Fa’ che io veda!
Lectio di Marco 10,46-52
di p. Attilio Franco Fabris
E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.
47 Costui, al sentire che c’era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».48 Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
49 Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!».50 Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
51 Allora Gesù gli disse: «Che vuoi che io ti faccia?». E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!». 52 E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato».
E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.
L’etimologia della parola “luce” (rad. luk=splendere) trova le sue antiche radici nell’esperienza colma di stupore e gioia con cui l’uomo contempla lo splendere del sole, il sorgere dell’alba, l’apparire del lampo luminosissimo e della fiamma che divampa nella notte. Simbolo positivo di vita e di ciò che è ineffabile la luce è divenuto uno dei simboli più utilizzati dalle religioni; anche nell’ambito biblico, per parlare di Dio e della vita che scaturisce da lui viene usata spessissimo la simbologia della luce. Il buio e le tenebre rientrano invece nella sfera della morte, del caos e quindi per analogia del male. Nell’inno delle lodi del mercoledì la liturgia fa cantare la Chiesa con queste parole: “Notte, tenebre e nebbia / fuggite, entra la luce, / viene Cristo Signore. Il sole di giustizia / trasfigura ed accende / l’universo in attesa… Salvatore dei poveri, / la gloria del tuo volto / splenda su un mondo nuovo”. Il tema pasquale di “Cristo luce del mondo” vincitore di ogni notte ritorna spessissimo nella Liturgia delle Ore del mattino, quando uscendo dalla notte veniamo richiamati ad accogliere quella Luce intramontabile che è lo stesso Cristo e a lasciarcene illuminare. La luce di Cristo è dono che scaturisce dalla fede, che nata dall’ascolto conduce al battesimo che è vera e propria immersione nella luce pasquale: “E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo.” (2Cor 4,6).
Questa luce che “rifulge nelle tenebre” è fonte di speranza e di consolazione per tutti. Ne abbiamo bisogno perché stiamo attraversando un tempo contrassegnato da una sorta di persistente stato crepuscolare di “tenebra e nebbia” in cui fatichiamo a scorgere la luce di un’alba nuova. Crepuscolo – da discernere se di tramonto o di alba! – in cui tutto sembra farsi indistinto, relativo e si fatica a intravedere la giusta direzione e i contorni esatti delle cose. Crepuscolo nel quale, anche come comunità cristiana, saremmo tentati come il cieco Bartimeo di sederci al bordo della strada a mendicare un senso che stentiamo a trovare.
Ormai le “liturgie laiche delle ore” sembrano essere quelle della notte in cui tutto si confonde senza differenziazione con la conseguente “euforia” del “tutto è lecito e relativo”. In queste “notti” senza “ombra di Dio” – che possono essere paradossalmente definite “bianche” – sono offerte e ricercate luci artificiali con cui si cerca, con una sorta di inconscia disperazione, d’illuminare esistenze ubriache che girano su se stesse senza meta. Allora la luce del giorno, lo splendore della verità, rischia di divenire insopportabile, portatrice com’è di tremende rivelazioni e disillusioni: “l’alba è per tutti loro come spettro di morte; quando schiarisce, provano i terrori del buio fondo” (Gb 24,17).
Tuttavia anche da questo “buio fondo” della coscienza dell’uomo il gemito dello Spirito vuol far scaturire in noi un grido di preghiera, d’invocazione di una luce vera che porti con sé liberazione e pace per il cuore: “Nel giorno dell’angoscia io cerco il Signore, tutta la notte la mia mano è tesa e non si stanca” (Sal 76,3). In questo grido siamo sostenuti dalla silenziosa testimonianza di fratelli e sorelle che nella notte vegliano in preghiera sostenuti dalla promessa della parola del Signore che solo in lui la vita si apre al mistero: “È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce.” (Sal 35,10).
Lectio
Gesù, partito da Cesarea di Filippo, è in cammino verso Gerusalemme dove si compirà il suo destino di Messia sofferente. In questo tragitto verso la Città Santa una tappa obbligata per i pellegrini era l’antichissima cittadina di Gerico (v. 46) collocata sulle rive del Mar Morto e distante da Gerusalemme una trentina di chilometri. Anche Gesù, insieme a molta folla (v. 46) vi fa tappa per l’ultima volta.
È in quest’occasione che avviene l’ultimo miracolo: la guarigione del cieco Bartimeo che serve da cerniera tra la cosiddetta fase galilaica del ministero di Gesù e quella conclusiva che si svolgerà a Gerusalemme. Il cieco bisognoso di guarigione per Marco rappresenta la comunità dei discepoli sorda alla parola della croce e cieca dinanzi alla sua rivelazione. Questo miracolo sta a esplicitare la necessità per i discepoli di una guarigione in ordine al “poter vedere”- ovvero comprendere – nel destino sofferente del Maestro non il fallimento ma il pieno annuncio della sua identità e missione. Ma veniamo al racconto.
Un luogo di passaggio per delle folle di pellegrini è, per i mendicanti, occasione da non perdere per racimolare qualcosa di cui vivere. Tra costoro vi è anche un cieco: Bartimeo (v. 46) ovvero letteralmente il “figlio di Timeo”. Marco ce lo presenta al bordo della strada di passaggio. È seduto perché il cieco non sa dove andare, egli non può che rimanere ai margini della vita.
Bartimeo stende la mano “a mendicare” (v. 46) chiede ai passanti qualcosa di che sostenersi cercando di impietosirli dinanzi alla sua disgrazia. È questa una condizione di umiliazione condannata dalla tradizione che ammoniva: “Figlio, non vivere da mendicante. È meglio morire che mendicare” (Sir 40,28).
Quando Gesù, noto come “il Nazareno” (v. 47), entra in Gerico la sua fama di profeta e taumaturgo l’ha già preceduto. Anche Bartimeo “sente” (v. 47) la notizia e in lui affiora una speranza. Nella sua notte l’annuncio della venuta di Cristo è in grado di accendere una luce di speranza. Non è forse dall’ascolto che scaturisce la fiducia e da questa un’invocazione di salvezza? “La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm 10,17).
Bartimeo si indirizza a Gesù di Nazaret con un grido insistente: “gridava”! Sarà proprio la forza di questo grido a far cadere il muro della cecità di Bartimeo. Il “gridare” aiuto a Dio è una preghiera ben conosciuta nella sacra Scrittura nella quale l’uomo consapevole della propria insufficienza apre la bocca e il cuore in una supplica di salvezza: “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi!” (Sal 26,7; cfr Mt 15,23).
Egli si rivolge al Nazareno con le invocazioni: “Figlio di Davide” (v. 47) e successivamente “Rabbunì (lett: mio signore)” (v. 51). Il titolo di “Figlio di Davide” è usato da Marco solo in questa occasione e sta a designare Gesù come il messia discendente di Davide venuto ad inaugurare il regno di Dio (cfr 2Sam 7,12-16). È al suo messia-servo che JHWH rivolge la sua parola: «Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre…Farò camminare i ciechi per vie che non conoscono,li guiderò per sentieri sconosciuti; trasformerò davanti a loro le tenebre in luce, i luoghi aspri in pianura. Tali cose io ho fatto e non cesserò di farle” (42,6-7.16). Nel suo discorso inaugurale a Nazaret Gesù aveva letto proprio il testo di Isaia che identifica se stesso con l’avvento del regno: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista” (Lc 4,18). Ora Gesù, diversamente da prima, accetta l’acclamazione messianica a lui rivolta; può terminare il segreto messianico poiché il suo destino di sofferenza e morte è già deciso e non vi è più il rischio di fraintendere il suo modo d’essere messia.
Al titolo di “Figlio di Davide” il cieco premette familiarmente anche l’invocazione del nome proprio di Gesù, il cui significato è “Dio salva” (cfr Rm 10,13; At 2,21). Bartimeo identifica la propria salvezza al nome di Gesù: “In nessun altro nome c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12).
Il cieco implora Gesù d’ “aver pietà di lui” (v. 47), espressione che rimanda al tema biblico della misericordia, del prendersi cura con viscere materne, da parte di Dio, dell’uomo e non in base ai meriti ma nella misura del suo bisogno: “Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono” (Sal 102,13; 26,20; 30,15).
Ma tra il grido fiducioso del cieco e Cristo si frappone una barriera costituita dall’intromissione di quella “folla” che sta accompagnando Gesù. Quali i motivi dei ripetuti tentativi di mettere a tacere Bartimeo (v. 48)? Forse le motivazioni potevano sembrare buone: tutti intenti al Maestro credono di fargli piacere impedendogli ogni disturbo. Costoro pretendono di relegare Gesù all’interno della loro cerchia, lo vogliono monopolizzare a proprio uso e consumo. Gesù non sta a queste pretese né tanto meno Bartimeo si lascia intimorire da queste voci esterne di benpensanti e devoti, obbedisce invece alla voce del suo cuore che lo incita a non desistere: “Signore, Dio della mia salvezza, davanti a te grido giorno e notte” (Sal 87,2). Il coraggio non è forse il contrario della paura divenendo sinonimo della fede?
Gesù si “ferma” (v. 49), come si è fermato in tante altre occasioni dinanzi al grido e al pianto dei poveri. Proprio a Gerico egli si era già fermato una volta per incontrare, tra lo scandalo della folla, il pubblicano Zaccheo: “Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua»” (Lc 19,5).
Significativo è il fatto che la chiamata di Bartimeo passi proprio attraverso quella folla che voleva impedire l’incontro (v. 49). I presenti sono obbligati dal Signore a farsi mediatori tra lui e Bartimeo: essi sono forse l’immagine di una comunità segnata dal peccato, dalla durezza di cuore e dalla cecità di sguardo interiore ma che tuttavia rimane il mezzo per incontrare il Signore. L’appello fatto da costoro a Bartimeo è: “Alzati! Ti chiama!”. È il verbo tipico dei racconti di guarigione (5,41;9,27) che rimanda implicitamente al dono di una vita nuova, ovvero ad una risurrezione (16,6).
La risposta di Bartimeo è immediata, quasi concitata, Tre verbi che dipingono la scena in modo vivo: “gettato il mantello, balzò in piedi, venne da Gesù” (v. 50). Vi è il riferimento esplicito all’abbandono del mantello, particolare apparentemente irrilevante se non fosse per il fatto che per il povero il mantello rappresenta tutti i suoi averi (cfr Dt 24,13; Lc 14,23; Mt 5,40; Mc 13,16; ). Bartimeo, come i discepoli, abbandona ogni cosa alla chiamata di Cristo.
A questo punto Gesù può impostare il dialogo col cieco e lo fa a partire da una domanda solo all’apparenza banale data la risposta scontata: “Che vuoi che io ti faccia?” (v. 51). E’ una interrogazione decisiva che si potrebbe tradurre con: “Che cosa vuoi realmente?”. Il suo intento è di far sì che Bartimeo diventi consapevole del proprio bisogno e, da mendicante qual è, non si affidi ancora una volta alla sola iniziativa altrui ma si assuma la responsabilità di chiedere in modo chiaro ciò di cui ha bisogno. Gesù non vuole compiere un generico gesto di pietà o carità ma desidera incontrare l’uomo. Un’ulteriore elemosina – fosse pure quella della guarigione della vista – non cambierebbe infatti l’uomo: lo stesso giorno il cieco guarito avrebbe chiesto qualcos’altro a qualcun altro per avere ancora di più, non uscendo così dalla sua perenne condizione di mendicante.
La risposta di Bartimeo è puntuale: “Che io riabbia la vista!” (v. 51). Cosa chiede realmente Bartimeo? Sappiamo come il verbo “vedere” sia fondamentale nel linguaggio di Marco, la parola greca sta a significare non solo un generico poter “vedere” ma un “guardare in su” riferimento implicito al desiderio di trovare un senso alla sua vita. Al termine del suo cammino sarà chiamato a “guardare in su” contemplando il crocifisso: “guarderanno a colui che hanno trafitto” (Zc 12,10) e attraverso questa visione l’uomo “cieco” potrà finalmente vedere ciò che gli era nascosto, ovvero l’amore infinito di Dio. Gesù riconosce questa fede e disponibilità di Bartimeo la quale fa sì che l’effetto sia immediato:“E subito riacquistò la vista” (v. 52).
“Va’ la tua fede ti ha salvato” (v. 52): è l’affermazione chiave di Gesù che permette di interpretare correttamente il miracolo. Sono le stesse parole pronunziate da Gesù nei confronti della donna che l’aveva toccato di nascosto per essere guarita (cfr 5,34). Esse significano che la guarigione più profonda, che si identifica con la salvezza della totalità dell’uomo e non con la guarigione di un solo organo fisico, è in ordine all’incontro e all’esperienza di salvezza che scaturisce da Cristo. La fede ha ottenuto a Bartimeo non solo e anzitutto una guarigione fisica, ma soprattutto la grazia di incontrare Cristo e di sperimentarlo come luce per la sua vita. Ora non gli è più possibile dirigersi altrove (cfr Gv 6,68): “Prese a seguirlo per la strada” (v. 52). La vita di Bartimeo esce cambiata radicalmente dall’incontro con il “Figlio di Davide”, egli può risorgere dall’immobilità e affrontare la strada ovvero la vita in sua compagnia. Rimanendo all’ascolto della parola proseguirà in una sequela impegnativa che lo condurrà alla visione del crocifisso del Golgota dove col centurione potrà professare la pienezza della fede: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39).
Meditatio
Il primo atto creatore di Dio è la creazione della luce che viene separata dalle tenebre e dall’abisso del caos (Gn 1,3s). Le creature possono in tal modo “venire alla luce”, essere portate all’esistenza nella loro bellezza e bontà, in armonia le une con le altre. Anche il termine della storia della salvezzaè contrassegnato dal dono di una luce intramontabile che avvolgerà la nuova creazione, questa luce si identifica con Dio stesso: “La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello” (Ap 21,23; cfr 1Gv 1,5). Volontà di Dio è dunque che l’uomo partecipi, ora mediante la fede e poi in visione, di questa luce che “non conosce tramonto” (1Gv 1,5), in altri termini che entri in comunione eterna di vita con lui. È questo un atto di misericordia e di amore gratuito da parte del Creatore: “ringraziamo con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce” (Col 1,12).
La nostra storia si trova a sostenere un conflitto con le tenebre, ovvero tra morte e vita, tra menzogna e verità L’etimologia della parola “cecità” è “involucro, copertura”, ovvero situazione nella quale all’uomo non è dato di aprirsi alla luce e l’uomo dopo il peccato si trova in certo qual modo avviluppato come Lazzaro in queste bende della morte (cfr Gv 11,44) in attesa di una parola liberatrice capace di portarlo nuovamente alla luce della verità e della vita. Opera del male è rendere l’uomo cieco, avviluppandolo in suo potere e ripiombandolo in un destino di caos e di morte, di assenza di luce. Straordinaria nella sua bellezza e simbolicità la statua barocca della cappella Sansevero di Napoli rappresentante il “Disinganno” di Francesco Queirolo, che riproduce un uomo che si libera ansiosamente da una rete con l’aiuto di un piccolo genio: statua che ben rappresenta l’uomo che ricerca con fatica e angoscia una possibilità di liberazione da tutti i lacci di inganno che lo accecano e imprigionano. All’uomo da solo è impossibile trovare salvezza, occorre un aiuto come nel caso dell’opera del Queirolo.
Per Bartimeo cieco tutto è notte, ovvero esperienza anticipata di morte. Egli vive questa situazione aggrovigliato nel suo mantello, sperimentando in anticipo una morte che lo tiene imprigionato ai margini della vita come un mendicante: salvezza per lui è l’attesa e la speranza di una parola di liberazione che insieme alla luce gli ridoni la dignità e la vita di cui sente di aver diritto. Non siamo fatti per le tenebre-morte ma per la luce-vita e l’invocazione gridata di Bartimeo esprime bene la coscienza dell’uomo che si ribella ad uno stato di cose che avverte non suo: “voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre” (1Tess 5,5). Non sperimentiamo forse il male come una groviglio di oscurità, che ci blocca, disorienta e ci impedisce di camminare? È vera in questo caso l’espressione che fuoriesce dalle labbra di Giobbe: “Di giorno gli empi incappano nel buio e brancolano in pieno sole come di notte” (Gb 5,14).
Salvezza è prendere coscienza del nostro destino fatto per la luce non scendendo a patti con rassegnazioni che ottenebrano questa consapevolezza. Ma non è facile se già nel libro dell’Apocalisse alla chiesa di Laodicea viene detto di fare attenzione a non cadere nell’illusione di saper già vedere abbastanza: “Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista” (Ap 3,17-18). Vivere in un’illusione di autosufficienza equivale a decretare la nostra situazione di cecità: significherebbe rimanere seduti ai margini della strada, sordi e ciechi alla Buona Notizia. Accogliere questa luce significa invece credere, cioè essere salvi: “il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 22,5). Ciò che salva Bartimeo è dunque la sua consapevolezza e il suo grido carico di speranza!
Se l’uomo che “giace nelle tenebre e nell’ombra della morte” (Lc 1,79; cfr Mal 3,20; Is 9,1; 42,7) invoca luce sulla sua vita, sul senso del vivere e del morire, del soffrire e del gioire, Cristo gli è donato come luce intramontabile e sicura. Egli può avanzare questa pretesa in quanto è Parola di Dio fatta carne: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (8,12). Parola che donata ad Israele e al mondo è offerta quale lampada per camminare nei sentieri della vita: “lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”(Sal 118,105). È luce che si offre alla libertà dell’uomo e non gli si impone da cui la possibilità che l’uomo chiuda la finestra a questa luminosità. Scrive sant’Ambrogio a questo proposito: “Ma se uno avrà chiuso le finestre, si priverà da se stesso della luce eterna. Allora, se tu chiudi la porta della tua mente, chiudi fuori Cristo” (Commento al Salmo 118). Infatti questa stessa luce viene osteggiata da tutte le “potenze di tenebra e di male” che rifiutano la verità di Dio: “la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,5; cfr 13,30; Lc 22,53). E’ questo un dato che riscontriamo anche nel nostro racconto proprio in quella folla che vorrebbe impedire l’incontro di Bartimeo con Gesù. E’ una folla cieca, anche se apparentemente sta seguendo Gesù, che però in definitiva rifiuta il suo cammino verso Gerusalemme, vorrebbe infatti che intraprendesse un’altra direzione, facesse altre scelte.
Ciascuno si trova così a dover scegliere da che parte stare: se accogliere lo splendore della verità che, come sul Tabor, rifulge sul volto di Cristo accogliendo la grazia della sua alleanza che ci rende “figli della luce”, oppure indurirci nella sordità alla Parola e nella cecità nei confronti della rivelazione scegliendo di restare “figli di questo mondo” (cfr Lc 16,8; Ef 4,18). E’ una battaglia che si svolge quotidianamente nel cuore di tutti noi: la avvertiamo nella fatica, nella resistenza nell’accogliere la luce della verità della Parola di Dio sulla nostra vita, preferendo spesso l’illusione di essere illuminati dalle luci fioche e artificiali dei nostri criteri e giudizi. Dovremmo sempre chiedere la grazia e il coraggio di lasciarci illuminare: “Ti ringraziamo di averci illuminati con lo Spirito che procede da Te e dal Figlio tuo, fa’ che ci saziamo della sua luce per tutta la lunghezza di questa giornata” (lodi del Giovedì).
Le parole e i gesti di Bartimeo esprimono bene il suo cammino di fede; egli si apre fiducioso sin dall’inizio all’accoglienza della luce della Buona Notizia di Gesù di Nazaret per giungere alla fine alla decisione di porsi alla sequela di lui scoperto come luce irrinunciabile della propria vita. Bartimeo diviene in tal modo perfetto modello di discepolato. Il mantello è abbandonato: ovvero viene liberato da ogni groviglio di oscurità e rimpianti e false sicurezze; egli compie, superando ogni ostacolo, la sua scelta senza esitazione, in fretta perché non c’è tempo da perdere in ordine alla salvezza: “Gesù allora disse loro: «Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va»” (Gv 12,35).
Non ci resta che ringraziare la misericordia di Dio e la gratuità del suo amore che ci ha raggiunti e ci ha “chiamati dalle tenebre alla sua mirabile luce” (1Pt 2,9). Grazia che ha trovato il suo sigillo sacramentale del giorno del nostro battesimo chiamato nella chiesa antica anche “illuminazione”. La luce attinta al cero pasquale, il Cristo risorto, ci è stata consegnata e sarà nostra premura impedire che essa si estingua per mancanza di olio (cfr Mt 25,8; Ebr 6,4). La parola di Dio ascoltata e assimilata farà sì che la fiamma non si spenga nel cuore e che essa illuminandoci ci renda ogni giorno più discepoli.
È l’esperienza di Bartimeo che ricevuto il dono dell’illuminazione “prese a seguire Gesù per la strada”. Una sequela esigente che vedrà i discepoli rifiutare di continuare a vedere (cfr Mc 14,40) e che lo porterà ai piedi della croce dove la fede giungerà al suo vertice come visione di luce che scaturisce dalla croce: chi “guarda in alto”, chi “contempla” Gesù sulla croce, “vede” ciò che il centurione ha visto: la gloria che rifulge sul volto del “Figlio di Dio” (cfr Mc 15,39).
Oratio
Gesù chiede al cieco: “Cosa vuoi che io ti faccia?”. E’ la domanda che egli pone ora anche a ciascuno di noi. Chiediamo che la riposta sia la medesima: “”Rabbunì, che io riabbia la vista!”. Ovvero chiediamo il dono di “saper vedere”, il dono di una visione che scaturisca dalla fede in lui crocifisso e risorto e che ci guarisca da tutte le nostre cecità, dai nostri sguardi miopi, dalle nostre false visioni che ci impediscono il cammino. Si tratta di rinnovare il dono della luce che ci è stata data il giorno della nostra “illuminazione”, ossia del nostro battesimo.
Ci piace terminare questa lettura biblica ricordando un personaggio straordinario nella sua semplicità che ha saputo vivere di questa luce interiore: Fratel Ave Maria, eremita della congregazione fondata da don Luigi Orione. Era nato il 24 febbraio 1900 a Pogli di Ortovero (SV). Un giorno mentre giocava in paese con alcuni coetanei per un involontario colpo di fucile ritenuto dai bambini scarico, sparato dall’amico Bartolomeo Vignola, diventò cieco. Ospitato in un istituto di Don Luigi Orione dopo aver superato una crisi di fede sentì nascere in sè la vocazione. Nel 1923, entrò tra gli Eremiti ciechi della Divina Provvidenza e venne destinato all’ Eremo di S.Alberto di Butrio (PV) dove, rivestito l’abito religioso prese il nome di Frate Ave Maria. Il segreto della santità di Frate Ave Maria, si può comprendere in queste poche parole che pronunciò appena dopo la vestizione religiosa: “Io non ho altro desiderio se non quello di adempiere sempre la santissima volontà di Dio. Questo è il solo desiderio che mi rende felice“. La lunga sofferenza accompagnata da una profonda esperienza meditativa, la saggezza delle sue parole attirarono su di lui la venerazione di tante anime di cui divenne quasi un faro di luce capace di aiutare ad orientarsi nella vita. Soleva ripetere: “Io, povero e ignorante peccatore, sono solo capace di pregare e di essere felice. Non ho niente e sono felice, ho solo una cosa: l’amore verso Dio. Io sono capace di due cose soltanto: parlo di Gesù alle anime, o parlo alle anime di Gesù“. Muore il 21 gennaio del 1964.
Di lui riportiamo la preghiera che compose in occasione del cinquantesimo anniversario della sua cecità. Le sue parole ben si collocano all’interno della nostra riflessione e preghiera: “Convertisti in luce le mie tenebre ed in gioia la mia tristezza, sicché la mia è veramente una luminosa e deliziosa notte, perché l’unica mia luce, l’unica mia gioia sei tu solo, o Gesù Figlio di Dio”.
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