Il cantico che troviamo nel capitolo 19 dell’Apocalisse, proposto dalla liturgia nel vespro della domenica, cattura immediatamente la nostra attenzione per la forza che lascia trasparire: è un’esplosione di lode e di gioia che scaturisce dal contemplare il risultato finale dell’operare di Dio nella storia. Il testo celebra le nozze dell’Agnello e si presenta come una sintesi dei temi trattati dal libro: l’opera di Dio si compie nel portare la comunità dei salvati a vivere definitivamente in relazione con lui. Alla Chiesa è consegnato il risultato definitivo del disegno di Dio, già efficacemente compiuto in Cristo Signore: è la presenza tra noi del Risorto che la liturgia celebra. La comunità che ha conosciuto la fatica del travaglio, il tempo della prova, può contemplare la futura riuscita del cammino; così coloro che ancora vivono nel presente le contraddizioni della vita possono affrontarle con fiducia sapendo che Dio si è già compromesso nel garantire la riuscita finale.
Anche per questo cantico il richiamo al contesto della narrazione permette di cogliere la ricchezza del messaggio, mentre l’attenzione alla struttura del testo, alle sue articolazioni, suggerisce le vie per poterlo condividere come comunità di credenti in Cristo Signore.
Contesto
Il capitolo 19 dell’Apocalisse fa da contrappunto ai precedenti capitoli 17 e 18: al crollo di Babilonia, la città empia, simbolo dell’idolatria e della contraffazione di tutti i rapporti, viene ora opposta la fìgura dell’umanità salvata, frutto dell’azione di Dio, del suo regno. Babilonia è stata presentata come «la grande prostituta» (Ap 17,1), simbolo massimo del male: è l’umanità chiusa nella propria autosufficienza, nella ricerca di un lusso sfrenato conseguito a spese dei poveri e addirittura di vite umane (18,11-13). Ora, in forza dell’intervento di Cristo, viene proclamata la caduta di questa città e del male che rappresenta e si può cantare la lode per l’esito felice dell’azione di Dio. Potrà quindi apparire in tutta la sua gloria la «città-sposa», la Gerusalemme nuova (Ap 21).
Su questo contrappunto va dunque ricostruito il tessuto del testo e il suo messaggio. L’umanità, costituita dai «suoi servi» (v. 5), è ormai la «sposa pronta», che ha risposto agli inviti dell’amore pasquale del Signore, «l’Agnello» (v. 7), e che ora è capace di vivere con lui in un rapporto di piena reciprocità.
Coloro che fin dall’inizio si sono messi in ascolto (Ap 1,3), che hanno seguito fino a questo punto il cammino presentato dall’autore e hanno imparato a leggere la storia dal punto di vista di Dio, sono ora pronti a guardare il futuro che li attende e a vivere il presente lasciandosi guidare da questa prospettiva.
Spiegazione
Prima strofa: la lode dei servi di Dio
Alleluia!
Per quattro volte in questo cantico risuona l’«alleluia»: l’invito a lodare Dio. L’espressione, che letteralmente significa «lodate JHWH», è ripresa dai Salmi, in modo particolare dal cielo del-l’Hallel (Sal 113-118), che si cantavano nelle grandi feste e specificamente nella celebrazione della cena pasquale. P significativo ricordare che questa espressione si trova nel Nuovo Testamento solamente in questo passo: ciò evidenze come in esso si porti a termine tutto il percorso là delineato e volto a celebrare le nozze dell’Agnello. Quest’invito alla lode porta perciò con sé la ragione che la suggerisce: la Pasqua del Signore.
Salvezza, gloria e potenza sono del nostro Dio; perché veri e giusti sono i suoi giudizi.
Il motivo della lode è espresso con tre qualifiche: salvezza, gloria e potenza, che come fiutti successivi, dalla foce consentono di risalire alla sorgente: il felice frutto dell’azione di Dio in noi è salvezza che recupera la nostra dignità riscattandoci dalle ferite della storia, manifesta la gloria di Dio, ossia la sua capacità di essere efficace, ed esprime la sua energia di vita, la sua potenza.
Nel contesto dell’Apocalisse questi termini assumono anche un risvolto polemico. Infatti, essi erano abitualmente utilizzati per proclamare le prerogative imperiali. L’imperatore romano, l’augusto, era qualificato come «salvatore e benefattore», «signore giusto»; collaborare al mantenimento del suo potere e all’ordinamento al quale presiedeva significava avere cura della salvezza. L’Apocalisse presenta l’autentico significato di queste espressioni riferendole esclusivamente a Dio e così contesta ogni loro errata applicazione.
In tutto questo brillano i giudizi di Dio come «veri e giusti». La comunità di lode, che ha imparato a fidarsi del suo Signore nel tempo della prova, riconosce che egli non è assente dalla storia. Ora vede come la non indifferenza di Dio rispetto alle vicende umane si traduce in interventi efficaci, che danno compimento alle sue promesse. Loro effetto è anche smascherare il male, mostrando il suo carattere distruttivo, segno chiaro che non ha ragione d’essere (v. 2b).
Lodate il nostro Dio, voi tutti, suoi servi, voi che lo temete, piccoli e grandi.
L’alleluia di apertura risulta così ben motivato e può essere ripreso e amplificato da tutti coloro che sono stati fatti oggetto della benevolenza di Dio: la loro esperienza della salvezza li rende soggetti adeguati a esprimere la lode. Sono i suoi servi (cf. già Ap 1, 1; 11,8; 19,2), quelli che sono entrati in confidenza con lui, hanno accolto e condiviso i suoi disegni, il suo stile. Sono coloro per i quali l’amore di Dio non è barattabile con niente altro, merita un consenso assoluto (temono Dio). Essi vengono qui qualificati come piccoli e grandi: entrambi i gruppi sono davanti a Dio nell’identica posizione di servi: non c’è dignità che possa risultare superiore (cf. Ap 1 1, 8).
Seconda strof’a: il regno di Dio si compie nelle nozze dell’Agnello
Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente.
Motivo della lode è ora il fatto che Dio ha realizzato la sua regalità: il suo essere l’Onnipotente si è tutto tradotto in azione di salvezza per noi. Il risultato di ciò è che noi siamo abilitati alla piena comunione con l’Agnello: il Signore Gesù, qualificato dalla sua Pasqua, dal suo amore divenuto evento nella nostra storia. Questa piena comunione è indicata con l’immagine delle nozze.
Sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta:
le fu data una veste di lino puro splendente.
Il simbolismo nuziale ha un retroterra biblico molto ampio. Già in Is 54,5-8; Os 2; Ez 16,7ss, JHWH viene paragonato a un marito che si è unito a Israele e si aspetta, come da una sposa, piena fedeltà. Nel Nuovo Testamento l’immagine è usata con chiaro riferimento alla presenza del Messia (cf. Mc 2,18-22 par.; Mt 22,1-14; Gv 3,29; 2Cor 11,2; Ef 5,24-32). Lo stesso giudaismo rabbinico ha interpretato in senso messianico il Salmo 45 che celebra un matrimonio regale; e sempre secondo la prospettiva delle nozze messianiche la tradizione patristica interpreta il Cantico dei Cantici. Nell’Apocalisse il tema appare qui per la prima volta e verrà poi ripreso e notevolmente sviluppato nel capitolo 21.
La regalità di Dio non vuole essere accolta che nella libertà dell’amore: ecco che cosa esprime il simbolo delle nozze dell’Agnello. Dio regna perché ama e si rende disponibile senza limiti. Tutto il suo operare tende unicamente a suscitare nell’uomo questa libertà per renderlo capace di corrispondere all’amore divino. E questo obiettivo che rende vulnerabile e al tempo stesso mirabile l’azione di Dio nella storia: essa manifesta il suo vero valore quando non si impone, ma si propone alla libera accoglienza che l’amore suscita e realizza.
Il contenuto della salvezza è metterci nella condizione di vivere in modo filiale la nostra libertà umana personale, tramite il Figlio suo Gesù: ad essa Dio incessantemente ci prepara. Questo è il significato della veste nuziale data alla sposa (v. 8a) che ne esprime la personalità (cf. per contrappunto Mt 22,11-13). L’autore dell’Apocalisse sente il bisogno di precisare il contenuto di questa condizione, affermando che «la veste di lino sono le opere giuste dei santi» (v. 8b).
Rallegriamoci ed Multiamo, rendiamo a lui gloria.
La gioia diventa la permanente condizione di vita della comunità dei servi e questa coincide con il proclamare la gloria di Dio. l] verbo, ora alla prima persona plurale (rallegriamoci), sottolinea il carattere esistenziale della lode; è ormai la nostra stessa esistenza, salvata e compiuta, che proclama Inefficacia dell’azione di Dio tra noi e in noi. Nel suo volgersi a noi, Dio ci riscatta da ogni schiavitù, ci valorizza pienamente e così libera in noi la gioia. La sua gloria è la nostra gioia. La nostra gioia è l’eco della gloria di Dio in noi.
Tre affermazioni di fondo reggono dunque questo cantico, quasi a sintesi dell’intero messaggio dell’Apocalisse: Dio ha operato secondo i suoi giudizi (effettivamente reali e coerenti con le sue promesse); ha realizzato il suo Regno, ha portato a termine la sua azione di salvezza, ha esplicato tutta l’efficacia del suo essere rivolto a noi; ha celebrato le nozze dopo essersi preparata la sposa, ossia ci ha resi adatti e ci ha accolti nella sua comunione.
Nell’umanità di Gesù tutto questo è già pienamente compiuto, come nel «testimone fedele, primogenito dai morti, principe dei re della terra» (Ap 1,5). Su questo percorso la Chiesa è sollecitata a camminare dalla memoria della Pasqua del Signore, di cui riconosce nella liturgia la permanente fecondità. Rendendosi familiare con i giudizi di Dio e assecondandone l’azione regale, del tutto espliciti nella passione e risurrezione di Gesù Signore, la Chiesa entra nella pienezza della vita, partecipando alla comunione del Figlio con il Padre. Nel suo modo di vivere, già fin d’ora, essa è così profezia del mondo riuscito, umanità che lascia vedere il volto non dell’abbandonata, ma della sposa.
Ben si comprende la scelta della liturgia di riservare al vespro della domenica questo cantico. Esso infatti raccoglie le tre dimensioni del giorno del Signore: memoria della Pasqua; presenza della salvezza nel sacramento della commensalità; anticipazione della sua piena efficacia escatologica nelle primizie della comunione fraterna. Oltre questo, ricchezza del nostro vespro domenicale, non rimane che l’ultima invocazione: «Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni!» (Ap 22,17). E «Colui che attesta queste cose dice: Sì, verrò presto!» (Ap 22,20).
Significati per la nostra vita
Il grande canto di lode, che parte dal cielo, si allarga alla terra per terminare di nuovo in cielo, dove si celebrano le nozze di Cristo-Agnello con la comunità dei redenti, porta a chiederci qual è la prospettiva della comunità ecclesiale che ascolta e fa proprio questo canto e, dunque, cosa esso può suggerire a noi oggi.e Il cantico invita a lodare il Signore perché si riconosce la sua efficace azione nella storia. Mentre ancora viviamo un preSente segnato da contraddizioni, dove il male fa sentire la sua forza, siamo sollecitati ad allargare gli orizzonti e ad affinare lo sguardo per riconoscere come la salvezza già operata in Cristo è il criterio di lettura di ogni evento, che ci autorizza a cantare la lode di Dio anche dentro la fatica del nostro tempo. La riuscita dell’azione di Dio ci permette di vedere con chiarezza il male presente nella storia, ci impedisce di dargli false giustificazioni e ci conforta mostrandoci la sua inconsistenza.
La comunità che loda il suo Signore non lo fa con animo disimpegnato, ma trae da questo atteggiamento la forza per contestare ogni pretesa di assolutezza da parte di poteri e realtà terreni. La lode autentica toglie spazio alla pretesa autosufficienza che si costruisce con la sopraffazione degli altri a partire dai più deboli, mentre nel guardare all’azione del Padre di tutti plasma in noi un animo grato e fraterno, che sa disporre nella storia di tutti i giorni le azioni ad esso corrispondenti.
Dalla comunità di lode non scaturisce una contestazione violenta, ma la testimonianza ferma di una libertà ritrovata che sola dà respiro alla vita umana. Infatti, la contestazione del male ancora presente nella storia ha come motivazione la volontà di vivere in modofiliale efraterno la nostra libertà personale. La comunità dei credenti non è solamente l’invitata alle nozze dell’agnello, ma è la sposa che Dio stesso ha preparato: questa è la dignità a cui siamo chiamati! Restando aperti all’azione di Dio maturiamo questa consapevolezza e impariamo ad apprezzare noi stessi e quindi ogni fratello per questa dignità e non in base alle prestazioni offerte, ai titoli conseguiti o a qualsiasi altro criterio che inesorabilmente porterebbe a stabilire livelli differenti di dignità tra le persone.
L’sperienza di una ritrovata libertà filiale va riconosciuta e custodita come dono che sempre ci viene da Dio. Questo porta a dare voce con la nostra gioia vissuta e celebrata alla gloria di Dio. Proprio perché è lui a custodire la nostra identità possiamo vivere liberi dal timore di perderla, dall’angoscia di doverla preservare gelosamente dagli assalti di chi ci sta accanto. Possiamo perciò esprimere in pienezza quello che siamo, dare voce alla nostra libertà, alla pienezza della nostra umanità, e proprio in questo lasceremo trasparire la gloria di Dio. La relazione con Dio viene così sperimentata come fonte di libertà. La vita cristiana non mortifica la nostra umanità, ma apre lo spazio per la sua espressione compiuta donandoci di viverla nella condizione riliale. Dove la paura ha termine, non è ancora tolta la fatica del vivere, ma è aperta la fonte della gioia che può sostenere nella prova presente.
Possiamo perciò fare festa perché il Signore viene a fare festa con noi. La festa vera ha in lui il motivo portante e la ragione ultima. La vita della comunità cristiana è tutta segnata da questa esperienza: la quotidianità della sua esistenza ne è plasmata, la liturgia ne indica la fonte. Siamo pertanto sollecitati a celebrare questa esperienza ecclesiale veramente nel segno della festa. Vivere ed esprimere con autenticità questa dimensione fa della Chiesa una credibile profezia del mondo futuro, di quell’umanità riuscita che in Gesù Cristo Dio Padre ha già predisposto per tutti.
Preghiera finale
Cristo, sii lodato,
perché ci inviti a elevare il nostro cuore.
Sii lodato:
tu nascondi la nostra vita in te.
Sii lodato:
tu conformi la nostra vita alla tua.
Sii lodato:
tu riversi su di noi la gioia nuova.
Facci crescere nell’amore senza confini,
nell’amore del Regno che è in noi,
nell’amore delle beatitudini.
Donaci la tua potenza:
agisca in noi, affìnché il tuo mistero
riempia di coraggio i nostri cuori.
In te è il nostro riposo e la nostra fatica.
Da te proviene la nostra speranza.
verso di te si eleva la nostra preghiera.
Rialzaci, liberaci.
Benedetto sei tu, perché semini in noi la gioia beata di Dio,
che ci vuole con lui, oggi, domani e sempre.
Dal Magistero della Chiesa
Il cristianesimo è la religione dell’amore, in cui il dovere è integrato e oltrepassato. Per questo è anche la religione della gioia. Non a caso la figura letteraria della «beatitudine» è piuttosto frequente nella Bibbia. Come mai allora molti credenti non mostrano di essere particolarmente felici? Qual è la via cristiana della felicità? [… 1 La gioia cristiana, che può coesistere anche con la sofferenza, è partecipazione cristiana alla Pasqua di Cristo: «Come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione» (2Cor 1,5); «Abbiamo questo tesoro in vasi di creta… portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2Cor 4,7.10). La via della vita e della gioia, indicata dalle beatitudini evangeliche, è la via della fede e dell’amore, che riscatta anche le situazioni negative. In essa Gesù ci precede come modello personale, normativo e pieno di fascino. (Dal Catechismo degli adulti La verità vi farà liberi,nn. 852.856.866)
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