• 12 Ago

    Nel villaggio multiculturale

    Lectio di Atti 8,26-40

    di p. Attilio Franco Fabris

    Volti di colori diversi, lingue diverse, diverse culture e religioni: il mondo va trasformandosi in un piccolo villaggio multiculturale. Ci incrociamo frettolosamente mille volte sulle nostre strade, ciascuno verso la sua meta. Ciascuno portando nel cuore insieme attese e speranze insieme a delusioni e talvolta grossi pesi di sofferenza. Tanti “perché?”che invocano una risposta che non si sa da dove possa giungere, affollano la mente della persona che incontriamo sull’autobus, al supermercato, o sulla metropolitana.

    Ma l’indifferenza se non talvolta il sospetto, la diffidenza o addirittura la paura impongono tra noi e i “diversi”, i “lontani”, una distanza di sicurezza, un allontanamento: innalziamo steccati e muri per difenderci da un presunto pericolo che l’ “altro” sembra inevitabilmente rappresentare.

    O Spirito del Signore risorto tu sei al lavoro in questa onnipresente e sempre incipiente Babele, tu pervadi ogni cosa: vuoi abbattere ogni distanza e indifferenza, vincere ogni timore, disintegrare ogni muro innalzato dalla nostra angoscia. Con la croce di Cristo tu vuoi disintegrare ogni barriera: “Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo” (Ef 2,14). In te le differenze si trasformano in meravigliosa ricchezza e varietà di doni che vicendevolmente ci arricchiscono. Tu desideri farci incontrare perché “i nemici si aprano al dialogo, gli avversari si stringano la mano, i popoli si incontrino della concordia” (Pregh. Eucarist. Riconc. II).

    Solo così ci trasformeremo in compagni di viaggio gli uni per gli altri. E  a tutti, noi discepoli di Gesù,  offriremo d’udire la sua Parola che salva, la sola capace di offrire vere risposte e aprire nuovi insperati orizzonti di cammino.

    Lectio

    Il vero protagonista si presenta subito nel testo: è lo Spirito del Signore, mediato dalla figura dell’ “angelo”. L’iniziativa dell’annuncio non appare come iniziativa dell’uomo ma dello Spirito del Signore stesso. Da parte dell’angelo vi è un preciso comando: “Alzati e va!” (v. 26).

    L’ubbidienza di Filippo è immediata, senza alcuna obiezione e resistenza. Quest’obbedienza è encomiabile perché umanamente il comando è ambiguo, appare come un controsenso: dirigersi infatti in una “strada deserta verso l’ora di mezzogiorno” significa rischiare di non incontrare nessuno perdendo il proprio tempo e spendendo inutilmente energie. Filippo parte e mentre il nostro è incamminato sotto il sole cocente di mezzogiorno “ecco…”: un senso di sorpresa e di attesa pervade improvvisamente il nostro racconto. Sta giungendo un carro sul quale c’è qualcuno che sta leggendo ad alta voce un rotolo di un libro.

    Il personaggio che Filippo incontra viene descritto con particolare minuziosità dall’autore degli Atti. Viene offerta all’ascoltatore una sua descrizione a vari livelli: etnico, religioso, sociale.

    In primo luogo viene detto che è un “etiope”: l’Etiopia è la nazione posta ai confini della terra abitata  e civilizzata, rappresenta “gli estremi confini della terra” (cfr 1Sam 2,10). Nei testi profetici è interessante notare come l’Etiopia sia nominata tra i popoli che Dio vuole condurre a Gerusalemme alla fine dei tempi. Lo stesso Gesù darà il mandato ai suoi di “essere testimoni fino ai confini della terra”. L’incontro di Filippo con l’etiope realizza così in germe questa promessa e attesa messianica.

    In secondo luogo ci viene presentata la sua fisionomia religiosa. Il nostro etiope è “venuto per il culto a Gerusalemme”. Probabilmente si tratta di quella categoria denominata da Luca col termine di “timorati di Dio”, sono i pagani simpatizzanti del giudaismo di cui accolgono il monoteismo e alcune indicazioni morali ma che non appartengono di diritto al popolo di Israele. Non si tratta dei “proseliti” che a pieno titolo potranno un giorno entrare nel popolo di Dio mediante il rito della circoncisione. Questa considerazione viene rafforzata dal fatto che egli è classificato come “eunuco”. E’ l’aspetto peculiare col quale Luca presenta insistentemente il nostro personaggio. Questa menomazione fisica nell’antichità era contrassegnata da grande disprezzo. Dal punto di vista religioso di Israele l’eunuco è una persona permanentemente impura e quindi esclusa irrimediabilmente dall’assemblea cultuale. Non mancano tuttavia alcuni riferimenti profetici nei quali affiora per i tempi messianici la possibilità che anche gli eunuchi possano un giorno far parte a pieno titolo del popolo dell’alleanza (cfr Is 56,3-8; Sap 3,14-15). E’ un personaggio che Luca sembra voler perciò affiancare a quei “disprezzati” e “ultimi” ai quali viene annunciata la Buona Notizia di Gesù.

    In terzo ed ultimo luogo il testo ci offre l’indicazione del suo “status” sociale:è  “funzionario di Candace, regina di Etiopia, sovrintendente a tutti i suoi tesori”. È quindi un uomo di alto rango, prestigio, cultura e ricchezza. Un rango e una ricchezza che non gli impediscono tuttavia di vivere in profondità una esperienza di “morte” interiore e di umiliazione arrecatagli dalla sua menomazione.

    L’annuncio di Filippo sarà proprio un invito ad affidare la realizzazione della sua vita non alle ricchezze e al prestigio sociale che possiede ma alla promessa del Signore.

    L’eunuco etiope è certamente rappresentativo dell’uomo in ricerca: egli sul carro sta leggendo il rotolo del profeta Isaia. Il diacono Filippo si mostra estremamente rispettoso di questa ricerca. Non la interrompe prepotentemente nell’ansia di inculcare certezze, non tenta di pilotare il discorso in direzioni precostituite. Egli sapientemente si introduce con una semplice domanda: “Capisci ciò che stai leggendo?” (v.30). La risposta è una richiesta indiretta di un aiuto che lo introduca, al di là della lettura, alla comprensione più profondo, diremmo esistenziale: “E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?” (v. 31).  Non basta dunque leggere, occorre “comprendere”! Ecco allora Filippo proporsi come compagno in questo cammino di “comprensione”.

    Filippo tesse la sua opera di evangelizzazione a partire dalla Scrittura che viene a rivestire un ruolo centrale. Questo cammino che si dipana lungo la strada non sarà solo fisico, geografico, ma soprattutto interiore, un cammino che si trasforma in una forte esperienza di condivisione della Parola dalla quale sola può nascere la fede.

    Il testo di Isaia sul quale si impernia la condivisione è estremamente significativo; ci offre uno spiraglio per comprendere che tipo di evangelizzazione compie Filippo nei confronti dell’eunuco.

    Chiave di volta è la domanda rivolta dall’eunuco a Filippo: “Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?” (v. 34). Non è solo curiosità, egli probabilmente avverte che tale testo potrebbe parlare anche alla sua esperienza aprendogli uno spiraglio di speranza. Non a caso il brano offrirà la possibilità di introdurre l’ascoltatore alla centralità del mistero di umiliazione e esaltazione di Gesù di Nazareth e nello stesso di parlare di riflesso alla reale condizione dell’eunuco.

    Per giungere a tale scopo Luca estrapola dal testo di Isaia alcuni versetti tralasciandone altri al fine di porre in evidenza l’aspetto di umiliazione che rappresenta la morte violenta del Servo di Dio la quale sembra “recidere” drammaticamente e irrimediabilmente ogni sua speranza di discendenza (“la sua vita è stata recisa dalla terra”!). Nonostante questo dramma la potenza di Dio è in grado di ribaltare questa situazione in un rinnovato dono di vita. Ma allora non potrebbe tutto questo potersi riferirsi anche all’esperienza di morte e umiliazione che l’eunuco vive in sé nella sua impossibilità di generare? Egli fissando gli occhi sul Servo sofferente non potrebbe appellarsi ad una speranza di vita, di reintegrazione? L’annuncio di Filippo consisterà nel testimoniare Cristo crocifisso e risorto come promessa di realizzazione di tale speranza.

    Il cuore dell’etiope si apre all’ascolto e all’obbedienza della fede che da esso scaturisce. E’ un itinerario, un cammino di evangelizzazione – di catecumenato potremmo dire in altri termini – al termine del quale si pone come apice la richiesta dell’eunuco: “Ecco qui c’è dell’acqua: che cosa impedisce che io sia battezzato?” (v. 36).  Nella umiliazione della croce e nell’annuncio della resurrezione ogni impedimento può essere decisamente superato, il velo del tempio è stato infatti definitivamente strappato. La domanda dell’eunuco è un forte invito alla comunità cristiana giudaica a superare ogni resistenza, blocco, pregiudizio nella proposta dell’evangelizzazione a tutti i popoli, ad ogni uomo e donna in qualsiasi situazione essi si trovino.

    Filippo si mostra docile non opponendo riserve e resistenze: “e discesero tutti e due nell’acqua, Filippo e l’eunuco, ed egli lo battezzò” (v. 38). Il momento sacramentale pone il sigillo sul cammino iniziatico svolto.

    Al termine le strade dei due si dividono: Filippo è nuovamente “rapito dallo Spirito” e trasportato esattamente alla parte opposta della terra santa: vi sono altri confini da superare, altri popolo da evangelizzare. Da parte sua l’eunuco prosegue la sua strada “pieno di gioia”: è la gioia di colui che ha udito, toccato e veduto la salvezza che gratuitamente in Cristo gli è stata offerta e che lo ha trasformato a sua volta in evangelizzatore.

    Collatio

    Il brano che narra dell’incontro e dell’annuncio dell’evangelo da parte del diacono Filippo all’eunuco etiope è di una ricchezza sorprendente.

    Il primo aspetto che si evidenzia è l’imprevidibilità di questo incontro che sembra nascere dal caso, ma che in profondità è da sempre pensato e progettato dalla Provvidenza di Dio. Anche nell’incontro più inaspettato, strano, imprevisto lo Spirito può agire perché, attraverso l’ascolto e il dialogo, sia offerta all’interlocutore la possibilità di udire la Buona Notizia. Non è un annuncio di massa, anonimo: qui si parla di un annuncio “personalizzato” che raggiunge la persona nella sua concreta e unica  situazione.

    Perché questo si attui necessitano due condizioni: la prima è che l’evangelizzatore, in questo caso Filippo, sia docile, si colga realmente come ministro di una Parola che non gli appartiene ma di cui è semplicemente servitore, e questo fa sì che egli assuma un atteggiamento di totale disponibilità, senza resistenze, pregiudizi, calcoli.

    La seconda condizione è che a sua volta l’interlocutore, in questo caso l’eunuco etiope, si lasci raggiungere dalla Parola, entri in una dinamica di ascolto, di dialogo e di confronto con essa, vincendo anche da parte sua resistenze, paure, pregiudizi.

    L’incontro narrato negli Atti è straordinario proprio perché queste due condizione si presentano, per così dire, allo stato puro. E la conclusione non può essere che una: l’annuncio gioioso da parte dell’evangelizzatore e l’accoglienza piena della Buona Notizia da parte del “catecumeno”.

    Riflettendo su questo incontro la nostra riflessione deve puntare sulla nostra capacità e disponibilità a quell’annuncio che in termini ormai usuali viene definito “nuova evangelizzazione”. Filippo ha il coraggio di percorrere strade realmente nuove, apparentemente improduttive e “stravaganti”, prive di quelle “masse” che facevano la gioia un tempo di tanti predicatori. Ha il coraggio di modalità diverse dettatagli dallo Spirito del Signore: non oppone a questa nuova possibilità ragionamenti fatti di convenienze, comodità, certezze consolidate.

    Da parte nostra troppo spesso dobbiamo riconoscere, come ripetono gli ultimi documenti della CEI, come la nostra pastorale, in un mondo che cambia in questa nostra cultura ormai multietnica,  stenti a decollare in vista di una autentica nuova evangelizzazione, essa è ancora troppo preoccupata della “conservazione dell’esistente”: ancora troppo temiamo di percorrere strade nuove e deserte, e perciò ci accontentiamo del poco di sicuro che ancora ci sembra di possedere ma che vediamo lentamente sgretolarsi tra le mani.  “Teniamo duro” nonostante tutto, con sforzi immani cerchiamo di conservare,  di resistere, ma fino a quando e con quali frutti?  Ci condanniamo a perpetuare stili, modalità, tempi e luoghi di annuncio che ormai hanno fatto il loro tempo e non parlano più all’uomo d’oggi. La vita religiosa con la sua prerogativa di stile profetico, sembra anch’essa annaspare confusa e incerta in quale direzione incamminarsi. Lo Spirito e la Chiesa oggi ci domandano altro.

    La pastorale di evangelizzazione, in questa nostra società multietnica, è tutta da inventare, da sperimentare. Questo significa avventurarsi nel nuovo, nell’incerto, ed è per questo che forse si ha paura di rischiare. Meglio impegnarsi nel ripercorrere avanti e indietro le solite strade anche se poi il ritornello “così non si può andare avanti” continua un po’ dappertutto a risuonare.

    Intraprendere come Filippo strade nuove significa accogliere l’invito a quella “conversione pastorale” a cui più volte richiama il documento dei vescovi italiani “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” (cfr n. 46).

    Dalla parte dell’uditore la riflessione approda ad altre considerazioni. La figura dell’anonimo eunuco etiope rappresenta emblematicamente tutti coloro che sono in un atteggiamento di autentica ricerca. A qualsiasi popolo, cultura o religione appartengano gli uomini ricercano un senso, una risposta a quegli interrogativi che sono di tutti e di tutti i tempi. Dobbiamo divenire attenti nell’ascoltare la domanda che più o meno esplicita colui che ci sta accanto ci rivolge. Ma può capitare che la nostra ottusità ci renda sordi e ciechi, i nostri preconcetti ci facciano assumere atteggiamenti precostituiti e negativi che impediscono ogni aggancio. Dobbiamo imparare a prestare attenzione, ascolto, accoglienza facendoci discreti compagni di viaggio. La Parola è una spinta a superare quelle barriere che spesso comodamente vorremmo frapporre, per rassicurarci, fra i cosiddetti “vicini” e “lontani”: ma chi può realmente giudicare la vicinanza o meno del cuore che autenticamente ricerca Dio? I nostri criteri sono così ristretti, siamo talvolta ciechi nel non riconoscere il bene e la verità dove meno ce lo aspetteremmo.

    La Parola che gratuitamente abbiamo udita e accolta ci chiama a farci  attenti ad ogni persona, in qualsiasi situazione essa si trovi: a tutti la Parola gratuitamente deve essere ridonata.

    Comprendiamo allora la necessità per la chiesa, per le nostre comunità, di una continua conversione per eludere il rischio di una colpevole chiusura alla grazia dell’evangelo destinato ad ogni uomo. La Chiesa è fatta per evangelizzare!

    E quando la Chiesa evangelizza riscopre nella Parola annunciata la gioia della Buona Notizia e del suo esserne strumento: a tutti deve essere rivolto l’annuncio del nostro essere stati raggiunti da una grazia inestimabile: quella di sentirci amati e accolti da Dio come fratelli, tutti allo stesso modo, e nessuno è escluso da questo sovrabbondante dono. Un incontro di tal sorta non può che trasformarci tutti in nuovi evangelizzatori, in portatori della Buona Notizia facendoci compagni di altri uomini e donne che  a nostra volta incontreremo sul nostro cammino.

    Oratio

    Sulle strade delle nostre città che gli uomini e le donne percorrono spesso oppressi da una solitudine senza risposte siamo da te, o Signore, invitati ad incamminarci, senza calcoli, né progetti ma fiduciosi unicamente nella forza della Parola che ci hai consegnato. Che essa sia annunciata al mondo intero. Tu ci vuoi sulle strade di questo mondo incontrando uomini e donne d’ogni razza, lingua, cultura e religione, e ci mandi senza due tuniche, né bisaccia, né denaro, ma ricchi solo della Buona Notizia che ci hai affidato.

    Rendici capaci di farci compagni di viaggio dei nostri fratelli. Non freddi saccenti con risposte arroganti sempre pronte e stereotipe, ma umili servitori della tua Parola. Fa’ che diveniamo capaci di accoglienza, di ascolto, di dialogo fraterno e sincero. Solo così, insieme, ci apriremo alle sorprese del tuo Spirito capace di allargare il cuore di ciascuno alla grazia dell’evangelo.

    Vinci, o Signore,  le nostre comodità, le nostre paure e resistenze, i nostri tentativi di ripiegarci nella sicurezza delle nostre sacrestie e nel percorrere strade ormai imparate a memoria, incapaci di suscitare in noi meraviglia ed entusiasmo.  Donaci, Signore, il coraggio di lanciarci sulle strade impreviste, e talvolta scomode, sulle quali tu ci vuoi.

    Nella forza della tua Parola nascerà, con colui che incontreremo, condivisione e comunione: le barriere saranno vinte, i pregiudizi abbattuti. E il mondo diventerà casa di fratelli da incontrare col sorriso e un abbraccio di pace.

  • 16 Apr

    Dov’è il tuo Dio?

     

    Lectio del Salmo 88

     

     di p. Attilio Franco Fabris

      

     Chiediamo allo Spirito di aprirci all’ascolto della Parola e della vita. Quest’ultima porta in sé tante domande, dubbi e incertezze: è necessario che la fede, che scaturisce dall’ascolto della Parola, sostenga il nostro cammino fatto spesso di timidi e barcollanti passi. Infatti prima o poi la prova fisica, morale o spirituale, investe il cuore ingaggiandovi una cruda battaglia. Battaglia del dolore che segna lo scaturire impetuoso di un grido che contiene una domanda rivolta a Dio stesso: “Se ci sei… perché?”. Tante certezze iniziano allora a vacillare, vengono meno le risposte scontate, le sicurezze crollano, i dubbi acquistano consistenza e pesantezza. In questi momenti si ha bisogno di qualcuno che ci prenda per mano; abbiamo bisogno di un volto, di una parola che infonda una rinnovata speranza, a volte umanamente impossibile.
    Invochiamo lo Spirito perché faccia toccare la vicinanza del Padre nella nostra vita e in quella di tanti fratelli e sorelle segnati in questo momento dalla prova e dal dubbio.
    “Vieni, Signore, passi il tuo soffio come la brezza primaverile
    che fa fiorire la vita e schiude l’amore,
    o come l’uragano che scatena una forza sconosciuta
    e solleva energie addormentate.
    Passi il tuo soffio nel nostro sguardo
    per portarlo verso orizzonti più lontani e più vasti.
    Passi il tuo soffio sui nostri volti rattristati
    per farvi riapparire il sorriso,
    sulle nostre mani stanche
    per rianimarle e rimetterle gioiosamente all’opera.
    Passi il tuo soffio fin dall’aurora
    per portare con sé tutta la nostra giornata in uno slancio generoso.
    Passi il tuo soffio all’avvicinarsi della notte
    per conservarci nella tua luce e nel tuo fervore”. (P. Maior)

     

    Lectio

    Abbiamo scelto per la nostra Lectio un brano arduo non tanto per difficoltà esegetiche o testuali ma per il suo contenuto esperienziale: si tratta del salmo 88. Tra tutte le lamentazioni – che appartengono ad un genere letterario tipico del libro dei Salmi – il nostro testo appare con una sua peculiarità: è infatti, fra tutti i salmi di lamentazione, il più cupo e il più drammatico.
    L’impressione che se ne ricava è di un testo che contiene il grido disperato di un uomo che si sente sprofondare nel nulla della morte, “un vero e proprio ultimo urlo lanciato a Dio dalla parte degli inferi” lo definisce l’esegeta Gianfranco Ravasi.
    Possiamo suddividere il salmo in quattro parti al fine di rendere più agevole il nostro commento:
    – l’ introduzione: vv. 2-3
    – l’esposizione da parte del salmista della sua situazione: vv. 4-11
    – gli appelli rivolti a Dio: vv. 11-13
    – la ripresa dell’esposizione del caso: vv. 14-19
    Il salmo si introduce con una invocazione rivolta al “Signore Dio della mia salvezza” (v. 2): questo richiamo ad un Dio di salvezza è l’unico barlume di speranza in tutto il rimanente testo, nulla più. A questa flebile persuasione si aggancia tutta la preghiera implorante che segue.
    Si tratta di una preghiera incessante, insistente, martellante che risuona “giorno e notte” e che esprime sia la grande necessità in cui si trova l’orante sia l’attesa spasmodica che al termine Dio si decida ad ascoltare.
    Dopo l’introduzione ecco il salmista esporre a Dio la sua drammatica situazione (vv 4-10):  essa viene riassunta nell’espressione “sono colmo di sventure” (v. 4). Si tratta di una “sazietà” di dolore oltre il quale non è più possibile andare. E’ l’implorazione di colui che grida dicendo: “Non ne posso più!” in quanto si sente già nell’anticamera del regno della morte, sull'”orlo della tomba“, in un cammino “in discesa” (lett.) inevitabilmente diretto verso le viscere della terra, nel  regno del nulla che è lo Scheol.
    Per l’uomo dell’A.T. il tempo della salvezza è solo il presente contenuto nel ristretto spazio della vita terrena. Per colui che passa nel regno dei morti cessa ogni possibilità di sperimentare la salvezza, e questo per la semplice convinzione che Dio somma vita, non può avere nulla a che fare con la morte. Nello Scheol c’è sì una sorta di sopravvivenza, ma come ombra di se stessi, senza possibilità di comunione con Dio. Nel luogo dell'”Abaddòn” (v. 12; cfr Ap 9,11), ovvero della distruzione, non si potrà più celebrare la misericordia di Dio.  La conclusione è perciò drammatica. Le risonanze del salmista sono amare e sull’orlo della disperazione: “Sto per essere tagliato fuori… sto per essere dimenticato e abbandonato da Dio, mentre la vita mi sfugge tra le mani senza che io possa far nulla per trattenerla”.
    Autore di tutto questo dramma è, scandalosamente, Dio stesso. Infatti per la teologia ebraica veterotestamentaria tutto si riconduce a Dio sia nel bene che nel male. Quando la sventura, la sofferenza, la malattia coglie una persona, tale situazione viene letta nella categoria del “castigo”. Dio è “sdegnato” (v. 8)  per qualche colpa commessa. E questo castigo che coglie l’uomo suscita in lui solo spavento e terrore. L’immagine dei “flutti”  che sommergono è significativa: sono le onde del furore divino che inghiottono il nostro malcapitato senza che egli sia consapevole della ragione di tutto questo.
    Si potrebbe benissimo porre queste parole sulle labbra del paziente Giobbe, il quale accusando Dio di tutto il male che incombe su di lui dice quasi imprecando:su di me rinnovi i tuoi attacchi, contro di me aumenti la tua ira e truppe sempre fresche mi assalgono” (10,17); e ancora:  “Il mio spirito vien meno, i miei giorni si spengono; non c’è per me che la tomba !(17,1; cfr Lam 3,30).
    Questa parte contenente la descrizione della situazione termina in modo ancor più amaro e cupo: non solo Dio ha abbandonato il suo fedele, ma ha fatto sì che anche amici e parenti lo abbiano rifiutato, relegato in una solitudine senza consolazione. Tutti si sono distanziati da lui già in preda alla sventura. Siamo ancora molto vicini all’esperienza dolorosa di Giobbe che dice: “I miei fratelli si sono allontanati da me, persino gli amici mi si sono fatti stranieri. Scomparsi sono vicini e conoscenti, mi hanno dimenticato gli ospiti di casa; da estraneo mi trattano le mie ancelle, un forestiero sono ai loro occhi.(19,13-15).
    Non rimane che continuare a stendere al cielo le palme vuote delle mani nel gesto di una implorazione di chi a Dio non può dare nulla ma solo ricevere tutto. Sull’ “orlo della fossa” non rimane che rivolgersi nella supplica a questo Dio in preda all'”ira” e che sembra compiacersi di “terrorizzare” l’uomo che, solo e abbandonato da tutti, si trova in bilico tra la vita e la morte.
    La terza parte del salmo (vv.11-13) è costituita da una serie di domande poste  direttamente a Dio: sono domande in certo qual modo retoriche nel senso che sono rivolte a Dio affinché egli si persuada a mutare la triste condizione del salmista. L’idea di fondo è che, se negli inferi nessuno loda il Creatore, è cosa saggia che egli lasci continuare a vivere la sua creatura che così potrà ancora lodarlo. La preghiera del re Ezechia contiene il medesimo concetto: “Poiché non gli inferi ti lodano, né la morte ti canta inni; quanti scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà” (Is 38,18).
    Infine con i vv. 14-19 giungiamo all’ultima parte del nostro testo. Negli altri salmi è generalmente pervasa di fiducia, anzi, talvolta vi troviamo già il ringraziamento nella certezza che sicuramente si sarà esauditi. Non è così nel nostro: il salmista ritorna tristemente al suo caso, alla disperazione che lo attanaglia e dalla quale non riesce a distanziarsi. Anzi rincara la dose di amarezza con la forte e scioccante espressione “Sono moribondo fin dall’infanzia” (v. 16). Più che un semplice accenno ad una malattia cronica probabilmente si tratta di una chiarezza interiore su quella che è la condizione intrinsecamente mortale e fugace dell’uomo: “Ricorda quant’è breve la mia vita: perché quasi un nulla hai creato l’uomo?” (Sal 89,48).
    La conclusione risulta perciò in tragica e stonata tonalità “minore”: il salmo termina con un sapore di amaro e di vuoto. Dio sembra così lontano e assente dalla sofferenza del salmista che si sente “respinto” (v. 15) e riconosce come sconsolata la sua condizione. L’ultima espressione è ancor più cupa: nessuna luce appare all’orizzonte, compagne del dolore dell’uomo rimangono solo le “tenebre” della solitudine e del non senso della sua sofferenza. 

    Collactio

     C’è da stupirsi che il grido disperato contenuto nel salmo 88 non si traduca in aperta rivolta, in una sofferta accusa e ribellione contro la “crudeltà” con cui Dio sembra accanirsi inspiegabilmente contro quest’uomo.
    Questo salmo è una preghiera audace: noi siamo forse troppo abituati nella nostra preghiera ad un linguaggio impregnato di espressioni di troppo… amore e fiducia, gioia e speranza spesso dal sapore un po’ dolciastro. Sono espressioni che talvolta sono molto lontane dal nostro reale sentire. Qui non è così: le espressioni sono vere e forti, rasentano l’invettiva contro Dio: scandalizzano le “pie” orecchie degli amici di Giobbe che, pessimi teologi, vogliono in ogni caso difendere Dio.
    Le pesanti parole del salmo non temono di porsi come dura accusa al silenzio scandaloso di Dio dinanzi alla sofferenza dell’uomo. “Dov’è il tuo Dio?” (Sal 41,4): è questa un’antica domanda alla quale, con l’intelligenza fredda delle risposte stereotipate del catechismo, sappiamo dare immediatamente risposta: Dio è dappertutto, in ogni luogo, in cielo e in terra. Non vi è luogo in cui lui non sia presente. Eppure nel profondo della coscienza questa domanda, in un momento o l’altro della vita, si insinua inaspettata nella nostra coscienza non per invitare a ritrovare una certezza di fede ma per smantellarla e calarla nel vortice del dubbio. Dov’è Dio quando la sofferenza inutile dell’innocente grida un’ingiustizia che mette in discussione se non la sua esistenza almeno la sua bontà? Dov’è Dio quando la disperazione attanaglia il cuore e sembra di essere sperduti nel vuoto, senza fondamento, in balia di un nulla assurdo e senza volto? Dov’è Dio quando tutto in noi e attorno a noi acquista un sapore amaro di cenere, preannuncio di una morte certa dinanzi alla quale anche il credente vacilla? In questo stesso istante nel cuore di migliaia di persone nelle corsie degli ospedali, nelle case di cura, nelle carceri, ai capezzali di ammalati e moribondi oppure tra le mura di un anonimo appartamento di un qualsiasi condominio di una metropoli, questa domanda si impone alla coscienza come un terribile grido che sale verso un cielo che sembra di piombo attendendo risposta: “Dov’è il tuo Dio?” (Sal 41,4). Al grido implorante del salmo 88 nessuno può sfuggire perché prima o poi tutti in esso ci ritroveremo associati.
    Abbiamo tuttavia uno straordinario compagno e testimone: nella sua passione lo stesso Gesù (non per nulla la liturgia ci fa pregare questo salmo ogni venerdì e al sabato santo) vive fino in tutta la tragicità di questa invocazione di cui parla la lettera agli ebrei: “Con forti grida e lacrime supplicò chi poteva salvarlo dalla morte” (Ebr 5,7). E’ l’estremo urlo che vuole squarciare il silenzio di Dio dall’alto della croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46).
    Ed è l’esperienza fatta da tanti testimoni che hanno camminato lungo le ardue e spesso oscure vie della fede. Tra tutti scegliamo un testo di Teresa di Lisieux: “La mia anima fu invasa dalle più fitte tenebre e il pensiero del cielo così dolce per me, diventò motivo di lotta e di tormenti… Vorrei poter esprimere ciò che sento, ma ahimè! Credo sia impossibile. Bisogna aver percorso quella nera galleria per capirne l’oscurità… E quando voglio far riposare il mio cuore stanco per le tenebre che lo circondano, il mio tormento raddoppia; mi sembra che le tenebre, con voce di peccatori, mi dicano ridendo di me: Tu sogni la luce, credi di poter uscire un giorno dalle brume che ti circondano! Cammina, cammina e rallegrati per la morte che ti darà non già quello che speri, ma una notte più fonda ancora, la notte del nulla” (Storia di un’anima).
    È consolante ritrovare tra le pagine della sacra Scrittura un testo come il salmo 88 capace di rispecchiare la fatica del nostro credere e coraggioso nel gridare la situazione fragile e mortale dell’uomo che invoca una presenza capace di dare senso alla vita e alla morte. La Scrittura non esita a far propria questa angoscia che abita il fondo del cuore umano.
    Il salmo 88, non rischiarato dalla piena rivelazione, testimonia solo una fragile speranza che si blocca ai cancelli del regno dello Scheol ritraendosi inorridita affermando perentoria: lì Dio non può essere, lì si sarà abbandonati da tutti.
    Ma al credente in Cristo è data una speranza capace di trafiggere queste tenebre e di infrangere questi cancelli, di penetrare in quel buio con una certezza. Il cristiano possiede la grazia di intravedere una luce che per assurdo fuoriesce proprio dalla tomba da cui il salmista si ritrae inorridito. Scriveva il gesuita padre Theilard de Chardin che parlando di “vertiginosa voragine” evoca quasi la “fossa” e l'”Abaddòn” del salmista: “Più l’avvenire mi si apre dinanzi come una vertiginosa voragine, o un oscuro passaggio, e più avventurandomi in esso sulla tua parola, posso aver fiducia di perdermi o d’inabissarmi in te” (Ambiente divino).
    Come può infatti il Dio dell’alleanza, i cui doni sono irrevocabili, venir meno alla promessa della vita donata all’uomo sua creatura? 

    Oratio

     Nella notte del dubbio della fede, quando il grido di invocazione ad un Dio che sembra assente, si fa udire nel profondo del cuore, il Signore stesso ci si fa vicino.
    Ci viene accanto con la povera umanità del Crocifisso, non risolvendo magicamente i nostri problemi, ma con le mani e i piedi piagati, con il costato trafitto, per dirci di non spaventarci. “Non temere” suggerisce al cuore di ciascuno di noi:  “Non aver paura quando la vita ti chiede di entrare nelle tenebre e nella solitudine del Calvario, non temere di gridare giorno e notte affinché Dio così apparentemente assente ascolti la tua preghiera”.
    Anche Gesù sulla croce “emise un alto grido” (Mt 27,50) di invocazione al Padre, in tutto simile al grido del nostro salmista e dei mille crocifissi della storia. Ma quelle ferite del Calvario, a differenza delle nostre, non suppurano in disperazione ma irradiano speranza e luce; raccontano una fedeltà di un amore che non viene mai meno contro ogni evidenza che testimonierebbe il contrario. Quelle ferite possiedono la forza di suscitare in noi il coraggio di guardare oltre, di non sprofondare in una sorta di implosione nel nostro dolore. Quelle piaghe forti della loro debolezza ci rimettono in cammino alla scoperta del vero volto di Dio così vicino perché diverso dalle nostre povere attese.
    O Signore, donaci la grazia, di tener fissi gli occhi sulla tua croce nel momento in cui tutto sembra precipitare nel nulla. Che la croce divenga àncora gettata in mezzo al mare in tempesta, scoglio e faro indistruttibile in mezzo a quei flutti di morte di un mare tenebroso e in tempesta che vorrebbe spezzare in noi la speranza della tua presenza.

  • 14 Apr
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    Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?

    Lectio di Lc 12,54-59

     

     di p. Attilio Franco Fabris

      

    Hanno occhi e non vedono, hanno orecchie e non odono” (Mt 13,15): sono le amare parole di Gesù nei confronti di una generazione incapace di scorgere in lui la novità di Dio che porta a compimento le promesse di Abramo.
    Possiamo anche noi avere occhi e non vedere, orecchie e non udire i fatti e le parole con cui Dio continuamente si avvicina a noi e ci parla nelle cose più semplici di ogni giorno, come nei fatti più grandi della storia. Sempre Dio entra nella nostra storia, quella dell’umanità come in quella di ciascuno di noi. Ma noi come i discepoli di Emmaus, chiusi nelle nostre certezze e tristezze, rischiamo di non accorgerci della sua presenza.
    Chiediamo anzitutto allo Spirito di aprire “gli occhi del nostro cuore”, di strapparci – lui che è guarigione – quelle scure “cataratte” che persistono in noi impedendoci di vedere i segni di speranza e di vita che lui stesso dissemina lungo la storia. È lui che, al di là dell’avvicendarsi delle vicende umane, tesse la vera trama nascosta del cammino dell’umanità. È lui la vera forza ed energia che tutto muove spingendo la storia, come il vento le vele della nave, verso il Regno.
    Sapremo scorgere la dolcezza e la forza della sua azione? Avremo occhi per riconoscerla ed esultare? Avremo cuore, mente, volontà capaci di porsi costantemente in ascolto di “ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2,7)? Sapremo scorgere gli inviti discreti che egli sussurra alla Sposa affinché si prepari all’incontro con lo Sposo (Ap 22,17)? Non ci scandalizzeremo dinanzi alla sua voce potente e forte che risuona sulla bocca dei suoi scomodi profeti?
    “Spirito santo, fammi vedere tutto ciò che desideri farmi vedere, per rendermi partecipe di tutta la luce che abita in Te. Fammi vedere ciò che da solo non riesco a vedere. Fammi vedere ciò che non vorrei vedere, per timore dell’esigenza della luce, per viltà di fronte allo sforzo e al rinnegamento. Fammi vedere ciò che vorrei vedere: la via da seguire e le decisioni difficili da prendersi. Fammi vedere ciò che mi illudo di sapere e che invece non conosco. Fammi vedere ciò che dovrei vedere e che i mie pregiudizi mi impediscono di scoprire:la verità delle mie debolezze e delle mie colpe. Fammi vedere ciò che tu vedi: la bellezza del mio destino al servizio di Dio e dei fratelli, la grandezza dell’universo e l’immensità di Dio”.

    Lectio

    Il nostro brano si colloca in un capitolo che ha come tema il giudizio finale di Dio sulla storia. Il tempo scorre inesorabile e per l’uomo è questione di vita o di morte (ovvero di salvezza!) decidersi o meno per Dio. Tutto il capitolo si caratterizza perciò su una tonalità di “urgenza” da parte dell’uomo nei confronti del tempo che scorre e nel quale è chiamato a decidersi prima che sia troppo tardi.
    In questo tempo che è dato Dio stende la mano all’uomo per facilitargli l’accoglienza del dono della salvezza: offre dei “segni” di cui il primo e fondamentale è Cristo stesso: Mentre le folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire: «Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona” (Lc 11,29).
    Se dunque in un primo tempo Gesù sembra rifiutare categoricamente ai farisei la richiesta di offrire ulteriori “segni”, nel nostro brano egli ci ammonisce sul fatto che numerosi segni sono concessi agli occhi di coloro che sanno vedere. A quali “segni” si riferisce Gesù?  Non certamente a segni portentosi e straordinari come quelli richiesti, per metterlo alla prova, da “una generazione malvagia“. Gesù invita invece a scorgere i “segni” costituiti dal suo insegnamento e della sue parole per riconoscervi l’appressarsi del Regno di Dio e  per il quale ora è necessario deliberarsi.
    “Diceva ancora alle folle” (v.54): l’insegnamento è prolungato nel tempo (il verbo è all’imperfetto il che sta a dire l’importanza del messaggio) ed è rivolto a “tutti“, perché a tutti è donata la salvezza e perciò a tutti incombe il dovere di saper leggere il tempo presente (v.56) come il tempo decisivo in cui discernere “ciò che è giusto“(v.57) fare.
    L’insegnamento di Gesù si compone di due immagini paraboliche (vv. 54-59).Gesù si serve dapprima dell’immagine di fenomeni meteorologici che tutti sono in grado di interpretare: una nube che proviene da ovest, ossia dal mar Mediterraneo, indica l’approssimarsi delle piogge, mentre un vento dal sud, ovvero dal deserto dell’Arabia, è sicuramente indice di un’ondata di caldo (vv 54-55). Il messaggio è chiaro: dai “segni” meteorologici chiunque sa prevedere il tempo che farà e dunque prepararsi ad agire di conseguenza. Gesù certamente non se la prende con la scienza della previsione del tempo ma pone bene in evidenza la distanza che esiste tra questa capacità di discernere le cose più semplici e quotidiane e l’incapacità di riconoscere i segni di “questo tempo” ovvero il tempo della sua presenza e del suo annuncio carico di significato perché decisivo per la salvezza. “Questo tempo” ha i suoi segni di riconoscimento ma “questa generazione malvagia” non si prende la briga di interpretarli, non è in grado di farlo, o meglio preferisce non volerli riconoscere.
    L’appellativo di “ipocriti” (v. 56) viene perciò da Gesù applicato a tutti: nessuno escluso! L’ipocrisia è l’equivalente della cecità spirituale: si ha la possibilità di discernere il tempo decisivo della salvezza (kairos) ma non lo si vuole interpretare: si vuole continuare la solita vita! Si sanno “discernere-giudicare” i fattori meteorologici: ma dinanzi all’importanza decisiva del tempo si preferisce non voler vedere.  . L’accusa di ipocrisia è una chiara denuncia: i segni ci sono e sono chiarissimi per chi è disponibile a coglierli (cfr Lc 7,22; 11,20). Il fatto di non riconoscerli non è dato, per Gesù, dalla semplice ignoranza, ma da una coscienza colpevole perché consapevole di tale scelta. Scelta drammatica in quanto con tale atteggiamento l’uomo si preclude l’accoglienza del “kairos”, del tempo favorevole, nel quale è offerta la possibilità di cogliere i segni di Dio e, di conseguenza, convertirsi.
    Anche nei confronti di Giovanni il Battista, in carcere, Gesù invierà l’ammonimento a riconoscere tali “segni” (il suo problema era attenderne altri secondo le sue aspettative!). Anche per Giovanni vi era dunque la fatica di accogliere i “segni” di Gesù così diversi dalle sue attese: “Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella. E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!) (Lc 7,22s).
    Occorre dunque una disponibilità ed una apertura del cuore per accogliere i “segni” che Cristo (e la Chiesa che ne continua l’opera) dissemina lungo l’arco della storia: non sono immediatamente evidenti, sono piccoli quanto “un granello di senape“, sono scandalosi come lo è una croce piantata sul Calvario. Ma è urgente non lasciarseli sfuggire e con essi il dono della salvezza. Nell’insistere su tale atteggiamento Gesù si affida alla capacità di giudizio dell’ascoltatore stesso: non dovrebbe essere la prima preoccupazione di ciascuno salvare la propria vita? Dunque ciascuno dovrebbe giungere a comprendete-discernere “il giusto”: “E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (v.58).
    A questo primo insegnamento segue una parabola che ha come scopo il rafforzare ulteriormente il messaggio dell’urgenza nell’accogliere la grazia offerta “qui e ora”. Il dilazionarla potrebbe portare a conseguenze drammatiche (vv 58-59).
    L’esempio portato è un litigio tra due persone. Il diverbio sta per essere trascinato in tribunale col rischio del carcere. La prassi giudiziaria descritta (autorità-giudice-ufficiale di servizio) descrive con precisione l’usanza giuridica greco romana. A queste due persone cosa suggerisce il buon senso? Conviene loro mettersi d’accordo prima che sia troppo tardi! Ovvero occorre agire con prontezza. Meglio sistemare prima le cose.
    La parabola si conclude con una pesante minaccia (v. 59): se non si troverà un accordo l’accusato non uscirà dal carcere finché non avrà restituito fino all’ultimo “lepton” (la più piccola moneta di rame). L’esempio ha come obiettivo quello di far comprendere l’importanza del kairos, del tempo presente: “la scure è già posta alla radice degli alberi; ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco(Lc 3,9). Fuori parabola: l’uomo è chiamato a prendere “ora” la decisione fondamentale nei confronti di Dio prima di presentarsi in giudizio davanti a lui.
    L’indifferenza e l’ostilità, nei confronti di Gesù, rischiano di trasformare il lieto annuncio del Regno in motivo di giudizio: i “segni” sono dati, ora bisogna decidersi per Dio, per riconciliarsi con lui. 

     Collactio

     Per continuare l’opera di Cristo è dovere permanente della Chiesa scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce dell’evangelo“: così si esprimeva con una terminologia relativamente nuova, che avrebbe poi trovato ampio spazio di approfondimento teologico, il documento conciliare Gaudium et Spes (n. 11) che a più riprese riprenderà il tema della necessità (non facoltatività!) della lettura dei “segni dei tempi“, già ampiamente affrontata d’altronde nel magistero di Paolo VI (Cfr Enc. “Ecclesiam suam”).
    Da dove scaturisce il “dovere permanente” da parte della comunità cristiana di intraprendere questo costante sforzo di lettura dei “segni dei tempi“? Dal semplice e fondamentale fatto che la fede biblica è anzitutto non un assenso a verità astratte e astoriche ma assenso ad eventi storici ben precisi e puntuali nei quali Dio si è fatto presente e ha agito, e si fa presente e continuamente agisce, nella storia al fine di offrire salvezza all’uomo. Dio è entrato definitivamente nella nostra storia partendo da Abramo per giungere a Cristo e continuare la sua opera attraverso la Chiesa. Perciò nell’orizzonte della fede biblica la salvezza si presenta sempre come un “fatto” che,  presentandosi sotto l’aspetto di “segno” (il che garantisce la libertà umana nell’accoglierlo o meno), va accolto e letto alla luce della fede. Cosicché la verità non deve essere più ricercata al di fuori dello spazio e del tempo, in una dimensione ideale più legata alla filosofia che alla fede, ma va riconosciuta negli eventi storici costituiti da parole, persone, accadimenti che non sono per il credente un ostacolo alla conoscenza della verità stessa ma luogo della sua rivelazione. In tal senso tutta la storia è divenuta il “luogo teologico” in cui è dato all’uomo di aprirsi a quei “segni” attraverso i quali Dio lo vuole incontrare.
    Afferma ancora un testo conciliare della Gaudium et Spes: “Il popolo di Dio, mosso dalla fede, per cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore, che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle esigenze e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza e del disegno di Dio” (n. 11).
    Questo “discernere gli avvenimenti” non è automatico né tanto meno spontaneo: esso è reso possibile solo all’interno di un orizzonte di comprensione e di esperienza legato alla fede, perché solo attraverso tale sguardo è dato di riconoscere l’azione dello Spirito di Dio nella storia.
    Ma occorre riconoscere la fatica che incontriamo a fare tutto ciò: essa deriva da una fede scarsa e molto debole. Si possiede un grande discernimento nelle cose materiali e ci si affanna spesso per operarlo, ma non si possiede la stessa sollecitudine e preoccupazione per quanto riguarda le cose spirituali, per quelle eterne che decidono il nostro ultimo destino. Non si ha cura di voler riconoscere i “segni” attraverso i quali Dio ci parla: “Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?”
    L’uomo carnale direbbe Paolo non comprende ciò che è proprio dello Spirito; è “sapiente” nelle cose transitorie e fugaci ma stolto in quelle che riguardano il suo destino ultimo: “L’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno” (1Cor 2,14s).
    L’ “uomo carnale” vive un rifiuto, con una conseguente incapacità di aprire gli occhi sul significato più profondo e sul senso ultimo delle cose e degli avvenimenti. Si tratta di un rifiuto che può nascere da diversi atteggiamenti. È possibile infatti che il “segno” venga rifiutato in nome di uno “status quo” che non desidera e non aspira ad altro: la preoccupazione sottostante è che le cose rimangano le stesse perché il cambiamento fa paura. Vi può essere un rifiuto del “segno” motivato da una negazione del presente: le cose – per costui – non potranno mai cambiare, anzi si andrà di male in peggio! Non vi è in questo caso la minima apertura alla possibilità che il “segno” stia a significare un germe di possibile cambiamento.
    Solo l’uomo “spirituale”  è abilitato alla lettura dei “segni dei tempi”. Egli possiede il dono di guardare la realtà con occhi diversi perché capaci di una visione che va “oltre”: sa scorgere nei “segni” di cui è cosparsa la storia di un qualcosa che non è ancora pienamente presente, ma che già si offre e si sviluppa nell’umiltà e nel nascondimento “del germoglio in terra arida” (cfr Is 61). L'”uomo spirituale giudica ogni cosa” ovvero è in grado di relativizzare il presente, senza idolatrarlo né condannarlo, vivendo la certa speranza che la storia, pur nelle sue contraddizioni, è incamminata verso il Regno perché iscritta in un disegno che è divino e non umano. Per tale motivo solo lui possiede la capacità di una “lettura profetica” del reale.
    Ma quali sono i criteri con cui accostarsi alla storia al fine di cogliere i “segni” della presenza e dell’agire di Dio? Ci viene in aiuto un fondamentale testo tratto ancora dalla costituzione dogmatica “Gaudium et Spes” dove si dice che “è dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito santo, di ascoltare attentamente, capire e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della Parola di Dio, affinché la verità rivelata possa essere sempre più profondamente intesa, meglio capita e presentata in una maniera più adatta” (n. 44). È un testo notevole in quanto ci offre chiaramente i criteri, o meglio un itinerario di discernimento dei “segni dei tempi”: “ascoltare attentamente, capire e interpretare…saper  giudicare“.
    Anzitutto ci viene chiesto di saper “ascoltare attentamente“. Ciò significa accogliere i fatti in se stessi, nelle loro manifestazioni, cause, dimensioni, conseguenze, mettendo in atto tutti quegli strumenti umani adatti a leggerli il più oggettivamente possibile (quali ad esempio la sociologia, la psicologia, le scienze…).. Il fine è saper guardare le cose così come esse sono e non come vorremmo fossero con la conseguenza di distorcerle: “Quando vedete una nuvola salire da ponente”. La distorsione dei fatti succede quando prevarica l’ideologia (non solo politica ma anche religiosa) che pretende di piegare la realtà al fine di farla rientrare nei propri ristretti schemi mentali. L’ascolto attento esige umiltà, empatia, l’eliminazione di qualsiasi “pre-giudizio”.
    Un secondo passo sarà di “capire ed interpretare“. Non ci è chiesto di giudicare immediatamente le cose, ma di sforzarci il più possibile di “comprenderle” ovvero di saperle leggere in profondità (è il dono dell’intelletto – intus-legere – da chiedere allo Spirito!) nelle loro radici più profonde e nelle loro conseguenze: “subito dite: Viene la pioggia”.  Mancasse questa comprensione ed interpretazione (che non equivale ad approvazione) non sarebbe possibile una lettura del fatto come “segno”. Perché la realtà rivesta la valenza di “segno” è fondamentale che essa ci tocchi in profondità, che ci lasciamo interrogare da essa, che ci trovi aperti ad essa. Non può far questo il pessimista né tanto meno il diffidente o colui che crede di aver la verità in tasca. 
    Solo in un terzo momento si potrà giungere ad un “discernimento” (krìnein: separare in due; in riferimento alla farina separata dalla semola per mezzo dello staccio) ovvero ad un “giudizio“, elaborato non secondo i nostri schemi di valutazione ma attraverso la luce della Parola di Dio. Occorre tener presente che i fatti ci si presentano sempre in forma ambigua (ovvero possono essere letti da tanti punti di vista), ma il credente sa che la Parola è il setaccio indispensabile per “vagliare” ciò che è buono da ciò che non lo è. 
    Si tratta di un “discernimento-giudizio” compiuto alla luce della Parola ascoltata e letta all’interno della comunità ecclesiale sorretta dal magistero e dal carisma profetico: è nella comunità che Dio parla al fine di indicarle il cammino da seguire.  Disponibilità, vigilanza, prontezza da parte di tutti sono di doni da chiedere affinché tutto questo possa attuarsi continuamente, senza stancarsi.
    È un lavoro urgente che non è possibile dilazionare: il “segno” ci è dato “qui e ora”, e se non viene riconosciuto e accolto esso scorre via, dono di grazia inutilizzato, di cui dovremo “render conto fino all’ultimo spicciolo“, “Egli dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!“(2Cor 6,2). 

    Oratio

     La nostra esistenza, Signore, è segnata dalla continua necessità di operare scelte e giungere a tante decisioni piccole e grandi. A volte è semplice, altre invece estremamente difficile: non sappiamo vedere ciò che è meglio per noi e per gli altri. L’incertezza si attanaglia, ci blocca. Abbiamo paura di sbagliare.
    Ma tu ci hai donato la tua Parola. Ti ringraziamo per il dono della sua luce che illumina i nostri passi e rischiara le nostre menti appesantite. Infatti quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri. A stento ci raffiguriamo le cose terrestri,scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi può rintracciare le cose del cielo? Chi ha conosciuto il tuo pensiero, se tu non gli hai concesso la sapienza e non gli hai inviato il tuo santo spirito dall’alto?” (Sap 9,13-17)
    Fa’ che sappiamo con umiltà metterci alla scuola dell’ascolto perché solo in virtù della Parola tu ci indicherai la strada da intraprendere fiduciosi nella tua promessa: sapremo “rintracciare le cose del cielo“, scopriremo “ciò che è giusto” per noi!
    Allora avremo occhi per vedere e orecchie per ascoltare, gli innumerevoli segni di cui cospargi il nostro cammino: fatti, parole, incontri, volti, gioie e sofferenze. Tutto diverrà, nella fede rischiarata dalla Parola, segno capace di indirizzarci a te e alla verità di noi stessi, non rinserrandoci nelle nostre sicurezze e nei nostri poveri pregiudizi. Vedremo i tuoi segni, tanto piccoli e semplici come granelli di senape, con occhi limpidi capaci di stupore, come quelli dei bambini. Perché solo a questi è dato di scorgere la bellezza del mistero: Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli (Mt 11,25).

  • 05 Apr

    Beati coloro che ascoltano la Parola

    Lc 11,27-28

    di p. Attilio Franco Fabris 

    Chi è più beato? Immaginiamo la risposta a questa domanda da parte di chi sta passando sotto casa proprio in questo momento. Ci sentiremo quasi sicuramente rispondere: È beato chi ha successo nella vita, chi ha un buon posto di lavoro, la salute, una bella famiglia, una casa e nessun mutuo da pagare, un sicuro conto in banca… Ciascuno si ritaglia sull’onda del proprio “sogno-desiderio” la “sua” beatitudine vivendo in funzione di essa, per poi accorgersi che tutto questo… non basta ancora a farlo contento. Infatti non ci si sente mai pienamente “beati”; è come se alla fine mancasse sempre un qualcosa di importante, ma al quale non si sa dare un nome preciso perché ci sfugge. Una cosa è certa: sentiamo il bisogno di essere contenti, beati appunto! E in questo bisogno innato nel cuore scorgiamo una scintilla divina: Dio ci ha creati per questo! Scriveva Agostino, il grande indagatore del cuore umano: “Noi tutti certamente bramiamo vivere felici e tra gli uomini non c’è nessuno che neghi il proprio assenso a questa affermazione anche prima che venga esposta in tutta la sua portata” (De moribus eccl., 1,3).
    Il problema sta però nel fatto che l’uomo ha perso l’orientamento nella ricerca di questa felicità alla quale aspira: intuisce che c’è ma non la trova, il più delle volte sbaglia strada, spesso alla fine rinuncia a cercarla: si rassegna miseramente mettendo a tacere la sua sete profonda di gioia e sprofondando nella tristezza e nella noia.
    Ma la Parola di Dio, Gesù stesso, apre uno spiraglio – certamente si tratta di una “porta stretta” – a chi cerca la vera felicità. Ma è necessario che lo Spirito ci convinca di questa rivelazione. È lui che ci invita alla fiducia e alla docilità del cuore: “Cerca la gioia del Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore” (Sal 36,4).
    Apri, Spirito santo, il mio cuore, la mia mente, tutto il mio essere ad accogliere il tuo dono, a lodare e benedire il tuo nome, nel nome del Padre, nel nome del Figlio, nel nome della Santissima Trinità. Donami Signore il senso della tua presenza e disponi il mio cuore all’ascolto. Purifica la mia mente, il mio cuore e la mia volontà e tutto il mio essere da tutto ciò che non proviene da te ed è fonte di tristezza. Distogli il mio sguardo da me stesso, da tutte quelle preoccupazioni terrene che mi impediscono di cercare il mio vero bene e mi rendono prigioniero di me stesso. Abilita i miei occhi e il mio cuore a scorgere la direzione in cui devo incamminarmi se vorrò scoprire l’autentica beatitudine che non tramonta.

     Lectio

     È evidente come in questo testo Luca voglia evidenziare la centralità che deve avere nella sua comunità l’ascolto della Parola. Qui infatti risiede la vera beatitudine del discepolo e della comunità che consiste nella comunione con Cristo nel quale è data ogni benedizione. Un ascolto che produce una sintonia profonda con Cristo tale da creare una nuova consanguineità con lui, diversa ma non meno vera da quella della carne e del sangue. Come Maria attraverso l’ascolto della Parola il discepolo – e la comunità –  “concepisce” in sé il verbo e lo fa “crescere” in sé mediante la custodia della sua Parola.
    L’episodio narrato lo troviamo solo nel vangelo di Luca: è assente dagli altri. Ciò significa che a Luca preme sottolineare il messaggio già d’altra parte preannunciato, con altra sottolineatura, in 8,19-21 (e presente in tutti i sinottici): Un giorno andarono a trovarlo la madre e i fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. Gli fu annunziato: «Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti». Ma egli rispose: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica».
    Strutturalmente il nostro brano si presenta come un “apoftegma” contenente due beatitudini: dapprima una donna del popolo proclama “beata” la madre che ha avuto in dono un figlio così straordinario, al che Gesù ribatte subito proclamando “beato piuttosto” chi ascolta la parola di Dio e la mette in pratica!
    Mentre diceva ciò” (v. 27): di cosa Gesù sta parlando? Ci si riferisce alla risposta all’accusa da parte di scribi e farisei di operare guarigioni ed esorcismi in nome di Beelzebul “il capo dei demoni“. Gesù ribadisce loro che è esattamente il contrario:  questi sono segni che annunciano il compiersi in lui del regno di Dio.  Sembra perciò che questo il brevissimo episodio narrato subito dopo sia un ammonimento a perseverare nell’ascolto della parola e nel custodirla al fine di poter “stare” con Cristo (v. 23) e non correre il rischio di cadere nei lacci del nemico (vv. 24-25).
    Se da un lato scribi e farisei avanzano sospetti e accuse nei confronti di Gesù di Nazaret, quanto egli dice e fa suscita dall’altro lo stupore, anzi l’entusiasmo di una sua “fan”, un’attenta ascoltatrice e forse discepola. Si tratta di una semplice donna del popolo, che interrompe improvvisamente il discorso di Gesù con un grido “Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!” (v. 27). Si tratta di un’espressione tipicamente semitica che fa riferimento alla ricchezza della maternità e al suo mistero (cfr 10,23; 23,29): il ventre è il luogo della generazione, le mammelle quello della crescita, dello sviluppo del nascituro. La reazione di questa donna è simpatica perché esprime in modo squisitamente umano, anzi femminile e materno tutta la sua gioia: ella proclama a voce alta la beatitudine della madre del Rabbi di Nazaret per avergli dato l’esistenza. Dunque per questa donna rimane sempre Gesù il motivo della beatitudine della madre.
    All’interno del percorso evangelico è possibile scorgere sullo sfondo un riferimento sfumato alle profezie pronunciate sia da Elisabetta come da Maria stessa. Elisabetta, vedendo entrare nella sua casa di Ain Karem Maria, ne proclama la beatitudine a motivo di colui che è stato generato nel suo grembo: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!” (1,42). Subito dopo, nel canto del Magnificat, è Maria che proclama tutta la sua gioia-beatitudine alla quale invita tutti ad associarsi: “Tutte le generazioni mi diranno beata” (1,48). La donna del popolo, Elisabetta, Maria stessa, tutta la chiesa, riconosce la sua beatitudine. Ma in che cosa essa consiste?  Dove la sua sorgente più profonda?
    Ecco allora la risposta di Gesù che è offerta anch’essa nel linguaggio del macarismo: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (v. 28). Una risposta che non vuole certamente negare la prima beatitudine ma la vuole precisare andando molto più in profondità: “sì, ma…” “piuttosto…“.
    Appare evidente che Gesù vuole porre l’ascolto obbedienziale della Parola al di sopra anche dello stesso  privilegio della maternità fisica di sua madre. Egli vuole così stabilire una precisa gerarchia di valori all’interno della sua comunità (di cui anche Maria fa parte!) che si vengono così a strutturare a partire proprio dall’ascolto della Parola da cui scaturisce la fede.
    Con ciò Luca evita nella comunità cristiana il rischio di assolutizzare impropriamente il semplice  privilegio della maternità fisica di Maria benché essa sia divina e messianica.
    Detto questo occorre ribadire che Gesù non intende certamente sminuire la figura e il ruolo di Maria. Nel terzo vangelo ella è subito presentata alla Chiesa come il modello del perfetto discepolo docile e obbediente alla parola ascoltata: “Eccomi, sono la serva del Signore, si compia in me secondo la sua Parola“(1,38).  Ed è proprio l’obbedienza (ob-audire!) alla Parola che rende possibile la sua maternità. Elisabetta riconoscerà per prima questa più profonda e vera beatitudine nella “madre del suo Signore“: “E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45).
    E Maria è ancora proposta come modello di coloro che accogliendo la Parola la custodiscono gelosamente del proprio cuore: “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (2,19); “Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore” (2,51; cfr 8,15).
    Appare evidente allora che la vera beatitudine di Maria non consiste anzitutto in ciò che la donna esalta, bensì nel fatto che il suo assenso alla Parola udita permette a Dio di “fare grandi cose” in lei. Maria anticipa in sé ciò che “il Signore” vuole operare nel cuore di ogni credente. In tal modo la beatitudine pronunciata da Gesù si estende a tutti i discepoli.
    Così la beatitudine pronunciata da Gesù non sminuisce in minimo modo la dignità della madre, ma la innalza ulteriormente anche se ad un livello diverso e più profondo: la sua beatitudine non consiste solo e anzitutto nell’averlo generato nella carne quanto “piuttosto” dalla sua fede e dalla piena disponibilità al disegno di Dio.
    La donna del popolo tutto questo non l’ha ancora compreso. Ella si ferma prima non sapendo cogliere un “oltre” di fondamentale importanza. Il suo entusiasmo, dettato da una santa invidia, rischia di distoglierla dall’essenziale; essa volge lo sguardo indietro (“il ventre… le mammelle“), ignorando che la fede che scaturisce dall’ascolto (Rm 10,17) può operare l’impossibile anche in lei. Ma tutto questo esige la fatica dell’ascolto, dell’obbedienza, della custodia della parola. Si tratta di un balzo nella fede al di là dell’immediato, un salto che è premessa-promessa di autentica beatitudine. 

     Collatio

     Che la si chiami beatitudine, felicità, realizzazione di sé, o in altri molteplici modi, una cosa è certa: l’uomo cerca sempre e comunque la gioia, la pienezza della sua vita. Si tratta di un desiderio iscritto nel cuore dell’uomo da Dio stesso che ha creato l’uomo per la gioia, la beatitudine appunto: “Questo desiderio è di origine divina: Dio l’ha messo nel cuore dell’uomo per attirarlo a sé, perché egli solo lo può colmare” (CCC 1718). In questo “essere colmato” da-di Dio consiste la beatitudine dell’uomo! Beatitudine dell’uomo è la comunione, l’amicizia, l’intimità con Dio, il poter “passeggiare con lui alla brezza della sera” nel giardino senza più fuggire da lui.
    A causa del peccato questa intimità è andata perduta: nel cuore dell’uomo si è instillato il sospetto su un “dio” che non vuole realmente il bene e la gioia per lui. Sospetto che questo “dio” pretenda solo sacrifici, mortificazioni, rinunce… la gioia all’uomo sarebbe costantemente negata e al massimo solo prospettata come promessa nell’al di là. All’uomo tocca per ora solo meritarsi – appunto attraverso rinunce e  mortificazioni – la gioia del Paradiso rinunciando alle gioie di questo mondo. Inutile dire che questa prospettiva non alletti nessuno, anzi ottenga l’effetto contrario del perdurare in noi della diffidenza e della paura.  Sotto questa angolatura anche il discorso delle beatitudini risulta ambiguo e diffidente (e il scarso annuncio che se ne fa nei pulpiti e nelle aule di catechesi lo testimonia!).
    Così alla fine l’uomo ha cercato e cerca tuttora la sua beatitudine altrove.
    Ma se dicevamo che in noi è inscritto il desiderio-bisogno della beatitudine, permane il problema di dove realmente cercarla per poterne gustare la dolcezza e appagare la sete del cuore. Anche chi fa il male e ne percorre le vie – magari in tutta una vita spesa nella violenza, nel sesso, nella droga o altro – è convinto di trovare lì la propria beatitudine!
    Ecco allora Dio curvarsi nuovamente sull’uomo per indicargli, partendo da Abramo (Gn 12,1) per giungere a Cristo (Col 1,19), la strada da ripercorrere (la “conversione”) per ritornare in possesso del suo autentico destino di gioia: “Beato l’uomo che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti” (Sal 111,1).
    Un destino che Gesù incarna pienamente in se stesso perché è lui anzitutto l'”uomo beato” per antonomasia: vive nel costante ascolto della volontà del Padre e nella fedeltà ai suoi comandamenti (cfr Gv 5,30), si compiace di compierne la volontà (cfr Gv 6,38), rimane costantemente in unione con lui (cfr Gv 17,21), dinanzi alle prove si affida totalmente alle sue promesse (cfr Mt 26,42). È Gesù che per primo sperimenta nella gioia della resurrezione la beatitudine dell’ “uomo che spera nel Signore” (Sal 39,5). Se Gesù annuncia le beatitudini lo fa perché è lui per primo a sperimentarne la realtà e la verità.
    Uniti a Cristo possiamo così, con lui e in lui, a nostra volta intraprendere il cammino per vivere già ora “beati sulla terra” (cfr Sal 40,3). Se infatti la beatitudine dell’uomo è la comunione con Dio essa ci è data, in Cristo, da sperimentare sin d’ora in germe nell’attesa della sua piena manifestazione alla fine dei tempi “quando Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28) come somma ed eterna beatitudine.
    Ma non è facile entrare nell’orizzonte della via indicata da Cristo per ritrovare quella beatitudine per cui siamo stati fatti. Essa ci propone un percorso controcorrente che presupponendo la docilità della fede ci appare troppo ardua, forse troppo lontana da quel mondo di desideri e aspettative immediate con cui costelliamo – anche nella vita consacrata! – le nostre esistenze e che viaggiano a raso terra. Rischiamo così dinanzi alla proposta evangelica di un cammino costituito dalla fatica del costante ascolto della Parola, dall’umile docilità della fede, dal costante esercizio della speranza di preferire la… fermata prima. Rischiamo di fare come la donna dell’episodio evangelico che nel suo slancio è sì entusiasta delle parole di Cristo ma giunge a riconoscere in lui una beatitudine legata ancora solo “alla carne e al sangue“(cfr Mt 16,17).
    A questa donna, e a tutti noi, Gesù fa una proposta che va molto più in profondondità ed è offerta a tutti senza esclusione: si tratta di una beatitudine che è data a tutti e non solo a qualche privilegiato. Maria è beata perché non solo e anzitutto è madre nella carne di Cristo (anche se questo per lei è un privilegio unico!), quanto piuttosto perché persevera nell’attento ascolto della Parola  meditata e custodita “giorno e notte” (cfr Sal 1). Così la donna del popolo invece di invidiare Maria è invitata da Gesù ad imitarla perché la maternità più profonda consiste nel concepire la Parola in sé attraverso l’ascolto e nel farla crescere in sé attraverso la sua gelosa custodia (cfr 8,21).
    Tutti siamo invitati ad entrare nella beatitudine del concepire nella nostra carne il Verbo: “Il ventre è l’ascolto che fa concepire la Parola, le mammelle sono la custodia e la premura nel far crescere ciò che è stato generato (8,15; 8,21)” (S. Fausti).  Quando in noi viene “concepito” (attraverso l’ascolto) e allattato (attraverso la custodia) il Verbo di Dio entriamo nella beatitudine di ogni madre che sente in sé crescere il dono della vita nuova, di una comunione donata con l'”Altro”. E questo Altro non è che Cristo stesso nel quale ci è donata dal Padre la pienezza di ogni “benedizione dai cieli” (cfr Ef 1,3). In lui ci sono dati tutti quei beni che il cuore sommamente aspira: la certezza di essere amati, la consapevolezza che Dio ha in mano il nostro destino, che sua volontà è quella di averci in comunione eterna di vita con lui.
    Si tratta di una “divina natività” (san Paolo della Croce) che si attualizza in ogni autentico discepolo: cosicché Cristo continua a nascere e a crescere in noi e tra noi.
    A noi entrare nella luce di questa beatitudine che è promessa di una vita nuova in noi: Cristo in noi. Guarderemo a Maria non con l’invidia della donna del popolo, ma come a colei che ci indica la strada per rivivere in noi la sua stessa esperienza di grazia. Con Maria potremo magnificare Dio per le meraviglie che ha operato in lei e in noi. E saremo con lei a nostra volta beati. In forza dell’ascolto (cfr Ap 1,3). 

     Oratio

     E’ beato, o Padre, chi lascia che la tua Parola possa essere seminata nei solchi del suo cuore affinché nel silenzio e nel nascondimento essa possa germinare e portare frutto. “Beato chi custodisce queste parole” (Ap 22,7).  È beato chi ascolta la tua Parola che è seme che concepisce nel suo cuore il tuo Verbo che nuovamente si fa carne e “pone la sua tenda tra di noi”.
    Sarà beato questo cuore perché potrà dire con l’apostolo Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
    Spirito Santo facci entrare in questa beatitudine! Non permettere che andiamo a cercare felicità altrove, lontano dalla comunione con Cristo. Siamo stati fatti per lui e nostra beatitudine è stare con lui abbracciando in lui ogni cosa. Se Cristo vivrà in noi saremo beati sempre e in ogni caso, pur in mezzo a mille prove e sofferenze, perché avremo in noi la gioia vera e imperitura che “nessuno vi potrà togliere” (Gv 16,23).
    O Maria, tu che hai sperimentato in te la pienezza di questa gioia, insegnaci a cercarla e a custodirla nella certezza che è  “beato l’uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie” (Sal 127,1).

  • 27 Mar

    Un mediatore necessario

    Il quarto canto del Servo: Isaia 53

     

     di p. Attilio Franco Fabris

     

    Messaggio centrale

     Nella misteriosa figura del Servo sofferente i cristiani hanno riletto la vicenda di Gesù di Nazaret. Nella passione del Servo, provocata dal peccato di tutti, il mondo trova riconciliazione e perdono: è lui infatti l’unico innocente che può giustificarci davanti a Dio. Lui l’unico mediatore di una alleanza nuova ed eterna perché sancita nel suo sangue senza colpa. A noi il prendere coscienza dell’ “alto prezzo” (1 Cor 7,23) di quest’opera d’amore.

     

    Nella sacra Scrittura il nome di “Servo di JWHW” è un titolo onorifico che viene dato a colui che YHWH chiama a collaborare in modo del tutto particolare al suo progetto di salvezza.
    L’essere “servo di JWHW” doveva essere prerogativa essenziale di Israele in mezzo a tutti gli altri popoli, ovvero chiamato ad essere destinatario e mediatore dell’alleanza donatagli non a titolo esclusivo ma perché potesse essere testimoniata e offerta a tutti gli altri popoli. Ma così non è stato a causa del peccato di Israele, ovvero dell’infedeltà all’alleanza che lo ha portato a “servire altri dei” e non l’unico suo Dio (cfr Dt 6,14).
    Nei profeti è contemplato il fatto che Dio non si arrende al suo progetto, eccolo allora tra il popolo infedele scegliersi un “piccolo resto” che avrebbe risposto positivamente alla chiamata ponendosi al servizio esclusivo di JHWH. È appunto a questo piccolo e ipotetico futuro resto fedele che sono rivolti gli oracoli del “Libro della Consolazione” del profeta Isaia (cc 40-55). In questi carmi, tra i più famosi, della Bibbia, appare la misteriosa figura di un “profeta” che Dio chiama ripetutamente “suo servo“: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato” (52,13). Questo “servo” riceverà una missione tutta particolare, unica: quella di riconciliare l’umanità intera a Dio, rinnovando l’antica alleanza: questo “ritorno” si attuerà attraverso il sacrificio della sua vita che renderà manifesto il peccato di tutti (Israele e gli altri popoli compresi), affinché tutti prendano coscienza della loro lontananza da Dio e della necessità di aderire all’alleanza di cui il “Servo” si è fatto mediatore.
    Anche noi salendo sulla carrozza dell’eunuco della regina Candace diretto a sud all’ora di mezzogiorno, ci mettiamo a leggere con lui questi testi, lasciando risuonare in noi la sua stessa domanda: “Per favore, di chi il profeta dice questo? Di sé o di un altro?“. Filippo prende allora l’occasione per annunciare la Buona Notizia di Gesù il Servo fedele (cfr At 8,34s).  Nel nuovo Testamento la figura del “Servo di YHWH” trova così la sua realizzazione in Gesù di Nazareth: egli è il “servo fedele” che rendendosi pienamente disponibile alla volontà del Padre “fino alla morte e alla morte di croce“(Fil 6,5) diviene mediatore della nuova alleanza.
    Meditiamo ora le stupende e drammatiche parole della profezia del quarto canto del Servo Sofferente: 

    Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?
    A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
    È cresciuto come un virgulto davanti a lui
    e come una radice in terra arida.
    Non ha apparenza né bellezza
    per attirare i nostri sguardi,
    non splendore per provare in lui diletto.
    Disprezzato e reietto dagli uomini,
    uomo dei dolori che ben conosce il patire,
    come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
    era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.

    E’ un gruppo anonimo che inizia a parlare. Da chi è composto? Suggerirei una possibile risposta in: tutti, nessuno è escluso. Viene pronunciata, quasi ansiosamente, una domanda: “Chi…A chi?“: “Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? A chi…“. È successo qualcosa di sconcertante, di sbalorditivo, di cui a fatica si riesce a dare spiegazione.
    Ciò che è annunciato come “accaduto” non è una teoria, un’idea, bensì un fatto, anzi una persona e tutta la sua vicenda storica. La sua nascita è rappresentata con un simbolo: un piccolo arbusto insignificante che a stento cresce nel deserto. Questo servo-arbusto nel deserto è estremamente fragile e debole, la sua stessa esistenza è grazia perché non può essere generato e alimentato da una terra desolata. Egli è un’umile presenza viva in un mondo divenuto un deserto e luogo di morte a causa del peccato.
    Non ha nulla che possa attirare l’attenzione: non ha bellezza, né forza, né potere. Che valore può avere una storia così “banale” a confronto con le gloriose biografie di Sansone vincitore, di Mosè condottiero, del forte Davide, e del sapiente Salomone? Egli non possiede antenati e genealogie trionfali.
    Egli, al contrario, è disprezzato e respinto dai suoi: Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia”. Tale disprezzo fa ricordare il lebbroso messo al bando, allontanato da tutti come apportatore di morte, un castigato da Dio. Timorosi di contagiarsi tutti fuggono da lui, evitano di incontrarlo; è un tema ricorrente nei salmi di lamentazione: “Hai allontanato da me i miei compagni,mi hai reso per loro un orrore. Sono prigioniero senza scampo; si consumano i miei occhi nel patire. Tutto il giorno ti  chiamo, Signore, verso di te protendo le mie mani (Sal 87,9s; 38,13s; 38, 8ss; Lam 3,1.14). La sofferenza fisica del servo è da tutti interpretata come un castigo divino, e perciò lo si tiene lontano come un peccatore.

    Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
    si è addossato i nostri dolori
    e noi lo giudicavamo castigato,
    percosso da Dio e umiliato.
    Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
    schiacciato per le nostre iniquità.
    Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
    per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
    Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
    ognuno di noi seguiva la sua strada;
    il Signore fece ricadere su di lui
    l’iniquità di noi tutti.
    Maltrattato, si lasciò umiliare
    e non aprì la sua bocca;
    era come agnello condotto al macello,
    come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
    e non aprì la sua bocca.

    Sono gli spettatori che a questo punto confessano la loro colpa: si riconoscono responsabili del dolore arrecato al Servo. Il peccato è loro non suo, mentre all’inizio, come gli “amici” di Giobbe, hanno creduto che fosse Dio stesso a castigarlo.
    In realtà il Servo accetta di portare su di sé le conseguenze del male di tutti gli altri, e con la sua sofferenza innocente può aprire i loro occhi perché riconoscano il loro peccato. I dolori del Servo infatti dimostrano sì l’esistenza del male e del peccato, ma non del peccato di colui che soffre, bensì di coloro che gli procurano dolore e morte. Il “castigo” è nostro, il “dolore” è suo! E il suo “dolore” è salvifico perché capace di suscitare pentimento, di provocare una dolorosa rivelazione del male che abita il profondo del cuore di ciascuno di noi.
    Tutto questo rientra in un preciso disegno: “il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”. Questa sarà un’espressione frequentemente usata nel kerygma cristiano per designare la consegna del Figlio da parte del Padre all’umanità peccatrice (“Mentre si trovavano insieme in Galilea, Gesù disse loro: «Il Figlio dell’uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà» Mt17,22s; Gv 18,30.35; At. 3,13).
    Il silenzio del Servo è emblematico: di solito un uomo in preda alla sofferenza urla la sua disperazione e la propria rabbia. Nel libro di Giobbe e nei salmi l’uomo che soffre “grida, invoca, geme…”. Il Servo invece tace “come un agnello“; egli affida la sua causa interamente a Dio, e il suo silenzio nel medesimo tempo diviene messaggio profetico di un amore che senza limiti si mette nelle mani dei suoi persecutori. 

    Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
    chi si affligge per la sua sorte?
    Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
    per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte.
    Gli si diede sepoltura con gli empi,
    con il ricco fu il suo tumulo,
    sebbene non avesse commesso violenza
    né vi fosse inganno nella sua bocca.
    Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
    Quando offrirà se stesso in espiazione,
    vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
    si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
    Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
    e si sazierà della sua conoscenza; 

    Viene riconosciuto da parte di tutti che nei confronti del Servo vi è stato un giudizio errato e applicata una condanna tremendamente ingiusta (con oppressione). Di fronte a tale condanna ingiusta il servo non si è difeso, non ha invocato il castigo e il giudizio da parte di Dio (come invece fece Geremia: 17,18). Non ha reagito al male con il male, alla violenza con la violenza: egli ha spezzato una volta per tutte la catena del male che lo circondava, caricando tutto l’enorme peso del peccato del mondo su di sé. Un giorno, sulle rive del Giordano, il profeta Giovanni Battista indicherà ai suoi Gesù di Nazaret definendolo “l’Agnello-Servo  di Dio che porta su di sé il peccato del mondo” (Gv 1,29)!
    Egli è stato alla fine “eliminato“: il male non sopporta il bene, le tenebre non sopportano la luce. Nella battaglia sembra che male e tenebre abbiano il sopravvento. Così l’esistenza del Servo sembra terminare in una tragitta sconfitta. La sepoltura ignominiosa sigilla tutta una vita abbeverata di dolore e disprezzo: egli finisce nella fossa comune dei giustiziati a morte (“sepoltura con gli empi” 14,19).
    Dopo la sua morte viene riconosciuta la sua innocenza: ma non è ormai troppo tardi? Il crimine è stato ormai commesso.
    Ma la morte non è lo sbocco tragico e definitivo verso cui la vita del Servo è ormai irrimediabilmente sprofondata. Anzi, proprio la sua morte ignominiosa, apre ad un mistero di vita inaspettato: il germoglio che si credeva ormai estinto continua a crescere a fiorire.
    Al giusto e fedele Servo viene dato di contemplare nuovamente la luce (cfr Sal 36,10), si sazia nella dolcezza della gloria che gli è attribuita che è il “conoscere”  Dio (“la vita eterna  è conoscere te”: Gv 17,3).

    il giusto mio servo giustificherà molti,
    egli si addosserà la loro iniquità.
    Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
    dei potenti egli farà bottino,
    perché ha consegnato se stesso alla morte
    ed è stato annoverato fra gli empi,
    mentre egli portava il peccato di molti
    e intercedeva per i peccatori. 

    Nel finale del carme entra in scena Do stesso; è lui a pronunciare un giudizio definitivo sulla vicenda del Servo. Ciò che gli uomini hanno considerato un fallimento per YHWH risulta invece una straordinaria vittoria. Una vittoria che, scandalosamente, passa attraverso il sacrificio della vita stessa del Servo: “offrirà se stesso in espiazione“. Vi è qui un forte riferimento al sacrificio liturgico dell’agnello offerto per i peccati commessi da tutto il popolo (cfr Lv 4-5). La morte del Servo possiede un risvolto sacrificale espiatorio: rappresenta un sacrificio perfetto offerto in espiazione dei peccati, proprio perché vittima innocente dell’odio, dell’ingiustizia, della violenza che abitano il cuore dell’uomo essa può liberarne tutti noi suoi persecutori: “giustificherà molti“. Egli sarà in grado di condividere con tutti noi la sua innocenza realizzando così tutte le promesse fatte da Dio (Is 40,14; Rm 3,26).
    Il canto termina con le note della glorificazione del Servo, al quale è data da Dio la signoria su tutti i regni e i popoli della terra: “Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino”. Il Servo appare ora come Signore e Giudice della storia dinanzi al quale ogni creatura può solo prostrarsi in adorazione:E quando l’ebbe preso, i quattro esseri viventi e i ventiquattro vegliardi si prostrarono davanti all’Agnello, avendo ciascuno un’arpa e coppe d’oro colme di profumi, che sono le preghiere dei santi.  Cantavano un canto nuovo: «Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangueuomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione»” (Ap 5,8-10).
    La figura del Servo sofferente per noi ha un nome: Gesù. Gli evangelisti rileggendo le profezie di Isaia hanno potuto comprendere e rileggere il mistero della passione, morte e resurrezione del Crocifisso risorto. Solo attraverso di lui vi è perdono, riconciliazione, con Dio, nel suo sangue è stipulata quella nuova e perfetta alleanza che nulla potrà mai distruggere perché fondata su di lui unico servo fedele e obbediente nel quale tutti siamo riscattati. 

    Per la riflessione

     Nella vicenda del Servo sofferente siamo posti dinanzi ad una tragica rivelazione: quella del male che abita il cuore di ciascuno di noi. La croce di Gesù è infatti rivelazione del peccato che ci abita, delle resistenze e del rifiuto alla luce e alla verità, male irrimediabile che determinerebbe solo la nostra condanna. Ma Dio non arretra: paga tutte le conseguenze del nostro rifiuto caricandole, nel Servo-Gesù-suo Figlio, sulle sue stesse spalle, e questo perché l’uomo alla fine si arrenda all’offerta di alleanza e di amicizia che nell’umiltà sconcertante e nel silenzio enigmatico del Servo sofferente egli fa all’uomo.

     Preghiera conclusiva

    Fil 2,5-11

     P.         Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, 

    1 C.     il quale, pur essendo di natura divina,
    non considerò un tesoro geloso
    la sua uguaglianza con Dio;

    2 C.     ma spogliò se stesso,
    assumendo la condizione di servo
    e divenendo simile agli uomini;

    1 C.     apparso in forma umana,
    umiliò se stesso
    facendosi obbediente fino alla morte
    e alla morte di croce.

    1 C      Per questo Dio l’ha esaltato
    e gli ha dato il nome
    che è al di sopra di ogni altro nome; 

    2 C.     perché nel nome di Gesù
    ogni ginocchio si pieghi
    nei cieli, sulla terra e sotto terra; 

    1 C.     e ogni lingua proclami
    che Gesù Cristo è il Signore,
    a gloria di Dio Padre.

  • 27 Mar

    Maestro dove abiti?

    Lectio di Gv 1,35-42

     

     di p. Attilio Franco Fabris

     

    La sequela di Cristo non si improvvisa mai, perché è sempre il frutto di un paziente cammino di conformazione a lui. È frutto di un incontro che nasce dalla fame dell’uomo di una parola “sostanziale” e “sapienziale” che dia finalmente gusto e significato alla sua vita, alla sua gioia, al suo dolore e alla sua morte. È frutto di una ricerca che sfocia nello stupore di una risposta che gli giunge come dono dall’esterno, come il pane e l’acqua che Elia si trovò accanto al suo risveglio nel suo disperato pellegrinaggio al monte di Dio.
    È un incontro possibile perché desiderato e programmato anzitutto da Dio stesso che “ama tutto ciò che ha creato“. Nella rivelazione biblica si narra di come Dio ha risposto, a partire da Abramo, al bisogno dell’uomo di una casa, di un paese, dove “abitare” con lui: “a tutti sei venuto incontro perché coloro che ti cercano ti possano trovare” (Preghiera Eucaristica III).
    L’incontro con Cristo, nel nuovo testamento, segna per chi lo incrocia sulla strada questa scoperta contrassegnata dallo “stupore e dalla gioia di una salvezza ritrovata” (Preghiera eucaristica III). Esso incide nel cuore di coloro che se ne lasciano toccare una svolta indelebile che si incarna nella memoria di tutto il loro essere: “erano circa le quattro del pomeriggio“. Finalmente l’uomo ha trovato “casa” e di che soddisfare la sua sete: “Chi ha sete venga a me e beva, chiunque crede in me fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno“.
    Invochiamo il dono della sapienza perché, attraverso l’ascolto della Parola, susciti in noi la stessa sete dei primi discepoli: “La Sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la voce; dall’alto delle mura essa chiama, pronunzia i suoi detti alle porte della città: «Fino a quando, o inesperti, amerete l’inesperienza e i beffardi si compiaceranno delle loro beffe e gli sciocchi avranno in odio la scienza? Volgetevi alle mie esortazioni: ecco, io effonderò il mio spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole. Poiché vi ho chiamato e avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno ci ha fatto attenzione; avete trascurato ogni mio consiglio e la mia esortazione non avete accolto; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi piomberà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi colpirà l’angoscia e la tribolazione. Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno” (Proverbi 1,20-25).

    Lectio

    Nel brano ascoltato abbiamo sentito narrare la chiamata, da parte di Gesù, dei primi tre discepoli: di Andrea e dell'”altro discepolo” (si tratta di quello che verrà definito come “il discepolo che Gesù amava”? Si tratta forse di Giovanni? Cf 21,20), e infine di Pietro condotto dal fratello Andrea a colui che subito egli definito come: “Il Messia”. Nel brano successivo verrà narrata la chiamata di Filippo e infine di Natanaele (vv.43-51).
    L’evangelista, in questo secondo capitolo, scandisce il susseguirsi degli avvenimenti riguardanti la testimonianza del Battista e la chiamata dei discepoli in tre giornate (cfr “Il giorno dopo“: v. 29.35.43). L’episodio della chiamata dei primi tre si colloca precisamente al “secondo giorno“, dopo la solenne testimonianza del Battista nei confronti di Gesù presentato come l’ “Agnello di Dio” (v.29).
    Ora Giovanni il Battista aveva al suo seguito una schiera di discepoli che avevano aderito alla sua predicazione tutta improntata sulla necessità della conversione in vista del prossimo avvento del Regno di Dio nella persona del Messia atteso: “Viene uno dopo di me al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo” (v. 27). Tra questi suoi discepoli si collocano i futuri primi discepoli di Gesù di Nazaret.
    La scena dell’incontro di Gesù con il Battista e con i primi tre discepoli avviene “al di là del Giordano” (vv 28.35): siamo probabilmente nei presso Betania della Trangiordania dove il battezzatore svolgeva generalmente la sua missione profetica.  È impossibile districarsi cercando di trovare delle concordanze tra il racconto della chiamata fatto dal quarto evangelista e i tre sinottici. Questi ultimi infatti collocano la chiamata dei primi discepoli sulle rive del lago di Tiberiade presentandoli come semplici pescatori e non come discepoli del Battista (cf Mc 1,16-20; c’è tuttavia da menzionare il fatto che in Atti 1,21 Luca ribadirà che gli apostoli per essere tali devono essere stati testimoni di Cristo a partire proprio “dal battesimo di Giovanni“). Tutte queste divergenze non ci inquietano ma stanno ad indicare che in tutti questi testi di vocazione l’intento degli scrittori è prevalentemente teologico e cristologico.
    In questo “secondo giorno”, dopo che Giovanni il Battista aveva già indicato a Israele Gesù come: “L’agnello di Dio… ecco colui del quale io dissi” (v. 29s),  il battezzatore indica Gesù negli stessi termini direttamente ai suoi (v. 36).
    Il ruolo che assume Giovanni in questo capitolo è fondamentale: infatti l’incontro con Gesù da parte dei primi due discepoli è mediato da lui che qui chiaramente appare nella sua qualità di testimone. Egli fà da ponte tra le due economie della salvezza e fa’ si che si passi dalla profezia al vederne con i propri occhi il suo compimento.
    Nel nostro testo lo sguardo del Battista è attratto subito dal nazareno: “fissando lo sguardo su Gesù” (v. 36). Il verbo usato indica uno sguardo intenso e penetrante (“emblèpas“) capace di andare al di là del semplice “vedere”. Giovanni ci viene presentato fermo sulle rive del fiume: “stava là” (v. 35), una situazione dissimile da quella di Gesù che invece ci viene presentato in cammino: “passava“. La missione di Gesù è un costante camminare “verso” Gerusalemme. Ormai l’antica alleanza ha concluso il suo lungo percorso di preparazione, ha raggiunto la sua meta fermandosi, ha condotto l’uomo alla soglia dell’incontro a tu per tu con Dio.
    A Giovanni allora non resta, con grande umiltà e verità, che ribadire questa sua testimonianza ai suoi discepoli: “Ecco l’agnello di Dio” (v. 35). È splendida questa testimonianza del Battista che riconoscendo il suo ruolo di ponte, di “voce della Parola” (sant’Agostino), si fa da parte: egli non è geloso, anzi spinge i suoi ad andare oltre la sua persona: Egli deve crescere e io invece diminuire” (3,30). I discepoli “sentendolo parlare così seguirono Gesù” (v. 37): il verbo “parlarelaluntòs” è espressione che implica una rivelazione. Questa rivelazione smuove i due discepoli a lasciare il loro primo maestro. “Seguirono“: il verbo “èkoluthesan” è quello specifico per indicare il discepolato.
    La reazione da parte di Gesù nei confronti dei due che iniziano a seguirlo si risolve in una domanda semplice, ma come ogni parola estremamente semplice è capace di andare all’essenziale, al cuore della realtà: “Che cercate?” (v. 38). Se l’iniziativa della sequela sembra apparentemente appartenere ai due discepoli, il fatto che sia Gesù per primo a rivolgere loro la parola sta ad indicare come sia lui in verità il protagonista della chiamata. Gesù stesso lo ricorderà: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (15,16). Venendo al vero usato “cercare – thètein” nella sacra Scrittura lo troviamo usato con accezioni vastissime: la sua radice aramaica significa sia “cercare” come “volere”. In questo caso l’equivalente della domanda posta da Gesù è: “Che cosa volete?”. In ogni caso nella Scrittura l’invito rivolto all’uomo che teme Dio è di “cercare” il “volto di Dio”, o in altre parole il dono della Sapienza (Pr 8-9). Sembrerebbe dunque che l’evangelista ponga qui un sottile, benché fortissimo, rapporto tra Gesù quale “icona di Dio” (Col 1,15) e la Sapienza veterotestamentaria.
    Alla domanda: “Che cercate?” i due discepoli rispondono anzitutto con l’appellattivo di “Rabbi” (v. 38). Si tratta di un titolo onorifico che originariamente in aramaico stava a significare “Mio grande signore” (da “rab” = grande). La traduzione data dall’evangelista non è dunque fedele a livello letterario, tuttavia è un titolo che gli è molto caro: lo usa ben otto volte ma solo nella prima parte del vangelo quella denominata “Libro dei Segni”. Nella seconda parte (il “Libro della Gloria”) il titolo dato a Gesù sarà più esplicitamente di fede: “Kyrios – Signore“. Vi è una perciò espressa una crescita di comprensione da parte dei discepoli (cfr 13,13-14) nei confronti di colui che seguono.  Chiamandolo “rabbi” i due riconoscono ed esplicitano la loro attesa di una parola salvifica che intravedono possibile sulla labbra di Cristo, e che neppure Giovanni ha potuto loro donare. Ma se Gesù può offrire loro un tale definitivo “insegnamento” da questa sua parola non può non scaturire la sequela! �
    I discepoli domandano: “Dove abiti (méneis)?” (v.38). Non è solo una curiosità geografica. La domanda sottindente tutta la ricerca da parte dell’uomo, angosciato dalla sua finitudine, di trovare ciò che è “eterno” fissandovi la sua dimora.
    La risposta di Gesù è quasi lapidaria: “Venite e vedrete” (v. 39). Nel quarto vangelo i verbi “venire” e “vedere” sono espressioni tecniche per indicare la chiamata e l’azione del discepolo: questi deve andare a Gesù e vedere, ossia aprirsi alla sua rivelazione. È Gesù che invita ad andare a lui e si va a lui al fine di poter “vedere” ovvero accostarsi alla sua esperienza (cfr 1Gv 1,1-5).
    I due “andarono… e restarono (“émeinan”) con lui“: è il caso di sottolineare l’insistenza tipica di Giovanni del verbo “ménein – rimanere, restare, abitare…“. Esso sta a significare una strettissima comunione di vita che è riflesso di quella che sussiste anzitutto tra il Figlio e il Padre e che viene estesa, partecipata, a tutti coloro che credono in lui. Per il discepolo si tratta di un “permanere-restare” che scaturisce anzitutto da un ascolto costante della Parola: “Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete (méinete) fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli” (8,31).
    A questo punto troviamo una precisazione che un po’ stupisce: “Era circa l’ora decima“, ovvero circa le quattro pomeridiane. Come mai questa precisazione cronologica? Essa sembra essere posta al fine di sottolineare che quel momento è indelebile nella memoria perché ha segnato una svolta nella vita dei discepoli. Altri esegeti la interpretano invece in modo simbolico: dieci sta a dire la pienezza del tempo ormai giunto. Per altri starebbe a significare l’ora del tramonto, con riferimento all’antica alleanza rappresentata dal Battista che prelude al giorno nuovo.
    Giungiamo così all’ultimo passaggio (vv.40-42): Andrea si reca dal fratello Simon Pietro per annunciargli lo straordinario incontro avvenuto con Gesù. Le parole di Andrea al fratello sono già un chiaro indizio di fede: “Abbiamo trovato il Messia“. Se prima era solo un “rabbi”, dopo “lo stare” con lui egli è ora il “messia“. Vi è una crescita di fede che deriva dal fatto di “abitare” con Cristo, ovvero di conoscerlo sempre più profondamente. Per il quarto evangelista è dunque Andrea che riconosce per primo in Gesù il Messia e non Pietro come nei sinottici (cf Mc 8,31).
    Tu sei Simone, figlio di Giovanni; tu ti chiamerai Cefa“: queste sono le prime parole indirizzate da Gesù a Simone. Simone viene definito “figlio di Giovanni” in relazione forse al fatto dell’essere anch’egli discepolo del Battista? Alcuni esegeti lo sostengono. Poi Gesù compie un gesto di grande autorità cambiandogli il nome: “Ti chiamerai Cefa”. Nella tradizione biblica un nome nuovo sta a dire un mandato da assumere, un cambiamento nella vita e nel destino di una persona. Ma in questo caso più che un nome si tratta di un soprannome che può stare ad indicare l’essere duro come una pietra sia in senso amichevolmente ironico: “Simone Testadura” ovvero colui che difficilmente si sposta dalle sue idee, oppure in senso più spirituale: “solido come una roccia” (cf Mt 16,17s) in riferimento al mandato che Pietro dovrà assumere di “pascere il gregge” di Cristo con la sicurezza dettata dall’amore (21,15). 

    Collactio

     Le prime parola di Gesù sono una domanda che rivolge al futuro discepolo: “Che cercate?“. Nella “Regula Benedicti” l’abate al postulante pone la stessa domanda. Nel Battesimo avviene la medesima cosa: “Cosa chiedi?”. La domanda di Gesù non è una banale richiesta o curiosità al fine di sapere il motivo per cui i due gli stanno andando dietro. Si tratta invece di un interrogativo tutto teso a far emergere il bisogno fondamentale che soggiace alla coscienza di ogni uomo e che lo pone in cammino, in ricerca: è in definitiva far emergere il suo bisogno di salvezza. Se l’uomo avverte un bisogno di salvezza, al discepolo Gesù propone la sua sequela. Ai due decidere se “andare dietro” a Gesù per trovare risposta: “sentendolo parlare così, seguirono Gesù“.
    Alla luce di questo comprendiamo come il discepolo non è anzitutto chiamato ad “imitare” Gesù ma a seguirlo. Questo perché appaia chiaramente che l’opera della salvezza, la risposta al bisogno dell’uomo, è tutta sua e non nostra. Forse in una certa visione ascetica passata si insisteva troppo sul tema dell’ “imitazione”: questo però poteva far incorrere in un rischio molto pericoloso, quello dell’intendere la “sequela” in termini prettamente moralistici. Il tema dell’imitazione correva sull’onda di una sorta di competizione più che con il Signore con l’ideale di noi stessi; l’accento in questo caso era posto sulla scia di quello che noi dovevamo compiere per essere salvati più che sull’ascolto della sua Parola che salva. Gesù per il discepolo non deve essere tanto il modello da imitare quanto la persona con cui condividere l’esperienza di comunione di vita: solo così la sequela non si pone sulla scia della perfezione da seguire ma dell'”abitare con lui” che sta alla nostra porta e bussa!
    Il discepolo evidentemente cammina verso una sempre maggiore conformazione al suo Maestro e Signore, ma ciò che attua tale conformazione non è anzitutto il suo sforzo morale ma la docilità all’opera dello Spirito che Gesù stesso dona. E tale conformazione-sequela raggiungerà la sua completezza solo al di là della nostra esistenza quando “Dio sarà tutto in tutti“. Solo allora il discepolo avrà “seguito” Cristo non solo sino al Calvario ma anche nella sua resurrezione che lo conformerà pienamente a sé.
    Tutto questo esige tempo: la sequela non è opera di un giorno, di una decisione presa il giorno del battesimo o della professione. Essa non si improvvisa mai, ma domanda la pazienza del cammino quotidiano con tutte le sue fatiche, incertezze, cadute , entusiasmi. Ma è un cammino nel quale siamo educati dalla Parola, cesellati, il più delle volte dalle contraddizioni e sofferenze, ad immagine del nostro Maestro.
    In questo senso l’essere discepoli esige una conversione costante. Seguire Cristo, accogliere il suo invito: “Venite!” implica una decisione che struttura e qualifica fin nella radice più profonda l’esistenza del discepolo e della comunità. Ma in che consiste questa “metanoia”? Essenzialmente nel “rimettersi dietro” a Cristo ogni giorno, in ogni nostra concreta situazione di vita, domandandosi: cosa significa per me seguire Cristo qui e in questo momento? Infatti la tentazione sarà sempre quella di piegare, “sciogliere”, Cristo affinché sia lui a seguire noi e non noi lui. Pietro “Testadura” insegna (cfr Mt 16,23)!
    Questa conversione continua esige perciò una stabile e “rocciosa” fedeltà a Cristo ma nello stesso tempo una grande duttilità e creatività nell’incarnare tale fedeltà. Non si tratta di “eseguire” ma di… seguire! Purtroppo spesso ci accontentiamo più facilmente e comodamente di “eseguire” una sequela che non scombussola poi più di tanto la vita. Perché questo non avvenga è imprescindibile una sintonia, una comunione con Cristo: è ossia essenziale per il discepolo l’ “abitare con lui”, perché “nel rapporto con Dio, non ci si può impegnare fino ad un certo grado, perché Dio è proprio l’esatto contrario di quel che esiste in certo grado” (Kierkegaard, Diari).
    In quest’ottica comprendiamo come la sequela dell’unico Maestro non è identica per tutti. Essa è diversa per ciascuno, diversa nelle epoche, diversa nelle varie situazioni. Annalena Tonelli, uccisa in Somalia nell’ottobre 2003, lasciava ad esempio scritto: “Scelsi di essere per gli altri che ero una bambina e così sono stata e confido di continuare a essere fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: lui e i poveri  in Lui”.  La nostra sequela deve essere perciò riesaminata e riaccolta ogni giorno, alla luce di quanto la Parola suscita in noi, soprattutto nei momenti più difficili della vita, nelle svolte decisive e spesso dolorose che si affacciano sulla nostra storia personale, comunitaria, ecclesiale. Questo atteggiamento è essenziale per vincere la più grande tentazione del discepolo che è la “riduttività”. Nella sequela persiste sempre il pericolo per il discepolo di falsare, frantumare, “sciogliere Gesù Cristo” (1Gv 1,42 vulg.) ovvero ridurlo a schemi precostituiti soggettivi e riduttivi. Scrive D. Bonhoeffer a tal proposito: “Il discepolo si mette a disposizione e quindi ha il diritto di porre le sue condizioni. Ma è anche chiaro che a questo punto la sequela cessa di essere sequela” (da “Sequela”). In questa tentazione vi si cade quando il singolo o l’istituzione si fossilizzano in concretizzazioni ormai superate: quando si vive di memoria stantia preoccupata più di conservare che di ascoltare ciò che “lo Spirito dice alle Chiese”, cessa la sequela quando cessa d’essere profezia che guarda in avanti nella direzione del Regno.
    Allora nel discorso sulla sequela non si insisterà mai a sufficienza sul fatto che il discepolo e la comunità devono costantemente vivere in un sano” strabismo” ovvero dal saper tenere attenti gli orecchi e lo sguardo, come i due discepoli, su due realtà contemporaneamente: la Parola e la storia. Solo così non ci si accontenterà solo di sopravvivere di glorie passate, fossero pure quelle gloriose e sante delle proprie origini o dei fondatori. Quelle pagine devono essere “riscritte costantemente” (come ci ricordava Giovanni Paolo II nell’esortazione “Vita Consacrata”). Questo significa accogliere “Gesù Maestro e Signore nella pienezza del suo mistero e questa non è opera di un giorno nella consapevolezza che non si dà autentica sequela senza l’amore per chi si segue. 

    Oratio

     O Signore, tu ci comandi di seguirti non perché tu abbia bisogno del nostro servizio, ma soltanto per procurare a noi la salvezza. Infatti seguir te, nostro Salvatore, è partecipare alla salvezza, e seguire la tua luce è percepire la luce… Il nostro servizio non apporta nulla a te, perché tu non hai bisogno del servizio degli uomini: ma a coloro che ti servono e ti seguono, tu doni la vita, l’incorruttibilità e la gloria eterna… Se tu ricerchi il servizio degli uomini è per poter accordare, tu che sei buono e misericordioso, i tuoi benefici a coloro che perseverano nel tuo servizio. Perché, come tu, o Signore, non hai bisogno di nulla, così noi abbiamo bisogno della comunione con te; infatti la nostra gloria è di perseverare e rimanere saldi nel tuo servizio. Amen (Sant’Ireneo, vescovo di Lione del IV sec, da “Contro le eresie” IV).

  • 26 Mar

    Custodire la Parola

    Lectio di Lc 2,19.51

    di p. Attilio Franco Fabris

    Custodiamo lungo l’arco della vita ciò che riteniamo più prezioso e indispensabile alla nostra vita. Infatti non custodiamo le cose superflue, quelle inutili o il ciarpame che si accumula nei cassetti e di cui ci sbarazziamo senza fatica né dolore ogni tanto. Ma ci sono “cose” dalle quali non vogliamo staccarci, che vogliamo “custodire” ad ogni costo. Per Gollum – uno degli indimenticabili protagonisti del romanzo tolkiano “Il Signore degli Anelli” – il suo prezioso “tessoro” (così morbosamente lo chiamava) era purtroppo l’ultimo anello che lo faceva schiavo del suo delirio di onnipotenza. Rischiamo anche noi, come Gollum, di attaccarci a cose, persone, situazioni, sbagliate e di volerle “custodire” come indispensabili alla vita, come portatrici di promesse illusorie di felicità.
    Ecco la necessità di continuare a domandare alla nostra coscienza: ma cosa sto custodendo nella mia vita? Cosa stiamo custodendo come tesoro prezioso nella mia comunità, nella mia famiglia? Cosa ritengo essenziale salvaguardare e proteggere come il mio inseparabile bene e mia fonte di speranza?
    Perché, è vero: “dove è il tuo tesoro lì sarà anche il tuo cuore” (Lc 12,34),  ovvero dove è inclinato il nostro cuore, lì pensiamo e desideriamo appagare il nostro desiderio di pienezza di vita.
    Per il credente il “tesoro prezioso” non è l’anello che promette potere e successo ma il dono della fede, ovvero dell’amicizia con Cristo. Questa nasce e cresce dall’assiduità dell’ascolto della sua Parola in cui crediamo risieda il germe della vita: “Sii buono con il tuo servo e avrò vita, custodirò la tua parola“(Sal 118,17); “Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6).
    Da ciò scaturisce che il cristiano dovrebbe custodire gelosamente la Parola del Signore come l’energia nascosta ed inesauribile della fede dalla quale attingiamo la “sublime conoscenza del mistero di Cristo“:Figlio mio, se tu accoglierai le mie parole e custodirai in te i miei precetti, tendendo il tuo orecchio alla sapienza, inclinando il tuo cuore alla prudenza,  se appunto invocherai l’intelligenza e chiamerai la saggezza, se la ricercherai come l’argento e per essa scaverai come per i tesori, allora comprenderai il timore del Signore e troverai la scienza di Dio” (Pr 2,1-5). Tutto il resto, usando l’espressione di Paolo apostolo, egli “considera come spazzatura” (cfr Fil 3,8) indegna d’essere conservata.
    Domandiamo allo Spirito il dono del discernimento al fine di imparare a riconoscere e custodire la nostra vera ricchezza per poterla poi testimoniare e comunicare al mondo intero.
    Lo Spirito Santo effettuerà in me una continua incarnazione del verbo: io posso dare al Verbo un cuore umano per amare ancora nel tempo i fratelli e il Padre, gli posso dare le mie membra e il mio spirito perché vi compia “ciò che manca alla passione per il Corpo di Lui che è la Chiesa”. Lasciar vivere Gesù in me: lui la mia umiltà, la mia purezza, la mia carità, la mia pazienza, la mia forza, la mia amabilità. Sparire per lasciar regnare lui; non devo imitare Gesù ma rimanere io; devo sparire e lasciar vivere lui divenire il mio io, le specie trasparenti che nascondono Cristo” (Maria Gubbi)

    Lectio

    Uno dei termini usati nell’antico e nel nuovo testamento per indicare l’azione del “custodire” è “shamar” (in greco: terein) che in senso traslato viene a esprimere la premura con cui l’uomo custodisce non solo delle cose bensì anche un comando, una parola, una tradizione. Il verbo ribadisce l’idea del “proteggere-sorvegliare con premura” (Gv 2,10; 2Pt 2,4; 1Ts 5,23…) da cui scaturisce quella dell’ “osservare-obbedire- rimanere saldi” (ad esempio è frequente l’espressione “custodire i comandamenti“: cfr 1Sam 15,11; Pro 13,3; 19,16; Gc 2,10; Gv 9,16; 14,15.21; Ap 2,26…).
    E’ dunque significativo che questo termine, usato anche nei due versetti di Luca che commentiamo, abbracci non solo l’idea del “conservare-custodire” ma anche quello dell'”obbedire-osservare-mettere in pratica“. In effetti colui che custodisce gelosamente una parola nel suo cuore inevitabilmente fa sì che questa parola impregni tutta la sua vita così che anche il suo agire ne è determinato: “Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza” (Lc 8,15).
    Veniamo allora ai due brevissimi testi proposti alla nostra meditazione. Sono entrambi tratti dal secondo capitolo di Luca dove l’evangelista narra gli avvenimenti della nascita di Cristo.
    Il primo testo è il vers. 19 conclusivo all’episodio dell’annunciazione ai pastori e del loro andare a contemplare ciò che è stato loro detto. I pastori sono presi dallo “stupore-spavento” (v.9) dinanzi al realizzarsi della promessa di Dio fatta a Davide. Ma questo stupore non è che una fase iniziale del cammino di ascolto della parola. Ad esso deve seguire l’approfondimento e l’interiorizzazione della Parola.
    Ecco allora che Luca sposta l’attenzione dell’ascoltatore invitandolo a centrare la sua attenzione su Maria.
    Essa viene presentata come colei che  non solo “custodisce” parole e fatti – fosse anche solo per tramandarli successivamente – ma soprattutto cerca di coglierne il senso, il filo conduttore, capace di dispiegargli passo passo il progetto di Dio. È questo il significato della forma verbale usata: sun-terein(lett. custodire insieme). Questo impegno a una custodia delle parole-fatti (nelle lingue semitiche il termine “parola” indica anche il “fatto”!) tutta tesa a coglierne il trama nascosta è il processo caratteristico di una fede che desidera crescere e progredire nella comprensione del mistero. Questo sforzo interiore di Maria è ancora sottolineato da Luca attraverso un verbo molto caratteristico:  “symballein” che letteralmente significa “riuniremettere insieme-ravvicinare le partimettere a confronto“. Nella tradizione cristiana questo processo sarà poi espresso con la parola “meditare“.
    Luca ci vuole presentare Maria – modello del discepolo – che impiega tutte le sue energie (“nel suo cuore“) nel “custodire nel cuore” una continua meditazione degli eventi e delle parole di un mistero che di certo la superano ma nel quale è chiamata ad entrare attivamente e sempre maggiormente. Così Maria fin dall’inizio viene formata ad una fede che è destinata a crescere attraverso un progressivo cammino di interiorizzazione e comprensione. Luca riporterà la frase di Gesù che elogia indirettamente questo fondamentale e prioritario impegno di ogni discepolo: “Ma Gesù rispose: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica»” (Lc 8,21).
    Nel nostro versetto il “custodire” la Parola assume la valenza del progredire nella sua comprensione attraverso un costante esercizio di meditazione al fine di porsi in sintonia col disegno di Dio.
    Ma veniamo al secondo testo. E’ il vers. 51 che conclude il cosiddetto “vangelo dell’infanzia”. Siamo infatti al termine dell’episodio tragico della perdita e del ritrovamento di Gesù nel Tempio.
    Seduto fra i maestri della Legge Gesù ha manifestato ai suoi la sua missione e ha rivendicato la sua figliolanza e quindi dipendenza unicamente dal “Padre suo” (v. 49). Il vangelo riporta che queste parole di Gesù non sono comprese né da Maria tanto meno da Giuseppe (“Ma essi non compresero le sue parole” v. 50).  Il mistero non può essere totalmente e immediatamente compreso!
    Dopo questo momento di tensione la scena è riportata nell’atmosfera familiare della quotidianità della vita di Nazaret. Una esistenza semplice in cui il figlio è chiamato ad osservare il quarto comandamento: “Onora tuo padre e tua madre” (Dt 5,16).
    Il contrasto con la scena precedente del contrasto con i genitori è appositamente stridente: se prima Gesù rivendica la sua autonomia e indipendenza dalla famiglia umana in quanto relazionato essenzialmente con Dio ora egli ci è presentato “sottomesso” ai suoi genitori terreni.
    A questo punto l’evangelista fa ancora emergere la figura di Maria quale immagine  del discepolo che è chiamato a “custodire” conservandola nel tempo la Parola.
    Se nel vers. 19 Maria veniva presentata tutta intenta a collegare e scoprire il filo conduttore capace di dare senso agli avvenimenti, qui ella ci viene presentata come discepola che “custodisce attraverso il tempo” (è l’etimologia di “dia-terein“) quelle “parole-fatti” al fine di approfondirle, comprenderle sempre più. Sono seme destinato a crescere e a fruttificare lungo l’arco dell’esistenza.
    Luca dunque all’interno del secondo capitolo per ben due volte sottolinea la figura di Maria come discepola che “custodisce costantemente, collega e confronta lungo l’arco della sua esistenza” quelle parole e avvenimenti che danno senso alla sua esistenza e vocazione. Ella ne ha bisogno per accogliere quel Figlio che rimane sempre per lei sempre un mistero che non le appartiene.
    L’intento dell’evangelista è probabilmente quello di suggerire alla comunità quale debba essere la pedagogia con cui accompagnare i chiamati alla fede: il catecumeno non comprende tutto e subito; ha bisogno di tempo, ha bisogno di confrontare e collegare costantemente, interiorizzare la Parola di Dio con la vita al fine di scoprirvi il disegno di Dio. Solo in questa esercizio di “custodia” del mistero si attiva la fede.
    Da questo momento Maria scompare dalla scena: ella fa ormai posto ai discepoli tra i quali si pone anche lei. Discepoli che sono chiamati a ripercorrere l’esperienza di Maria per diventare a loro volta capaci di generare nella vita il Verbo ascoltato e custodito nel cuore.

    Collatio

    L’uomo prende nella custodia del suo cuore, della mente e della volontà ciò che ritiene prezioso per la sua vita, ciò che considera un valore. Si custodisce solo ciò che si ritiene importante per la propria vita. L’imprenditore custodisce gelosamente i suoi contratti e i suoi lavori, l’affarista i suoi blocchetti d’assegni, l’anziano i suoi lontani ricordi, il bambino i suoi giochi preferiti, la sposa l’amore per il suo sposo. Noi che ci definiamo credenti – e consacrati – cosa custodiamo gelosamente nel nostro cuore come tesoro inseparabile?
    La risposta è importante perché ciò che custodisco nel cuore, ovvero al centro della mia vita, mi impegna totalmente: il tempo, le energie, l’attenzione:  “che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore” (Sal 39,9).
    Rischiamo sempre di custodire cose sbagliate, di rincorrere chimere, di sprecare energie inutilmente e allora il dono della sapienza è necessario per imparare a discernere l’oro dalla sabbia:  “Dammi la sapienza…che conosce le tue opere, che era presente quando creavi il mondo; essa conosce che cosa è gradito ai tuoi occhi e ciò che è conforme ai tuoi decreti” (Sap 9,9). “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rom 12,2).
    Ma perché custodire la Parola del Signore nel cuore?
    Nel salmo 118 preghiamo dicendo: “La legge della tua bocca mi è preziosa più di mille pezzi d’oro e d’argento” (v. 4). Per il salmista la Parola di Dio è un tesoro inestimabile, e un tale tesoro del valore più grande di mille lingotti d’oro va custodisco ad ogni costo: “Io custodisco i tuoi insegnamenti e li amo sopra ogni cosa” (Sal 118,167).
    La parola è preziosa perché è il seme della fede che è la fonte della speranza e della vita: “Egli mi istruiva dicendomi: «Il tuo cuore ritenga le mie parole; custodisci i miei precetti e vivrai” (Prov. 4,4). Infatti la fede senza l’ascolto della Parola non può germogliare e portare frutto. Come il contadino conserva e custodisce gelosamente la sua semente da gettare nel campo così il discepolo custodisce nel cuore il seme della parola perché poi fruttifichi nella vita: “Figlio mio, custodisci le mie parole e fa’ tesoro dei miei precetti” (Prov. 7,1).
    Vogliamo vigilare nella custodia di questo immenso tesoro in una duplice consapevolezza.
    La prima è che si custodisce qualcosa perché corriamo il rischio di perderla, che ci sia sottratta o rubata. Così è della Parola di Dio che deve essere custodita affinché il nemico non la strappi dal nostro cuore. Questo nemico è Satana ma si chiama anche pigrizia, non vigilanza (che è il contrario della custodia), noncuranza, superficialità, dispersione. Se non custodiamo con vigilanza gli uccelli, la strada, i rovi, o i sassi disperdono il tesoro (cfr Mt 13,24ss).
    La seconda consapevolezza è che questo tesoro – “Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi” (2Tt 1,14) – è destinato non solo a se stessi bensì a tutti i nostri fratelli: per cui questo tesoro della fede che scaturisce dall’annuncio della parola lo custodiamo in noi stessi perché possa essere donato a tutti. Una sua eventuale perdita non andrebbe perciò a detrimento solo di noi stessi ma di tutti!Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa.” (Mt 24,,42-43).
    Necessariamente il teme della custodia si accompagna a quello della vigilanza: san Gregorio di Nissa scrive in una sua opera: “Occorre dunque vigilare con diligenza, volgendosi spesso all’anima e gridandole e ingiungendole come uno stratega: «O uomo, custodisci il tuo cuore sorvegliandolo bene» (Prov 4,23). Da questa sorveglianza dipende l’esito della vita. Il custode dell’anima è la ragione pia, fortificata dal timore di Dio, dalla grazia dello spirito e dalle opere della virtù” (Il fine cristiano).
    Maria ci è posta dinanzi modello del nostro essere discepoli seduti ai piedi del Maestro e in cammino dietro a lui (cfr Lc 10,39; Mc 3,32): “Che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore” (Sal 39,9). Maria attenta ad ascoltare “tutte le Parole” che Dio le rivolge non ne lascia cadere a terra neppure una, le raccoglie, le confronta ne approfondisce ed interiorizza (sun-terein)  il senso mai interamente posseduto, le custodisce gelosamente e amorevolmente nel tempo (diaterein) perché la sua fede possa sempre crescere “finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4,13).
    La Parola custodita illumina i fatti e i fatti a loro volta custoditi sono interpretati alla luce della Parola in una dinamiche di crescita ed interiorizzazione mai conclusi. Senza questa custodia, che diviene memoria anzi “memoriale”, gli avvenimenti e le parole dell’esistenza apparirebbero inconcludenti, senza un filo logico, contraddittori e non portatori di senso. Come infatti Maria potrebbe affrontare il suo “pellegrinare nella fede” (LG) che Dio le propone senza un suo costante impegno nel restare in ascolto della Parola custodita nel cuore come chiave di lettura della sua storia?
    Nei dipinti raffiguranti l’Annunciazione Maria è quasi sempre raffigurata sempre in un atteggiamento di preghiera avendo dinanzi a sé aperto – se  pur su di un anacronistico inginocchiatoio –  il libro della Parola di Dio. Vi si esprime l’essenziale della fede di Maria che si riassume nella sua costante disponibilità a collaborare – è il frutto della preghiera – al realizzarsi della promessa di Dio.
    I Padri insegnano che ciò che si dice di Maria vale per la Chiesa e per ogni credente.
    L’impegno a custodire la Parola del Signore nel nostro cuore è della Chiesa, della comunità e di ciascuno di noi: nessuno escluso. Desideriamo custodirla gelosamente “più di mille pezzi d’oro e d’argento” come fermento della fede, chiave di lettura della storia e fuoco che sospinge all’annuncio del vangelo.
    L’importante documento della CEI, “Comunicare il vangelo in un mondo che cambia” al n. 31 afferma che “ogni uomo è chiamato a prestare attenzione in ogni momento al rivelarsi gratuito di Dio, della sua misericordia che purifica e risana, è chiamato a scorgere la presenza della grazia divina attraverso persone ed eventi”.
    Ciò è possibile nella misura in cui nel cuore è custodito il dono di Dio.  “Prega dunque per chiedere la grazia del vero silenzio di cui Maria ha il segreto, ella che custodiva fedelmente i suoi ricordi e li meditava nel suo cuore” (Fraternità Monastiche di Gerusalemme, Libro di vita).

    Oratio

    Ascolterò la tua Parola, nel profondo del mio cuore.
    Nel buio della notte essa come luce risplenderà.
    Mediterò la tua Parola, nel silenzio della mente.
    Nel deserto delle voci essa risuonerà.
    Seguirò la tua Parola nel sentiero della vita.
    Nel passaggio del dolore la Parola della Croce mi salverà.
    Custodirò la tua Parola, per la sete dei miei giorni.
    Nello scorrere del tempo la Parola dell’Eterno non passerà.
    Annuncerò la tua Parola, camminando in questo mondo.
    Le frontiere del tuo Regno,
    la Parola come un vento  le spalancherà


    (E. Sequeri)

  • 13 Mar

    Li amò sino alla fine  

    Lectio di Gv 13,1-26

     

     di p. Attilio Franco Fabris

    La parola di Dio giunge sempre a rimettere in discussione il nostro modo di leggere e di intendere la realtà, la nostra vita, il nostro stesso modo di essere comunità e di vivere le nostre relazioni all’interno di essa. Corriamo il pericolo che avendo già impostato tutto secondo schemi e modalità, forse un tempo validi, questi alla fin fine divengano però talmente scontati e ovvi da impedirci dal prendere in considerazione l’ipotesi che la storia esiga dei cambiamenti. Questi cambiamenti in linguaggio biblico si chiamano…”conversione”.
    Per ovviare a questo rischio risulta indispensabile una nostra “perseveranza” nell’ascolto della Parola: essa è luce infuocata capace di entrare nella nostra vita e nella nostra storia apportandovi il giudizio di Dio, il più delle volte molto lontano dal nostro: Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,9).
    Lasciando che la Parola “dimori sempre più abbondantemente tra di noi” (Col 3,16) come ci invita Paolo apostolo, invochiamo lo Spirito affinché disponga ora il nostro cuore a ricevere il prezioso dono della Parola, perché essa non cada sulla strada della nostra superficialità, fra i rovi delle nostre ansie o tra i sassi delle nostre durezze di cuore.
    Mandaci, Signore, il tuo Spirito a consacrarci nella verità come tuoi veri discepoli, a liberarci dalla concupiscenza, dalla vanità, dall’orgoglio, dalla distrazione, affinché, invasi dalla tua beatitudine possiamo gioire in te e trovare la forza di essere servi con te” (Bernard Haring).

    Lectio

     Il racconto della Passione nel vangelo di Giovanni viene introdotto con l’inaspettata scena della lavanda dei piedi. Si tratta di una solenne introduzione che offre all’ascoltatore la chiave di lettura di tutto ciò che l’evangelista sta per narrare nei capitoli riguardanti la passione.
    L’episodio si svolge “prima della festa di pasqua“, sembrerebbe, stando alla cronologia di Giovanni, la sera del giovedì santo durante la cena pasquale. Per Gesù è la celebrazione della sua pasqua di passione e morte verso la terra promessa del regno del Padre suo. È una nuova Pasqua, quella definitiva, che segna l’inizio di un mondo nuovo e di un popolo nuovo.
    A Giovanni preme sottolineare che Gesù non è costretto ad entrare nella sua passione, quasi fosse un triste incidente di percorso. Per ben tre volte, nei capitoli che narrano la passione, l’evangelista ricorda all’ascoltatore che Gesù “sa“e “conosce” quello a cui sta andando incontro (13,3; 18,4; 19,28). Proprio per questo Gesù è sovranamente libero, e questo è di capitale importanza considerando che solo una piena libertà può esprimere la grandezza e la gratuità del dono che egli sta per fare della sua vita al Padre e ai fratelli.
    Egli è altresì consapevole del “potere” che il Padre gli ha dato “su ogni cosa“. Per lui “potere e autorità” significano mettere a disposizione dei fratelli la propria vita fino alla morte, non trattenendo nulla per sé. E’ un “potere” che svuota se stesso facendo della vita e della morte un servizio d’amore.
    Tutto il racconto della lavanda dei piedi e della Passione che segue, trova la sua nota iniziale nella formula solenne che descrive Gesù come colui che “avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine“.
    “Sino alla fine“: ovvero si tratta di un amore che non teme di scendere fino alle più estreme conseguenze del perdere se stessi. “Sino alla fine” si potrebbe tradurre con “fino alla morte” il che significa che tra la sua vita e la nostra, Gesù non ha dubbi, sceglie la nostra. Il suo amore è realmente un amore che è disposto a morire per l’altro. Nell’umanità di Gesù, Dio, rinunciando a tutti i suoi privilegi di “potenza” e di “autorità”, viene incontro alla sua creatura ponendosi gratuitamente al suo servizio, incondizionatamente, rivelando allo stesso tempo il mistero del suo “folle” amore per le sue creature.
    Dopo questa intensissima premessa teologica ecco l’evangelista Giovanni descrivere minuziosamente la scena della lavanda dei piedi. Nelle cene rituali ebraiche il capofamiglia presiedeva il rito e le solenni preghiere conclusive. All’inizio il più giovane, o un servo, lavava le sue mani. Gesù capovolge l’uso: lava i piedi anziché le mani ed è lui stesso che compie il gesto. Lavare i piedi era comunque un lavoro proprio dello schiavo o tutt’al più del servo: un maestro non lo poteva richiedere neppure ad uno schiavo giudeo. Agli occhi dei discepoli Gesù compie dunque un gesto sconcertante e incomprensibile, in certo qual modo scandaloso.
    Le azioni di Gesù sono descritte quasi al rallentatore una ad una, minuziosamente, il che significa che, per l’evangelista, esse vanno attentamente contemplate ed interiorizzate. Gesù si alza da tavola, depone le vesti che sono segno della dignità dell’uomo libero, si cinge con un asciugatoio che è la divisa del servo, e in ginocchio inizia a lavare i piedi umilmente e in silenzio ai suoi discepoli. Prendono qui forma visibile i detti di Gesù in Luca e in Marco: “Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve?… Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27), e: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mc 10,45; cfr 1 Pt2,21-24).
    Deponendo le vesti e “assumendo la condizione di servo” (Fil 2,7) Gesù anticipa così l’umiliazione della croce. Egli vuole rappresentare, in una sorta di drammatizzazione, la sua morte di croce. I verbi “deporre” e “riprendere” le vesti rimandano in effetti chiaramente all'”offrire la propria vita” per poi “riprenderla di nuovo” (10,18).
    La reazione di Pietro è significativa: egli rifiuta categoricamente il gesto di Gesù. Il suo “No!” è una negazione assoluta in tutto simile a quel “Non ti accadrà mai!” riferito alla passione preannunciata da Gesù a Cesarea (cfr. Mc 8,31-33). Per lui vedersi lavare i piedi dal Maestro è incomprensibile perché è ancora distante dall’intendere la vita come dono e servizio. Resiste a lasciarsi amare e ad amare incondizionatamente da e come Gesù. Rifiuta il gesto di Gesù nello stesso modo in cui dinanzi alla croce fuggirà. Pietro d’altronde non può capire. E come lo potrebbe? Potrà iniziare ad intendere qualcosa solo dopo l’annuncio e la catechesi postpasquale di Gesù risorto e il dono del suo Spirito che, finalmente, offrirà a lui e agli altri discepoli la giusta interpretazione della passione e morte del Maestro e dunque anche del gesto della lavanda dei piedi.
    Al termine Gesù, tornato al suo posto, rivolge una parentesi ai suoi. Egli invita i discepoli a far proprio il gesto veduto affinché tra loro facciano altrettanto. Se lui “Maestro e Signore” ha fatto così anche loro dovranno assumere il ruolo di servi gli uni degli altri.
    Questa imitazione contiene una promessa di beatitudine (è una delle due sole beatitudini contenute  nel vangelo di Giovanni): “Sarete beati se la metterete in pratica“. E’ un invito esplicito a riportare quello che si è visto e ascoltato nella vita della comunità (cfr. Gc 1,22-26; Mt 7,21-27). Essa però non deve, e non può, scaturire da un modello semplicemente esterno. Sarebbe ancora un imperativo morale dato da una legge esterna dalla quale Gesù ci vuole liberare. Sarà solo alla luce dell’esperienza dell’essere stati amati infinitamente, come prefigurato dalla lavanda dai piedi e realizzato dalla morte di croce, che questo comando potrà trasformarsi in spinta dinamica ed interiore perché anche la vita del discepolo si trasformi in umile servizio agli altri rinunciando ad ogni sorta di potere. 

    Collactio

     “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27). Questo detto di Gesù trova la sua visualizzazione e realizzazione prima nel Cenacolo e poi, in pienezza, sul Calvario (Gv 19,18).
    Stare in mezzo” per Gesù significa porsi nell’atteggiamento della piena disponibilità agli altri. Lui non rifugge né si nasconde per timore dell’esigenza del servizio. A differenza di noi, non “sta in mezzo” per emergere, per disporre ed imporsi. Nel Cenacolo e sul Calvario “sta in mezzo” facendosi scandalosamente, lui Maestro e Signore, servo di tutti.
    Ciò che ci sconvolge ancor più è il fatto che Gesù lava i piedi ai suoi, “sapendo” che dopo non molte ore lo avrebbero abbandonato. Eppure non per questo rifiuta il dono del servizio della propria vita: anzi egli sa che proprio per questo i discepoli hanno bisogno di toccare con mano il dono della sua vita.
    Inginocchiarsi e mettersi a lavare i piedi degli altri non è facile. Anzi! Anche noi, come Pietro, reagiremmo all’invito di Gesù dicendo: “Questo è troppo! Non è il caso… non esageriamo”. E’ infatti scomodo lasciarci lavare i piedi da Gesù, non tanto per lui che si trova perfettamente a suo agio nelle vesti del servo (“Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire” Lc 22,27), quanto soprattutto per noi. Vorremmo non confrontarci con quel che Gesù è e fa in ginocchio davanti ai suoi: va troppo contro il nostro modo di intendere la vita e la relazione con gli altri. Il gesto di Gesù ci fa entrare in una “porta stretta” scomoda ed esigente: per lui autorità e potere significano la piena libertà di porre la propria vita a servizio dell’altro, volere e preferire il bene dell’altro a costo di rimetterci la propria vita. E’ venuto a dirci che Dio è proprio così: è in questo modo che esercita il suo potere sulle sue creature.
    Questo suo modo di intendere il “potere” e il suo essere “Maestro e Signore” contesta in modo stridente i nostri giudizi e criteri. Noi siamo assetati del potere che vorrebbe assoggettare gli altri a noi stessi imponendo la nostra volontà in una sorta di illusione di onnipotenza. Vorremmo ad ogni costo successo, riuscita, realizzazione, vorremmo vivere alla luce della ribalta sempre applauditi e riconosciuti. Questo accade non solo all’esterno, nel mondo, ma anche all’interno delle nostre famiglie, delle nostre stesse comunità religiose; non per nulla Gesù ammonisce la sua comunità conoscendo il perenne rischio: Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo” (Mt 20,26).
    Inginocchiarci a servire l’altro lo avvertiamo come una “perdita” di noi stessi, equivale ad un morire a tutte le nostre pretese di essere al centro, un attentato alla nostra dignità, alla nostra libertà, al  nostro… potere. 
    A questa prospettiva la nostra coscienza intaccata dal nostro egocentrismo, come quella di Pietro, si ribella. Noi non siamo capaci di questa gratuità. Abbiamo perciò bisogno di guarigione nel ripensare e reimpostare le nostre relazioni all’interno delle nostre comunità. Ma perché si operi tale guarigione abbiamo bisogno ogni giorno di recarci al Cenacolo e sul Calvario, di farci lavare i piedi da Gesù. Solo l’esperienza di lasciarci toccare da quelle mani può aiutarci a comprendere, seppur a stento, che il potere è servizio. Nel Cenacolo e sul Calvario non si può più cadere in equivoco nell’interpretare le nostre relazioni e le modalità con cui vivere il potere all’interno della comunità dei discepoli. Scriveva Agostino nella sua “Regola”:  “La superiora non si consideri dominatrice per autorità, quanto piuttosto felice di servire per carità“. E la “Regola di Taizé” definisce il superiore come “servo della comunione“.
    Solo l’aver udito, visto e toccato la misura del servizio di Gesù nella sua passione può far sgorgare improvvisa in noi, come una sorgente inaspettata sepolta nel profondo del cuore e dimenticata, la gratuità che nasce dalla gratitudine.
    Da Gesù impareremo anche noi “a stare in mezzo” alla comunità per servire, per fare della nostra vita un dono gratuito a Dio e ai fratelli in unione alla sua offerta. 

    Oratio

     Signore Gesù, è difficile accettare di farci lavare i piedi da te. Ci sentiamo a disagio, vedendoti lì in mezzo, inginocchiato davanti a noi col grembiule e il catino. Un disagio difficile da comprendere.
    Forse, Signore, la ragione è che facciamo fatica a lasciarci amare da te così come siamo, con i nostri piedi sporchi che hanno calpestato strade di tradimento, egoismo, chiusura.
    Ma è altresì un disagio, Signore, che avvertiamo considerando che quel che tu fai lo domandi anche a noi. Ma troviamo così difficile, a volte impossibile, lavare i piedi al fratello e alla sorella.
    Metterci in ginocchio davanti a loro ci costa, ci sembra di perdere, di morire troppo al nostro orgoglio e al nostro bisogno di emergere e imporci.

  • 08 Mar

    Esci dalla tua terra e va!

    Lectio di Gn 12,1-10

     

    di p. Attilio Franco Fabris

    Invochiamo all’inizio di questo tempo dedicato all’ascolto lo Spirito affinché pieghi con il suo soffio potente il nostro cuore alla docilità nei confronti della Parola. Si realizzi nella nostra vita l’esperienza del Servo di Jhwh che prega: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio, perché io ascolti come gli iniziati” (Is 50,4).
    Solo da questo ascolto docile “da iniziati” al mistero può scaturire l’obbedienza autentica alla volontà di Dio.
    Si tratta di una docilità non facile perché il cuore dell’uomo è duro, ribelle. Il profeta Isaia dirà: “Questo è un popolo ribelle, sono figli bugiardi, figli che non vogliono ascoltare la legge del Signore” (33,19). Noi per paura e diffidenza facciamo resistenza alla Parola e si comprende la necessità dell’azione stessa del Signore perché è solo in lui in grado di pronunciare l'”effatà”, ovvero la parola capace di vincere la nostra sordità: “Il Signore mi ha aperto (=forato) l’orecchio e io non ho opposto resistenza e non mi sono tirato indietro” (Is 50,5). Ecco perché con insistenza e fiducia preghiamo lo Spirito, il suo soffio perché “pieghi ciò che è rigido“.
    Signore, la tua Parola che oggi ci farai udire resti in noi sempre presente e operante. Continua a farla risuonare al nostro orecchio, fora la nostra sordità: “Piega il nostro cuore verso i tuoi insegnamenti” (Sal 118,36).
    La Parola che ora depositerai in noi come seme di vita, non permettere che rimbalzi drammaticamente contro il muro della nostra sordità. Che il nostro ascolto ci renda capaci di vera obbedienza.

    Lectio

    La lettura biblica con cui vogliamo meditare il tema dell’obbedienza è un testo caro alla tradizione e alla spiritualità della vita consacrata: si tratta dell’ormai “classico” racconto della vocazione di Abramo (Gn 12,1-9). Siamo infatti sempre stati invitati a meditare sulla straordinaria obbedienza del nostro “padre nella fede” (cfr Rm 4,11) alla chiamata di Dio. Ma la domanda che vorremmo oggi rivolgere al nostro vecchio patriarca è questa: Abramo in virtù di chi e di che cosa sei giunto a quest’atto di coraggiosa e totale obbedienza alla voce di Dio?
    Per rispondere a tale domanda occorre partire un po’ prima, ovvero da quello che potremmo definire il “presupposto antropologico” in cui la Parola si fa udire alla coscienza di Abramo. Egli è un uomo che ha un estremo bisogno di una parola di speranza. La sua vita umanamente è un fallimento, infatti è senza futuro e non può assicurare né a sé e tanto meno agli altri la speranza di una continuità. È impantanato in un vicolo cieco che lo conduce ad una sempre più dolorosa esperienza di morte contrassegnata dalla sua sterilità.
    Dio disse ad Abramo” (Gn 12,1): il racconto comincia con una parola di Dio che assomiglia molto alla prima parola del Genesi: “In principio… Dio disse…” (cfr Gn 1,1ss) . Questo lascia intuire che la chiamata di Abramo ha nella storia della salvezza la valenza di una nuova creazione, di una rinnovata benedizione in vista della vita e della fecondità per cui Dio ha creato l’uomo (Gn 1,28).
    Non solo Abramo ma tutta l’umanità, ha bisogno di un rilancio della creazione e della benedizione dopo che il peccato con la sua maledizione aveva trascinato con sé ogni cosa nel vortice del nulla e della morte.
    Questa parola di speranza da parte di Dio ad Abramo è il cuore del racconto. Il centro del discorso di Dio ad Abramo non è il comando “parti e lascia”, ma un altro. Solo alla luce di una speranza che scaturisce da una parola che è promessa si può giustificare e capire il comando di “partire e lasciare”.
    In altre parole: il comando che esige obbedienza (v. 1) è sostenuto e giustificato dalle tre straordinarie (e umanamente impossibili) promesse (vv. 2-3). Queste rappresentano la “Buona Notizia” donata al vecchio e disperato Abramo. Esse sono complementari l’una all’altra: anzitutto Dio promette che farà di Abramo una grande nazione, il che significa che avrà una discendenza. “cosicché io faccia di te una grande nazione” numerosa “come le stelle del cielo e come la sabbia che è sulla spiaggia del mare“. Questa numerosissima discendenza avrà pur bisogno di una terra grande e fertile; ecco allora la seconda promessa che assicura “un paese“. Infine – e questa è la promessa più grande e importante – Abramo diverrà “benedizione per tutte le nazioni della terra“. Egli è chiamato a divenire, proprio in forza delle promesse, segno e portatore di speranza-salvezza per tutti i popoli.
    L’obbedienza richiesta ad Abramo certo comporta delle esigenze. Le esigenze sono pesanti e “dolorose”: Dio infatti enumera tutto ciò che Abramo è invitato a lasciare, e si tratta di una sequenza che segue, in ordine psicologico, dal  più facile al più difficile: la patria, la propria cultura, la propria parentela. Per un nomade è facile lasciare la terra, ne è abituato. Più difficile abbandonare il proprio clan, la propria famiglia. Lasciare la casa del proprio padre è abbandonare ogni riferimento culturale, è lasciare le proprie radici.
    Queste fratture sono inevitabili se Abramo desidera superare i punti morti e stagnanti della sua vita. Ma questi distacchi “obedienziali” di Abramo sono sostenuti e motivati solo dalla fiducia accordata alla parola udita. Senza la docilità alla parola-promessa in Abramo non scaturirebbe alcuna obbedienza di fede!
    Questa risposta-obbedienza di Abramo sarà stata semplice ed immediata, avrà faticato a porsi in questa obbedienza? Pensiamo che Abramo ha settantacinque anni. E’ un’età non sicuramente ideale per iniziare una nuova vita, per dare una svolta alla propria esistenza. Oggettivamente nel momento in cui Abramo parte mutando radicalmente vita, le probabilità che si realizzino le promesse di Jhwh sono praticamente nulle. Tutte le circostanze sembrano “ragionevolmente” contrarie al contenuto delle promesse, e rendono umanamente insensata la sua obbedienza.
    La grandezza delle fede di Abramo sta proprio in questo ascolto che si fa obbedienza nei confronti di una Parola di speranza “impossibile”: “Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli” (Rm 4,18).
    Solo la promessa possiede la forza capace di mettere in moto il nostro settantenne Abramo. La sua obbedienza si è strutturata unicamente sulla speranza scaturita dalla docilità offerta alla Parola ascoltata. 

    Meditatio

    Purtroppo (e indebitamente occorre dire!) nella predicazione e nella catechesi, si è insistito spesso solo sul comando del Signore dato ad Abramo di “partire e lasciare”, dando un po’ l’impressione e la sensazione all’ascoltatore di un Dio che col dito puntato obbliga il povero Abramo a cose impossibili e assurde in virtù unicamente della sua autorità. Ci si offre l’immagine di un povero Abramo che come un soldato reclutato a forza non può far altro che sottostare ad una sorta di “obbedienza “militare” che non si può minimamente discutere. Veniva così presentata sì l’obbedienza “eroica” di Abramo, ma di certo essa non aiutava ad amare di più un Dio così tremendamente esigente.
    Aver insistito in questa linea ha travisato molto e  tragicamente la ricchezza della teologia della rivelazione biblica contenuta nel brano. Di conseguenza anche le applicazioni che del testo si sono fatte in riferimento alla vita del credente erano povere spiritualmente e pervase più che altro da un sterile volontarismo.
    Il “devi partire e lasciare” è risuonato continuamente negli ambienti di convento, nelle volte delle chiese, nelle aule buie di catechismo. Un “devi” che piombava pesantemente dall’alto domandando un’obbedienza indiscussa, e non bastasse, il più delle volte accompagnata dalla prospettiva di fiamme nel caso di “diserzione”. L’obbedienza così andava spavaldamente a braccetto con la paura.
    Il racconto della vocazione di Abramo ha molto da insegnare al fine di correggere l’infausta lettura che da più parti si è fatta della vocazione di Abramo e dell’obbedienza.
    L’obbedienza che scaturisce dalla fede biblica non ha nulla a che vedere con un’obbedienza di tipo disciplinare: quest’ultima ha come punti di riferimento dei comandi impartiti e un’autorità con il potere di comandare. L’obbedienza di Abramo, quella biblica per intenderci, si inscrive invece in tutt’altra categoria: quella della “docilità”. Tale categoria fa riferimento non alla sfera gerarchica ma affettiva. Essa non nasce dall’imposizione dell’altro, ma dalla fiducia accordata all’altro.
    Si tratta di una fiducia-obbedienza che trova radice nell’ascolto. Non per nulla anche la stessa etimologia della parola “obbedienza” è significativa. Essa deriva dal latino ob-audio, che è un composto di audio (= udire, ascoltare). Questo ci mette nella giusta direzione circa una corretta comprensione e prassi dell’obbedienza della fede: fondamento dell’obbedienza del credente non sta il comando, ma l’ascolto! Dall’ascolto scaturisce la persuasione e dalla persuasione la docilità.  E finalmente dalla docilità si giunge all’obbedienza. Siamo ben lontani così da ogni ristretta interpretazione di carattere semplicemente disciplinare e moralistico!
    Ciò che sorregge l’obbedienza di Abramo non è perciò il comando impartito dall’ “autorità divina” ma al contrario è la docilità che egli accorda alla parola-buona notizia-promessa udita.
    Spesso la nostra interpretazione e prassi dell’obbedienza è purtroppo priva di questo elemento essenziale: poggia sul vuoto e cresce fra le spine velenose del “dovere morale” e sulla paura.
    Questo accade perché la nostra “obbedienza” non è preceduta dall’ascolto della “Buona Notizia”, ovvero della promessa di Dio capace di “far mettere ali” all’obbedienza.
    Ne consegue che un’obbedienza che non scaturisca dall’ascolto della Parola  diviene solo un peso insopportabile, ci spinge a tenerci stretta con mille piccoli e grandi espedienti la nostra “libertà”, a rischiare il meno possibile, a non giocarci fino in fondo nell’avventura della fede.
    Mentre è nell’ascolto che si fa obbedienza che si gioca l’autenticità della fede biblica. Scrive un famoso biblista: “La fede non è l’obbedienza, ne è il segreto; l’obbedienza è il segno ed il frutto della fede” (J. Guillet). E la fede nasce dall’ascolto (cfr Rm 10,17).
    Tutto dunque ci riporta a quel nocciolo di partenza al quale la Chiesa del terzo millennio è invitata pressantemente e urgentemente a tornare: ripartire dalla centralità dell’ascolto. 

    Oratio

    Abramo insegna: l’obbedienza prima che essere una virtù è un dono che scaturisce dall’ascolto della Parola che contiene in sé una promessa di vita.
    Solo l’ascolto attento renderà man mano il nostro cuore docile e verremo sospinti dall’amore a consegnarci liberamente al tuo disegno, o Padre, in un’offerta libera, gioiosa e generosa. Sapremo sempre più rinunciare ai nostri soliti innumerevoli calcoli e progetti, che scaturiscono dal nostro cuore di pietra e che appesantiscono tristemente la vita.
    Sappiamo come l’obbedienza che nasce dall’ascolto della Parola mediata dai nostri fratelli, comporti spesso una croce: il nostro cuore infatti è talmente lontano dal progetto che hai su di noi. Ma fa’ che non ci spaventiamo di questo ma che, con perseveranza e fiducia, impariamo ogni “mattino” a rimetterci in ascolto della tua parola “come gli iniziati”.
    Facci udire soprattutto, o Padre, Buona Notizia che è lo stesso Figlio tuo Crocifisso e Risorto. Sarà lui la speranza capace di strapparci come Abramo da tutti i “lacci di morte” (Sal 115,3) e a porci in cammino obbediente alla sua esigente sequela.
    Con Gesù e come Gesù impareremo ogni giorno a dire: “Ho detto: Ecco io vengo. Sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere. Mio Dio questo io desidero, la tua parola è nel profondo del mio cuore” (Sal 40,7).

  • 06 Mar

    Rimase nel deserto per quaranta giorni

    Lectio di Marco 1,12-13

    di padre Attilio Franco Fabris  

    L’uomo contemporaneo frastornato, “sfilacciato” e disperso nel rumore e nell’anonimato della folla e delle nostre città, ha bisogno di riscoprire urgentemente il valore della solitudine come luogo, tempo, occasione e condizione per ritrovare se stesso e le radici della propria libertà.
    Risvegliare in sé stessi le domande più profonde, per nuovamente udire la voce della propria coscienza così mortificata nel ritmo esagitato e nel rumore che ci circonda è urgenza culturale e spirituale di rimordine.
    Abbiamo bisogno di riscoprire la solitudine affinché possa avvenire l’incontro col Mistero che ci circonda e che ci abita, e perché proprio nella solitudine l’uomo diviene più uomo: ovvero più capace di cogliere, percepire, il suo essere fatto per “altro” e per l'”Altro”.
    Chiediamo perciò ora allo Spirito che ci introduca, come Gesù, dolcemente e fortemente nel deserto per parlare al cuore di ciascuno di noi (cf Os 2,16).
    Vieni o Spirito che aleggiavi all’inizio della creazione sulla solitudine del cosmo per farvi sbocciare la vita. Scendi su di noi, sui nostri deserti bisognosi dell’acqua della vita che solo tu puoi far zampillare. Vieni, o Spirito che nel silenzio parlavi ai profeti ponendo sulle loro labbra parole di fuoco da annunciare ai fratelli. Vieni o Spirito di Gesù: tu lo conducesti nel deserto affinché come nuovo Adamo sperimentasse per noi vittorioso la prova e lì ci mostrasse la via della vera libertà. Vieni o Spirito di comunione che nel mistero della nostra solitudine ci apri al mistero dell’Altro.

    Lectio

    In Marco il brano che riporta la permanenza di Gesù nel deserto e le tentazioni da lui subite è, a differenza di Matteo e Luca, brevissimo. Pur lapidario esso è tuttavia di estrema importanza: infatti, unitamente alla scena del battessimo, si presenta come una sorta di prologo alla vita e alla missione di Gesù.
    Dopo il battesimo nelle acque del Giordano in cui Gesù è proclamato solennemente “Figlio prediletto” (Mc 1,11) la prima opera dello Spirito è trascinare questo “Figlio” non nelle piazze e strade affollate della Palestina ma nella solitudine del deserto. E’ lo Spirito, sottolinea Marco, che “conduce” (lett: trascina, sospinge, getta) Gesù nel deserto. Perché? Egli è “sospinto” a ripercorrere, condividere, l’esperienza di quel “figlio amato” che è il popolo di Israele (cfr Mt 2,15), il quale dopo il passaggio battesimale del Mar Rosso, fu condotto nel deserto del Sinai per quarant’anni. Gesù nella sua umanità ha bisogno di ripercorre e condividere le tappe del suo popolo, e in definitiva di tutta la storia di ogni uomo. Proprio nella solitudine del deserto egli può sperimentare, come Israele e Adamo, tutta la straordinaria libertà del suo essere “Figlio prediletto” rivelatogli nel battesimo al Giordano.
    L’evangelista annota che Gesù di Nazaret trascorse nel deserto “quaranta giorni”. Annotazione oltremodo precisa ma non da intendersi in senso strettamente cronologico ma simbolico. Il numero “quaranta” nella sacra scrittura è un’espressione tipica: Mosè rimane da solo sull’Oreb quaranta giorni (Es 34,28); quarant’anni Israele dimora nel deserto del Sinai prima di entrare nella terra di Canaan; il profeta Elia compie in un momento difficile della sua missione un pellegrinaggio che comporta un cammino di quaranta giorni al monte santo di Dio (1Re 19,8)… Quale la cifra simbolica che occorre intravedere in questo numero? Esso sta ad indicare un tempo particolarmente importante, intenso e decisivo e nello stesso tempo richiama la durata di un’intera generazione.
    Che Gesù rimanga nel deserto “quaranta giorni” è dunque un messaggio attraverso il quale il testo biblico ci dice che dopo il battesimo Gesù visse nella solitudine un tempo importante e decisivo per la sua esperienza interiore e di missione, e che questo stesso “tempo” ed esperienza si estese poi a tutta la sua vita. Parafrasando un’espressione dell’ “Imitazione di Cristo” potremmo dire che “tutta la vita di Cristo fu tempo importante di deserto”.
    Nella solitudine Gesù è tentato da Satana. Letteralmente la parola “satana” deriva dall’aramaico e significa: “Colui che accusa – Colui che divide“. Satana è il Male che insinua nel cuore dell’uomo il sospetto e la diffidenza nei confronti di Dio al fine di separarlo da lui, di strapparlo dalla sorgente della vita sprofondandolo nella maledizione di una solitudine che è isolamento senza comunione.
    Il deserto è luogo di tentazione perché luogo in cui l’uomo sperimenta la libertà più grande, in cui è chiamato a scelte decisive nei riguardi della sua vita (cfr Sal 77,17; 105,19).
    Gesù nella sua umanità vive nella solitudine profonda (del deserto e successivamente del Getsemani: cfr Lc 4,13) la seduzione diabolica: alla sua coscienza umana si affacciano possibili vie alternative, altre possibilità di realizzazione della sua vita. Egli non è tentato nelle nostre piccole e grossolane tentazioni di ogni giorno, ma nella grande insinuazione di rifiutare, nella sua libertà di Figlio, il cammino messianico che il Padre gli propone che non è all’insegna della potenza, della gloria, del miracolo, ma dell’abbraccio scandaloso alla croce (cfr 8,31).
    Ma Gesù è il primo che nella solitudine in cui tutti caddero (Sal 77,40) esce vincitore, ossia pienamente confermato nella volontà del Padre che gli chiede di percorrere nella sua libertà di Figlio la via della piena condivisione e della solidarietà nei confronti dell’uomo peccatore.
    La scena finale presentata da Marco è emblematica. Gesù sta “con le fiere”. Se la presenza delle fiere nell’antico testamento sta a significare la presenza del male, ora la scena evangelica ci parla di Gesù che sovranamente siede “Signore” in mezzo alle animali selvaggi: nessun male ha potere su di lui. E’ chiaro che il testo vuol presentarci come realizzate in Gesù le promesse profetiche:Essi (gli angeli) ti porteranno sulla palma della mano, perché il tuo piede non inciampi in nessuna pietra. Tu camminerai sul leone e sulla vipera, schiaccerai il leoncello e il serpente” (Sal 91,12), e soprattutto realizzata la visione di Isaia a riguardo dei tempi del messia: “Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia, cintura dei suoi fianchi la fedeltà. Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. La vacca e l’orsa pascoleranno insieme; si sdraieranno insieme i loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi.” (Is 11,8-11; cfr 65,25).
    Gesù nel deserto, nuovo Eden,  appare come nuovo Adamo, il quale convive pacifico in mezzo alle fiere (cf Gn 2,19-20). Egli inoltre è “servito dagli angeli” nella sua dignità di Figlio: in lui terra e cielo finalmente si ricongiungono e rappacificano come nel disegno originario. Questo si realizza nella solitudine del deserto trasformato in paradiso. E’ qui che si inizia a ristabilire l’ordine originario della creazione. Farò scaturire fiumi su brulle colline, fontane in mezzo alle valli; cambierò il deserto in un lago d’acqua, la terra arida in sorgenti” (Is 41,18).
    Ora Gesù può uscire dalla solitudine, nuovo Adamo e nuovo Israele, per percorrere le strade della Galilea e Giudea annunciando il Regno di Dio in lui già pienamente realizzato (Lc 17,21). 

    Collatio

     Solitudine è una parola che può risvegliare dentro di noi risonanze contraddittorie. Della solitudine possiamo avere paura perché essa ci può sprofondare nell’angoscia dell’abbandono, ma possiamo anche ricercarla con appassionato desiderio, come condizione per riprendere contatto con le profondità che ci abitano. La solitudine è per l’uomo occasione per un incontro con sé stesso e col Mistero. Non per nulla è amata da tutte le grandi tradizioni religiose.
    Nella vita di ciascuno deve giungere il tempo di smettere di fuggire da se stessi accettando di entrare nell’esperienza stupenda e drammatica della solitudine insita al mistero dell’uomo. Solo qui finalmente ci troviamo faccia  faccia con noi stessi, senza falsi specchi che ci rinviano false e desiderate immagini. Qui si impara, talvolta drammaticamente, a conoscere la verità della vita, a discernere ciò che conta da ciò che non conta. Inevitabilmente si giunge alla solitudine, non fosse altro nell’ora dell’estrema solitudine che è la nostra malattia, insuccesso, abbandono, morte.
    Ma spesso l’uomo teme e fugge la solitudine, affannosamente vuol scomparire nel chiasso di una folla anonima, in nascondigli rumorosi e affollati: teme la solitudine perché essa è portatrice di temibili rivelazioni. Essa fa emergere paure, vuoti, conflitti che si vorrebbero mettere a tacere ad ogni costo. Il deserto smaschera i demoni che subdolamente abitano il fondo della nostra coscienza, porta allo scoperto la “grande tentazione” del “Satana” che si vorrebbe sempre insinuare negli anfratti nascosti della coscienza. Essere soli significa entrare in battaglia con i “nostri demoni”, prendere coscienza della propria libertà e responsabilità nei confronti della propria vita. La solitudine esige delle scelte in ordine alla direzione e al senso da imprimere alla propria esistenza.
    Nella solitudine siamo obbligati a scegliere continuamente tra la morte e la vita, tra il ripiegamento pauroso e l’aprirsi fiducioso alla promessa, perché essa ci pone in stato di perenne tensione, di cammino, ci costringe ad allargare l’orizzonte, a cercare sempre al di là. La solitudine contiene in sé una promessa di un tesoro che occorre scoprire ma che non è lì immediato, alla portata di mano, ma esige la pazienza, la libertà e la decisione di un faticoso cammino.
    Obiettivo dello spirito del male, padre di ogni menzogna e separazione, è quello di obbligarci per paura e comodità, a fuggire il deserto, a tornare indietro dalla solitudine, a non avanzare fidandoci solo della promessa contenuta nella Parola.
    La solitudine è prezioso tempo e luogo di grazia: “A dire il vero – scrive il teologo psicoterapeuta Eugen Drewermann – dal punto di vista psicologico non esiste forse niente di più augurabile che venire messi, ad un certo momento, di fronte a se stessi senza orpelli, ma non è una cosa che si può forzare. Si presenta quando è matura, e non siamo noi a recarci in questo genere di deserto, ma come dice Marco, in questi spazi decisivi dell’esistenza ci veniamo sospinti”.
    E un grande testimone della fecondità del deserto quale è stato Charles de Foucauld scriveva dalle infuocate distese di sabbia del Sahara: “Bisogna passare attraverso il deserto e dimorarvici per ricevere la grazia di Dio: è là che ci si svuota, che si scaccia da noi tutto ciò che non è Dio e che si vuota completamente questa piccola casa della nostra anima per lasciare il posto a Dio solo”.
    Di quale grazia si tratta? A chi, come Gesù, è dato di varcare le porte del silenzio e della solitudine per intraprendere il cammino della vita vi è una promessa: la solitudine del deserto può rifiorire come un nuovo Eden in cui le porte del Regno si spalancano. All’uomo è dato, in Cristo, di vivere già ora il Regno che è dono di pace e di comunione con se stesso, gli altri, la realtà, Dio. L’uomo può stare gioioso “tra le bestie” godendo del “servizio degli angeli”. 

    Oratio

     Signore, ti ringraziamo per il mistero dei tuoi quaranta giorni nel deserto.
    Ci consola il fatto che tu abbia voluto sperimentare e condividere la fatica della nostra libertà di figli.
    Tu conosci le nostre innumerevoli cadute nel duro cammino nel deserto della vita. Quante volte ne siamo fuggiti angosciati Conosci la paura che ci assale quando la vita ci chiede di incamminarci sulle sabbie del deserto e della solitudine: vorremmo fuggire lontano. Eppure tu ci rassicuri che non saremo mai soli. Nella bisaccia avremo sempre la Parola e il Pane: essi sono cibo, acqua, luce. Con questi tuoi doni possiamo attraversare ogni solitudine certi della promessa che proprio dove sembra assente la vita lì si spalanca per noi l’accesso al tuo Regno, a quell’Eden a cui il cuore sospira con nostalgia.

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