punto cessato di fidarti di me hai scelto di fidarti di te?

    Questo è avvenuto proprio per la tua poca fiducia in me!”

     Gesù sembra qui meravigliarsi di questo atteggiamento di Pietro.

    Gesù, comunque, sa che Pietro, come ogni uomo, è continuamente tentato a confidare solo in se stesso.

    Questo è uno smacco per Gesù, per il Signore, il quale deve con­tinuamente subire questo tradimento, questo voltafaccia, questa accusa stolta e insensata dell’uomo di non essere in grado di mantenere fede al suo amore, al suo impegno di salvarci dalla morte.

     

    CELEBRAZIONE CONCLUSIVA

     

    Preghiera spontanea: “Signore salvaci” con il salmo 69(68)

     

    Signore, pietà per la stoltezza del nostro cuore, che dopo essersi abbeverato alla fonte che sei tu, ti rifiuta per sceglie­re fontane screpolate e senza acqua. Qualcosa nasce di nuovo perchè nella vita non ci sono solo le prove, anche se quando ci siamo dentro ci sembra che dalla sofferenza non nasca niente. Ma non c’’ solo la sofferenza!

     

     

    “Appena saliti sulla barca il vento cessò.”

     

    Con Gesù c’è la pace, la calma della coscienza, il riposo nella serenità di un sicuro porto tranquillo e senza sorprese, senza paure, quindi.

    La furia del vento, dello spirito cattivo, della paura della mor­te e delle sue conseguenze, cessa quando noi facciamo spazio a Gesù, gli affidiamo la nostra vita, lo scegliamo come nostro com­pagno di cammino.

     Risonanze di Pietro e degli altri discepoli SOTTO FORMA DI PREGHIERA

    Comportamento di Pietro e degli altri che erano sulla barca e hanno assistito a tutta la scena.

     Pietro ha fatto un’esperienza unica: è stato immesso a far parte del potere di Gesù sulla morte e sulla paura della morte, ma il suo cuore, ancora malato di diffidenza e di paura, non ha retto agli assalti del vento, cioè dell’avversario, della paura della morte.

    Avrà bisogno ancora di tempo, di esperienze di dono e di falli­mento, soprattutto di interiorizzare il significato della morte e della risurrezione di Gesù, per poter aprirsi alla forza dell’a­more più forte della morte e così affrontare con fiducia e corag­gio la morte.

  • 27 Gen

    di p. Attilio Franco Fabris 

     

    La Parola del Vangelo, se ascoltata, scuote come un vento burrascoso, una tempesta capace di buttare all’aria tutto ciò che con pazienza e fatica abbiamo costruito con l’intento “santo” di difendere e custodire la fede. La Parola infatti non tollera palizzate fatte di leggi consuetudini, riti: tutto questo rischia da parte nostra di paralizzarla, di affossarla, nasconderla, rendendola alla fin fine inoffensiva.

    Lo Spirito, dal giorno della Pentecoste, non sopporta più porte e finestre chiuse; per agire spalanca e abbatte tutto. Chiediamo nella preghiera di renderci disponibili a lasciarci travolgere dal vento impetuoso dello Spirito di Gesù, e che il rombo del suo tuono metta a tacere le nostre tante vuote parole.

    Vieni Spirito di libertà, dono del Crocifisso Risorto. Vieni come vento burrascoso e terremoto che scuote la casa (At 2,2; 4,31),  abbatti nel nostro cuore ogni paura, butta all’aria tutti quei muri di separazione che per troppa prudenza e paura abbiamo costruito con la scusante della fede, ma in verità per impedirti di agire con forza e novità nella nostra vita.

    Tu conosci la durezza del nostro cuore, la sua incapacità di ascoltare la Parola che libera e salva. Facci prendere coscienza di questa durezza di cuore onde indurci a quel pentimento e a quelle lacrime che, sole, sono capaci di ammorbidirlo rendendolo disponibile alla tua azione.

    Vieni come Spirito di forza, di coraggio, tu che sei Spirito che spalanca alla sua Chiesa e a ciascuno di noi orizzonti sempre più vasti e ampi. Facci oltrepassare, anche se neghittosi, tutti quei confini irti di fili spinati fatti di leggi, consuetudini, modi di pensare e di agire standardizzati, che vorremmo continuamente impiantare e conservare ad ogni costo per non scomodarci, per non metterci ogni giorno in discussione. Tu vuoi aprirci, Spirito di vita, al cammino di libertà dei figli, impedendoci di ricadere nella condizione di schiavi.

     

    Lectio

     

    Il brano che mediteremo è Marco 7,1-13. Siamo nella cosiddetta “sezione dei pani” (6,30-8,21) nella quale Gesù, dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani per i cinquemila nel deserto, presenta se stesso come quel vero nutrimento spirituale dono di Dio  di cui l’uomo ha bisogno per la sua vita. Ma a Gesù che si presenta come pane risponde la cecità e la durezza di cuore non solo degli avversari ma anche degli stessi discepoli incapaci di riconoscere e accogliere il suo dono (cfr 7,18).

    Il testo, dallo stile profetico, presenta alla comunità cristiana una diatriba tra Gesù e gli scribi e farisei “venuti da Gerusalemme” (v.1).  Gerusalemme è il centro della fede e dell’ortodossia religiosa ebraica. A Gerusalemme, luogo dell’istituzione legata al tempio e al sacerdozio, la tradizione presume di aver conservato la purezza dell’interpretazione del dono della Legge. Presunzione che Gesù, sulla scia dei grandi profeti, più volte prende di mira denunciandone la falsa pretesa (cfr Ger 7,4; Mc 11,27ss). I farisei sono coloro che pongono tutte le loro energie a servizio dell’osservanza scrupolosa e  inoppugnabile della legge. Gli scribi sono invece coloro che studiano la legge e la conoscono in ogni sua sfumatura. Chi più di loro può sentirsi autorizzato nel denunciare ciò che allontana dalla retta pratica della fede? L’antitesi legge/vangelo, che accompagnerà anche la storia della comunità cristiana (cfr At 15,5ss), emerge nel nostro testo violentemente.

    Il motivo del conflitto è causato dal comportamento dei discepoli che “prendevano cibo (lett: pane) con mani immonde” (v.2) cioè  “non lavate”. La discussione ha perciò come perno le questioni legate al cibo e alla purità. Il significato di questa norma (di per sé riservata ai soli sacerdoti e successivamente ampliata) non è solo e anzitutto questione igienica: per il pio israelita è soprattutto invito a riconoscere che quel cibo è dono di Dio, e quindi va consumato con il rispetto e la venerazione nei confronti del donatore. Il significato della norma era perciò aiutare a “fare memoria”, nel dono del “pane”, dell’alleanza con Dio. Ma ora il pane è Cristo stesso, ed è lui che discepoli, farisei e scribi sono chiamati a riconoscere come dono di Dio. Tutto il resto dovrebbe passare in secondo piano: anche la legge santa! Ma questo non accade, e il motivo è semplice: la cecità e la durezza del cuore di tutti.

    La loro recriminazione inizia con le parole: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi?” (v.5). Farisei e scribi, che hanno ben coscienza del peso della loro autorità in mezzo al popolo, si scandalizzano di Gesù. Non è egli chiamato rabbi? Perché non interviene, come suo dovere, a favore della legge? Se Gesù fosse realmente un rabbi  rispettoso della legge non dovrebbe permettere questo.

    Farisei e scribi si rifanno alle tradizioni “degli antichi”, ovvero agli illustri interpreti ufficiali della legge di Mosè. Il fardello della legge diventa pesante, insopportabile (cfr Mt 23,4): cumuli di pratiche, riti, precetti, tradizioni che in teoria dovrebbero facilitare il vivere l’alleanza in realtà finiscono per ostacolarla, impedirla, nasconderla perché le norme diventano fini a se stesse, dimentiche della loro funzione di semplici strumenti e in quanto tali sempre soggette a discernimento e verifica alla luce della Parola.

    A questa rigida presa di posizione degli avversari Gesù risponde (v. 6) con la citazione di Isaia 29,13 (cfr Am 5,21-27; Is 1,11-20…). Citando i profeti Gesù si colloca nella loro linea di severa accusa nei confronti di un culto ormai decaduto perché solo esteriore. L’antitesi posta dal testo di Isaia è tra culto delle labbra e del cuore, ovvero tra culto esteriore e interiore.

    Giungiamo al v. 8 al nucleo centrale della denuncia fatta da Gesù: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”. L’uomo “religioso” (da intendersi come l’uomo non ancora evangelizzato) corre sempre il tremendo rischio di porre al primo posto la legge con la quale ricercare la propria giustificazione.

    Gesù porta quindi un esempio limite con il quale dimostra concretamente come la legge, e l’interpretazione che ne fa la tradizione “degli antichi”, diventa occasioni di subdola ipocrisia. E’ l’abile malizia del cuore indurito per cui la legge “santa” si trasforma in sottile strumento per eludere la verità e le esigenze autentiche della religione “del cuore”.

    Il termine “ipocrisia” è significativo: l’ “ipocrita” era il protagonista nella scena teatrale, colui che impersonava ciò che non era, pantomimo di una realtà inesistente. L’ipocrisia è la presunzione di voler apparire davanti agli altri, a se stessi e a Dio, più o meno consciamente, per quello che non si è.

    Dopo l’esempio riportato Gesù non esita a concludere il suo discorso affermando una realtà scomoda: “E di queste cose ne fate molte” (v. 13). Realmente la malizia del cuore umano non conosce confini.

     

    Collatio

     

    Esiste anche per noi cristiani il rischio di ricadere nella religiosità “delle labbra”; ovvero in una pratica religiosa vuota, sterile, perché privata della sua vera radice che è l’essere innestata non nella legge ma in un autentico rapporto con Dio. Una religiosità delle “labbra” è molto lontana da quella del “cuore” dove si gioca realmente la libertà della coscienza dinanzi alla Parola. Purtroppo sono molti che fanno propria la religione “delle labbra” se è vera la frase usata dai vescovi italiani in un documento di alcuni anni fa nel quale affermavano che “le nostre chiese sono piene di praticanti ma non di credenti”.

    La rivelazione biblica ci presenta il cuore dell’uomo indurito a causa della propria chiusura all’ascolto della Parola. Ecco allora l’uomo “sordo” porsi alla ricerca della propria giustificazione, fatta delle mille sicurezze derivanti dall’osservanza della legge. Si diventa cultori della legge, antica e… nuova, quando l’uomo “religioso” pone il sabato prima dell’uomo, giungendo stoltamente a sacrificarlo alla legge. Nessuna legge, neppure religiosa, può arrogarsi tale pretesa.

    La legge, antica e nuova, cerca sempre di svuotare la Buona Notizia, che è l’umile e gioiosa accoglienza della gratuità del dono di Dio. Si vuole trasformare il vino nuovo di Cana nuovamente nell’acqua degli otri della legge (cfr Gv 2,6). I cinquemila nel deserto hanno mangiato con gioia e entusiasmo del dono del pane moltiplicato senza preoccuparsi d’essersi prima lavati le mani! A questa gioia che trasborda la legge risponde volendosi mettersi di mezzo, nella presunzione d’essere lei strumento di salvezza.

    Qui sta il grande travisamento del dono della legge: per l’apostolo Paolo suo compito non è di giustificarci dinanzi a Dio, ma solo di farci prendere coscienza dell’impossibilità di salvarci da soli:Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato” (Rm 3,20). Quando la legge dimentica questo, si trasforma in strumento di difesa nei confronti di Dio e delle esigenze della sua Parola. Essa infatti permette di attaccarci in tutta buona coscienza alle garanzie offerte dalle norme del passato, evitandoci la fatica e la sofferenza dell’umile ascolto della Parola. La legge è più comoda perché deresponsabilizza, fa dipendere dall’esterno la verità del rapporto tra la coscienza e Dio. Tragico destino della legge che, nata per additare la porta stretta della vita, diviene meschina e comoda autostrada che conduce alla “sclerocardia”, come amavano dire i padri orientali. Essa invece di aiutare l’uomo a puntare lo sguardo sull’essenziale si trasforma in idolo: quando il tuo dito indica la luna, dice un famoso proverbio cinese, lo stolto guarda il tuo dito.

    Gesù vuole liberare l’uomo e la sua comunità, dalla legge che lo rende solo schiavo. E’ questo il messaggio lanciato agli scribi e farisei venuti da Gerusalemme: egli vuole dal profondo del suo cuore che il nostro rapporto con Dio sia quello tra Padre e figli. Dio non vuole schiavi!

    La Buona Notizia annuncia il primato della religione del cuore che supera ogni legge: “E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!” (Rm 81,5).

     

    Oratio

     

    Chiediamo ora al Signore la grazia di poter riconoscere senza timore la durezza del nostro cuore. Questa durezza si manifesta quando, invece di porci “in religioso ascolto” della Parola lasciando che essa sola sia luce alla nostra strada, facciamo più comodo e cieco ricorso alle leggi, tradizioni,  “osservanze”, che seppur buone, si trasformano in ostacolo alla vera obbedienza della fede.

    Anziché camminare nella libertà della vera fede che fa di noi dei “credenti” decadiamo in tristi “osservanti” di una sterile pratica religiosa, lontana da quel cuore che Dio ricerca:Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori” (Gv 4,23)

    Donaci, o Padre, il coraggio dell’autocritica che ci permetta di evitare le comode scappatoie delle “cose ovvie e scontate”, del “si è sempre fatto così!”, fuggendo il faticoso ma liberante confronto con l’autorità della tua Parola che è il Figlio tuo e con la verità dell’uomo.

    Soprattutto rendici capaci di usare la legge, nella Chiesa e nelle nostre comunità, sempre come semplice strumento passibile di modifiche, affinché l’uomo sia rispettato, il debole salvaguardato, la tua Parola più ascoltata, Dio servito in tutta purezza di cuore.

    Se ci attacchiamo troppo alle nostre leggi ed esse ci impediscono di vivere e far vivere la vera libertà dei figli di Dio, ti preghiamo, invia un “vento impetuoso e un rombo di tuono” alla tua Chiesa affinché scardini tutto ciò che non è secondo il tuo cuore.

    Donaci soprattutto di poter gustare la “sobria ebbrezza dello Spirito”, che è l’ebbrezza della libertà dei figli, e donaci infine di poter gustare la gratuità e la bellezza del dono del tuo pane che è il Figlio tuo, offertoci ogni giorno gratuitamente.

  • 26 Gen

     

    di P. Attilio Fabris

     

    Gesù entra in Gerico

    Gesù acclamato dalla folla entra in Gerico: ha appena guarito un cieco. Tutti gli sono addosso forse sperando in qualche altra grazia da parte sua.

     

    Zaccheo

    Presentiamo la sua figura fisica, morale e spirituale.

    E’ piccolo di statura: è un forte limite che forse egli ha tentato in ogni modo di rimuovere con il suo arrivismo e aggressività e cinismo.

    E’ capo dei pubblicani: per colmare il suo limite none sita a vendersi agli stranieri, a vivere disonestà verso i suoi.

    E’ ricco: e questa sua fortuna è frutto di ingiustizia, soprattutto nei confronti dei più deboli e poveri che non hanno la forza di rivendicare i propri diritti.

    La fede di Zaccheo. È quasi sicuramente di tipo molto formalista. E’ si praticante, ma non per convinzione ma ancora per interesse.

    Certamente è odiato da tutti.

    Invidiato da tutti.

    Una vita apparentemente riuscita, a cui non manca nulla: potere e denaro per acquistarlo.

    Circondato da falsi “amici” e “ammiratori” che sperano solo di trarre qualche vantaggio da lui.

    In fin dei conti è una persona sola! Ha puntato tutto sull’ansia della vita e sulla paura di perdersi.

    Una persona che non si è riconciliata con il proprio limite che è esperienza di vuoto-morte dal quale tutti cerchiamo di fuggire e di non guardare in faccia:

    per ovviare tale esperienza si cerca di evitarla con mille scappatoie:

              la ricerca della propria immagine

              soldi e potere che danno l’impressione dell’autosufficienza

    E quando il limite si impone in modo drastico l’uomo può reagire in diversi modi:

              il rifiuto espresso in una lotta impari e disperata contro di esso

              la condanna di Dio

              la rassegnazione

              oppure la riconciliazione con la vita e con Dio: l’abbandono delle sue mani.

     

    Zaccheo cerca di vedere Gesù

    Perché?

    Da cosa è spinto? Cosa cerca?

    Cosa si aspetta?

    E’ solo curiosità?

    Ma anche la curiosità nasce da un interesse più o meno conscio. E un interessa è una realtà significativa per la mia esperienza vitale.

    Dunque Gesù per Zaccheo è interessante.

    Ma perché?

    Probabilmente da quello che ha sentito dire avverte nel messaggio di Gesù un “qualcosa” che può venire a colmare la sua sete di amore.

    Ma ha paura di questo desiderio: egli cerca “solo” di “vedere” il profeta di Nazareth!

     

    La folla impedisce a Zaccheo di vedere Gesù

    La folla rappresenta tutto ciò che mi può ostacolare nel mio bisogno di incontro.

    Spesso tante nostre iniziative e parole intorno al vangelo non rischiano di avere lo stesso effetto?

    La folla sono tutte le barriere che si pongono da impedimento.

    Occorre nella vita dare un nome alla folla:

    attivismo? Mass-media? Non comunicazione?

     

    Una decisione da prendere

    Zaccheo deve anzitutto decidersi. Continuare nella ricerca o desistere? Attendere un momento migliore: ma ci sarà? Potrebbe benissimo rientrare in casa. Oppure escogitare qualcosa affinché si possano creare le condizioni favorevoli all’incontro.

    E’ la nostra parte di iniziativa nel cammino di fede.

     

    Una corsa e una salita

    Zaccheo si stacca dunque dalla folla osannante.

    Così facendo ancora una volta prende atto del suo limite: con che sentimenti? Rabbia e imprecazioni?…

    Corre in avanti: e questo gesto lo pone in evidenza davanti agli altri, lo differenzia, provocando l’ironia, la critica, il giudizio di quella stessa folla (cfr la folla nel racconto della guarigione del cieco).

    Ma Zaccheo vince la paura e la vergogna di esporsi. E questo dice quanto gli prema “vedere” Gesù.

    Si distacca da tutti i condizionamenti: e sappiamo quanto questi giocano sulla nostra vita e sulla nostra paura di “perderci”. Con questo gesto in Zaccheo sono vinte due forti controrisonanze contro l’apertura alla verità: la paura di essere se stessi e la paura degli altri.

    Sale su un sicomoro: certamente mettendo in mostra il proprio limite. A un certo punto se voglio incontrare il Signore non devo fare verità nella mia vita?

    Ora Zaccheo, pur tentando di nascondersi tra le foglie!, è contento: finalmente il suo desiderio può essere portato a realizzazione: attende impaziente.

    Si sente ancora lui il protagonista dell’incontro.

    Gesù sta per arrivare.

    Finisce qui il primo atto.

     

    Gesù alza gli occhi

    Inizia il secondo atto, in cui si vede il cambio di protagonista.

    Non è più Zaccheo ma Gesù stesso.

    L’incontro sarà segnato da una caratteristiche fondamentale: la gratuità.

    Perché? Cosa significa?

    Gesù alza lo sguardo, e dopo di lui tutta la folla.

    Zaccheo diventa oggetto di attenzione da parte di tutti.

    Da parte sua arrossisce, è imbarazzato. Forse è stato uno sbaglio salire lì. E adesso cosa vorrà da me questo profeta? Ha paura. Vorrebbe non essere lì. E adesso come la si metterà?

    Le nostre relazioni sono spesso segnate da questa paura e sospetto: e anche la relazione con Dio.

    Dio alla coscienza religiosa appare inaffidabile, insensibile, tiranno e geloso della nostra felicità.

    Da lui occorre nascondersi e scappare talmente i suoi occhi indaganti ci spiano inesorabilmente.

    La folla alza gli occhi con Gesù verso Zaccheo e attende, ironica e beffarda, parole di invettiva e rimprovero contro di lui: non è il difensore dei poveri?

     

    Zaccheo !

    Gesù lo chiama per nome.

    “Finalmente qualcuno mi chiama per nome, e mi conosce: ma perché proprio lui?”

    Ci conosce uno ad uno come il buon pastore le sue pecore.

    Ha cura di ciascuno di noi.

    E’ lui che conosce il nostro vero nome.

    Dio chiama sempre per nome.

    Se mi chiama per nome è perché vuole intessere una relazione personale con me: un chiamare per nome domanda una risposta.

     

    scendi subito

    Scendere significa ritornare ad essere “piccolo” in mezzo agli altri e di fronte a Gesù. Ritornare ad essere quello che era, mettendo in mostra il proprio limite. E’ un momento di verità nel quale non mi è più permesso di nascondermi (un po’ come Gesù farà con l’emoroissa)

     

    Oggi

    E’ il kairòs. Il momento della grazia che in questo momento ci è offerta.

    L’oggi non è solo indicazione cronologica.

    La scrittura e la liturgia richiamano spessissimo all’oggi della grazia che mi raggiunge incessantemente.

    A livello di vita spirituale nasce l’importanza del vivere pienamente il momento presente come l’unico e vero momento in cui la grazia mi può raggiungere e trasformare.

     

    Devo

    Un dovere dettato da una missione da svolgere. “salvare ciò che era perduto”. Una missione che nasce solo dall’amore: e un amore incondizionato, a fondo perduto, eterno.

     

    Fermarmi in casa tua

    “Io sto alla porta e busso”.

    Vedi l’importanza del verbo “rimanere” “menein” in Giovanni.

    Se il Signore chiede di entrare nella mia vita è per restarci, è per fare comunione di vita con me.

    E’ lui che me lo chiede, come un mendicante d’amore! Non ha paura di perdere se stesso, di umiliarsi davanti a me: è il suo amore per me che glielo impone.

    Non mi chiede nient’altro! Non mi chiede di cambiar vita nel caso voglia che entri in casa sua.

    Non lo rimprovera o reguardisce. Nulla di questo: solo accoglierlo in casa sua.

    Non lo ama mettendo qualche “se”: è un amore-dono incredibilmente preveniente e incondizionato.

     

    In fretta e con gioia scese

    La “fretta” e la “gioia” sono caratteristiche amate da Luca.

    Zaccheo risponde subito all’invito.

    E’ il momento cruciale.

    Cosa prova Zaccheo?

    E’ incredulo!

    Ma come. Da uno come me il profeta vuol venire?

    Ma questo sconvolge tutta la sua immagine di Dio, sconvolge l’impostazione della sua vita.

    Scopre la realtà della gratuità dell’amore-dono che non chiede nulla se non di essere accolto fidandosi di lui.

    Questo sconvolge la vita di Zaccheo: i suoi schemi, l’impostazione che per anni ha cercato di dare alla sua esistenza.

    Zaccheo scopre che nel mondo esiste un amore di cui non sospettava l’esistenza.

    E’ una scoperta che lo riempie di gioia! Qualcuno allora mi vuol bene!

    I suoi limiti allora non lo disturbano più, li può accogliere serenamente. Sa che c’è un amore del quale può fidarsi ciecamente. Non si sente più obbligato a mascherarsi e a cercare di primeggiare sugli altri per ovviare al suo limite.

    E’ questa la sua buona notizia!

    E solo questa buona notizia gli può cambiare radicalmente la vita.

    Zaccheo saltellante di gioia, prendendo la mano di Gesù sorridente gli fa strada verso casa sua.

    Dove organizza subito un piccolo banchetto in onore dell’illustre ospite.

    E qui termina il secondo atto. Potrebbe concludersi qui. Ma si apre di nuovo il sipario.

    E’ il terzo atto.

     

    Alcuni però mormoravano…

    L’entrare in casa di un pubblicano e mangiare con lui è un gesto carico di significato. Un gesto non approvato dalla Legge, in cui il peccatore deve essere allontanato: esso contamina la santità del popolo eletto.

    Gesù compie l’atto scandaloso di mettersi dalla parte dei peccatori.

    La mormorazione è la reazione e l’ostilità alla buona notizia: l’ostilità all’aprirsi alla rivelazione dell’amore-dono.

    La mormorazione è la non approvazione e la critica all’operato di Gesù che viene a sconvolgere la loro visione della vita e di Dio.

    Quella stessa folla che lo seguiva entusiasta ora ha cambiato opinione radicalmente: Gesù li ha delusi tutti!!

    Gesù abbatte la distinzione tra giusti e peccatori: tutti devono ugualmente sentirsi amati e perdonati dal Padre nello stesso modo.

    Ma l’uomo peccatore fa fatica ad accogliere questo annuncio di perdono.

    Distinguersi dai peccatori ci rassicura, ci fa sentire meritevoli di premio e giusti ai nostri occhi: è l’uomo che ricerca nella legge la sua “giustizia”.

     La resistenza della folla è la stessa resistenza del figlio maggiore nella parabola del Figliol prodigo (Lc 15).

     

    Darò metà dei miei beni ai poveri

    Il gesto di Zaccheo è una risposta generosa ed entusiasta all’esperienza di gratuità e accoglienza ricevuta da parte di Gesù.

    E’ questa esperienza di gratuità che gli tocca il cuore e gli fa capire che la vita è fatta per farsi gratuità, dono agli altri soprattutto nei confronti dei poveri e dei peccatori (i veri poveri come Zaccheo!).

     Non è dunque un gesto che scaturisce da una coscienza morale che cerca di rimettere in pareggio i conti con se stessa (basterebbe restituire allora solo ciò che si estorto): la “giustizia” di Zaccheo supera di molto quella degli scribi e dei farisei.

      

     

    Gesù riconosce, davanti ai mormoratori, il cammino compiuto da Zaccheo.

    E’ giusto far festa per il peccatore pentito, come per la dramma e la pecora perdute e ritrovate.

    Come per il figlio minore che ritorna.

     Gesù sottolinea che la sua missione si identifica con il “cercare e salvare chi è perduto”. E’ dunque missione di misericordia fatta alla comunità dei discepoli.

     Nessuno ne deve essere escluso: tutti sono figli di Abramo.

     La comunità dei discepoli non si sentirà mai in diritto di condannare nessuno, di escludere nessuno. Avrà un cuore dilatato nella misura di quello di Cristo.

     Tutti si riconoscono in “chi è perduto”. Tutti dobbiamo essere cercati e salvati dalla misericordia di Dio.

    Sono venuto a salvare

  • 23 Gen

    di p. Attilio Fabris

    In cammino per allontanarsi

     

    Nello stesso giorno”: in Luca tutto l’evento pasquale si svolge nell’arco di un solo giorno. Siamo al “primo giorno dopo il sabato” nel pomeriggio.

     

    Sono “due di loro”, di cui uno di nome Cleopa e l’altro anonimo (ritroviamo il volto di tutti noi) i discepoli protagonisti del racconto.

    Hanno fatto parte del gruppo dei discepoli, hanno conosciuto e seguito Gesù di Nazaret, fino alla passione. Sono due di quelli che, con gli undici, ricevettero l’annunzio della resurrezione (v. 9).

     

    Stavano camminando”. L’uomo è sempre in cammino. Ognuno ha una direzione verso cui incamminarsi. Il verbo “camminare” non indica solo un moto fisico.

    A Gerusalemme la comunità dei discepoli in quel momento è radunata nel Cenacolo confrontandosi con quell’annuncio che ha disorientato tutti: il sepolcro è vuoto!

    I due discepoli stanno allontanandosi da Gerusalemme verso Emmus (una decina di chilometri).  Costoro si stanno allontanando da essa, si stanno distanziando dagli eventi di Gesù avvenuti nella città santa. Questo porre distanza sta a dire l’impossibilità ormai di un rapporto di appartenenza sia al Maestro come alla sua comunità.

    Il loro abbandono della comunità ci dice che la comunità dei discepoli pre-pasquale non ha futuro, il suo destino è la disgregazione, se non interviene l’esperienza della Buona Notizia.

     

    I due “conversavano” ( in greco “fare l’omelia”) tra loro di tutte queste cose “che erano accadute”, e “stavano dibattendo” (greco: cercare insieme, litigare).

    Questo cammino dunque è intessuto di scambi di opinioni, di risonanze, è un dialogo fitto, intenso. Ci dice che i due non hanno capito ma nello stesso tempo non possono dimenticare. Infatti si parla a lungo di ciò che sta a cuore, e sta a cuore ciò che si cerca, si cerca ciò che si ama. Sono ricurvi sul passato, e pur allontanandosi dalla comunità, il loro cuore è rimasto ancorato a quella realtà sconcertante della passione e morte del Maestro. Sono profondamente delusi a causa della crocifissione di quell’uomo. Essi commemorano un morto, uno, che pur avendo promesso tante cose, è rimasto vittima della cattiveria altrui e ha fatto la fine di un fallito o di un illuso. Hanno atteso fino al terzo giorno dopo la crocifissione ma inutilmente. Si tratta per loro di una ricerca difficile di interpretazione e comprensione di ciò che hanno sperimentato in quei giorni: quella passione e morte di Gesù così scandalosa e incomprensibile. Ma non ne riescono a venire a capo!

    Il dibattere dice che il ricordo del Signore non li unisce, ma li divide.

    Proviamo ad immaginarci i loro discorsi via facendo….

     

     

    Il viandante sconosciuto

     

    E’ a questa situazione di agonia della speranza che si rivolge la buona notizia. “Gesù si avvicinò in persona e camminava con loro”. E’ proprio lui “in persona” a farsi accanto, a camminare al loro fianco facendo la strada con loro. L’iniziativa è solo sua, come in ogni altro racconto delle apparizioni del risorto. E’ l’Amore Dono che continua ad offrirsi discretamente, senza imporsi, di propria volontà. Niente lo spinge a farlo se non l’avere a cuore il bene dell’uomo.

     

    Ma gli occhi dei due “sono incapaci di riconoscerlo”.

    Da dove nasce questa incapacità? Essa scaturisce dalla incomprensione degli avvenimenti e dalla non illuminazione di essi da parte della Scrittura. La sfiducia e la paura stendono un velo dinanzi ai nostri occhi, e essi vedono  la realtà non come essa è realmente ma attraverso i loro filtri oscuri. Il loro sguardo non ha luce sufficiente per comprendere l’uomo nuovo, il vincitore della morte che è lì, accanto a loro.

    Non si parla qui tanto di vederlo quanto di “riconoscerlo”. E’ importante questa sottolineatura perché ci dice che il Risorto ora è possibile solo riconoscerlo attraverso quell’atto di fede che solo può aprire gli occhi.

     

     

    Intessitura iniziale del dialogo

     

    E’ Gesù che prende l’iniziativa e apre il dialogo con loro: “Che sono questi discorsi che state facendo?”.

    Gesù vuole che si esprima la delusione dei discepoli, che si oggettivizzi. L’annuncio deve entrare in tutto il negativo dell’uomo e della sua storia. Esso vuole salvarci da questo. Ecco perché Gesù non impone la sua presenza immediatamente. E’ necessario che l’uomo si accosti alla fede attraversando tutte le sue controrisonanze. Eluderle non servirebbe a nulla! Il cuore rimarrebbe inalterato e dubbioso.

     

    La reazione è un fermarsi del cammino, un osservare “col volto triste”. Si fermano perché quella semplice domanda li riporta improvvisamente ancora all’inizio dei loro discorsi. Le controrisonanze che abitano nel loro cuore si oggettivizzano attraverso il loro sguardo colmo di tristezza: è delusione mista a dolore.

     

    La loro risposta: “Tu solo sei forestiero da non sapere ciò che è accaduto?”. Gesù è considerato uno straniero che non conosce i fatti! Possibile dato il rumore che hanno provocato a Gerusalemme?

     

    Quali?”. Gesù non impone la sua evidenza dopo questa risposta. Restando sconosciuto Egli desidera iniziare un dialogo, una condivisione con i due. Ne hanno bisogno!

    Si fa raccontare ciò che è accaduto, ovvero stimola a portare alla coscienza l’oggetto della loro discussione, a chiarire ciò che fa problema, a dire i sentimenti che li hanno accompagnati. Li interroga affinché esca tutta la loro amarezza.

    La fede non è elusione dei problemi ma la loro soluzione, perciò questi non vanno dribblati o rimossi. La pedagogia di Gesù è straordinaria: è la pedagogia del dialogo e della condivisione che deve accompagnare qualsiasi iniziazione alla fede.

     

    Il viandante interroga discretamente. E cosa fa? Ascolta e condivide, condivide e ascolta… A un certo punto comincia  a dir la sua. 

     

     

    Discorso dei pellegrini

     

    Ciò che emerge dalla loro risposta è che gli avvenimenti riguardanti Gesù di Nazaret non trovano composizione nella loro coscienza, essi appaiono troppo contraddittori: non ne riescono a cogliere il senso, li vivono con un atteggiamento fatto di delusione e di turbamento.

    Essi parlano di Gesù come di un “profeta potente in opere e in parole”, ossia rievocano l’esperienza entusiasmante e gioiosa del ministero di Gesù, la sua predicazione e i suoi miracoli: tutto ciò testimoniava la verità della sua missione e della sua identità di inviato di Dio..

    Ma ecco la contraddizione: come si concilia questa esperienza e certezza con lo scandalo della sua esecuzione da parte dei capi? Come conciliare la certezza del suo essere inviato da Dio e la sua condanna a morte? Perché Dio non l’ha riconosciuto e l’ha abbandonato? “Forse ci siamo ingannati: non era colui che credevamo, ma un impostore”. Oppure altra conclusione: “Dio stesso l’ha rifiutato come fece con Saul per qualche sua colpa a noi sconosciuta”.

    Rifiutano lo scandalo della croce.

    Essi sono rimasti scandalizzati dalla fine di questo profeta, sebbene continuino a credere che egli sia stato un grande profeta mandato da Dio, Egli ha subito la sorte di tanti altri profeti. Ma quanto al riconoscerlo Messia, per loro il discorso è chiuso. Un uomo che è stato crocifisso ed è morto non può presumere di essere il messia; da lui non ci si può attendere la pienezza della realizzazione delle promesse di Dio. Dio infatti non ha impedito la sua fine ingloriosa e non ha accreditato la sua testimonianza. La croce è uno scoglio insormontabile!

     

    Dai fatti i due discepoli passano agli stati d’animo: “Noi speravamo…”. Speranza che fosse proprio lui l’atteso, il messia che avrebbe liberato il suo popolo (probabilmente in senso nazionalistico) come promesso da Dio.

    La croce è letta come la fine di ogni speranza. Il pensiero dell’uomo resta chiuso (9,45; 18,34), anzi profondamente deluso, davanti al pensiero di Dio (Mc 8,31-33). Davanti alla croce si frantumano le nostre fragili speranze e attese.

    Quel “noi speravamo” sta a dire le attese religiose dell’uomo, così amaramente deluse dalla croce. E così questa speranza è stata sottoposta ad una dura e tragica delusione. “Sono già passati tre giorni…”. Ovvero è la fine di ogni speranza, tutto è finito definitivamente. E’ una constatazione di cui prendere dolorosamente atto. L’osservazione sul “terzo giorno” non è da collegare alla speranza della resurrezione, anzi vuole sottolineare che per loro la morte di Gesùè un fatto compiuto e irrevocabile. Secondo la concezione ebraica l’anima aleggia intorno al corpo per tre giorni dopo la morte; trascorso questo termine non è più possibile tornare in vita (Ernst).

     

    Ma i due discepoli aggiungono qualcosa d’altro. Sì qualcosa è successo di strano. Mediata da altri è giunta un’esperienza: “alcune donne….”. Ma come credere a questo stando il fatto che alcuni dei discepoli sono andati al sepolcro hanno visto ciò che le donne avevano detto ma…. Lui non l’hanno visto! Anche loro due non si sono presa la briga di andare a vedere.

    Le loro parole contengono già tutto il kerygma, ne è un’esposizione precisa.  Essi sono in possesso di tutti gli elementi del kerygma: ma tutto ciò non costituisce ancora per loro una buona notizia! Essi in verità possiedono tutto il bagaglio dell’Annuncio cristiano, ma non sono in grado di aprirsi ad esso, di comporlo, possiedono già un piccolo “Credo” ma manca la chiave di lettura. Non riescono da soli a ricomporre il senso della vicenda di Gesù.

    Il sepolcro vuoto per loro è solo un ulteriore motivo di disorientamento e ambiguità.

    Sia allora che adesso il problema è identico: senza l’annuncio della Buona Notizia l’esperienza di fede del Risorto è impossibile (Gv 4,42). Ma chi potrà fare questo annuncio della Buona Notizia se non un evangelizzatore? E chi è che può svolgere tale servizio in questo momento se non il solo Gesù?

     

     

    Discorso di Gesù

     

    Gesù non aggiunge altri dati riguardanti la sua vicenda, i due li conoscono fin troppo bene. Ma è necessario aiutare i due pellegrini ad interpretare la sua vicenda aprendo alla loro coscienza uno sguardo nuovo su di essa. Si appresta ad un vero servizio di evangelizzazione.

     

    O senza testa e tardi di cuore…”: E’ un rimprovero forte e autorevole che non è certamente quello di un estraneo o di un ignorante. La figura del viandante assume gradualmente un aspetto dignitoso e magisteriale. Da sempre l’uomo è “di dura cervice e di cuore incirconciso”. Una testa impermeabile alla verità di Dio, e il cuore (il luogo dell’interiorità, il luogo della valutazione, del giudizio e della decisione) appesantito dalla tristezza e dalla delusione. L’incredulità è prestare fede alla paura e alla menzogna: è il peccato. Il primo passo da fare è quello di prestare l’orecchio più alla Parola che alla nostra paura.

     

    Non era forse necessario… e cominciando da Mosè e da tutti i profeti…”. Gesù inizia con i due una condivisione della parola: è la parola che diventa luce, ed apre all’intelligenza del mistero. E’ solo alla luce della parola che la sua morte non è più un incidente di percorso, estraneo al progetto di Dio. Ciò che agli occhi dei due discepoli appare contraddizione, diviene ora evento “necessario” per l’adempiersi delle promesse.

    La croce “scandalo e stoltezza” per chi non crede alla luce della Parola condivisa si trasforma in luogo di rivelazione del peccato dell’uomo e del suo rifiuto e nello stesso tempo piena rivelazione dell’agire  e del volto di Dio. Non è la smentita di Dio sulla missione di Gesù e sulla sua identità, bensì il suo compimento.

    “Tutta la scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, perché tutta la Scrittura parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento” (Ugo di san Vittore).

    A che servirebbe incontrare Gesù risorto, esultare di gioia, se non si può spiegare questa morte che ha gettato il sospetto della coerenza del percorso? Perché è stato rigettato, perché i capi religiosi sono riusciti a farlo crocifiggere, come un malfattore? Forse egli non era così potente come si pensava se gli altri hanno prevalso su di lui! Tanti “perché” resterebbero inspiegati!

    La condivisione di Gesù co i due discepoli dice bene il processo del circuito dell’ascolto dalla “Traditio” alla “Redditio” e viceversa. E’ la “fractio verbi”.

     

    Vorremmo sapere di più circa lo svolgimento di questo dialogo. Luca non lo riporta, lo accenna soltanto. Perché se questo è il punto decisivo? Perché la comunità alla quale scrive questo contenuto è ben conosciuto e assimilato. L’essenziale era conosciuto e fatto proprio da tutti.

     

     

    “Rimani con noi”

     

    Si avvicinarono al luogo a cui erano diretti…”. Il cammino pare giungere alla sua conclusione e così il dialogo con quel viandante.

     

    Egli fece come se dovesse proseguire… ma essi insistettero (lo forzarono): Rimani con noi…”. In questa domanda/ preghiera non vi è solo e anzitutto il dovere dell’ospitalità, ma soprattutto il desiderio di non separarsi da una relazione che man mano, cammin facendo, si è rivelata importante, capace di scaldare nuovamente il cuore riaprendolo alla speranza attraverso un diverso modo di leggere gli avvenimenti. Nei due discepoli vi è così la disponibilità a comprendere in modo diverso la vicenda del loro Maestro.

    Cosa significa se non che la “fractio verbi” ha fatto scattare la “fractio vitæ”?

    Attraverso il servizio della Parola offerto da Gesù si è innescata tra lui e i due discepoli una relazione talmente importante che essi dal viandante non vogliono separarsi. Non è la riprova che l’ascolto e la condivisione della Parola creano relazioni nuove e significative? E’ una ulteriore richiesta di condivisione alla quale il Signore risponde ben volentieri e con gioia.

     

    Egli entrò e si mise a tavola con loro”: vi è una reciproca ospitalità, nella quale avviene una sempre maggior consegna dell’uno all’altro. “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Gesù si consegna ai due volentieri.

    La condivisione dell’essere fra i tre si completa con la condivisione dell’avere. I tre siedono insieme alla mensa, Arriva il momento della “fractio panis”.

     

     

    Riconoscimento

     

    Quando fu a tavola con loro prese il pane, benedisse e spezzato lo dava (imperf.) loro…”: Lo spezzare il pane, azione compiuta da ogni capofamiglia, od ospite d’onore al momento del pasto, indica il gesto del servizio e di amore di Gesù, segno della comunione fraterna.

    Si usano espressioni che fanno riferimento all’istituzione eucaristica. L’abbondante mensa della parola che ha preceduta è servita a far desiderare e comprendere lo spezzare del pane. Tale segno unisce il passato, vissuto dai discepoli fino alla morte, al presente, all’evento nuovo della resurrezione. Esso rinvia non solo all’ultima cena, ma anche alla moltiplicazione dei pani. In questo modo i due sono consapevoli che è sempre lo stesso signore e che essi stessi sono quelli di sempre. Si afferma così la continuità della storia della salvezza che garantisce la concretezza e la realtà della visione di fede. Se non fosse avvenuto tale segno, poteva nascere il dubbio di un evento fantastico o puramente soggettivo.

    Il gesto dello spezzare il pane non causa il riconoscimento del Risorto da parte dei discepoli, ma ne è l’occasione. Il gesto dello spezzare il pane non causa il riconoscimento del Risorto da parte dei discepoli, ma ne è l’occasione. Se i loro occhi si aprono proprio in quel momento, allo spezzare del pane, è perché Gesù ha voluto così, egli, ha deciso dove, quando, come manifestarsi.

     

     

    Sono questi gesti ad “aprire loro gli occhi”. E’ difficile esplicitare la densità di questa esperienza. I gesti compiuti sono capaci di aprire al riconoscimento, gesti nei quali Gesù alla vigilia della sua morte aveva riassunto il significato di tutta la sua vita e della sua morte.

    Se il pane realizza quanto la parola promette, la parola permette di riconoscere il pane come realizzazione della promessa di Dio. Per questo Parola e Pane formano un unico sacramento indisgiungibile.

    Non si dice che lo vedono ma che lo riconoscono. Vengono così chiaramente indicati i limiti posti al vedere fisico per riconoscere il risorto. Il tempo che separa il “vedere” dal “riconoscere” permette la lezione di esegesi: i due uomini confesseranno poi (v. 32) che essa li ha trasformati. Capiranno allora perché Gesù non si è voluto far riconoscere subito da loro: il loro desiderio di vederlo era forte, ma ora sanno che la visione fisica non è più un assoluto; pur essendo invisibile ai loro occhi di carne, il Risorto resterà presente (Aletti).

     

    E’ un punto di svolta: ma questa apertura degli occhi non termina con la visione perché Gesù “scomparve alla loro vista”. Un’altra contraddizione? L’esperienza dell’apparizione del Risorto non è fine a se stessa, ma apre ad un al di là, ad un nuovo cammino da fare, a un’esperienza di fede diversa, ad una presenza diversa del risorto. (cfr Gv 20,29).

    Non scompare, ma diviene invisibile. Resta sempre e ci accompagna benché non visto. Non è più con noi ma in noi: la parola ce l’ha messo nel cuore e il pane nella vita.

    L’invisibilità non equivale all’assenza. L’improvvisa scomparsa di Gesù, dopo il riconoscimento, avrebbe potuto lasciarli tristi, interdetti, paralizzati. Invece neppure ne parlano, come se non li riguardasse o fosse cosa di nessun rilievo. In loro è avvenuto un cambiamento straordinario.

    Questo “sparire” di Gesù è un ulteriore dono. Egli infatti vuole offrire l’opportunità di ritrovare la sua presenza in seno alla comunità di Gerusalemme (cfr Mt 18,20).  E’ una promessa.

     

     

    Il ritorno

     

    Non è più notte perché nel cuore dei due vi è una luce sfolgorante: “Non ci fu giorno come quello né prima né dopo: stette il sole e non si affrettò a calare” (Gs 10,12-14).

    Riscaldati e saziati si può riprendere il cammino. Ecco il frutto della condivisione della parola e del pane: la dilatazione del cuore. Il valore sacramentale e salvifico della parola illumina l’intelligenza, pacifica e purifica il cuore, infiamma gli affetti, muove la volontà, apre la speranza.

     

    Due reazioni caratterizzano il loro frettoloso ritorno al Cenacolo.

     

    La prima consiste in una esternazione delle proprie risonanze interiori: si dicono l’un l’altro, si aprono il cuore reciprocamente. Si raccontano a vicenda come Cristo abbia mosso i loro sentimenti, come la sua parola che “apriva” la Scrittura abbia riscaldato il loro animo. Si stabilisce fra di essi una sincera e fraterna unione nel medesimo spirito di fede. I due discepoli ora fanno memoria: “non ci ardeva forse il cuore quando…”. Il cuore era stato aperto prima degli occhi, e questo attraverso l’ascolto e la condivisione della Parola.

    Dio non si rivela più all’esterno, ma nell’interno del cuore.

     

    La seconda reazione spinge i due a ritornare al gruppo dei discepoli che credono in preda all’amarezza e alla delusione per annunciare loro la vicenda vissuto con Gesù risorto. Non importa l’ora tarda: nel cuore c’è un fuoco incontenibile che non si può spegnere. Sono ormai annunciatori del kerigma. Questo “ardore” non può che non rimettere di nuovo in cammino, un cammino inverso, di ritorno. Ritorno a Gerusalemme luogo degli eventi, al Cenacolo incontro alla comunità lasciata: “Trovarono gli undici e gli altri, e dicevano: Davvero il Signore è risorto!”.

    Alla testimonianza di Pietro, degli undici e della comunità i due possono ora aggiungere la loro testimonianza.

     

     

    Conclusione

      

    In confronto con gli altri racconti evangelici di apparizioni questa pericope è del tutto singolare, al punto che ci si chiede se si può ancora parlare di “apparizione”. In fondo, i due discepoli, non hanno visto il risorto ma un viandante straniero, e poi, sul punto di riconoscerlo, non hanno visto più nessuno (Rossé). Ciò colloca il racconto più vicino all’epoca della Chiesa, quando i cristiani incontrano Gesù per mezzo della sua parola spiegata nell’assemblea e per mezzo della celebrazione eucaristica.

     

    Noi non abbiamo visto né Gesù né coloro che lo hanno visto. Siamo i cristiani della “terza” generazione. La nostra fede è fondata sulla parola dei testimoni. Come le donne e Pietro possiamo benissimo andare pellegrini al sepolcro per trovarlo vuoto. Ma come sperimentarlo Vivente accanto a noi?

    Il racconto ci apre una pista: come ai due discepoli Gesù si fa vicino a noi tutti. Fa i nostri stessi passi così spessi intrisi più di delusione che di speranza. Ci incontra nella nostra quotidianità a volte così grigia e pesante, associandosi al nostro cammino, e ovunque andiamo! Non si allontana anche quando noi ci allontaniamo. Il superamento di queste “empisse”  è possibile dalla presenza e dall’azione di Gesù.

    Anzitutto è lui stesso che ha attraversato queste situazioni di contraddizione e può quindi illuminarle dall’interno, aiutandoci così a non perderci ed aggrovigliarci in esse.

    Ma questo si attua nella nostra vita attraverso la disponibilità a lasciarci interrogare dalla vita e dalle sue contraddizioni. Il nostro pericolo più grave è quello di chiuderci in noi stessi, di smettere di interrogarci e di interrogare la fede. Se ciò accade il nostro prendere le distanze ci condanna al distacco definitivo dalla comunità, alla perdita dell’orizzonte della fede.

    E’ importante mantenere lucida la coscienza del vissuto della nostra coscienza, condividere i nostri interrogativi con i nostri compagni di viaggio, avere il coraggio di confrontarci su ciò che ci delude e rischia di farci perdere la speranza.

    La pedagogia di Gesù nel confronto dei due si sviluppa proprio in questa direzione.

    Possiamo cercare con disponibilità e accogliere come grande dono quei contesti di relazioni personali, di gruppo, di comunità in cui ci è permesso di esprimere i tratti problematici della nostra esperienza, gli aspetti contraddittori, le nostre fatiche a vivere la fede.

      

    Ma noi non lo riconosciamo. I nostri occhi sono chiusi. La nostra vita può scontrarsi con situazioni che difficilmente riusciamo ad integrare in una visione di fede, ci appaiono profondamente contraddittorie nei confronti di Dio.

    Il confronto con la vicenda dei due discepoli di Emmaus dunque ci può aiutare.

    Sono in molti, forse anche noi, a prendere le distanze a volte quasi inavvertitamente a volte in modo brusco, dall’appartenenza alla comunità cristiana e dal vivere la fede.

    A volte si tratta di un normale passaggio da una fede ricevuta ad una riappropriata attraverso un proprio cammino.

    Altre volte questo distanziamento è dato da esperienze problematiche e da interrogativi che hanno posto in grave crisi la fede fino a quel momento vissuta. Non sempre la fede oggettiva ricevuta corrisponde all’esperienza soggettiva.

    La vita stessa ci presenta situazioni si sofferenza, di delusione, di contraddizione, che rischiano di mettere in scacco la nostra comprensione abituale di fede.

     

    Come i due discepoli, anche noi possiamo conoscere bene il Signore e tutte le Scritture. Ma siamo evangelizzati a metà, e tutta la nostra vita è amarezza e delusione fino a quando la sua Parola non ci fa comprendere la croce e il suo pane non ce lo fa riconoscere vivo e operante in noi.

    Il Signore risorto accompagna il cammino dei suoi discepoli, portandoli a comprendere il significato della sua pasqua attraverso il circuito dell’ascolto della Parola e lo spezzare del pane.

    La nostra esperienza di vita dovrebbe portarci ad interrogare e condividere la Parola, ed essa alla luce della Pasqua, ci guiderà a comprendere con più verità la figura di Cristo, educando il nostro cuore ad entrare.

    L’ascolto e la condivisione della Parola è l’ambito in cui Gesù ci parla, ci illumina per spiegarci il senso del suo mistero e della nostra vita.

    Alla luce della Parola e dello spezzare il Pane eucaristico anche la nostra vita, nelle sue contraddizioni, si illumina di una nuova luce e di una nuova possibilità.

     

    Questa esperienza ci restituisce alla comunità, alla gioia di condividere insieme il dono ricevuto. Nel confronto comunitario con le Scritture e nell’eucarestia la fede compie il suo cammino di maturazione: può essere testimoniata agli altri non come qualcosa di esteriore, ma come esperienza vissuta.

  • 18 Dic

    Il nome Yoseph  significa «Dio aggiunga»: nome ben augurante per un uomo che attende una prosperità numerosa. Sarà vero anche per il nostro Giuseppe?
    Il suo lavoro è quello comune di un buon carpentiere, mestiere che insegnerà al figlio Gesù, che sarà conosciuto come «il carpentiere» (Mc 6,3).
    Nel vangelo più antico, quello di Marco, Giuseppe non è mai nominato.
    Giovanni gli dedica solo due citazioni indirette (1,45; 6,42).
    Matteo e Luca non gli mettono in bocca una parola.
    Anche il suo appellativo più comune non è quello di «marito» di Maria, ma il più casto di «sposo».
    Anche e soprattutto nei riguardi della sua funzione di padre di Gesù la sua funzione è stata ridotta all’essere un padre semplicemente “putativo” ovvero “apparente”.
    Anche l’arte non ha fatto un servizio migliore: ce lo ha rappresentato come un buon vecchietto i cui ardori giovanili sono solo un ricordo, e con lo sguardo un po’ perso nel vuoto di chi non si raccapezza.
    Ci ritroviamo con un Giuseppe declassato in un’esistenza opaca: sposo senza moglie e padre senza figlio.
    Il testo a cui faremo riferimento per la nostra meditazione è quello relativo alla nascita di Gesù come viene narrata da Matteo.
    Il genere letterario del racconto è quello tipico degli “Annunci”.
    La figura centrale del racconto è appunto quella di Giuseppe, presentato nella sua fatica a discernere la volontà di Dio sulla sua vita. E’ la contropartita dell’annunciazione a Maria (cfr Lc 1,26-38). 

    v. 18:
    Nella legge giudaica con il fidanzamento, che avveniva dinanzi a testimoni, il contratto matrimoniale era già stipulato.
    La donna aveva generalmente dodici anni. L’uomo intorno ai diciotto.
    Il matrimonio avveniva in due fasi:  lo sposalizio e le nozze.
    Al termine della cerimonia dello sposalizio, che aveva come scopo il concordare la dote della sposa,  lo sposo pronunciava la formula: “Tu sei mia moglie”, e la donna rispondeva: “Tu sei mio marito”. Da quel momento erano effettivamente sposati pur continuando a vivere nelle rispettive case.
    La festa nuziale, con cui la sposa veniva introdotta nella casa del marito, intercorreva invece generalmente dopo un anno.  Nel caso nascesse un figlio nel periodo intermedio era considerato a tutti gli effetti figlio legittimo.
    E’ nel periodo intermedio tra lo sposalizio e le nozze che Maria si trova incinta “per opera dello Spirito santo”. Per Maria vi è un annuncio in cui viene chiarito il suo ruolo, e risolte le sue difficoltà. (cfr Lc 2).
    Come Giuseppe si sarà posto dinanzi alla gravidanza di Maria? Maria avrà parlato a Giuseppe, raccontandogli la sua esperienza? Probabilmente sì, ma come Giuseppe avrà reagito alle sue parole?
    Attraverso la contemplazione possiamo ipotizzarle: stupore? Preoccupazione? Ansietà? Dubbi? Perplessità? Gioia? Entusiasmo?…
    Possiamo intuire un cammino faticoso di Giuseppe nell’accoglienza di questo fatto: sarà passato da un sospetto iniziale, ad uno sconcerto, un disorientamento?
    Giuseppe vive la fatica di non riuscire a comprendere, a capire, non solo il fatto di Maria ma il senso della sua presenza in tutta questa faccenda.
    Quanto tempo sarà durato questa stato di cose incerto e sofferto?
    Noi cosa faremmo al posto di Giuseppe? Come reagiremmo? 

    v. 19:
    Il testo prosegue presentando un Giuseppe che tenta una soluzione. Come d’altronde tenta diverse soluzioni Abramo nei confronti dell’attualizzarsi della promessa. La sua quasi decisione è di farsi da parte in una situazione in cui non comprende il suo ruolo: questo comporta riconsegnare Maria al progetto che Dio ha su di lei.
    Matteo ci descrive Giuseppe che in questa decisione agisce nella sua qualità di uomo “giusto”.
    Ma di che giustizia si tratta?
    Non è la giustizia ossequiosa alla legge avrebbe prescritto a Giuseppe di ripudiare pubblicamente la moglie infedele. Non si tratta di una giustizia costituita solo da bontà, che detta un semplice atto misericordioso di ripudio segreto.
    Siamo forse di fronte ad una giustizia del tutto diversa: Giuseppe è l’uomo “giusto” timorato di Dio che di fronte al mistero che si sta compiendo nella sua sposa sente di non essere più al posto giusto, egli desidera mettersi in disparte.
    E’ giusto non perché stende un pietoso velo su Maria, ma perché non osa intromettersi in un mistero che lo sorpassa e che non riesce a comprendere.
    Si sente un “anawim”, egli ne fa parte, si sente piccolo, povero, timorato di Dio. E’ la giustizia degli “anawim”, di cui anche Zaccaria ed Elisabetta fanno parte (Lc 1,6).
    Egli pensa dunque di trarsi da parte, non vuole assolutamente attentare al vincolo matrimoniale.
    E neanche Maria può chiarirgli più di tanto il mistero in cui sono coinvolti, anch’essa vi entra come in un pellegrinaggio oscuro.
    La crisi di Giuseppe è tutta imperniata in funzione del chiarimento della sua missione.
    E’ qui che emerge Giuseppe in tutta la sua vera valenza! Un uomo che cerca, che si interroga, su quale è il suo compito nella vita. 

    v. 20:
    Matteo ci descrive dunque un Giuseppe che si interroga dolorosamente su cosa fare, per quale scelta optare. Non è soddisfatto della decisione che sta per prendere, ovvero di rimandare in segreto Maria: è perciò inquieto, rimugina nel sonno la sua difficile situazione.
    Matteo ci presenta un Giuseppe che viene raggiunto dalla Parola di Dio nel sonno, o meglio nel sogno. Il sogno nella cultura orientale è veicolo di trasmissione della rivelazione divina (cfr Gn 15,12; 37,5;…). Perché proprio nel sogno? Nella veglia ci si difende, censurando ciò che non si vuole. Nel sonno invece esce tutto in libertà. Il “giusto”, con il suo cuore libero, è aperto ai sogni di Dio: la sua parola può parlargli anche nel sonno delle altre parole. Il sogno come la nuce e il fuoco è elemento etereo che esprime più chiaramente la presenza di Dio.
    La parola raggiunge Giuseppe nel silenzio del suo ascolto.
    Il Signore sa che Giuseppe ha bisogno di una rassicurazione. L’angelo deve rassicurare infatti non solo Maria ma anche Giuseppe.
    Ecco allora la prima parola: “Non temere!”: il timore qui non è la paura, ma l’invito ad entrare nell’obbedienza della fede che domanda fiducia e collaborazione.
    Dopo questo invito il messaggero può aprire la mente e il cuore di Giuseppe al suo compito. Lo fa rivolgendosi a lui con un titolo solenne: “Giuseppe, figlio di Davide”.
    Così Giuseppe è introdotto nel grande contesto della storia della salvezza: nella promessa messianica che da Abramo, passa a Davide sino a giungere proprio a lui.
    Matteo infatti ha iniziato il suo vangelo con la geneologia che partendo da Abramo giunge appunto fino a Giuseppe. Secondo il ritmo del testo, in cui si ripete monotonamente il verbo “generare”, ci si attenderebbe che anche alla quarantesima volta si dicesse: “Giuseppe generò Gesù”. Invece, arrivato a Giuseppe, l’evangelista scrive: “Giuseppe, il marito di Maria, dalla quale è generato Gesù” (1,16).
    Che ruolo dunque avrà dato che Giuseppe è escluso dalla generazione di Gesù?
    Ecco che le parole del messaggero non spiegano la condotta di Maria, ma il posto che spetta a Giuseppe Il messaggero tocca il mistero con accenni delicati e riverenti: non ci si perde in chiacchiere e indiscrezioni. Si da una sola spiegazione: “Per opera dello Spirito santo”: è lo stesso contenuto della rivelazione fatta dall’angelo Gabriele a Maria: “Lo Spirito santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà” (Lc 1,35).
    Ma non perché il concepimento di Maria è miracoloso ciò significa che Giuseppe debba trarsi da parte!
    Giuseppe diviene padre del Messia senza che anch’egli abbia parte alcuna al suo concepimento, come anche Maria diviene madre senza che abbia conosciuto uomo. 

    v. 21:
    Quale allora il compito di Giuseppe?
    Maria partorirà un figlio, e compito di Giuseppe sarà di imporgli il nome “Gesù” che significa “Jhwh è salvezza”.
    Per gli israeliti il nome indicava la natura e la missione di un individuo. L’imposizione del nome quindi era un atto per così dire creativo che apparteneva di diritto al padre. Il bambino non viene chiamato, secondo l’usanza, con il nome del padre o del nonno, o di qualche antenato
    Ma nel caso di Giuseppe questo diritto appare limitato: il nome è dato da Dio stesso, il figlio è dono di Dio che domanda di essere riconosciuto e accolto. Anche in questo si rivela in Gesù una creazione del tutto nuova dono dall’alto e non frutto dell’iniziativa umana. Egli non è il figlio della carne e del sangue (cfr Gv 1,13), ma frutto unicamente dello Spirito.
    Sia la paternità di Giuseppe che la verginità di Maria hanno una funzione eminentemente cristologica. La loro verginità mette in luce l’azione libera e creativa di Dio nella storia. 

    v. 22:
    viene portata dal messaggero un’ulteriore conferma profetica. Il testo è di Isaia e riguarda l’Emannuele, profezia fatta al re Acaz in un momento tragico della storia del popolo di Israele: “Ecco: la vergine concepirà e darà alla luce un figlio e gli darà nome Emmanuele” (Is 7,14). Il testo di Isaia è uno dei caposaldi del messianismo regale.
    Con questa citazione il messaggero conferma la discendenza davidica tramite la paternità di Giuseppe. Gesù sarà “figlio di Davide” perché figlio di Giuseppe. La promessa si attua attraverso la fondamentale mediazione di Giuseppe.
    Come Maria da la carne al figlio, così Giuseppe gli dà il nome, lo iscrive e lo inserisce nella storia della salvezza.

    v. 24:
    Giuseppe fa come gli è stato ordinato. Un’obbedienza pronta e fiduciosa, scandalosa agli occhi della sapienza umana, molto simile a quella di Abramo. Nel silenzio accoglie il mistero. Dicendo “sì” a Maria dice sì al dono di Dio che è in lei. Quale sarà stato il grado di conoscenza che Giuseppe ebbe del mistero riguardante suo figlio? Avrà dovuto anch’egli come Maria “pellegrinare nella fede”, attraverso la prova, il buio, la speranza.
    Come avrà vissuto il rapporto con Gesù?
    E Gesù che tipo di rapporto avrà vissuto con il padre Giuseppe?
    Una riflessione ulteriore ci dovrebbe spingere a considerare il ruolo educativo che Giuseppe come padre ebbe nei confronti del figlio. Gesù come ogni figlio non avrà preso a modello nella sua crescita il padre, non sarà stato lui un punto di riferimento essenziale?
    Giuseppe come colui che educa alla fede e alla preghiera Gesù…
    Giuseppe come colui che introduce Gesù nella fatica del vivere attraverso il proprio lavoro e l’assunzione delle proprie responsabilità….
    La vera paternità non si risolve solo e anzitutto nell’atto biologico del generare. Si è padre soprattutto nell’assumersi il compito di educare alla vita quel figlio che ho davanti.
    E ancora: quanto l’umanità di Cristo ha avuto bisogno della figura di Giuseppe per raggiungere la sua completezza, e questo a tutti i livelli?
    Da tutto questo emerge uno spessore straordinario di Giuseppe nella storia salvifica. Il suo nascondimento e il suo silenzio più che adombrarlo manifestano il suo ruolo, sì nascosto e silenzioso, ma non per questo non meno fondamentale del ruolo di Maria.

  • 08 Dic

     

    Preghiera iniziale

    Invochiamo il dono dello Spirito perché ci apra alla conoscenza e all’intelligenza della Parola vincendo in noi le tenebre e le chiusure che si frappongono all’ascolto

     

    Lettura

    Il testo è di Luca 2,8-18: L’annuncio ai pastori

     

    Lectio

    Il brano ascoltato nell’intento di Luca vuole offrire la chiave di lettura teologica del significato della nascita di Gesù.

    Vedremo che per Luca riveste particolare importanza e rilievo il tema dell’annuncio che da significato all’evento stesso. Il racconto rappresenta il terzo annuncio del vangelo dell’infanzia. (a Zaccaria, a Maria e appunto ai pastori)

    I pastori:non siamo nell’interno della casa grotta dove Maria, aiutata da Giuseppe, ha trovato riparo e riservatezza per dare al mondo il suo primogenito.

    La scena si sposta all’esterno nei campi limitrofi del villaggio di pastori che è Betlemme.

    Alcuni pastori stanno vegliando e custodendo i loro greggi.

    Il fatto avviene di notte; ed è da notare che nella storia della salvezza gli avvenimenti salvifici più importanti avvengono di notte (cfr. es. l’esodo)

    Come mai l’annuncio dell’avvenimento salvifico si rivolge in primo luogo a loro? Perché sono i migliori, i più bravi, i più santi? No!

    Tutt’altro. Dio rivela la nascita del suo Messia proprio ad una delle celassi più umili e biasimate del tempo a causa dell’ignoranza della legge e dello stato di continua impurità legale.

    I rabbini dicevano che i pastori con i pubblicani difficilmente potevano salvarsi a causa del loro stile di vita. E’ proprio a costoro che il messaggio è dato per primo.

    Questi pastori rappresentano il nuovo popolo di Israele costituito da poveri e peccatori.

    Sono costoro che attendono un salvatore. Giusti e pii credono di non averne bisogno

    Un angelo: Angelo significa: “Colui che annuncia”. E’ colui che da la buona notizia.

    E una buona notizia apporta con sé gioia.

    Perché una notizia così importante darla a così pochi e a persone così? E’ la scelta di Dio questa.

    La buona notizia è data a pochi, ma attraverso questi a tutto il mondo. E’ l’economia dell’incarnazione: l’universale è mediato dal singolare, la parte è sacramento del tutto.

    Il limite è superato nella trasmissione dell’annuncio che dilata lo spazio della comunità fino agli estremi confini dello spazio e del tempo.

    Oggi… un salvatore: la gioia è motivata. Ci è dato un salvatore. E’ questo il centro dell’annuncio. La salvezza del regno irrompe nel mondo con la nascita di Gesù denominato con tre importanti titoli: Salvatore, Cristo, Signore. L’annuncio non è un’idea, una salvezza astratta, ma è un salvatore: colui che è in grado di assumere su di sé la nostra umanità povera, ferita, ammalata destinata alla morte e restituirla alla bellezza e alla gioia della vita.

    Luca insiste su quell’”Oggi”. Un oggi che si ripete nel momento in cui ci si apre all’ascolto della parola.

    Un  segno: l’annuncio accompagnato da un segno è necessario perché l’adempimento della promessa di Dio non può essere dedotta da ragionamenti o sforzi umani. Con la ragione non cercherebbero il suo adempimento certamente nella direzione indicataci dall’angelo: andrebbero al tempio o ai palazzi del potere: cercherebbero un Dio forte, potente. Il dio dei nostri desideri e della nostra paura.

    L’annuncio indica una direzione diversa: a Betlemme! Un bambino in una stalla! Lì si presenta un Dio piccolo, tremante, bisognoso, impotente, che si offre come cibo nella mangiatoia delle bestie. Questa rivelazione è fatta ai pastori.

    “Dio ama parlare con i semplici” (Pr 3,23s), non si rivela ai prudenti e ai sapienti (10,21.nulla di straordinario o di meraviglioso. Il segno è quell’umanità così normale di un bambino. Il “bambino” è segno stesso di Dio. “Dio è colui del quale non si può pensare nulla di più piccolo”.

    Andiamo e vediamo: I pastori ascoltato l’annuncio intraprendono il cammino. “In fretta” non bisogna lasciare che il kairos sfugga, l’occasione di grazia potrebbe non presentarsi più.  E’ un itinerario di fede. Senza questa obbedienza non potrebbero mai verificare la verità dell’oggetto dell’annuncio.

    A questa obbedienza i pastori si incoraggiano vicendevolmente.

    C’è perciò un udire, un andare, un vedere… a cui seguirà un annunciare.

    Tale obbedienza non nasce dai loro  ragionamenti, sillogismi, deduzioni: ma solo da una fiducia che porta ad accogliere la parola “non quale parola di uomini, ma quale è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete” (1Ts 2,13).

    Videro e riferirono…: i pastori “vedono” la realtà di ciò che il Signore ha fatto loro conoscere.

    E quello che vedono non possono tenerlo per  sé: è troppo importante. Ha toccato il loro cuore.

    Ciò che gli angeli hanno fatto in cielo, ora i pastori iniziano a farlo sulla terra: diventano angeli, annunciatori, mediatori della Parola. Si profila così la dinamica missionaria della Chiesa.

    Tutti si stupirono: la prima reazione è la meraviglia, lo stupore. La meraviglia pone nel cuore una domanda che attende una risposta. E’ il primo passo per un cammino da intraprendere. Il cuore così si apre ad una  novità che appare di primo acchito incredibile.

     

    Meditatio

    I pastori: una comunità di poveri

    Nei pastori scorgiamo i primi destinatari e i primi ascoltatori della Parola che a loro volta si fanno annunciatori della buona notizia. In essi si profila già la comunità dei credenti: la chiesa. Questa nasce dall’annuncio. Ed è una chiesa fatta di poveri e di ultimi. Noi forse vorremmo comunità diverse: perfette, composte da gente benpensante, che non dia problemi… Ma “ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,28) scrive san Paolo.

    In ascolto della Parola

    Senza annuncio non ci si apre alla fede. Senza ascolto non ci si mette in cammino.

    I pastori di Betlemme sono obbedienti all’ascolto, vi prestano fede. L’annuncio è efficace solo per chi ascolta. E’ solo l’obbedienza della fede che può aprirci alla constatazione della verità della Parola. Chi disobbedisce può sempre dire: “Vedi che non è vera la Parola!”.

    Non è facile quest’ascolto e questa obbedienza: in noi scattano molteplici resistenze che vorrebbero impedirci di abbandonarci alla fiducia! Queste resistenze rischiano di ritardare, ostacolare, bloccare l’incontro con la Parola che salva.

    Nella vita del credente e della comunità è essenziale che vi sia la dimensione dell’annuncio e dell’ascolto della Parola senza la quale non vi può essere iniziazione al cammino della fede.

    Il segno: alla ricerca del volto di Dio

    A Betlemme Dio rivela il suo volto e la sua scelta. Farsi piccolo, debole, bisognoso. Un Dio che per le attese religiose è deludente: noi ne vorremmo un altro che risolvesse immediatamente i nostri problemi. Dentro di noi coltiviamo volti e attese di Dio legate ai nostri sogni e al nostro immaginario dettati dalle nostre paure, desideri, insoddisfazioni, frustrazioni. Spesso ci creiamo un Dio che dovrebbe porre rimedio a tutto questo. Un Dio che  non incontreremo mai perché non esiste. L’annuncio di Betlemme ci chiede di metterci in cammino in una direzione diversa: a non cercare un Dio fatto a nostra immagine ma scoprire un Dio, che pur essendo nostra immagine, mi invita a scoprire il suo volto nella fragilità del bambino adagiato in un fienile per animali.

    Quale grandezza vi può essere a Betlemme e sul Calvario se non la grandezza dell’amore? Questa consiste nel farsi piccolo per lasciare spazio a tutti, cominciando proprio dai più piccoli.

    Quel bambino crescerà sempre più nell’ordine della piccolezza: sino al massimo livello che sarà la nudità della croce. . La sua grandezza si fa da noi abbracciare. Ecco il volto vero di Dio!

    Videro e riferirono: evangelizzati ed evangelizzatori

    Dopo aver ascoltato, messo in atto un cammino si può giungere a vedere, a toccare con mano. E quella verità che si è scoperta, che per noi è Gesù, non la possiamo tenere nascosta, solo per noi. La gioia è incontenibile, comanda di essere comunicata, annunciata a sua volta.

    “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi”. (1Gv 1,2-4).

    I pastori da evangelizzati si trasformano in evangelizzatori.

    Una comunità evangelizzata non può non divenire evangelizzatrice. Se non lo è non è forse perché non è sufficientemente evangelizzata?

      

    Oratio

    O Padre, noi ti ringraziamo per il dono di tuo Figlio.

    In lui è la tua mano che stendi,  nella notte,

    alla nostra umanità affinché si riapra alla speranza e alla vita.

    Ti ringraziamo perché anche oggi

    hai fatto risuonare ancora una volta l’annuncio di gioia:

    “Oggi è nato per voi un salvatore che è Cristo Signore”.

    Come i pastori ti chiediamo di aprire le orecchie del nostro cuore

    affinché si dischiudano con fiducia a questa Buona Notizia.

    Che i nostri cuori si aprano al tuo invito a porci in cammino,

    nonostante mille dubbi e fatiche,

    per vedere e toccare la fedeltà e l’adempimento della tua Promessa.

    O Padre la tua Parola in Gesù si adempie finalmente,

    ma questo adempimento ci lascia sbalorditi:

    rispondi in modo inaspettato, inatteso, forse scandaloso alle nostre attese.

    Vorremmo scoprirti potente, forte, glorioso

    e tu ci porti dinanzi a un Bambino tremante, debole, bisognoso.

    In lui vuoi rivelare al mondo il tuo vero volto:

    volto di un amore che si dona, inerme, disposto a lasciarsi ferire.

    Volto di un amore gratuito che nulla domanda se non d’essere accolto e abbracciato.

    Questa rivelazione, o Padre, si sconcerta, ci stupisce, forse ci delude

    ma nel medesimo tempo apre il cuore allo stupore,  alla meraviglia di un Dio diverso.

    Che questo stupore tocchi il nostro cuore.

    Che l’amore che rivela lo ferisca.

    E allora come potremo non annunciare quello che abbiamo udito, visto, toccato?

    In noi impellente sarà il bisogno di portare al mondo

    il dono che tu ci hai fatto. Amen.

     

    Actio

    Ciascuno a questo punto può liberamente davanti al Signore assumere un piccolo impegno che aiuti a concretizzare nel giorno di domani la Parola che abbiamo ascoltato.

     

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