• 04 Mar

    La discendenza:
    Prima soluzione umana alla promessa: l’adozione

    Gn 15,1-21

    di p. Attilio Franco Fabris

    Finora nulla è stato detto circa la promessa della discendenza. Eppure sembra essere la più urgente, perché il tempo passa e Abramo e Sara continuano ad invecchiare.

    Come vivono Abramo e Sara il ritardo dell’adempimento della promessa del figlio?

    Si rassegnano?

    Dubitano?

    Sono sulle spine?

    L’intervento divino è incerto: Quando? Come?

    Noi cosa faremmo?

    Non ci meraviglia il fatto che, ad un certo punto, decidano di ricorrere a soluzione loro che probabilmente, nel loro intento, serva a concretizzare la promessa.

    Il testo ci presenta il dialogo tra Jhwh e Abramo.


    Introduzione: v. 1

    “In seguito a questi debharìm…“.

    Dio risponde, in seguito alle parole/fatti di Abramo, come aveva già fatto dopo il patto con Lot, con un rinnovo delle promesse.

    Gli eventi fanno sì che la coscienza di Abramo si apra sempre più progressivamente all’ascolto della parola/promessa.

    Prima parte: vv.1-5

    La parola che il Signore rivolge ad Abram comprende tre elementi.

    –         “Non temere”: il figlio arriverà. E’ una formula che invita alla fiducia, ricorrente nei racconti di annunciazione.

    –         “Io sono il tuo scudo”: usa un’immagine militare. Abramo ha potuto costatare la vicinanza di Dio in battaglia (cfr 14,20). “Abram hai toccato con mano la mia vicinanza e il mio aiuto, come lo sono stato in passato lo sarò anche in futuro”.

    –         “la tua ricompensa (lett. la paga del soldato) sarà assai grande”: si tratta ancora di un’immagine militare. A lui che, dopo la battaglia, non volle nulla Dio vuole dare in risposta infinitamente di più. Ma che cosa? Questa “ricompensa” è assai vaga.

    La risposta di Abram si struttura attorno alla domanda che gli preme sul cuore, essa rivela come Abram non viva che per veder realizzato il sogno più grande. Ecco allora la domanda di Abramo: “Mio Signore, che cosa mi donerai, mentre io me ne vado spogliato (= senza figli)?”. In altre parole: “Signore che cosa mi puoi donare di tanto grande se  poi non ci sarà un figlio che continui la mia discendenza?”.

    Abramo avanza in questa direzione la sua proposta: Abramo e Sara vogliono adottare, secondo l’uso orientale, Eliezer il servo di Damasco come figlio ed erede. Infatti hanno aspettato l’adempimento della promessa. Essa non si è realizzata. Allora perché non cercare una soluzione? E’ ancora la paura che gioca nella coscienza di Abramo. Essa getta Abramo e Sara nell’agitazione di dover trovare ad ogni costo un espediente per affrettare la realizzazione della promessa.

    Abramo aggiunge a propria scusa, e con una sottile accusa, che tutto ciò è “colpa” di Dio il quale non ha mantenuto la sua promessa: “Vedi che a me non hai dato discendenza”. Abramo fatica, tentenna, si scontra con l’accettazione del kerigma. Non è come la prima volta che obbedisce subito, senza batter ciglio.

    Quali risonanze suscita questo atteggiamento di Abramo?

    La risposta di Jhwh è categorica: “Non costui… ma colui che uscirà dalle tue viscere” (cfr Natan e Davide 2Sam 7,12). L’impossibile è presentato un’altra volta come possibile. Invita poi Abramo a contemplare le stelle (desiderio=ad sidera), a contarle se gli riesce, cosa impossibile: “Tale sarà la tua discendenza”.

    La ricompensa “assai grande” ora è chiara: sarà una discendenza innumerevole (16,10; 32,13).

    Ma quale sperequazione tra la promessa solenne e maestosa e la realtà così povera e contraddittoria.


    Gli fu accreditato a giustizia: v. 6

    Dopo la parola di Jhwh, Abramo tace.

    Che valore attribuire a questo silenzio?

    Dubbio, speranza, incertezza, abbandono fiducioso…?

    Il nostro redattore lo interpreta come un consegnarsi incondizionatamente alla promessa.

    Infatti a questo punto fa una riflessione teologica di fondamentale importanza: “Egli credette al Signore che glielo accreditò a giustizia”.

    La forma verbale implica una continuità di atti di fede: “Egli continuò a credere“. Questo comporta che Abramo accolga con la massima fiducia la promessa, dandovi piena collaborazione.

    La storia di Israele dirà quanto ciò è difficile se non impossibile per i suoi discendenti e per tutti noi (cfr Es 4,8; Dt 1,32; 9,23).

    Abramo ne è stato capace, potendo così divenire ed essere presentato come “padre dei credenti”.

    Dio riconosce il merito di questa fede. “Glielo accreditò a giustizia”.

    Abramo è convinto della Parola del Signore e del suo contenuto reale anche se ancora invisibile e senza una scadenza precisa nel tempo: Abramo decide ancora una volta tutta la sua vita giocandosi unicamente sulla fiducia data alla Parola. “La fede di Abramo è la fiducia in una promessa umanamente irrealizzabile. Dio gli riconosce il merito di quest’atto (Dt 24,13; Sal 106,31). Lo mette in conto alla sua giustizia, essendo, il “giusto”, l’uomo la cui rettitudine e sottomissione rendono gradito a Dio” (nota Bibbia Gerus.).

    Il verbo has’av può essere tradotto in vari modi: si potrebbe tradurre anche in parafrasi con: “e il Signore si prese a cuore di lui con amore”, vincolandolo sempre più a sé. In base a ciò Abramo è s’addìq, giusto, cioè amico di Dio, colui che da Dio ha ricevuto la piena misericordia: ed è a questo titolo che la tradizione islamica si rifà particolarmente.

    San Paolo si fonda su questo versetto per dire che la giustificazione, davanti a Dio, è basata sulla fede e non sulle opere della legge (Rm 4). Tuttavia si fa notare come  la fede di Abramo lo porta ad opere giuste secondo il cuore di Dio (18,19). Per cui san Giacomo può basarsi su questo stesso versetto per dire che una fede senza le opere è morta (Gc 2,14-26).

    Fede e opere: in quale rapporto sono nella nostra esperienza?


    L’alleanza: vv.7-21

    Questa sezione del brano inizia con un’autopresentazione da parte di Dio: “Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei”. Egli rimanda agli inizi della vicenda di Abramo, quando Terach con tutto il suo clan partì da Ur per dirigersi a Canaan. Nessuno sospettò che in quel momento vi fosse l’azione di Dio stesso che dirigeva la storia.

    Dopo aver invitato a considerare il passato, riconoscendovi la sua presenza e la sua azione, Dio invita ad aprirsi al futuro delle promesse: “per darti questo paese in possesso” (lett. in eredità). La discendenza innumerevole avrà infatti bisogno di una terra.

    Abramo reagisce come poco prima, con una domanda: “Signore mio Dio, come potrò conoscere che ne avrò il possesso (lett. che l’erediterò)?”. Come intendere tale domanda? Non esprime il dubbio, ma una richiesta di capire meglio le modalità con cui la parola potrà concretizzarsi. Abramo crede, ma vuole capire, conoscere, chiede informazioni, dei segni. Chiedere un segno è inaccettabile se questa richiesta è fatta da persona che manca di fede e cerca una prova (cfr Es 17,2.7; Dt 6,16). Ma questa richiesta è accettabile se viene fatta da un credente, il segno allora non giunge come prova ma come conferma (cfr Gdc 6,17-18; Is 38,7-8.22). Sarà questa la differenza tra la domanda incredula di un segno da parte di Zaccaria e la domanda fiduciosa di Maria.

    Il segno che Jhwh offre è una solenne alleanza con Abramo (cfr Es 6,6-8).

    Dio chiede ad Abramo di approntare il necessario per stipulare il rito di alleanza. Si tratta di spaccare alcuni animali in due. In un rituale di alleanza bilaterale i due contraenti passano poi in mezzo alle parti divise invocando su di sé la stessa sorte riservata agli animali, nel caso si mostrino infedeli al patto.

    Qui il testo annota la presenza di un rapace, rappresenta una minaccia: “l’uccello rapace calò sui pezzi”. “Abram lo scacciò”. La minaccia viene allontanata. Di quale minaccia si tratta? Si tratta di eliminare tutti gli elementi (come il servo Eliezer) che potrebbero frapporsi alla realizzazione della promessa.

    Si passa poi a descrivere il “sonno”, l'”oscuro terrore”, la “grande tenebra”: sono tutti elementi che si riassumono in ciò che è definito nel “timore del Signore”. Un timore che non è paura di Dio, il termine non ha biblicamente un’accezione negativa, ma positiva: è il rispetto, l’adorazione, la consapevolezza della trascendenza.

    Segue la profezia da parte di Jhwh: viene rinnovata la promessa di una discendenza e della terra ma  si aggiunge che questa discendenza dimorerà schiava lontano dalla terra, dopo ne uscirà per riprendere possesso della terra. La storia che Dio ha fatto percorrere ad Abramo prefigura la storia della sua stessa discendenza. Ma l’esperienza d’Israele che esce dall’Egitto sarà a sua volta quella di una nuova generazione che uscirà da Babilonia al ritorno dall’esilio. La storia deve ripetersi generazione in generazione. Uscita – esodo – pasqua: sono passaggi obbligatori.

    Perché vi è la necessità di ripercorrere queste uscite (=pasque)?

    Dopo la profezia si passa al rituale vero e proprio. La parola proclamata ha rivelato il significato di ciò che sta per accadere ora.

    Fumo e fuoco sono simboli che manifestano la presenza di Dio. Dio passa attraverso gli animali squartati. Stipula in tal modo, solennemente, l’alleanza.

    Ma il presente rituale contiene un’anomalia: esso non è bilaterale. Chi passa è solo Jhwh. Abramo sta fermo, il contratto non gli impone alcun obbligo. Dio solo si impegna nei confronti di Abramo: “In quel giorno il Signore tagliò il patto con Abram”.

    L’iniziativa spetta solo a Dio. E’ lui che si impegna nei confronti di Abramo e non viceversa. Ancora una gratuità sconcertante per l’uomo che vorrebbe rivaleggiare con Dio.

    La discendenza non sarà dunque frutto di una espedienti umani come Abramo e Sara stavano per fare, ma sarà dono di Dio. Dio non si limita qui a prometterlo, ma s’impegna solennemente con un patto.

    Una allenza tra Dio e l’uomo nella quale Dio non domanda nulla se non di affidarsi alla sua parola: che risonanze suscita?

  • 02 Mar

    La benedizione

    Gn 14,1-24

    di p. Attilio Franco Fabris

    Il testo narra, come il precedente, il rapporto tra Abramo e Lot, in una situazione difficile di guerra in cui Abramo apparirà come strumento di benedizione da parte di Dio.

    Lot si è stabilito a Sodoma (13,12; 14,12) e Abramo alla Quercia di Mamre presso Ebron (13,18; 14,13).

    La piaga di una guerra interminabile: vv. 14,1-4.4-12

    Il testo biblico allarga i suoi orizzonti, a “tutto il mondo”. Vi si narra di una coalizione di quattro re d’oriente. Il primo viene da Sennaar, regione in cui fu tentata la costruzione della torre di Babele (Gn 11,2) Questi re decidono di entrare in guerra per occupare la terra di Canaan. E’ la prima volta che questo termine compare nella bibbia, e non sarà l’ultima se anche l’Apocalisse ne parlerà. La guerra d’ora in poi accompagnerà la storia dell’umanità. Da cosa è causata? Bramosia, ingiustizia, vendetta. In una catena di violenza interminabile e insensata. Chi ne va di mezzo non sono i potenti, ma i poveri, i deboli che debbono sottostare alla decisione del forte.

    Questi quattro re ingaggiano guerra contro cinque re di Canaan tra cui i re di Sodoma e di Gomorra, i quali portano nomi significativi: Bera (=nel male), e Birse (=nella malvagità). Tutti questi re abitano la valle del Giordano e la zona del Mar Morto.

    In questa guerra sono coinvolte tutte queste terre. Una maledizione per tutti!

    L’oppressione dura “dodici anni”, cifra perfetta, ma alla fine i popoli occupati non ne possono più. Essi insorgono al “tredicesimo anno”, ma l’anno dopo la situazione ricadrà ancor più disastrosa su di loro. La storia di questa guerra si aggrava ancor più. Essa infatti si estende anche ad altri popoli (v.5-7).

    Al termine della nuova guerra la coalizione dei re dell’ovest viene sconfitta e distrutta. Gli aggressori “presero tutte le possessioni di Sodoma e Gomorra e tutti i loro averi e se ne andarono” (v.11).

    Qui il testo aggiunge: “Andandosene presero anche Lot, figlio del fratello di Abram, e i suoi beni. Egli risiedeva appunto a Sodoma” (v.12).

    Lot ha dunque compiuto veramente una pessima scelta separandosi da Abramo garante di benedizione, lui che aveva creduto separandosene di accaparrarsi il meglio.

    Fortunatamente un fuggitivo corre a dare la notizia ad Abramo che ad Ebron, guarda caso, è al riparo dalla guerra distruttrice.

    Abramo bendizione per tutti: vv. 13-16

    Abramo entra ora in scena divenendo il protagonista del racconto.

    Alla notizia del sequestro di Lot, della sua famiglia e dei suoi beni, Abramo, come reagirà?

    Noi come reagiremmo?

    Abramo non avrebbe potuto dire a ragione: “Ben gli sta! Peggio per lui! Ora si arrangi!”.

    Abramo non ha questa reazione.

    Per lui Lot, in virtù dell’alleanza, è “fratello”, non può rimanere indifferente.

    Eccolo allora all’inseguimento dei quattro re dell’est fino a Dan, il punto più a nord della terra di Canaan (da Dan fino a Bersabea per indicare i confini: cfr Gdc 20,1), con 318 volontari combattenti. Abramo sembra non ragionare: come sconfiggere con un piccolo manipolo di soldati un esercito di quattro sovrani? E per chi correre questo rischio spropositato? Per quel “disgraziato” di nipote che gli ha soffiato la terra migliore.

    Cosa diremmo noi ad Abramo, cosa gli suggeriremmo?

    Ma Abramo prosegue nell’impresa, “sbaraglia” i quattro re e riesce a fare ciò che cinque re non erano riusciti a compiere. Egli “recupera tutta la roba e anche Lot e tutti i suoi beni”.

    Il seguito del racconto specificherà che la missione di Abramo non è al fine di arricchirsi, ma unicamente per ristabilire una situazione di giustizia.

    Il testo vuole esplicitamente fare riferimento alla promessa delle benedizione che Abramo rappresenta per tutti i popoli. Egli è presentato quale mediatore di salvezza.

    Abramo nuovamente benedetto: vv. 17-24

    Al termine della battaglia Abramo incontra il re di Sodoma nella valle dei re, vicino a Gerusalemme.

    Accanto al re di Sodoma troviamo un nuovo personaggio: Melchisedek.

    Il suo nome può avere diversi significati: il dio Milku è giusto, il mio re è giusto. Il nome fa perciò riferimento alla giustizia. Egli è re di Salem che la tradizione giudaica identifica con Gerusalemme (Sal 76,3). La parola Salem sta indicare pace (= shalom). La pace e la giustizia, doni di Dio, sono dunque simbolizzati da questa misteriosa figura.

    Oltre ad essere re, Melchisedek è anche sacerdote di El Elion, il Dio Altissimo. E’ il primo sacerdote menzionato nella Bibbia.

    Egli va incontro ad Abramo: “uscì facendo portare pane e vino”. E’ un gesto tipicamente orientale di accoglienza. Non offre solo pane e acqua, ma pane e vino pasto degno di un re (1Sam 16,20).

    Egli benedice Abramo (3 vt) in quanto mediatore di salvezza per tutti. Egli ha sconfitto il nemico ristabilendo la giustizia e la pace. Egli è stato strumento nelle mani del Dio Altissimo. Viene riconosciuto pubblicamente dinanzi a tutti in questa sua missione

    Al termine della benedizione Abramo gli consegna la decima di tutto ciò che è stato recuperato in guerra. Manifesta così la sua gratitudine a Dio. Riconosce che ciò che ha compiuto è stato possibile solo grazie all’intervento di Dio. Non si inorgoglisce, non decanta le sue capacità strategiche, non sfrutta la sua posizione a suo vantaggio.

    Quanto interviene il re di Sodoma dicendogli: “Dammi le persone  e prendi per te i beni” Abramo esprimerà nuovamente un atteggiamento nuovo e sorprendente. Egli alza la mano in giuramento verso il Dio Altissimo (El Elion) riconoscendo la sua dipendenza da lui. Rifiuta di accaparrarsi i beni di cui avrebbe diritto come bottino di guerra. Non vuole arricchirsi sulle spalle delle sofferenze altrui.

    Ma nello stesso tempo sa di poter parlare solo per se. Ai compagni si dia pure quel che si vuol pattuire.

    E a Lot non dirà: “Adesso ritorna con me, vedi che cosa ti può capitare. Facciamo una coalizione tra noi”. No, ma come il padre della parabola ridà tutto a Lot: la sua libertà e i suoi beni. Decida lui del suo futuro.

    Il racconto all’inizio sembrava estraneo al ciclo di Abramo, mentre alla fine si rivela importante. Sviluppa infatti il tema della promessa fattagli da Dio di essere benedizione per tutti.

    Il comportamento qui da lui tenuto contrasta fortemente con quello da lui tenuto in Egitto.

    Non pensa a salvare se stesso, non vuole approfittare per arricchirsi: Abramo sembra poter vivere di una gratuità inaspettata. Da dove tutto questo?

    La risposta è una sola: Abramo sta sperimentando l’unica sua vera sicurezza e ricchezza che è la promessa di Dio. Questo gli basta, non ha bisogno di nient’altro. “Sei tu Signore, l’unico mio bene, mia parte di eredità”.

    Ecco gli effetti del Kerigma sulla vita. Ricchi della promessa di Dio veniamo liberati dalla paura di perderci, dalle avarizie, dalle grettezze, rivendicazioni, invidie.

  • 01 Mar

    La terra

    Gn 12,10-13,18

    di p. Attilio Franco Fabris

    Sembrerebbe che l’adempimento della promessa della discendenza sia il più urgente. Abramo e Sara invecchiano! Quindi non c’è tempo da perdere.

    Ma ecco che il testo prende tutt’altra direzione, lasciando in sospeso quest’aspetto così essenziale.

    L’abbandono della terra: 12,10-13,1

    Il testo biblico menziona un grave problema: la carestia. E proprio in quella terra che dovrebbe essere quella promessa. Il tema dominante è dunque quello della terra. Come vive questo Abram? Come una smentita? Cosa fare in un frangente tanto grave?

    Abram “discese”, si tratta di una nuova partenza che terminerà alla fine con una risalita (13,18).

    La discesa in Egitto: v.10


    Abramo non discende in Egitto per solo comprarvi di che sopravvivere, ma per soggiornarvi. Il verbo sta a dire l’intenzione di stabilirsi lì come immigrato, forse per sempre (cfr Gn 47,4).

    Questa scelta mette seriamente in discussione l’adempimento della promessa. Abram non parte seguendo un invito da parte di Dio. Prende una decisione in base alle circostanze in cui si viene a trovare.

    Il discorso di Abramo: vv. 11-13


    Tutto il contesto è imperniato sulla bellezza di Sara (75 anni!). Bellezza che è gioia per l’uomo e orgoglio per la donna. Ma questo dono ora diventa pericoloso, e il pericolo provoca paura.

    Ecco allora la proposta di Abram di dichiarare Sarai sua sorella.

    Quel che le chiede è di rinnegare la sua stessa identità, di vivere nella menzogna. E Abramo chiede questo per il proprio interesse, per la propria vita. Di ciò che accadrà a Sara non si preoccupa.

    Si sente depositario delle promesse ma le vuole difendere con la propria paura, e attraverso direzioni ambigue.

    Quel che dice Abram è ancor più grave: Quel “a causa tua” si potrebbe tradurre con “Al prezzo di te”. Vuole addirittura ricavar profitto economico dalla sua menzogna.

    La donna diviene oggetto di cui ci si serve e ci si approfitta, di cui si dispone e ci si sbarazza.

    Abramo mette ancor più in pericolo la promessa della terra abbandonando la terra e mette in pericolo la promessa della discendenza consegnando Sara agli egiziani.

    A causa dell’azione di Abram l’impossibile si rende ancor più certamente impossibile. Si è cacciato in un vicolo cieco da cui non si sa come uscirne.


    L’arrivo in Egitto: vv. 14-16


    Sara è oggetto degli sguardi degli egiziani, degli ufficiali che non trovano di meglio che decanatare (a quale scopo?) la bellezza di Sara al faraone. Lo sguardo allora non basta più; Sara “fu presa”.

    Sara non è più chiamata per nome, è “la donna”. Non è altro che oggetto di desiderio e di piacere. Ricchi e potenti possono appropriarsi delle donne che vogliono, abusarne, per poi scaricarle.

    Anche Davide non sfugge alla tentazione (Cfr. 2Sam 11,2-4).

    La storia continua che Abram “fu trattato bene per causa di lei”. Non solo si abusa di Sara, ma il marito si arricchisce a spese sue, come si arricchiscono i protettori delle prostitute.

    L’intervento del Signore: v. 17


    L’intervento di Dio è breve, ma determinante nell’evolversi del racconto, e ne costituisce la svolta. Colpisce “con piaghe” (cfr Es 7,8-11,10) il faraone e la sua casa.

    Per quale motivo interviene?

    Il testo dice: “per il fatto (dbr) di Sara”. Dbr può essere inteso come per l’accaduto, la faccenda, ecc. ma significa anche parola. Il senso potrebbe anche perciò essere che Dio interviene “per la parola di Sara”.

    Una preghiera, una supplica, forse un grido di disperazione da parte di questa donna (cfr Es 2,23: “Ho udito il grido…”).

    Per JHWH Sara è e deve essere moglie di Abramo. Non è la “sorella”, né “la donna”: ella è la “moglie di Abramo”, dell’uomo benedetto da Dio.

    La maledizione riservata ai nemici di Abramo ricade dunque sugli egiziani che ne subiscono le conseguenze a loro insaputa. E’ il tema della benedizione.

    Certo è il comportamento di Abramo che non diviene benedizione per gli egiziani.

    Il discorso del faraone: vv. 18-19


    Ora tocca ala faraone muoversi. La sua parola è un’accusa, una scusa e un ordine.

    L’accusa è di averlo ingannato: “Perché?”

    Non si capisce come il faraone sia giunto a scoprire la cosa: ha fatto un’inchiesta? Ha interrogato Sara? Ha avuto una rivelazione?…

    L’atteggiamento assunto dal faraone è stato dovuto comunque all’inganno di Abramo: “in modo che io me la sono  presa in moglie”. Ecco la sua scusa. Ma chi si scusa si accusa. Il faraone ha preso Sara invaghito della sua bellezza e in forza del suo potere e della sua forza, perché è il re. Il fatto che Sara sia sorella o moglie non gli dà alcun diritto su di lei. (cfr Davide e Uria: 2Sam 11,14-15).

    Segue l’ordine: “Vattene!”. Parole che esprimono rigetto e disgusto.

    Ma questo ordine perentorio rimette in moto il cammino di Abramo e il progetto di Dio! Una parola che assomiglia molto all’ordine iniziale di Dio dato ad Abramo: “Vattene” (12,1).

    Il Faraone, colpito dalle piaghe, non accetta il giudizio divino e rifiuta il mediatore. Perché le piaghe, come “segno” vogliono richiamare il re a riconoscere l’opera di Dio e la sua presenza: ovvero un appello alla fede. Qui il Faraone riconosce l'”effetto”, ma non la causa, e si chiude. Qui la mediazione di Abramo resta senza effetto.

    Questo racconto ci mette dinanzi all’ambiguità della coscienza dell’uomo. Un racconto iniziale poco incoraggiante! Un’armonia iniziale che viene disturbata, deturpata dalla paura, dal sospetto, dall’interesse dell’uomo. La paura di Abramo lo porta a mentire e a mettere in pericolo la promessa della discendenza e della terra, che lui vuole salvare attraverso meschine strategie umane in quanto si sente solo lui depositario delle promesse e non Sara. Ma questo non è il pensiero di Dio.

    Un comportamento comunque inescusabile.

    Abramo non ne viene castigato a differenza del faraone, ma non per questo ne esce indenne. E’ talvolta più facile accettare il castigo che vivere con le conseguenze dei propri atti criminosi. Un castigo dà per lo meno la consapevolezza di aver “espiato”, “pagato” per il reato liberando dal complesso di colpa. Senza castigo la coscienza viene logorata.

    Abramo ha ripreso sua moglie Sara: ma come salvare ora, dopo simili trascorsi, la relazione tra i due irrimediabilmente compromessa? Cosa si saranno detti? Che scuse e accuse vicendevoli?

    L’offerta del paese: 13,2-18

    Ci aspetteremmo che ora l’autore proseguisse con il racconto della promessa della discendenza, quella più urgente. Non è così. Il tema trattato continua ad essere quello della terra.

    Verso Betel: vv. 2-5


    Abramo torna alla terra arricchito dall’Egitto. Vi era andato attanagliato dalla carestia. L’ebraico usa lo stesso termine: la carestia “era pesante” sul paese, ora Abramo torna “pesante” di ricchezze.

    In ritorno, risalita, avviene esattamente in senso inverso alla discesa.

    Abramo torna a Betel, il luogo più vicino in cui trovare un altare da lui costruito, e come la prima volta qui “Abramo invocò il nome del Signore”. Cosa avrà detto Abramo al Signore? Il testo non lo dice. Proviamo ad immaginarcelo.

    Ciò che è sicuro è che Abramo vuole ritrovare il rapporto con Jhwh, il suo Dio.

    Si parla ora di Lot, anche lui disceso in Egitto con Abramo e tornato anch’egli arricchito. Ma si sa, quando si tratta di averi si vuole sempre più e il sodalizio sta per aver fine.

    Il racconto verte sulla relazione tra Abramo e nipote.

    La lite: vv. 6-7


    Il territorio non basta più ad entrambi “perché avevano beni troppo grandi per poter abitare insieme”.

    Il verbo “abitare” è la parola chiave del brano (cc 6.7.12.18). Assistiamo ad un capovolgimento strano. Prima i due non potevano abitare il territorio a causa della carestia, adesso non lo possono fare perché troppo ricchi. Va sempre male! Come mai? Una volta non c’è abbastanza, un’altra c’è troppo? Dove sta il problema? Nelle cose che non ci sono e che sono o nel cuore dell’uomo incapace di condividerle?

    Una simile situazione inevitabilmente sfocia in conflitti e così accade tra i pastori di Abramo e Lot.

    La soluzione proposta: vv. 8-9


    Come risolveremmo noi il problema? Saremmo forse portati a risolverli con la forza.

    Non è questa la scelta di Abramo. La lite non viene risolta con le armi ma attraverso un’intesa pacifica, un’alleanza (21,27.32; 26,28; 31,44).

    Dal momento in cui si stipula l’alleanza Lot è chiamato “fratello” di Abramo e non più nipote: il loro è un patto di fratellanza, tra pari.

    Si opta per la divisione del paese. Ma come dividerlo? Con quale criterio? Vi sono zone fertili e altre brulle? Che fare?

    Con stupore vediamo Abramo, il più anziano, il depositario della promessa, lasciare a Lot la scelta.

    E’ un capovolgimento! In Egitto Abramo aveva pensato solo al proprio interesse a scapito degli altri, qui si mostra generoso, liberale, disinteressato.

    Potrebbe essere lui a scegliere pere primo: “Non sta davanti a te tutto il paese?”

    La scelta di Lot: vv. 10-13

    Il testo sottolinea che la scelta di Lot è un atto puramente umano.

    “Alzò gli occhi” il che significa desiderare, bramare di possedere. “Osservò” “scelse” il testo dice “per sé”. Per poi passare subito all’azione “risiedette”.

    Cosa lo spinge? E’ solo la bramosia. “Osservò tutta la valle del Giordano, perché era tutta irrigata… scelse per sé tutta la valle del Giordano”. Egli in fin dei conti cuole riconquistare “il giardino del Signore” tutto irrigato (cfr Gn 3,23-24). Quel che vede Lot gli ricorda “il paese d’Egitto”.

    Quale il suo principio di vita? Tutto e il meglio per me!

    Un atto molto simile a quello di Eva nel giardino dell’eden (cfr 3,6), del faraone nei confronti di Sara (12,15).

    Queste scelte manifestamente egoistiche allontanano da Dio e conducono al male. Sarà così per Lot che passo passo andrà incontro al male. Lot ha preso la direzione dell'”oriente” che è una direzione pericolosa: è la direzione di Adamo ed Eva (Gn 3,42), quella di Caino (Gn 4,16) dopo il peccato, dei costruttori di Babele (Gn 11,2).

    Lot crede di scegliere la parte migliore mentre sceglie la propria rovina. La coscienza di Lot ha avuto un cambiamento radicale, finora è stato l’uomo “con Abramo”. Da questo momento allontanandosi da lui si allontana dal portatore delle promesse: ha scelto la sua strada non rimproverato da nessuno.

    La promessa ad Abramo: vv. 14-17


    Il Signore parla ad Abram “dopo che Lot si fu separato da lui”.

    Il parallelo tra l’invito fatto ad Abram e l’atteggiamento di Lot è degno di nota: “Alza gli occhi, e… spingi lo sguardo”. E’ un invito da parte di Dio e non frutto di bramosia umana.

    Tutto il paese Io lo darò a te”. La terra promessa, ricorda Abram, è dono non una conquista umana!

    Poco importa che Lot abbia scelto tutto per sé, perderà tutto e tutto sarà dato ad Abramo.

    Il dono di Dio è “per sempre”.

    Questo rinnovo delle promesse avviene dopo il gesto disinteressato e generoso di Abram. E Dio precisa ancor più le sue promesse: “Tutto il paese che tu vedi, io lo darò a te e alla tua discendenza per sempre“.

    Promessa dunque non solo della terra, ma di una discendenza con cui Dio farà alleanza per sempre.

    Verso Ebron: v. 18


    “Abram acquistò il diritto di pascolare e di andarsi a stabilire alla Quercia di Mamre, che è ad Ebron, e vi costruì un altare al Signore”. Ripete i gesti compiuti a Sichem e a Betel. Ad Ebron Abram possederà il suo primo pezzetto di terra e lì saranno seppelliti tutti i patriarchi e le matriarche.

    Il brano dunque pone la sua attenzione sulla promessa della terra.

    Abram ha accettato il rischio di lasciare la scelta all’altro. Si è dimostrato generoso e fiducioso nella promessa di Dio. Accetta di perdere quella terra promessa che ha appena raggiunto. Questa situazione assomiglia molto al racconto del sacrificio di Isacco il primogenito (Gn 22).

    Abram è pronto a sacrificare le promesse. E’ stato difficile ad Abram lasciare dietro di sé il suo passato (12,1), ma è ancor più difficile e impegnativo sacrificare l’avvenire.

    Si tratta di un vero e proprio “sacrificio del paese”.

    Il paese e il figlio risultano veramente quali dono di Dio e non frutto di espedienti umani: da ciò il permanere del dono.

  • 24 Set

    La nostra è la cena del Signore?

    Lectio di 1 Cor 11,17-34


    Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1396 recita: “Coloro che ricevono l’eucaristia sono uniti più strettamente a Cristo. Per ciò stesso, Cristo li unisce a tutti i fedeli in un solo corpo: la Chiesa”.

    Quindi l’Eucarestia come frutto produce non solo una comunione intima con il Signore ma suppone e fortifica la comunione on i fratelli. Disgiungere i due elementi significa stravolgere il significato dell’Eucarestia.  Eppure, dobbiamo riconoscerlo, torna troppe volte comodo ridurre l’eucarestia a rito sganciato dall’impegno che viene a determinare nei confronti della comunità. Il nostro “esaminare noi stessi” se siamo nella condizione per prendere parte al banchetto eucaristico si riduce ad un esame superficiale che trascura la condizione che deve stare al fondo: come vivo il rapporto con i fratelli e sorelle di fede? In quale misura mi sono impegnato nell’accoglienza, nel perdono, nello stendere concretamente la mano a chi è nel bisogno?

    Ascoltiamo la Parola che ci richiamerà a ciò che è fondamentale perché una celebrazione non si traduca in un rito staccato dalla vita, e ad un gesto sacrilego che ritorna a condanna per chi lo compie.

    “Fa’ o Gesù, che ti riconosciamo sempre nell’Eucaristia, che ti riconosciamo diventando noi stessi pane spezzato, pane acceso nella notte di questo mondo.Donaci quel fuoco, quella passioni d’amore per il Padre che ti ha portato a consegnare la vita, a spogliarti di te stesso per la salvezza di tutta l’umanità” (Card. Carlo M. Martini).

    Lectio

    Se nei primi capitoli Paolo loda la comunità di Corinto per la fedeltà ai suoi insegnamenti e per la vivacità di questa nuova comunità, ciò non toglie che in essa purtroppo si verifichino situazioni che la pongono in contraddizione con la fede professata.

    I cristiani di Corinto, sulla linea delle comunità palestinesi, celebravano l’Eucaristia nelle loro case nel contesto di un pasto fraterno che Paolo chiama “Cena del Signore”: l’ “agape”. L’intenzione era ottima: l’uso del banchetto fraterno che precedeva la celebrazione aveva lo scopo di ricordare il contesto in cui Gesù istituì l’Eucaristia, inoltre esso aveva come scopo l’andare incontro alle necessità dei poveri della comunità con i quali si condividevano i propri averi (cfr At 6,1).

    Ma cosa capita a Corinto? Il problema è riferito dalla “gente di Cloe” (cfr 1,11) che si è recata da Paolo a Efeso per informarlo sull’andamento della comunità e dei suoi problemi. Le riunioni si “svolgono al peggio” (v 18). È un giudizio pesante dettato dal fatto che le celebrazioni eucaristiche sacramento di comunione con Cristo e i fratelli sono vissute tra eclatanti divisioni: “sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni (skismata) tra voi” (v.18). Una eucaristia vissuta nella divisione è una eclatante contraddizione per cui non può essere definita vera eucaristia:“il vostro non è più un mangiare la cena del Signore” (v. 20).

    Ma cosa avveniva concretamente? Sappiamo che uno dei punti deboli della comunità di Corinto era la presenza di alcune fazioni al suo interno: “Io sono di Paolo… io di Apollo… io di Cefa…” (cfr 1,12ss). Questi gruppuscoli si ripresentavano anche nelle sinassi cosicché nello stesso locale i ricchi facenti parte probabilmente del partito di Apollo facevano crocchio a se stante, e così anche gli altri. Tutti portavano da mangiare e bere ma si rifiutavano di condividere il pasto. Alla fine ci si ritrovava con chi era ubriaco con chi, povero, non aveva mangiato e bevuto pressoché nulla: “uno ha fame, l’altro è ubriaco” (v. 21). L’agape si trasforma in baccanale per gli abbienti e a un umiliante digiuno per i poveri.

    Paolo di fronte a questo scandalo denuncia che questa “cena” non è la “cena (deipnon) del Signore” ma un “proprio pasto (deiponon)” che non ha nulla a che fare col primo. La loro celebrazione si trasforma in una vera e propria profanazione. Come è possibile con questo atteggiamento condividere lo stesso pane eucaristico?

    A questo punto è meglio che ciascuno mangi a casa sua per non offendere i fratelli: “Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!” (v. 22).

    Si tratta di una grave contraddizione che getta il “disprezzo” sulla Chiesa, e che dovrebbe “far vergognare” chi la compie. L’Eucaristia è vera “Cena del Signore” (v. 20) realtà troppo sacra e centrale per la vita della comunità perché possa essere esposta al rischio della profanazione come avviene con l’agape di Corinto.

    Per richiamare su questo importante punto la comunità a Paolo non resta che riannunciarne il mistero. Nei vv. 23-26 egli riporta il racconto dell’istituzione eucaristica da parte di Gesù alla vigilia della sua passione. Si tratta di un testo di fondamentale importanza in quanto è la più antica testimonianza del gesto compiuto da Cristo. Paolo fa risalire quanto annuncia al Signore stesso, ovvero risale direttamente a lui tramite la “traditio apostolica”: “ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”. Parafrasando: “Ho ricevuto da una tradizione che risale al Signore ciò che vi ho trasmesso nei termini in cui l’ho ricevuto io stesso”. Si tratta di un annuncio fatto con una straordinaria autorevolezza! Nel testo viene sottolineata soprattutto la dimensione sacrificale dell’eucaristia attraverso le parole pronunciate sul pane “che è per voi” e sul “calice della nuova alleanza”. Il “fate questo in memoria di me” deve significare nuovamente per i cristiani di Corinto accogliere l’Eucaristia come sacramento del dono totale della vita di Cristo a noi e di noi ai fratelli. Il che ovviamente deve portare al superamento di ogni divisione e rifiuto. Non “riconosce” (v. 29) il Corpo del Signore colui che non ne riconosce lo spessore di dono da comunicare anche agli altri.

    È  un incontro comunitario e personale con il Signore nel segno del comunicare insieme all’unico corpo e all’unico calice cosa che esige per tutti un giusto discernimento, il soppesare seriamente le sussistono le condizioni perché si possa partecipare in verità alla comunione col Signore. Se questo non fosse allora “chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore” (v 27). A questo punto l’apostolo fornisce una prima formulazione normativa circa i requisiti necessari per ricevere degnamente e con frutto il “corpo del Signore”: “Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice” (v. 28). Qui l’esaminare se stessi equivale a saper giudicare la propria vita alla luce del comandamento del Signore circa l’amore gli uni per gli altri (cfr Gv 13,34).

    Il ricevere indegnamente il Corpo di Cristo fa sì che si vada incontro a “malattie” e “morti” (v. 30). Questi castighi sono lezioni pedagogiche che il Signore infligge perché la comunità non venga poi “condannata” definitivamente insieme col “mondo” per non aver “riconosciuto il Cristo”.

    Paolo conclude questa ammonizione con una norma disciplinare che consiste prima di celebrare l’agape nell’“aspettarsi gli uni gli altri” (v. 33) probabilmente lo scopo è quello di evitare che previamente si formino gruppuscoli a se stanti. Il fatto che l’apostolo richiami alla convenienza di mangiare prima a casa propria non si comprende bene se è abolizione definitiva del banchetto conviviale o una semplice condanna del suo abuso. In ogni caso già all’inizio del terzo secolo (Didaché, Giustino…) non troviamo più traccia del banchetto conviviale il che significa che la Chiesa prudentemente optò per la netta separazione tra la celebrazione eucaristico e l’agape fraterna al fine di salvaguardare la sacralità del rito perdendo però forse di vista la dimensione della condivisione fraterna.

    Paolo aveva preso nota che dentro la triste condizione della chiesa di Corinto vi è tuttavia una nota consolante: in mezzo a queste contraddizioni si evidenziano coloro che si sforzano di vivere autenticamente la loro fede: “È necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi” (v. 19)

    Collatio

    Paolo non riporta nella sua lettera ai corinti il racconto dell’istituzione per descrivere semplicemente un rito o darne più precise istruzioni rubricali, lo fa per un motivo ben più grave: la comunità sta rischiando di stravolgere il significato autentico dell’eucaristia.

    Questa profanazione eucaristica è l’unica che esplicitamente viene condannata dalla sacra Scrittura e non consiste nell’aver rotto il digiuno o nell’aver divagato in “pensieri cattivi” non stando attenti al rito. Si tratta invece di un sacrilegio provocato da una celebrazione fatta in un contesto di divisioni e ingiustizie.

    Gli Atti degli Apostoli nei loro “sommari” ci presentano una comunità fervente che celebra l’eucaristia in una grande unità e concordia. Non ci sono solo pii sentimenti e propositi ma lì si tocca con mano una concreta condivisione che fa sì che l’eucaristia non sia una celebrazione di facciata: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere…Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (At 2,42-45; 4,32). In questa comunità l’eucaristia non si riduce ad un rito, ad una bella cerimonia staccata però dalla vita. Radunata  attorno alla mensa celebra nell’eucaristia una comunione che nata dall’ascolto della Parola si traduce in scelte concrete di vita. Infatti la “frazione del pane” (una dei nomi dati alla messa) che è il corpo di Cristo deve celebrare per essere autentico “rendimento di grazie a Dio” la disponibilità a spezzare a nostra volta insieme ai fratelli ciò che siamo e ciò che abbiamo.

    Il rischio che correva la comunità di Corinto può essere benissimo anche il nostro nell’anno di grazia 2010. Il pericolo loro e nostro è che l’eucaristia si risolva in rito sacro fine a se stesso, nel quale mettiamo a posto la coscienza perché si è “andati a messa”, mentre ci dimentichiamo (comodamente e forse non del tutto inconsciamente!) delle esigenze di comunione, di reciproca accoglienza e perdono che esso richiede perché non sia profanato alla radice.

    Già nella tradizione profetica troviamo invettive contro una falsa religiosità solo esteriore ma che trova risvolti di conversione nella vita: “Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui. Non digiunate più come fate oggi, così da fare udire in alto il vostro chiasso” (Is 58,4). E anche Gesù ribadirà fortemente le esigenze di una verità del culto che tenga presente il diritto di Dio ma nello stesso tempo quello del fratello che mi sta accanto: “Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24) .

    Nella notte del suo tradimento Gesù consegna nel pane spezzato e nel calice versato tutto se stesso, in un atto di amore “fino alla fine” (cfr Gv 13,1). Entrare nel mistero eucaristico, fare comunione con Cristo, significa far nostro il suo dono affinché sia lui a renderci capaci, a nostra volta, di spezzare noi stessi per i fratelli perché tutti diveniamo in Cristo un solo corpo: “A noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito” (Pregh Euc. III).

    I corinti tutto questo lo sapevano? Certamente sì! Eppure trovavano difficile attuare concretamente le esigenze che l’eucaristia comporta. Difficile per loro, difficile per noi, che ci illudiamo di vivere l’eucaristia solo perché avvolti in sentimentali atmosfere di incensi, luci e canti ed esatte rubriche senza però “esaminare noi stessi” al fine di eliminare le contraddizioni che partendo da una vita lontana dal vangelo profanano il rito. Quante eucaristia celebriamo in modo disinvolto tra divisioni e contrasti? Paolo esplode con violenza al fine di evidenziare la verità del mistero: celebrare l’eucaristia tra le divisioni e le ingiustizie non si può chiamare eucaristia! Diviene motivo di condanna! Poca attenzione poniamo al fatto che il nostro essere tenacemente attaccati a rancori, al rifiuto della condivisione, all’esclusione di uno o l’altro dei fratelli comporta immediatamente una nostra “scomunica” ovvero al nostro essere fuori dalla comunione con Cristo che deve impedirci di accostarci all’eucaristia se non vogliamo incorrere nella condanna. Non assistiamo forse ancora a divisioni quando il tal movimento, la tal associazione o gruppo rivendicano la “loro messa” apportando “giuste” motivazioni ma che alla luce del vangelo non reggono? Si pensa di poter far comunione con Cristo lasciando fuori dalla porta il fratello che non è dei “nostri”. Ricordiamo le parole forti con cui il vescovo Giovanni Crisostomo condannava a sua volta un’Eucaristia staccata dalla carità: “Tu hai bevuto il Sangue del Signore e non riconosci il tuo fratello. Tu disonori questa stessa mensa, non giudicando degno di condividere il tuo cibo colui che è stato ritenuto degno di partecipare a questa mensa. Dio ti ha liberato da tutti i tuoi peccati e ti ha invitato a questo banchetto. E tu, nemmeno per questo, se divenuto più misericordioso” (Omelia sulla Prima Lettera ai Corinti, 27,4)

    Si pretende un Cristo “tutto per noi e da celebrare tra noi”: questo è impossibile: non è questo un mangiare “la cena del Signore” ma solo la “nostra cena”. Non si può mangiare lo stesso corpo di Cristo senza desiderare ardentemente di divenire tutti “un solo corpo”. Sogno troppo augurandomi che in ogni comunità parrocchiale ci sia una sola eucaristia nella quale convergano tutti i movimenti, associazioni, gruppi e tutti gli altri cristiani in una testimonianza grande di unità e di fede nell’unico Signore e di accoglienza e riconoscimento gli uni degli altri? “Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane “ (1Cor 10,16-17).  Sant’Agostino in una sua omelia ammonirà i suoi cristiani dicendo: “Vi si dice: “Il Corpo di Cristo”. E voi rispondete: “Amen”. Ricevete il vostro stesso sacramento. Siate dunque membra del Corpo di Cristo, perché sia vero il vostro “Amen” (sant’Agostino, Sermoni CCLXXII)

    San Giovanni nel suo vangelo non riporta il racconto dell’istituzione eucaristica. Apparentemente la trascura per narrare l’enigmatico episodio della lavanda dei piedi. Il gesto di Gesù è follia che profetizza il dono totale di sé sulla croce: il supplizio del servo. In realtà Giovanni descrivendo Gesù in ginocchio mentre compie col grembiule ai fianchi e l’asciugamano il gesto dell’ultimo servo annuncia alla sua comunità il cuore che deve animare ogni eucaristia.. Gesù ci invita a fare come lui: “Voi mi chiamate maestro e signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,16). Celebrare l’eucaristia è unirci a Cristo per fare della nostra vita un sevizio di noi stessi non solo a Dio ma anche ai fratelli soprattutto più piccoli. Questo è lasciar vivere in noi il Cristo eucaristico “corpo donato e sangue versato” e non era forse questa la valenza originaria del momento offertoriale che noi abbiamo ridotto ad una raccolta di un po’ di spiccioli per il riscaldamento della chiesa ola costruzione dell’oratorio?

    Gesù ha dato alla comunità dei discepoli il compito di testimoniare la fede non anzitutto attraverso dei bei riti trasmessi in mondovisione, ma molto più terra terra attraverso una vita intessuta di amore: “Da questo conosceranno se siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”. Il primo paramento prezioso e l’abito bello che tutti sono mettiamo per la messa deve essere anzitutto il grembiule e l’asciugamano. Non dobbiamo preoccuparci di offrire nessun altro segno al mondo perché se questo non accade, anche se produciamo bellissime cerimonie, non facciamo altro che  gettare solo disprezzo sulla Chiesa Santa di Dio.

    Solo l’impegno della carità che scaturisce dalla fonte dell’eucarestia ci deve preoccupare. Potremo cantare con verità le antiche e stupende parole che la liturgia pone sulle labbra della chiesa il Giovedì Santo: « Ubi caritas et amor, Deus ibi est. Simul ergo cum in unum congregamur: Ne nos mente dividamur, caveamus. Cessent iurgia maligna, cessent lites. Et in medio nostri sit Christus Deus”.

    Oratio

    Rit. Dov’è carità e amore, lì c’è Dio.

    Ci ha riuniti tutti insieme, Cristo amore:
    godiamo esultanti nel Signore!
    Temiamo e amiamo il Dio vivente,
    e amiamoci tra noi con cuore sincero. (Rit)

    Noi formiamo, qui riuniti, un solo corpo:
    evitiamo di dividerci tra noi:
    via le lotte maligne, via le liti,
    e regni in mezzo a noi Cristo, Dio. (Rit)

    Chi non ama resta sempre nella notte
    e dall’ombra della morte non risorge;
    ma se noi camminiamo nell’amore,
    noi saremo veri figli della luce. (Rit)

    Nell’amore di colui che ci ha salvati,
    rinnovati dallo Spirito del Padre,
    tutti uniti sentiamoci fratelli,
    e la gioia diffondiamo sulla terra. (Rit.)

  • 24 Set

    “Tutti là sono nati”

    Lectio del Salmo 86

    di padre Attilio Franco Fabris

    Si calcola che il fenomeno dell’immigrazione abbia coinvolto in tutto il mondo in questi ultimi anni circa cento milioni di persone. E’ una cifra impressionante che dice un cambiamento epocale e inarrestabile non solo del volto del nostro “bel paese” ma di ogni nazione industrializzata. È un mondo che sta cambiando volto a ritmi vertiginosi portando con sé certamente tante problematiche di inserimento e dialogo tra culture diverse, cosa certo di non di facile soluzione, ma nello stesso tempo nuovi orizzonti certo ancora sconosciuti ma colmi di speranza. Non si può perciò negare all’immigrazione così massiccia la connotazione di uno dei “segni dei tempi” che il Concilio Vaticano II invita a imparare a leggere con occhi di fede scorgendovi un disegno divino.

    Giovanni Paolo II, alla vigilia dell’anno giubilare del duemila nel suo “Messaggio per la Giornata dell’Immigrazione scriveva”: “l’umanità è contrassegnata da fenomeni di intensa mobilità, mentre negli animi si va sempre più affermando la consapevolezza di appartenere ad una sola famiglia. Le migrazioni, volontarie o forzate, moltiplicano le occasioni di scambio tra persone di culture, di religioni, di razze e di popoli diversi. I moderni mezzi di trasporto collegano sempre più rapidamente il pianeta da un punto all’altro e ogni giorno le frontiere vengono oltrepassate da migliaia di migranti, di rifugiati, di nomadi, di turisti”.

    Tutta la tradizione biblica e cristiana riconosce nello straniero, ovvero nell’immigrato da qualsiasi parte provenga, una connotazione sacra. Non è forse dinanzi ai tre sconosciuti viandanti che Abramo si prostra implorando che si fermino presso di lui? “Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo” (Gn 18,1-2). La Lettera agli Ebrei, ricordando questo episodio, ammonirà le comunità cristiane: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Ebr 13,2) e questo anche alla luce anche delle parole  stesse di Cristo che dice di riconoscersi nel forestiero: “io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt 25,35).

    Chiediamo allo Spirito di liberarci dalle nostre grettezze e paure, egli ci insegni a spalancare le porte, ad allargare le braccia come Cristo sulla croce, pronti ad accogliere il pellegrino che bussa alla porta per essere riconosciuto prima ancora che come straniero, come uomo con la dignità di figlio di Dio: “Signore insegnaci a non amare soltanto noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano. Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama. Concedici la grazia di capire che ad ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice, protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che sono pure tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo. Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo. E non permettere più, o Signore, che noi viviamo felici da soli. Facci sentire l’angoscia della miseria universale, e liberaci dal nostro egoismo. (Raoul Follerau).

    Lectio

    Il testo originale del salmo 86 ci è pervenuto alquanto compromesso e quindi in parte incerto. Alcuni passaggi si presentano molto problematici nella loro ricostruzione e interpretazione. Lo stesso contesto dell’utilizzo del salmo non è sicuro, forse veniva cantato in occasione di solenni processioni verso il tempio. Come se ciò non bastasse anche l’interpretazione di fondo di tutto il salmo si presenta problematica: si tratta della proclamazione della regalità di JHWH sopra tutte le nazioni? È una proclamazione di Gerusalemme madre di tutti gli israeliti giudei e proseliti sparsi nella diaspora? Oppure è da leggere come visione profetica di una Gerusalemme città comune che diverrà, alla fine dei tempi punto di convergenza e di unità di tutti i popoli attorno all’unico Dio? Probabilmente è da preferirsi quest’ultima interpretazione in quanto il salmo 86 si colloca all’interno nella tradizione dei profeti del post esilio, in modo particolare con riferimento al secondo Isaia (cfr es 2.2ss).

    Ma cerchiamo ora di entrare nel nostro testo.

    Anzitutto il nostro salmo appartiene alla serie dei salmi che hanno per tema la lode per la città di Sion, la sposa di JHWH, posta sul “santo monte” e “scelta” da Dio “come sua dimora” (cfr Sal 46,48, 76,84).

    Sion possiede una grande solidità, è “città salda” (Sal 121,3) perché “le sue fondamenta sono sui monti santi” (1b). Affermare la santità del monte-roccia sul quale è edificata equivale ad affermare che Sion è fondata su Dio stesso. Anche nel salmo 45 viene espressa la medesima certezza: “Dio sta in essa: non potrà vacillare” (v.5;). Fondamenta incrollabili perché fondate da Dio stesso: “Il Signore ha fondato Sion” (Is 14,32; Sal 77,69). Anche Cristo quando vorrà ribadire la solidità della Chiesa fondata sulla fede userà la stessa immagine (cfr Mt 16,18; Mt 7,24).

    Il Signore “ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe” (v. 2): la scelta di Sion come dimora è data unicamente dalla gratuità dell’amore di elezione che induce JHWH a scegliere fra tutte le varie possibilità proprio la tribù di Giuda (“Ripudiò le tende di Giuseppe, non scelse la tribù di Efraim;  ma elesse la tribù di Giuda, il monte Sion che egli ama” Sal 77,67-68). Probabilmente risuona qui originariamente l’eco del campanilismo tra le tribù del nord e del sud.

    La scelta di Sion come dimora di JHWH non è fine a se stessa, ogni elezione è in vista di una missione. Sion la scoprirà cammin facendo di certo al v. 3 viene proferita nei suoi confronti una promessa che verrà successivamente definita: “di te si dicono cose stupende, città di Dio”. Quali le cose stupende che Dio opererà? Esse sono descritte nel corpo centrale del salmo.

    Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono; ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati” (v. 4). Il tempo è al futuro. È il tempo della promessa; Dio “ricorderà” (lett = “si inscriverà”). Cosa ricordare? Dio riconoscerà l’Egitto (qui eufemisticamente definito con l’appellativo di Raab, il nome di un mostro marino – cfr Sal 89,11- che passò a designare l’Egitto con la sua brama di distruggere Israele) e Babilonia (Babel che viene a rappresentare non solo l’impero babilonese ma tutti i regni dell’oriente mesopotamico) fra i popoli che lo “conosceranno”. Ora “conoscere Dio” è espressione di per sé riferita solo agli israeliti fedeli e perciò oggetto del suo amore in contrapposizione a tutti gli altri popoli che “non conoscono Dio”. A Raab e Babel vengono aggiunte altre nazioni: la Filistea (Palestina) e la città di Tiro che rappresentano i popoli pagani vicini ad Israele sul litorale, ed infine Etiopia (lett. Cus) il paese che nell’immaginario geografico del tempo rappresenta l’estremo sud.

    Tutte queste popolazioni sono sempre state viste, dal piccolo e insignificante regno di Giuda, come potenziali nemici  e in quanto nazioni pagane estromesse dall’elezione divina e perciò dal suo amore.

    Ma qui – scandalosamente – di tutte queste nazioni la profezia afferma che un giorno potranno affermare di avere tutti sorprendentemente, come Israele, la stessa madre, ovvero la stessa città di Sion in cui tutti potranno dire di essere nati:“tutti là sono nati”. Il che equivale che tutti potranno affermare di essere appartenenti al popolo di Dio.

    Si tratta di un assunto teologico ben presente nel messaggio profetico post-esilico, soprattutto nel deuteroisaia: “Esulta, o sterile che non hai partorito, prorompi in grida di giubilo e di gioia, tu che non hai provato i dolori, perché più numerosi sono i figli dell’abbandonata che i figli della maritata, dice il Signore. Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti, poiché ti  allargherai a destra e a sinistra e la tua discendenza entrerà in possesso delle nazioni, popolerà le città un tempo deserte. (54,1-3; cfr 2,2ss; 49,19.22; 66,7-11). Si tratta del compimento della promessa fatta ad Abramo: il popolo che da lui nascerà è destinato a divenire sorgente di “benedizione” ovvero di riunificazione per tutta l’umanità divisa: “Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gn 12,3).

    Sarà una famiglia allargata che troverà la sua stabilità nel fatto che il suo punto di coesione non sono progetti o ideali umani bensì la presenza fondante di Dio: “l’Altissimo che la tiene salda” (v.5).

    Questa comune appartenenza ad una stessa “madre” è sottoscritta da Dio stesso nel “Libro dei Popoli” (v. 6).  Ora la registrazione ufficiale dei veri israeliti fu una delle grandi preoccupazioni dell’epoca del postesilio (cfr “cercarono il loro registro genealogico, ma non lo trovarono; allora furono esclusi dal sacerdozio” Esdr 2,62; cfr Ez 13,9) al fine di recuperare una loro precisa identità e storia. Ora tale preoccupazione sul piano spirituale inaspettatamente si evolve: in questo libro non saranno inscritti solo i pii israeliti bensì tutti i popoli che aprendosi alla fede hanno ricevuto da JHWH una comune filiazione, un’ “adozione a figli” da parte della stessa madre Sion e per suo tramite dello stesso Dio. In questo libro si affermerà di ogni popolo: “Là costui è nato” (V. 6b): è l’atto di registrazione con cui un individuo o un popolo viene riconosciuto formalmente come nativo della località in questione.

    Sono queste le “cose stupende” promesse a Sion e a cui accennava il salmista all’inizio del salmo. “Cose stupende” che non possono non far sussultare di gioia di cui la danza è espressione peculiare. Al riconoscimento di questa comune affiliazione si farà festa (cfr Sal 30,12;149,3); si intavolerà una danza gioiosa che vedrà coinvolti tutti, nessuno escluso. La promessa di Dio ricostruirà l’unità della famiglia umana disgregata dal peccato facendo sì che tutti si riconoscano figli di uno stesso Padre e generati da una stessa madre. Danza accompagnata dal ritornello di un canto: “Sono in te tutte le mie sorgenti” (v.7) ovvero; “Sion è la mia origine, la mia patria”. E’ il canto che risuonerà alla fine della storia quando la profezia del salmo finalmente si sarà adempiuta: “Cantavano un canto nuovo: Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazioni e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra». (Ap 5,9s; cfr 7,9; 21,3)

    Meditatio

    Utopia l’unità fra tutti i popoli in un’unica famiglia, in cui tutti si riconoscono fratelli con pari dignità e diritti, profetizzata dal salmo 86? Nelle pagine di cronaca di tutti i giorni troviamo tutte le fatiche e le contraddizioni in cui le nostre società “progredite” stanno andando incontro nella relazione con gli “extra-comunitari” (già la definizione dice molto!). Tensioni che giungono a sfociare in violenze, in vere e proprie “caccia allo straniero”. Non raramente degenera in vera e propria xenofobia!I  problemi di convivenza, problemi nel mondo del lavoro e nell’ambito delle scuole sembrano non trovare sbocco al punto che le due parti spesso si irretiscono nelle loro posizioni. Sono problemi non certo di facile soluzione che covano sotto la cenere e rischiano sempre di esplodere e che la società e la sua legislazione devono ovviamente affrontare e non continuamente rimandare. Il problema è: con quali criteri?

    Eppure, su un punto  dovremmo trovare un accordo e sul quale tuttavia molti ancora non si “rassegnano”: sappiamo che l’integrazione è ormai l’unica vera strada percorribile, non si può tornare indietro, la storia va avanti comunque. Il cristiano, e ancor più la comunità religiosa, si deve allora realisticamente interrogare, alla luce della Parola di Dio, su come porsi dinanzi a questo problema, che vorrei definire nello stesso tempo come “opportunità”.

    La Parola di Dio ci indica da sempre la direzione del progetto di Dio: fare di tutti i popoli un’unica famiglia, la famiglia di Dio che dal momento di Caino e di Babele è andata disgregandosi. Questa “grande famiglia” finale è già profetizzata, nonostante tutti i suoi limiti e fatiche, dalla grande madre Chiesa, la nuova città di Sion fondata sulla roccia che è Cristo, nella quale tutti indistintamente ricevono il dono di sentirsi figli di uno stesso Padre: “Tutti là sono nati”. Come non ricordare a questo proposito la splendida affermazione della Lumen Gentium? “Il popolo messianico(la Chiesa) pur non comprendendo in atto tutti gli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce per tutta l’umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza” (LG 9). La Chiesa madre nasce il giorno di Pentecoste proprio sul monte Sion ed è subito spinta dallo Spirito ad annunciare le “cose stupende” operate da Dio in lei per “ogni nazione che è sotto il cielo” (At 2,5). “La Buona Notizia è annuncio dell’Amore infinito del Padre manifestatosi in Gesù Cristo che è venuto nel mondo “per riunire insieme i figli di Dio dispersi” (Gv 11,52) e radunarli nell’unica famiglia, nella quale Dio ha posto la sua dimora fra gli uomini (Ap 21,3)” (Giovanni Paolo II, Mess. Giorn. Immigr. 1999).

    Questa la destinazione finale. Ma il cammino, iniziato con Abramo, verso questa umanità “meticciata” – mi si perdoni il termine – incontra, come dicevamo, molteplici forme di resistenza. Anche a livello legislativo-demagogico si rischia di operare solo rigide e categoriche opposizioni. Sono resistenze e opposizioni che nascono sempre e solo dalla paura. Una paura a volte indefinita nei confronti del “diverso”, a volte incentrata e motivata da “ragioni” che a rigor di logica non tengono. Paura del confronto, di perdere privilegi che si ritengono propri ed esclusivi per noi “razza migliore”. Di fronte all’immigrazione e alla xenofobia dobbiamo prendere atto che tutti i buoni principi dell’umanesimo illuminista e delle ideologie umaniste non hanno forza, conoscono un scandaloso fallimento. La paura vince!

    L’immigrazione in effetti pone in discussione tanti nostri stili di vita consumistici ed egoistici, essa è denuncia posta sotto i nostri occhi di ingiustizie cui tutti, direttamente o indirettamente, abbiamo contribuito a creare. La globalizzazione ha avuto effetti estremamente deleteri nella ripartizione dei beni e delle risorse, paesi ricchi lo sono diventati ancor più a discapito di quelli più poveri. Nulla di straordinario o di scandaloso allora vedere imbarcazione di immigrati clandestini sbarcare ripetutamente sulle nostre coste, messicani oltrepassare la recinzione del confine di stato con gli Stati Uniti, ragazzini percorrere abbarbicati sotto i camion o dentro celle frigorifere migliaia di chilometri per raggiungere i nostri paesi in cui sognano di trovare tutto ciò che da loro non c’è. Con quale diritto li condanniamo? Paolo Vi nell’Enciclica “Octagesima Adveniens” già riconosceva profeticamente l’urgenza di un indispensabile cambio di mentalità per poter affrontare correttamente questa grande svolta della storia dell’umanità:  “E’ urgente che nei loro confronti si sappia superare un atteggiamento strettamente nazionalistico per creare uno statuto che riconosca un diritto alla immigrazione, favorisca la loro integrazione… è dovere di tutti – e specialmente dei cristiani – lavorare con energia per instaurare la fraternità universale, base indispensabile di una giustizia autentica e condizione di una pace duratura” (n. 17)

    Quello che sta avvenendo è una grande opportunità di conversione per la nostra fede e di ripensamento per i presupposti culturali ed economici della nostra cultura. Scriveva Giovanni Paolo II: “Il processo di globalizzazione può costituire un’opportunità, se le differenze culturali vengono accolte come occasione di incontro e di dialogo, e se la ripartizione disuguale delle risorse mondiali provoca una nuova coscienza della necessaria solidarietà che deve unire la famiglia umana. Se, al contrario, si aggravano le disuguaglianze, le popolazioni povere sono costrette all’esilio della disperazione”.

    Dentro questo dramma dobbiamo starci come discepoli di Gesù, non abbiamo diritto comodamente di schierarci con chi lo straniero non lo vuole perché da fastidio. Non dobbiamo invocare che “ritorni da dove è venuto!”. Anzi, capovolgendo tanta prospettiva “mondana” che sembra emergente, stiamo forse assistendo ad un provvidenziale lavoro della mano di Dio perché il cammino verso l’unità di tutta la famiglia umana possa concretizzarsi ancor più: “Cresce il sentimento di comunanza di destino tra tutte le nazioni. Le nuove generazioni avanzano nella convinzione che il pianeta sia ormai un “villaggio globale” e allacciano relazioni di amicizia che superano la diversità di lingua o di cultura” (Giovanni Paolo II).

    Rimane un problema di fondo. Quali le fondamenta da porre perché si costruisca questa nuova umanità? Quali saranno i “monti santi” su cui costruire questa nuova Sion? Basteranno le fondamenta di una “morale laica”, o d’un generico appello ai “valori umani di convivenza”? Ne dubito. Una reale reciproca accoglienza possono scaturire dal fatto che l’umanità alzi lo sguardo e ritrovi una sorgente che la trascenda e nella quale tutti si possano ritrovare con una eguale dignità di figli e dunque di fratelli. E questo può essere dato solo da Dio.

    Ecco allora il grande compito delle nostre comunità dinanzi a queste sfide. A me come discepolo di Gesù saper accogliere come fratello ogni uomo e donna riconoscendo a ciascuno il suo diritto e la sua dignità, che non scaturisce da una mia filantropia o da un mio atto di generosità, ma dal fatto che riconosco in lui un figlio di Dio come me. Di questa apertura tante realtà ecclesiali sono già ora un grande segno profetico di speranza e di provocazione per il mondo e ne dobbiamo ringraziare il Signore. Ne va infatti della credibilità del Vangelo sapendo che la posta è alta: Ammoniva Giovanni Paolo II in un suo messaggio:  “Come potranno i battezzati pretendere di accogliere Cristo, se chiudono la porta allo straniero che si presenta loro? “Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (1Gv 3,17)” (1999).

    Oratio

    A causa del seno materno differente,
    o perché i racconti della tua infanziati hanno abituato
    ad un’altra lingua,non chiamarmi “straniero”.
    Il tuo grano è identico al mio,
    la tua mano è identica alla mia,
    il tuo fuoco è identico al mio,
    e tu mi chiami “straniero”.
    Perché sono nato in un altro popolo,
    perché conosco altri mari,
    perché un giorno, ho lasciato un altro porto,
    non chiamarmi “straniero”.
    È lo stesso grido che portiamo
    e la stessa fatica che condividiamo,quella che ci sfianca dalla notte dei tempi,
    quando non esistevano frontiere,
    prima che arrivassero quelli che dividono e uccidono,
    quelli che rubano, quelli, gli inventori di questa parola: “straniero”.
    Triste e fredda parola, che unisce oblio ed esilio.
    Non chiamarmi “straniero”.
    Guardami bene negli occhi, ben al di là dell’odio,
    dell’egoismo e della paura
    e tu vedrai che io sono un uomo.
    No! Non posso essere “straniero”.

  • 14 Feb

    L’amore più forte della morte

    Lectio dal Cantico dei Cantici 8,5-7

    di p. Attilio Franco Fabris

    Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino” (Ct 1,1). I padri per descrivere lo Spirito usano talvolta l’immagine del “bacio”. Lo Spirito è il bacio che il Padre dona al Figlio generandolo eternamente. Questo bacio è amore fatto persona.

    Chiediamo allo Spirito all’inizio del nostro ascolto, di prenderci per mano, di introdurci per sua grazia a contemplare il suo “eterno bacio”. Sia lui ad aprirci alla comprensione della bellezza della verginità come riflesso e testimonianza dell’amore purissimo che da lui stesso promana da sempre. Lo invochiamo con le parole di Paolo VI: “Vieni, o Spirito santo, dà a noi un cuore nuovo, che ravvivi in noi i doni da te ricevuti con la gioia di essere cristiani, un cuore nuovo, sempre giovane e lieto. Vieni, o Spirito santo e dà a noi un cuore puro che non conosca il male se non per definirlo, per combatterlo e per fuggirlo; un cuore puro, come quello di un fanciullo, capace di entusiasmarsi e di trepidare. Vieni, o Spirito Santo, e dà a noi un cuore grande, aperto alla tua parola ispiratrice, chiuso ad ogni meschina ambizione, un cuore grande e forte ad amare tutti, a tutti servire, con tutti soffrire; un cuore grande e forte, beato di palpitare col cuor di Dio”.

    Lectio

    Chi è colei che sale dal deserto?”. Nel v. 5 è il coro costituito dalle “figlie di Gerusalemme” (8,4), che, intravedendo di lontano la fidanzata, la saluta. Essa, sorridendo, sta tornando dai campi appoggiata dolcemente al suo amato, dopo un segreto convegno d’amore.

    I due provengono dal  “deserto”. Probabilmente è da intendersi con i campi disabitati e silenziosi che stanno fuori delle mura della città, luogo ideale per un incontro appartato e indisturbato, ma potrebbe essere anche interpretato come una immagine: il deserto infatti è il luogo simbolico in cui due innamorati possono sperimentare sino in fondo la gioia del loro stare insieme di fronte al quale tutto il resto del mondo scompare, come fosse appunto un…deserto. Questo è il luogo appartato in cui possono concentrarsi esclusivamente, come è tipico per gli innamorati, sul loro essere insieme fatto di silenzi indisturbati e di parole segrete.

    La ragazza è “appoggiata al suo diletto”: il verbo esprime l’immagine colma di tenerezza di chi sta camminando tenendosi stretto all’altro, gomito a gomito. L’amore teme di perdere, vuole tenere stretto e non lasciare mai, esige che si cammini a fianco misurando il passo sul passo dell’altro e che se ne lasci guidare.

    Dopo questa introduzione del coro interviene il fidanzato. Egli ha risvegliato la fidanzata che riposava sotto il melo. Il melo cui si accenna è una immagine dell’uomo stesso (“Come un melo tra gli alberi del bosco il mio diletto fra i giovani”  2,3) e lo “svegliarsi” alla sua ombra sta a significare l’accendersi del fuoco dell’amore, e rappresenta un riferimento discreto al consumarsi della loro unione visto come un “risveglio”, quasi che l’atto amoroso rappresenti una sorta di apertura nuova al mondo, una scoperta che colma di gioia e di stupore come lo è appunto il passaggio dal sonno al risveglio.

    Il giovane continua indicando un luogo: “laggiù ti ha concepito tua madre”. Sono espressioni non del tutto chiare. Probabilmente egli allude al fatto che la casa della madre della ragazza è la stessa casa in cui lui andrà ad abitare con la ragazza (“Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre; m’insegneresti l’arte dell’amore” dice la giovane in 8,2). Lì anche la madre ha provato le stesse gioie che sono e saranno della figlia.

    Terminate le parole del giovane, ecco prendere la parola la ragazza. In queste poche frasi l’esperienza narrata nel piccolo libro del Cantico raggiunge qui il suo vertice di intensità ed è la donna a proferirle. Qui le parole amore, morte, fuoco, eternità poste sulle labbra dei due giovani dicono tutto il bisogno e la sete di verità e addirittura di trascendenza dell’unione con l’amato.

    A lui chiede un impegno che da sempre coloro che si amano si domandano vicendevolmente: che il loro amore sia eterno, indistruttibile, e abbia il potere di sconfiggere tutto ciò che potrebbe mettergli la terribile parola fine. Questa richiesta di eternità, di indissolubilità, è iscritta nel cuore che ama, ne è caratteristica peculiare, gli è connaturale.

    Viene usata la curiosa immagine del “sigillo”. “Mettimi come sigillo sul tuo cuore… sul tuo braccio”. Per comprendere l’immagine occorre riandare all’uso antico da parte dei notabili di portare sempre con sé, pronto all’uso, il sigillo di autentificazione. Esso veniva appeso al collo con una preziosa catenella oppure portato al dito come anello. Anche la Legge santa, la Thorah, ha questa prerogativa: deve essere legata al braccio, posta sulla fronte, posta sugli stipiti delle porte. Essa infatti è sigillo e perenne memoria dell’alleanza di Jhwh con la sua sposa Israele: Porrete dunque nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi” (Dt 11,18).

    Il sigillo, con il quale la donna si identifica, deve essere posto anzitutto sul “cuore” dell’uomo. Il cuore per l’antropologia biblica è sede dell’intelligenza e dell’affettività. E’ il cuore perciò che regola pensieri e sentimenti ed è quindi sede dell’amore. Essere posta “sul cuore” significa che la donna chiede di essere oggetto di tutti i pensieri e affetti dell’uomo. Ma il sigillo è posto altresì “sul braccio”, al quale la ragazza è stretta. Il braccio sta ad indicare tutta l’attività dell’uomo, il suo lavoro e le varie occupazioni: la donna chiedendo di essere sul suo “braccio” sta domandando di essere presente all’amato in ogni istante, nel suo lavoro e nelle varie attività, di non essere mai dimenticata nonostante mille occupazioni.

    Dopo l’immagine del “sigillo” la donna sottolinea tre caratteristiche peculiari dell’amore: la sua insaziabilità, la sua indistruttibilità, la sua preziosità.

    L’amore vero possiede un’intensità “insaziabile”. Amore chiama amore in misura sempre più grande, infinita: il cuore dell’uomo non ne ha mai a sufficienza. In esso vi è un richiamo infinito, misterioso,  colmo di nostalgia e di attesa di un di più. Per descrivere questa “insaziabilità” viene usata l’immagine ardita dell’amore “insaziabile” come la morte, e della sua fiamma che non è mai sazia come lo Scheol. La morte non risparmia nessuno, non è mai sazia della sua opera distruttrice, e così anche gli inferi, lo Scheol, che inghiotte all’infinito i morti che vi discendono: esso non dice mai “Basta!” (cfr Pr 30,15-16). L’amore è perciò esigente come la morte stessa e il terribile Scheol.

    Un archetipo per descrivere l’ardore dell’amore è il fuoco che riscalda e consuma: “Le sue vampe sono vampe di fuoco”. L’amore è fiamma insaziabile che non si spegne: scalda il cuore e consuma l’amante di desiderio. La donna ricorda allo sposo queste fiamme indomabili, con un riferimento ulteriore a quelle fiamme potentissime, misteriose e quasi sacre che sono i fulmini, le “fiamme di Jah” (lett).

    Ma se l’amore è questo fuoco inestinguibile ciò significa che nulla lo potrà mai spegnere. Esso è indistruttibile. Le “grandi acque” fanno riferimento agli impetuosi torrenti impetuosi che travolgono tutto ciò che incontrano lungo il loro scorrere. Niente può separare due persone che si amano con un amore voluto da Dio. Se le “grandi acque” non possono travolgere l’amore significa che questo è saldo e non verrà mai meno. Questa solidità-fedeltà dell’amore è per la Scrittura caratteristica peculiare dell’amore di Jhwh per la sua sposa Israele.

    Infine l’amore vero è realtà di un valore inestimabile perché unico. Esso non si può mercanteggiare a nessun prezzo. L’amore che si vorrebbe comprare anche con le più grandi ricchezze sarebbe solo degno di disprezzo in quanto falso: esso per natura esige mutua gratuità. La dote potrebbe sì conquistare la mano ma mai il cuore. Il denaro rimarrà sempre impotente davanti al valore ineguagliabile dell’amore.

    Collatio

    Il Cantico dei Cantici è un inno all’amore e alle sue gioie. Potrebbe meravigliarci che un testo, in cui si accenna solo una volta e indirettamente a Dio, rientri nel canone dei libri rivelati. Eppure teniamo presente che tra i libri della Scrittura esso è stato il più commentato e meditato, soprattutto nell’ambiente monastico e dagli autori mistici. Vi si intuisce una ricchezza di esperienza straordinaria per “raccontare” la relazione di amore di Dio con l’umanità, di Cristo per la sua Chiesa, dell’anima per lo Sposo divino. Accostare il testo del Cantico dei Cantici al tema della verginità, sposalizio dell’anima con Dio, non dovrebbe perciò apparire poi così stridente.

    L’uso della parola “verginità” oggi non è così scontato. Infatti da una ventina d’anni, e anche nei documenti ufficiali, si preferisce purtroppo usare il termine più giuridico di “celibato”. Ma dobbiamo riconoscere che questo non ha la valenza totalizzante e la profondità che invece possiede il termine “verginità”. Questo a differenza dell’altro implica e coinvolge tutte le dimensioni dell’essere umano: corpo, mente, cuore, volontà e dunque va al di là del mero dato “fisiologico”, giuridico.

    Questa totalità di coinvolgimento che è richiesta nella verginità è la stessa totalità che viene vissuta nel rapporto amoroso ed esclusivo tra marito e moglie. La consacrazione nella verginità in questo senso è sicuramente il più “totalitario” tra gli impegni: ci si consegna al Signore che ci chiama ad una relazione particolare con tutto noi stessi, non trattenendo nulla.

    Se le “vampe di fuoco” dell’amore di cui parla la sposa nel Cantico hanno la capacità e la forza di incendiare tutto non risparmiando nulla, ciò dovrebbe verificarsi anche nella verginità: le “vampe di fuoco” dell’amore con cui Dio ci ama dovrebbero impregnare totalmente il consacrato senza nulla risparmiare. I mistici usano molto l’immagine dell’ “essere inceneriti” dall’amore di Dio; scriveva ad esempio san Paolo della Croce: “La lingua dell’amore è il cuore che brucia, si liquefà, si consuma, s’incenerisce in olocausto al sommo Bene” (Lettere 1,485).

    Nel libro del Cantico, e anche nel nostro testo, assume una grande rilevanza non solo la portata affettivo-spirituale dell’esperienza amorosa, ma anche il suo risvolto fisico, e l’autore sacro non teme di percorrere quest’aspetto in modo discreto facendo ricorso ad immagini velatamente erotiche per esprimere l’intensità fisica coinvolgente dell’amore. La corporeità viene così riconosciuta e accolta come dono del Creatore (le fiamme dell’amore non sono forse le “fiamme di Jah”?), la sessualità è cosa “buona”: è il Creatore che ha posto nel cuore dell’uomo e della donna la capacità e il desiderio di potersi unire in una sola cosa nel fuoco dell’amore. Il Cantico è perciò un inno al Creatore per il dono del corpo attraverso il quale l’uomo e la donna possono sperimentare il loro essere fatti per la comunione e la relazione.

    Il teologo Von Balthasar scriveva: “E’ necessario entrare con Cristo nel corpo, perché attraverso il corpo passa lo Spirito”. E’ un’affermazione forte che dovrebbe farci riflettere. In quanto consacrati siamo sempre tentati di interpretare la verginità in modo forse un po’ troppo angelico, disincarnato. Si vorrebbe accantonare, platonicamente, il corpo quasi fosse un ostacolo, uno scomodo e intrigante sovrappiù nel nostro cammino di consacrazione a Dio. La verginità, alla luce della rivelazione biblica, invece ci riporta fortemente ad un dato di fatto imprescindibile: essa abbraccia non solo le dimensioni spirituali, psicologiche dell’uomo e della donna ma coinvolge totalmente anche quelle fisiche. E’ il nostro corpo sessuato che viene consacrato; la consacrazione, verrebbe quasi da dire, possiede una “base fisica”. Questo significa lasciare entrare Cristo nella nostra carne, lasciare che sia il suo Spirito a prenderne totalmente possesso e a farne sua dimora: siamo “tempio dello Spirito che abita in noi” (cfr 1Cor 6,19). Nella verginità siamo chiamati a “glorificare Dio nel nostro corpo” (cfr 1Cor 6,12), dove la “gloria di Dio” sta a indicare il suo abitare in noi e l’avvolgerci totalmente con la sua presenza. Tutto questo implica, per usare una straordinaria espressione del poeta francese Paul Claudel, un “evangelizzare la carne”.

    Il corpo verginale diviene luogo di comunione con Dio e con i fratelli e le sorelle. Il vergine “evangelizzato nella sua carne” è uomo e donna che vive l’amore: il suo cuore è consegnato interamente a Dio in modo esclusivo, ma in Dio egli diviene capace di incontro e di dono per tutti. Nella persona vergine la capacità di amare non viene perciò spenta, annientata, ma in certo qual modo incrementata all’ennesima potenza. Nell’enciclica “Redemptor Hominis” Giovanni Paolo II ricorda che: “L’uomo non può vivere meglio senza l’amore. Per se stesso resta un essere incomprensibile, la sua vita priva di significato se non riceve la rivelazione dell’amore, se non incontra l’amore, se non ne fa esperienza e se non lo fa suo, e se non vi partecipa fortemente”. Il consacrato non fa eccezione alla regola: la sua verginità è per l’amore o non avrebbe alcun significato. L’amore è l’oggetto del suo voto. Egli rinuncia certo alla relazione esclusiva e fisica del matrimonio, ma non alla capacità di amare che deve pervadere con le sue “vampe” tutto il suo essere.

    Ci si dona perciò a Dio in modo radicale, senza ambiguità o riserve (pena solo frustrazione e insoddisfazione) e questa relazione deve divenire unica ed esclusiva, “perla preziosa” di inestimabile valore. Siamo chiamati a coltivare con grande attenzione e cura il primato della relazione con Dio fatta di preghiera, ascolto, contemplazione di modo che le “grandi acque” non lo possano mai travolgere. Anche noi, come la donna del cantico, abbiamo bisogno di appartarci nel “deserto” con Dio perché se questo primato cessasse il cuore rischierebbe di “prostituirsi” pur magari rimanendo “celibi”.

    La consacrazione, come il matrimonio, non è mai una realtà già compiuta, non giunge mai alla pienezza perchè l’amore non può porre confini: così la consacrazione esige un cammino continuo di “verginizzazione” (J.M. Salvaverri), in cui, giorno dopo giorno, nella fedeltà a volte sofferta, consegniamo tutto ciò che siamo allo Sposo. Certo vi è un prezzo alto da pagare per questa fedeltà e consegna, ma non scordiamo che la stessa cosa vale anche per la relazione nel matrimonio in cui i cuori degli “sposi” sono invitati a rimanere “vergini” nella loro mutua e fedele consegna.

    In Dio quell’attesa e desiderio, che ci abita, di un amore “forte come la morte” e “insaziabile come gli inferi” è una promessa che non ci deluderà. Ma non dimentichiamo che è lui per primo che ci ama di questo amore “insaziabile”. “Ho sete!” grida Gesù dalla croce: sete di amore e sete di amare. E questo amore che si riversa gratuitamente sulla nostra vita ci trasfigura a sua immagine così che ne diveniamo “sigillo”. Un antico proverbio arabo recita: “L’amore è fuoco: ovunque sia lo vedi da lontano”: la verginità può proclamare e  testimoniare al mondo la verità dell’amore di Dio ed esserne un fuoco che si vede di lontano.

    Oratio

    Dall’alto della croce, Signore Gesù, gridi: “Ho sete!”. Hai sete insaziabile d’amore e d’amare. Le “vampe di fuoco” d’amore che divorano il tuo cuore vogliono incendiare, da quel scomodo letto nuziale, il mondo intero.

    Ma tu sai come spesso il nostro cuore è freddo e chiuso. Siamo così poveri d’amore. Restii a lasciarci incendiare da te. Ripiegati su noi stessi troppe volte dimentichiamo che il cuore è realmente vergine quando semina l’amore con cui tu ci hai amato. Stentiamo a consegnarti senza riserve il cuore: ne vorremmo trattenere un po’ per coltivare l’hobby dei nostri affetti meschini e talvolta disordinati. Abbiamo paura delle esigenze dell’amore, di una verginità che non domandi nulla se non di potersi consumare nel fuoco del donarsi fino in fondo.

    Donaci allora di inginocchiarci, con la nostra povertà e il nostro peccato, ai piedi della croce contemplando la verginità trasbordante d’amore del tuo cuore trafitto. Trafiggi con la lancia il nostro perché ne sgorghi il pentimento e la lode, il desiderio infuocato di spenderci per te e la tua gloria. Che la tua ferita d’amore purifichi in noi ogni affetto che ci distoglie da te, che ci allontana dalla passione per te, che deturpa il “sigillo” che tu hai posto sul tuo cuore e tra le tue mani trafitte e che dovrebbe portare la tua immagine perfetta di Sposo.

  • 12 Feb

    Fa’ che io veda!

    Lectio di Marco 10,46-52

    di p. Attilio Franco Fabris

    E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.
    47 Costui, al sentire che c’era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».48 Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
    49
    Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!».50 Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
    51
    Allora Gesù gli disse: «Che vuoi che io ti faccia?». E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!». 52 E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato».
    E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.

    L’etimologia della parola “luce” (rad. luk=splendere) trova le sue antiche radici  nell’esperienza colma di stupore e gioia con cui l’uomo contempla lo splendere del sole, il sorgere dell’alba, l’apparire del lampo luminosissimo e della fiamma che divampa nella notte. Simbolo positivo di vita e di ciò che è ineffabile la luce è divenuto uno dei simboli più utilizzati dalle religioni; anche nell’ambito biblico, per parlare di Dio e della vita che scaturisce da lui viene usata spessissimo la simbologia della luce. Il buio e le tenebre rientrano invece nella sfera della morte, del caos e quindi per analogia del male. Nell’inno delle lodi del mercoledì la liturgia fa cantare la Chiesa con queste parole: “Notte, tenebre e nebbia / fuggite, entra la luce, / viene Cristo Signore. Il sole di giustizia / trasfigura ed accende / l’universo in attesa… Salvatore dei poveri, / la gloria del tuo volto / splenda su un mondo nuovo”. Il tema pasquale di “Cristo luce del mondo” vincitore di ogni notte ritorna spessissimo nella Liturgia delle Ore del mattino, quando uscendo dalla notte veniamo richiamati ad accogliere quella Luce intramontabile che è lo stesso Cristo e a lasciarcene illuminare. La luce di Cristo è dono che scaturisce dalla fede, che nata dall’ascolto conduce al battesimo che è vera e propria immersione nella luce pasquale: “E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo.” (2Cor 4,6).

    Questa luce che “rifulge nelle tenebre” è fonte di speranza e di consolazione per tutti. Ne abbiamo bisogno perché stiamo attraversando un tempo contrassegnato da una sorta di persistente stato crepuscolare di “tenebra e nebbia” in cui fatichiamo a scorgere la luce di un’alba nuova. Crepuscolo – da discernere se di tramonto o di alba! – in cui tutto sembra farsi indistinto, relativo e si fatica a intravedere la giusta direzione e i contorni esatti delle cose. Crepuscolo nel quale, anche come comunità cristiana, saremmo tentati come il cieco Bartimeo di sederci al bordo della strada a mendicare un senso che stentiamo a trovare.

    Ormai le “liturgie laiche delle ore” sembrano essere quelle della notte in cui tutto si confonde senza differenziazione con la conseguente “euforia del “tutto è lecito e relativo”. In queste “notti” senza “ombra di Dio” – che possono essere paradossalmente definite “bianche” – sono offerte e ricercate luci artificiali con cui si cerca, con una sorta di inconscia disperazione, d’illuminare esistenze ubriache che girano su se stesse senza meta. Allora la luce del giorno, lo splendore della verità, rischia di divenire insopportabile, portatrice com’è di tremende rivelazioni e disillusioni: “l’alba è per tutti loro come spettro di morte; quando schiarisce, provano i terrori del buio fondo” (Gb 24,17).

    Tuttavia anche da questo “buio fondo” della coscienza dell’uomo il gemito dello Spirito vuol far scaturire in noi un grido di preghiera, d’invocazione di una luce vera che porti con sé liberazione e pace per il cuore: “Nel giorno dell’angoscia io cerco il Signore, tutta la notte la mia mano è tesa e non si stanca” (Sal 76,3). In questo grido siamo sostenuti dalla silenziosa testimonianza di fratelli e sorelle che nella notte vegliano in preghiera sostenuti dalla promessa della parola del Signore che solo in lui la vita si apre al mistero: “È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce.” (Sal 35,10).

    Lectio

    Gesù, partito da Cesarea di Filippo, è in cammino verso Gerusalemme dove si compirà il suo destino di Messia sofferente. In questo tragitto verso la Città Santa una tappa obbligata per i pellegrini era l’antichissima cittadina di Gerico (v. 46) collocata sulle rive del Mar Morto e distante da Gerusalemme una trentina di chilometri. Anche Gesù, insieme a molta folla (v. 46) vi fa tappa per l’ultima volta.

    È in quest’occasione che avviene l’ultimo miracolo: la guarigione del cieco Bartimeo che serve da cerniera tra la cosiddetta fase galilaica del ministero di Gesù e quella conclusiva che si svolgerà a Gerusalemme. Il cieco bisognoso di guarigione per Marco rappresenta la comunità dei discepoli sorda alla parola della croce e cieca dinanzi alla sua rivelazione. Questo miracolo sta a esplicitare la necessità per i discepoli di una guarigione in ordine al “poter vedere”- ovvero comprendere – nel destino sofferente del Maestro non il fallimento ma il pieno annuncio della sua identità e missione. Ma veniamo al racconto.

    Un luogo di passaggio per  delle folle di pellegrini è, per i mendicanti, occasione da non perdere per racimolare qualcosa di cui vivere. Tra costoro vi è anche un cieco: Bartimeo (v. 46) ovvero letteralmente il “figlio di Timeo”. Marco ce lo presenta al bordo della strada di passaggio. È seduto perché il cieco non sa dove andare, egli non può che rimanere ai margini della vita.

    Bartimeo stende la mano “a mendicare” (v. 46) chiede ai passanti qualcosa di che sostenersi cercando di impietosirli dinanzi alla sua disgrazia. È questa una condizione di umiliazione condannata dalla tradizione che ammoniva: “Figlio, non vivere da mendicante. È meglio morire che mendicare” (Sir 40,28).

    Quando Gesù, noto come “il Nazareno” (v. 47), entra in Gerico la sua fama di profeta e taumaturgo l’ha già preceduto. Anche Bartimeo “sente” (v. 47) la notizia e in lui affiora una speranza. Nella sua notte l’annuncio della venuta di Cristo è in grado di accendere una luce di speranza. Non è forse dall’ascolto che scaturisce la fiducia e da questa un’invocazione di salvezza? “La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm 10,17).

    Bartimeo si  indirizza a Gesù di Nazaret con un grido insistente: “gridava”! Sarà proprio la forza di questo grido a far cadere il muro della cecità di Bartimeo. Il “gridare” aiuto a Dio è una preghiera ben conosciuta nella sacra Scrittura nella quale l’uomo consapevole della propria insufficienza apre la bocca e il cuore in una supplica di salvezza: “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi!” (Sal 26,7; cfr Mt 15,23).

    Egli si rivolge al Nazareno con le invocazioni: “Figlio di Davide” (v. 47)  e successivamente  “Rabbunì (lett: mio signore)” (v. 51). Il titolo di “Figlio di Davide” è usato da Marco solo in questa occasione e sta a designare Gesù come il messia discendente di Davide venuto ad inaugurare il regno di Dio (cfr 2Sam 7,12-16). È al suo messia-servo che JHWH rivolge la sua parola: «Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre…Farò camminare i ciechi per vie che non conoscono,li guiderò per sentieri sconosciuti; trasformerò davanti a loro le tenebre in luce, i luoghi aspri in pianura. Tali cose io ho fatto e non cesserò di farle”  (42,6-7.16).  Nel suo discorso inaugurale a Nazaret Gesù aveva letto proprio il testo di Isaia che identifica se stesso con l’avvento del regno:Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista” (Lc 4,18). Ora Gesù, diversamente da prima, accetta l’acclamazione messianica a lui rivolta; può terminare il segreto messianico poiché il suo destino di sofferenza e morte è già deciso e non vi è più il rischio di fraintendere il suo modo d’essere messia.

    Al titolo di “Figlio di Davide” il cieco premette familiarmente anche l’invocazione del nome proprio di Gesù, il cui significato è “Dio salva” (cfr Rm 10,13; At 2,21). Bartimeo identifica la propria salvezza al nome di Gesù:  “In nessun altro nome c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12).

    Il cieco implora Gesù d’ “aver pietà di lui” (v. 47), espressione che rimanda al tema biblico della misericordia, del prendersi cura con viscere materne, da parte di Dio, dell’uomo e non in base ai meriti ma nella misura del suo bisogno: “Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono” (Sal 102,13; 26,20; 30,15).

    Ma tra il grido fiducioso del cieco e Cristo si frappone una barriera costituita dall’intromissione di quella “folla” che sta accompagnando Gesù. Quali i motivi dei ripetuti tentativi di mettere a tacere Bartimeo (v. 48)? Forse le motivazioni potevano sembrare buone: tutti intenti al Maestro credono di fargli piacere impedendogli ogni disturbo. Costoro pretendono di relegare Gesù all’interno della loro cerchia, lo vogliono monopolizzare a proprio uso e consumo. Gesù non sta a queste pretese né tanto meno Bartimeo si lascia intimorire da queste voci esterne di benpensanti e devoti, obbedisce invece alla voce del suo cuore che lo incita a non desistere: “Signore, Dio della mia salvezza, davanti a te grido giorno e notte” (Sal 87,2). Il coraggio non è forse il contrario della paura divenendo sinonimo della fede?

    Gesù si “ferma” (v. 49), come si è fermato in tante altre occasioni dinanzi al grido e al pianto dei poveri. Proprio a Gerico egli si era già fermato una volta per incontrare, tra lo scandalo della folla, il pubblicano Zaccheo: Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua»” (Lc 19,5).

    Significativo è il fatto che la chiamata di Bartimeo passi proprio attraverso quella folla che voleva impedire l’incontro (v. 49). I presenti sono obbligati dal Signore a farsi mediatori tra lui e Bartimeo: essi sono forse l’immagine di una comunità segnata dal peccato, dalla durezza di cuore e dalla cecità di sguardo interiore ma che tuttavia rimane il mezzo per incontrare il Signore. L’appello fatto da costoro a Bartimeo è: “Alzati! Ti chiama!”. È il verbo tipico dei racconti di guarigione (5,41;9,27) che rimanda implicitamente al dono di una vita nuova, ovvero ad una risurrezione (16,6).

    La risposta di Bartimeo è immediata, quasi concitata, Tre verbi che dipingono la scena in modo vivo: “gettato il mantello, balzò in piedi, venne da Gesù” (v. 50). Vi è il riferimento esplicito all’abbandono del mantello, particolare apparentemente irrilevante se non fosse per il fatto che per il povero il mantello rappresenta tutti i suoi averi (cfr Dt 24,13; Lc 14,23; Mt 5,40; Mc 13,16; ).  Bartimeo, come i discepoli, abbandona ogni cosa alla chiamata di Cristo.

    A questo punto Gesù può impostare il dialogo col cieco e lo fa a partire da una domanda solo all’apparenza banale data la risposta scontata: “Che vuoi che io ti faccia?” (v. 51). E’ una interrogazione decisiva che si potrebbe tradurre con: “Che cosa vuoi realmente?”. Il suo intento è di far sì che Bartimeo diventi consapevole del proprio bisogno e, da mendicante qual è, non si affidi ancora una volta alla sola iniziativa altrui ma si assuma la responsabilità di chiedere in modo chiaro ciò di cui ha bisogno. Gesù non vuole compiere un generico gesto di pietà o carità ma desidera incontrare l’uomo. Un’ulteriore elemosina – fosse pure quella della guarigione della vista – non cambierebbe infatti l’uomo: lo stesso giorno il cieco guarito avrebbe chiesto qualcos’altro a qualcun altro per avere ancora di più, non uscendo così dalla sua perenne condizione di mendicante.

    La risposta di Bartimeo è puntuale: “Che io riabbia la vista!” (v. 51). Cosa chiede realmente Bartimeo? Sappiamo come il verbo “vedere” sia fondamentale nel linguaggio di Marco, la parola greca sta a significare non solo un generico poter “vedere” ma un “guardare in su” riferimento implicito al desiderio di trovare un senso alla sua vita. Al termine del suo cammino sarà chiamato a “guardare in su” contemplando il crocifisso: “guarderanno a colui che hanno trafitto” (Zc 12,10) e attraverso questa visione l’uomo “cieco” potrà finalmente vedere ciò che gli era nascosto, ovvero l’amore infinito di Dio. Gesù riconosce questa fede e disponibilità di Bartimeo la quale fa sì che l’effetto sia immediato:“E subito riacquistò la vista” (v. 52).

    Va’ la tua fede ti ha salvato” (v. 52): è l’affermazione chiave di Gesù che permette di interpretare correttamente il miracolo. Sono le stesse parole pronunziate da Gesù nei confronti della donna che l’aveva toccato di nascosto per essere guarita (cfr 5,34). Esse significano che la guarigione più profonda, che si identifica con la salvezza della totalità dell’uomo e non con la guarigione di un solo organo fisico, è in ordine all’incontro e all’esperienza di salvezza che scaturisce da Cristo. La fede ha ottenuto a Bartimeo non solo e anzitutto una guarigione fisica, ma soprattutto la grazia di incontrare Cristo e di sperimentarlo come luce per la sua vita. Ora non gli è più possibile dirigersi altrove (cfr Gv 6,68): “Prese a seguirlo per la strada” (v. 52). La vita di Bartimeo  esce cambiata radicalmente dall’incontro con il “Figlio di Davide”, egli può risorgere dall’immobilità e affrontare la strada ovvero la vita in sua compagnia. Rimanendo all’ascolto della parola proseguirà in una sequela impegnativa che lo condurrà alla visione del crocifisso del Golgota dove col centurione potrà professare la pienezza della fede: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39).

    Meditatio

    Il primo atto creatore di Dio è la creazione della luce che viene separata dalle tenebre e dall’abisso del caos (Gn 1,3s). Le creature possono in tal modo “venire alla luce”, essere portate all’esistenza nella loro bellezza e bontà, in armonia le une con le altre. Anche il termine della storia della salvezzaè contrassegnato dal dono di una luce intramontabile che avvolgerà la nuova creazione, questa luce si identifica con Dio stesso: “La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello” (Ap 21,23; cfr 1Gv 1,5).  Volontà di Dio è dunque che l’uomo partecipi, ora mediante la fede e poi in visione, di questa luce che “non conosce tramonto” (1Gv 1,5), in altri termini che entri in comunione eterna di vita con lui. È questo un atto di misericordia e di amore gratuito da parte del Creatore: “ringraziamo con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce” (Col 1,12).

    La nostra storia si trova a sostenere un conflitto con le tenebre, ovvero tra morte e vita, tra menzogna e verità L’etimologia della parola “cecità” è “involucro, copertura”, ovvero situazione nella quale all’uomo non è dato di aprirsi alla luce e l’uomo dopo il peccato si trova in certo qual modo avviluppato come Lazzaro in queste bende della morte (cfr Gv 11,44) in attesa di una parola liberatrice capace di portarlo nuovamente alla luce della verità e della vita. Opera del male è rendere l’uomo cieco, avviluppandolo in suo potere e ripiombandolo in un destino di caos e di morte, di assenza di luce. Straordinaria nella sua bellezza e simbolicità la statua barocca della cappella Sansevero di Napoli rappresentante il “Disinganno” di Francesco Queirolo, che riproduce un uomo che si libera ansiosamente da una rete con l’aiuto di un piccolo genio: statua che ben rappresenta l’uomo che ricerca con fatica e angoscia una possibilità di liberazione da tutti i lacci di inganno che lo accecano e imprigionano. All’uomo da solo è impossibile trovare salvezza, occorre un aiuto come nel caso dell’opera del Queirolo.

    Per Bartimeo cieco tutto è notte, ovvero esperienza anticipata di morte. Egli vive questa situazione aggrovigliato nel suo mantello, sperimentando in anticipo una morte che lo tiene imprigionato ai margini della vita come un mendicante: salvezza per lui è l’attesa e la speranza di una parola di liberazione che insieme alla luce gli ridoni la dignità e la vita di cui sente di aver diritto. Non siamo fatti per le tenebre-morte ma per la luce-vita e l’invocazione gridata di Bartimeo esprime bene la coscienza dell’uomo che si ribella ad uno stato di cose che avverte non suo: “voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre” (1Tess 5,5). Non sperimentiamo forse il male come una groviglio di oscurità, che ci blocca, disorienta e ci impedisce di camminare? È vera in questo caso l’espressione che fuoriesce dalle labbra di Giobbe: “Di giorno gli empi incappano nel buio e brancolano in pieno sole come di notte” (Gb 5,14).

    Salvezza è prendere coscienza del nostro destino fatto per la luce non scendendo a patti con rassegnazioni che ottenebrano questa consapevolezza. Ma non è facile se già nel libro dell’Apocalisse alla chiesa di Laodicea viene detto di fare attenzione a non cadere nell’illusione di saper già vedere abbastanza: “Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista” (Ap 3,17-18). Vivere in un’illusione di autosufficienza equivale a decretare la nostra situazione di cecità: significherebbe rimanere seduti ai margini della strada, sordi e ciechi alla Buona Notizia. Accogliere questa luce significa invece credere, cioè essere salvi: “il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 22,5). Ciò che salva Bartimeo è dunque la sua consapevolezza e il suo grido carico di speranza!

    Se l’uomo che “giace nelle tenebre e nell’ombra della morte” (Lc 1,79; cfr Mal 3,20; Is 9,1; 42,7) invoca luce sulla sua vita, sul senso del vivere e del morire, del soffrire e del gioire, Cristo gli è donato come luce intramontabile e sicura. Egli può avanzare questa pretesa in quanto è Parola di Dio fatta carne: Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (8,12). Parola che donata ad Israele e al mondo è offerta quale lampada per camminare nei sentieri della vita: “lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”(Sal 118,105). È luce che si offre alla libertà dell’uomo e non gli si impone da cui la possibilità che l’uomo chiuda la finestra a questa luminosità. Scrive sant’Ambrogio a questo proposito:  “Ma se uno avrà chiuso le finestre, si priverà da se stesso della luce eterna. Allora, se tu chiudi la porta della tua mente, chiudi fuori Cristo” (Commento al Salmo 118). Infatti questa stessa luce viene osteggiata da tutte le “potenze di tenebra e di male” che rifiutano la verità di Dio: “la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,5; cfr 13,30; Lc 22,53). E’ questo un dato che riscontriamo anche nel nostro racconto proprio in quella folla che vorrebbe impedire l’incontro di Bartimeo con Gesù. E’ una folla cieca, anche se apparentemente sta seguendo Gesù, che però in definitiva rifiuta il suo cammino verso Gerusalemme, vorrebbe infatti che intraprendesse un’altra direzione, facesse altre scelte.

    Ciascuno si trova così a dover scegliere da che parte stare: se accogliere lo splendore della verità che, come sul Tabor, rifulge sul volto di Cristo accogliendo la grazia della sua alleanza che ci rende “figli della luce”,  oppure indurirci nella sordità alla Parola e nella cecità nei confronti della rivelazione scegliendo di restare “figli di questo mondo” (cfr Lc 16,8; Ef 4,18). E’ una battaglia che si svolge quotidianamente nel cuore di tutti noi: la avvertiamo nella fatica, nella resistenza nell’accogliere la luce della verità della Parola di Dio sulla nostra vita, preferendo spesso l’illusione di essere illuminati dalle luci fioche e artificiali dei nostri criteri e giudizi. Dovremmo sempre chiedere la grazia e il coraggio di lasciarci illuminare: “Ti ringraziamo di averci illuminati con lo Spirito che procede da Te e dal Figlio tuo, fa’ che ci saziamo della sua luce per tutta la lunghezza di questa giornata” (lodi del Giovedì).

    Le parole e i gesti di Bartimeo esprimono bene il suo cammino di fede; egli si apre fiducioso sin dall’inizio all’accoglienza della luce della Buona Notizia di Gesù di Nazaret per giungere alla fine alla decisione di porsi alla sequela di lui scoperto come luce irrinunciabile della propria vita. Bartimeo diviene in tal modo perfetto modello di discepolato. Il mantello è abbandonato: ovvero viene liberato da ogni groviglio di oscurità e rimpianti e false sicurezze; egli compie, superando ogni ostacolo, la sua scelta senza esitazione, in fretta perché non c’è tempo da perdere in ordine alla salvezza: “Gesù allora disse loro: «Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va»” (Gv 12,35).

    Non ci resta che ringraziare la misericordia di Dio e la gratuità del suo amore che ci ha raggiunti e ci ha “chiamati dalle tenebre alla sua mirabile luce” (1Pt 2,9). Grazia che ha trovato il suo sigillo sacramentale del giorno del nostro battesimo chiamato nella chiesa antica anche “illuminazione”. La luce attinta al cero pasquale, il Cristo risorto, ci è stata consegnata e sarà nostra premura impedire che essa si estingua per mancanza di olio (cfr Mt 25,8; Ebr 6,4). La parola di Dio ascoltata e assimilata farà sì che la fiamma non si spenga nel cuore e che essa illuminandoci ci renda ogni giorno più discepoli.

    È l’esperienza di Bartimeo che ricevuto il dono dell’illuminazione “prese a seguire Gesù per la strada”. Una sequela esigente che vedrà i discepoli rifiutare di continuare a vedere (cfr Mc 14,40) e che lo porterà ai piedi della croce dove la fede giungerà al suo vertice come visione di luce che scaturisce dalla croce: chi “guarda in alto”, chi “contempla” Gesù sulla croce, “vede” ciò che il centurione ha visto: la gloria che rifulge sul volto del “Figlio di Dio” (cfr Mc 15,39).

    Oratio

    Gesù chiede al cieco: “Cosa vuoi che io ti faccia?”. E’ la domanda che egli pone ora anche a ciascuno di noi. Chiediamo che la riposta sia la medesima: “”Rabbunì, che io riabbia la vista!”. Ovvero chiediamo il dono di “saper vedere”, il dono di una visione che scaturisca dalla fede in lui crocifisso e risorto e che ci guarisca da tutte le nostre cecità, dai nostri sguardi miopi, dalle nostre false visioni che ci impediscono il cammino. Si tratta di rinnovare il dono della luce che ci è stata data il giorno della nostra “illuminazione”, ossia del nostro battesimo.

    Ci piace terminare questa lettura biblica ricordando un personaggio straordinario nella sua semplicità che ha saputo vivere di questa luce interiore: Fratel Ave Maria, eremita della congregazione fondata da don Luigi Orione. Era nato il 24 febbraio 1900 a Pogli di Ortovero (SV). Un giorno mentre giocava in paese con alcuni coetanei per un involontario colpo di fucile ritenuto dai bambini scarico, sparato dall’amico Bartolomeo Vignola, diventò cieco. Ospitato in un istituto di Don Luigi Orione dopo aver superato una crisi di fede sentì nascere in sè la vocazione. Nel 1923, entrò tra gli Eremiti ciechi della Divina Provvidenza  e venne destinato all’ Eremo di S.Alberto di Butrio (PV) dove, rivestito l’abito religioso prese il nome di Frate Ave Maria. Il segreto della santità di Frate Ave Maria, si può comprendere in queste poche parole che pronunciò appena dopo la vestizione religiosa: “Io non ho altro desiderio se non quello di adempiere sempre la santissima volontà di Dio. Questo è il solo desiderio che mi rende felice“. La lunga sofferenza accompagnata da una profonda esperienza meditativa, la saggezza delle sue parole attirarono su di lui la venerazione di tante anime di cui divenne quasi un faro di luce capace di aiutare ad orientarsi nella vita. Soleva ripetere: “Io, povero e ignorante peccatore, sono solo capace di pregare e di essere felice. Non ho niente e sono felice, ho solo una cosa: l’amore verso Dio. Io sono capace di due cose soltanto: parlo di Gesù alle anime, o parlo alle anime di Gesù“. Muore il 21 gennaio del 1964.

    Di lui riportiamo la preghiera che compose in occasione del cinquantesimo anniversario della sua cecità. Le sue parole ben si collocano all’interno della nostra riflessione e preghiera: “Convertisti in luce le mie tenebre ed in gioia la mia tristezza, sicché la mia è veramente una luminosa e deliziosa notte, perché l’unica mia luce, l’unica mia gioia sei tu solo, o Gesù Figlio di Dio”.

  • 03 Set

    Il vino vecchio è più buono?


    Lectio di Lc 5,36-39

    di p. Attilio Franco Fabris

    La moglie di Lot è presa dalla nostalgia quando, per salvarsi, è costretta a fuggire dalla città di Sodoma. Deve abbandonare la sua casa costruita con tanti sacrifici e tutte le sue cose (cfr Gn 19): la partenza imposta dai messaggeri divini è immediata, senza dilazioni di sorta. La donna non vorrebbe partire così nel cuore della notte, desidererebbe starsene ancora tranquilla fra le sue mura,nonostante l’ammonimento sia grave: la città sarà distrutta: “Dopo averli condotti fuori, uno di loro disse: «Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne, per non essere travolto!»” (Gn 19,17). La sventurata donna in un impeto di nostalgia non può però dopo aver fatto pochi passi non girarsi indietro per piangere su se stessa e sulle sue cose. Ma tale scelta porta con sé una conseguenza sconvolgente: “ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale” (Gn 19,26).

    Chi si volta indietro per rimpiangere il vecchio non è adatto al Regno nuovo (cfr Lc 9,62). Girarsi indietro è una scelta che blocca, impietrisce perché impedisce di proseguire il cammino e di guardare al futuro. Girarsi indietro è perciò sinonimo di morte perché le cose passate non sono più: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio» (Luca 9,60)

    Se lo sguardo è costantemente rivolto a ciò che si è lasciato e il cuore continua a rimpiangerlo, incapace di distacco e in preda alla paura del nuovo, la vita diviene ma mano insapore: ciò che si è lasciato non torna più ed è da stolti attardarsi cercando di racimolare piccoli avanzi e resti di un passato ormai trascorso, bloccata nel guardare avanti la vita si blocca, si irrigidisce, si diventa una “statua di sale” e per giunta… insapore!

    La sequela di Cristo è un tendere in avanti, uno proiettarsi verso il Regno che sta per arrivare e che lui annuncia; e se lo sguardo e il cuore sono impegnati nel non perder di vista questa meta allora non ha più senso perder tempo volgendosi indietro a quel che si lascia: “Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,62; cfr Lc 5,11).

    Chiediamo allo Spirito un cuore nuovo, capace di stupore sempre nuovo dinanzi ad un Dio che fa sempre “nuove tutte le cose”:

    “Vieni, o Spirito santo, da’ a noi un cuore nuovo, che ravvivi in noi i doni da te ricevuti con la gioia di essere cristiani, un cuore nuovo, sempre giovane e lieto. Vieni, o Spirito santo, e dà a noi un cuore puro, allenato ad amare Dio, un cuore puro che non conosca il male se non per definirlo, per combatterlo e per fuggirlo; un cuore puro, come quello di un fanciullo, capace di entusiasmarsi e di trepidare. Vieni, o Spirito santo, e dà a noi un cuore grande, aperto alla tua parola ispiratrice, chiuso ad ogni  meschina ambizione, un cuore grande e forte ad amare tutti, a tutti servire, con tutti soffrire; un cuore grande, forte, beato di palpitare col cuore di Dio.  Amen”. (Paolo VI)

    Lectio

    Il testo evangelico segue immediatamente il brano che narra una discussione riguardante il digiuno. La questione è suscitata da alcuni scribi e farisei che vedono Gesù e i suoi discepoli non solo trasgredire questa norma ascetica inculcata dalla tradizione, ma addirittura cosa nuova, inaudita e scandalosa mangiare e bere in compagnia di “pubblicani e peccatori”: “«I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno orazioni; così pure i discepoli dei farisei; invece i tuoi mangiano e bevono!». Gesù rispose: «Potete far digiunare gli invitati a nozze, mentre lo sposo è con loro?»” (5,33-34). Emerge già qui il tema dell’incompatibilità tra vecchio e nuovo – tra digiuno e festa di nozze – che si prolunga nell’insegnamento di Gesù offerto nei due esempi del vestito nuovo e del vino nuovo incompatibili con vestiti logori e otri già impiegati.

    Nel testo parallelo di Marco leggiamo che: “Non si cuce una pezza di panno grezzo su un vestito vecchio” (Mc 2,21). Viene sottolineata in Marco l’inconciliabilità del voler combinare nuovo e vecchio.  Luca modifica il testo di Marco evidenziando ancor più l’assurdità di una tale operazione che ora consiste addirittura nello strappare una pezza da un vestito nuovo per ricucirla su uno vecchio!: “Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per attaccarlo a un vestito vecchio”. A differenza di Marco per Luca il danno non riguarda perciò soltanto il vecchio vestito ma tutt’e due; cosicché l’incompatibilità fra il nuovo e il vecchio viene messa ancor più in risalto. È assurdo distruggere un vestito nuovo per riparare uno straccio! Il pezzo nuovo poi si restringerebbe rendendo inutile anzi peggiorando lo strappo! Così non soltanto il rattoppo fa il vestito vecchio ancora più brutto, ma soprattutto si rovina l’abito nuovo: “altrimenti egli strappa il nuovo, e la toppa presa dal nuovo non si adatta al vecchio”.

    Per Luca l’annuncio della vicinanza del Regno di Dio comporta l’accoglienza di una realtà completamente nuova rispetto all’antico ordine della Legge. L’avvertimento è rivolto alla comunità perché eviti il rischio di accogliere parte del messaggio della Buona Notizia evangelica volendola poi accomodare al vecchio impianto religioso, ovvero ceda alla tentazione di voler rigiudaizzare l’evangelo. Il kerygma esige disponibilità ad un cambiamento radicale di prospettiva nel rapporto con Dio e con la tradizione. Scrive a questo proposito un noto esegeta: “Il nuovo che Gesù ha portato non è fatto per riparare il vecchio, ma deve veramente prendere il posto del vecchio” (Scheider). Ignorare questo significa operare una manovra disastrosa in riferimento sia alla novità evangelica sia alla comunità che la vive.

    Il secondo esempio è parallelo al primo: “nessuno mette vino nuovo in otri vecchi” (v.37a). Il vino nuovo dell’ultima vendemmia non va messo negli otri vecchi. Gli otri, un tempo ricavati dalla pelle di capra, col tempo perdono ogni elasticità per cui con la fermentazione del vino nuovo sono inevitabilmente destinati a scoppiare cosicché vanno persi sia il vino nuovo che gli otri vecchi: “altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti” (v.37b).

    Anche in questo caso il riferimento è sufficientemente chiaro: lo stratagemma di voler combinare vecchio e nuovo è destinato a fallire e a rovinare tutto. “Voler ricomporre l’antico ordinamento con l’ausilio della novità portata da Gesù. Ciò rovinerebbe la realtà nuova e non servirebbe a quella vecchia” (Schurmann).

    Ecco allora la saggia ammonizione da parte di Gesù: “Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi” (v.38)! Alla novità dell’evangelo della grazia deve corrispondere per il discepolo e la comunità un concreto ordine nuovo, che non vada a rimpiangere e non ceda alla tentazione del voler recuperare l’antico ma ormai superato ordine della Legge, ma si apra gioiosamente a quel compimento che non ha più bisogno di apparati preparatori e ormai inutili. Sarà questo uno degli insegnamenti più pressanti dell’apostolo Paolo preoccupato per le sue comunità che rischiano di cadere nella tentazione di svilire la novità del dono del vangelo. Nella Lettera ai Galati ad esempio egli ammonirà una comunità che è solleticata dall’ascolto di fatiscenti predicatori giudaizzanti che la invitano a ritornare alla sicurezza derivante dalle norme della Legge: “O stolti Gàlati, chi mai vi ha ammaliati, proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso? Questo solo io vorrei sapere da voi: è per le opere della legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione?” (3,1-2).

    Dopo le due brevissime parabole Luca introduce un detto riportato da lui solo che, paradossalmente sembrerebbe contraddire a prima vista quanto detto prima: “Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: Il vecchio è buono!» (v. 39). Come interpretare quest’apprezzamento del “vino vecchio? Probabilmente Gesù, con sottile ironia, fa una constatazione dettata dal buon senso e dall’esperienza: comprende benissimo che per l’uomo “religioso” non è facile staccarsi dalla propria mentalità. È difficile per i giudei (di ogni tempo!) abbandonare le sicurezze offerte dalla Torah e da tutte le sue norme fatte di precetti e di divieti che offrono l’impressione di poter raggiungere una propria giustizia. È difficile accogliere il “vino nuovo” della gioia del banchetto di nozze in cui la giustificazione scaturisce dalla gratuità del dono della grazia offerta dal Padre in Cristo. Per costoro il vino nuovo, a differenza del giudizio entusiasta del direttore del banchetto delle nozze di Cana (cfr Gv 2,10),  il vino nuovo è meno buono di quello vecchio!

    È un dato costante che chiunque si attacchi rigidamente e orgogliosamente al passato non sarà mai in grado di desiderare e gustare la novità del nuovo: “Faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19).

    Collatio

    L’etimologia della parola “nostalgia” contiene in sé il riferimento al “dolore” (algia) e alla “casa” (naos). Il termine esprime perciò molto bene lo struggimento che avviene in noi quando lontani sospiriamo il ritorno alle nostre cose, alla nostra patria, alla nostra casa e ai nostri cari. Questo ritorno viene a colmare il vuoto, l’ansia che ne scaturisce, offrendo un riparo di sicurezza, legami, di calore. In tal senso l’uomo “nostalgico” per antonomasia è Ulisse il quale viene rappresentato da Omero nell’ “Odissea” come colui che vive in funzione del suo ritorno all’isola di Itaca, un ritorno ostacolato dagli dei ma al quale egli non rinuncerà mai. Il suo futuro si costruisce sul suo passato. Ma ad Ulisse si contrappone l’uomo biblico nella figura di Abramo che è al contrario l’uomo costantemente invitato a “uscire”, ad “abbandonare lasciando tutto” ciò che rappresenta per lui sicurezza (padre, clan, terra, tradizione cultura…cfr Gn 12,1ss) per vivere in funzione di una “promessa” divina che non ha nessun immediato riscontro. Abramo vive il suo futuro non come un ritorno ma come una speranza nella promessa che lo obbliga a fissare lo sguardo sempre in avanti. Abramo è l’uomo il quale, salendo la scala, vede svanire dietro di sé gli scalini percorsi: non può far altro che continuare a salire!

    Ulisse od Abramo? Vivere in funzione della nostalgia o della speranza? Del vecchio ormai logoro ma sicuro o del nuovo da sperare e da scoprire? Tenere fisso lo sguardo in avanti come Mosé verso la Terra della Promessa e della libertà, o volgere caparbiamente lo sguardo indietro come Israele che nel deserto continua a rimpiange le cipolle lasciate in Egitto a bollire? : “gli Israeliti ripresero a lamentarsi e a dire: «Chi ci potrà dare carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra vita inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna»” (Nm 11,4-6).

    La tentazione di rifugiarsi nel già visto, nel risaputo è ricorrente e la ritroviamo presente un po’ ovunque a livello sociale, culturale, politico e religioso: essa riemerge in modo prepotente soprattutto nei momenti in cui si attraversano fasi critiche, di svolta e di cambiamento. Allora la paura vorrebbe avere il sopravvento e l’ultima parola. Vengono infatti a mancare saldi punti di riferimento e di appoggio che finora offrivano sicurezza, sopraggiunge il nuovo, l’inaspettato, lo sconosciuto. Qui sta il dilemma: rischiare vie nuove o dar retta alla paura che spinge a rincorrere antiche sicurezze che vanno sbriciolandosi? L’offerta di un vestito nuovo e di un vino nuovo appena vendemmiato impongono una scelta, una nuova disponibilità che obbliga al cambiamento… ma questa scelta ha un prezzo molto alto che la maggioranza generalmente non è disposta a versare, o tutt’al più alle condizioni più basse (la pezza vecchia o l’otre vecchio vengono buoni).

    Israele non ha ancora terminato di assaporare l’ebbrezza del dono della libertà che alle prime difficoltà dettate dalla nuova situazione preferirebbe il ritorno alla schiavitù. È la stessa fatica delle prime generazioni cristiane provenienti dal giudaismo nell’accogliere sino in fondo la sconcertante novità della Buona Notizia che la obbligano a lasciare le tradizioni dei padri, i marinai di Colombo vorrebbero tornare indietro stanchi e delusi da un viaggio interminabile rinunciando al sogno di una terra nuova da scoprire, i professori dell’università di Padova si rifiutano di guardare nel cannocchiale inventato da Galileo con la scusante: “Noi sappiamo già com’è il cielo!”, il gesuita Matteo Ricci si vede impedire dall’alto il permesso di inculturare la fede cristiana nella Cina del ‘500 …e così via: sarebbero innumerevoli gli esempi che dicono la paura del nuovo e il tentativo di rifugiarsi nel vecchio con la scusante evangelica che “il vecchio è migliore!” (v.39).

    È una tentazione che serpeggia fortissima anche oggi tra le mura della Chiesa! Una Chiesa che si trova dinanzi alla sfida di un mondo sempre più secolarizzato, in cui impera la dittatorialità del relativismo che marginalizza sempre più il suo annuncio della verità. Di fronte a questo progressivo indebolimento è allora forte la volontà di voler riacquisire una forte identità. Operazione lecita e doverosa se però viene intrapresa nella giusta direzione che è quella di un nuovo radicarsi nel “kerygma” e in un rinnovato impegno di nuova evangelizzazione. Ma la tentazione è quella di rincorrere modalità più facili – perché di poco costo in termini di conversione! – che consistono nel recuperare questa identità tra la polvere delle soffitte, nell’illusione data di riaccarezzare le vecchie glorie del passato! Rimane allora valido il monito a non cadere in tale mortale tranello: “In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza, se le sue cose sono in casa, non scenda a prenderle; così chi si troverà nel campo, non torni indietro” (Lc 17,31). Rischioso rifugiarsi nelle soffitte quando le fondamenta vacillano!

    Le due parabole evangeliche vogliono rispondere alle perplessità e ai dubbi di un discepolo e di una comunità, di ieri e di oggi, ancora troppo incerti e che non osano fare il passo decisivo fidandosi unicamente della promessa contenuta nella novità dell’evangelo. Per gli indecisi vale sempre un detto popolare prudentemente ripetuto: “Chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che perde ma non sa quel che trova!”. Certo si tratta di buon senso! Ma il “buon senso” umano (il vestito e l’otre vecchi) mal si adatta alla “sapienza divina” della Parola di Dio. Improntare la vita sul “buon senso” che si spaccia per prudenza significa permettere all’imperativo della paura di governare l’esistenza impedendoci di sperimentare l’ebbrezza della libertà dello Spirito. È un atteggiamento mondano che nasce da una inconfessata sfiducia nei confronti della vita e in ultimo di Dio stesso: “Ma questo popolo ha un cuore indocile e ribelle; si voltano indietro e se ne vanno” (Gr 5,23). Probabilmente è proprio qui il nocciolo del problema: la resistenza operata dalla coscienza ad affidarsi nella speranza al Dio che “fa nuove tutte le cose” (Ap 21,5) nasce proprio dalla paura che questa Promessa che mi invita ad un orizzonte nuovo di vita sia un “imbroglio” di cui diffidare, anzi da cui starsene lontano. Molto meglio rifugiarsi nelle solite cose che danno l’impressione di sicurezza. Così che l’uomo “religioso” tenterà perlopiù di rattoppare “toppe vecchie” sul vestito nuovo della fede cristiana. Sono le operazioni attraverso le quali tutti cerchiamo di rendere innocuo il vangelo volendolo far andare d’accordo col “buon senso”, con “saggia prudenza”. Questo impedirà sempre di sperimentare la novità e la verità della Buona Notizia.

    Al contrario la comunità e il discepolo accoglie la sfida del nuovo non come un rischio e un pericolo, ma come opportunità per percorrere con una fedeltà sempre rinnovata il cammino della sequela. Ogni giorno è sempre il giorno delle nozze in cui bisogna mettere il vestito nuovo e bere il vino nuovo per sperimentarne la bellezza e la dolcezza!

    Il cristiano, e ancor più in consacrato, si è ormai “rivestito di Cristo” (Gal 3,27) ed è chiamato perciò a divenire in lui “uomo nuovo” (1Cor 12,12s). Questa tensione di conformazione gli impedisce di perder tempo a trascinarsi dietro inutili masserizie e rimpianti: “Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio»” (Lc 9,62). Desideroso di vestire l’abito nuovo nella sala del Regno dove gusterà il vino nuovo il discepolo non esisterà ogni giorno a buttare nell’immondizia quel che è vecchio, logoro e inservibile: “Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello Spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,22).

    Oratio

    Chiediamo allo Spirito il coraggio della fede dei padri, di Maria. Il coraggio di non volgerci indietro dopo aver posto mano all’aratro, di non rischiare di impietrirci come la moglie di Lot,  ma come Abramo di “partire” ogni giorno per quel pellegrinaggio cui il Signore ci ha chiamati, avendo nella bisaccia solo la fiducia e la speranza che riposa unicamente sulla promessa della sua Parola: il resto non serve!

    Meglio di me, Signore, tu sai su quali orizzonti si allarga il paese delle promesse.
    Abbandonerò i territori dove, da padrone,
    organizzo la dolcezza per i miei occhi
    e l’ebbrezza per il mio corpo,
    facendo scorrere latte e miele
    nel comodo allineamento dei miei giorni.
    Partirò!

    Abbandonerò le mie terre di comodità,
    dove mi è indifferente l’ordine delle cose,
    fino a quando i diluvi dell’odio e dell’ingiustizia

    non sommergono la mia dimora.
    Abbandonerò le mie terre di disprezzo,
    dove gli uomini sono catalogati secondo il rendimento,

    come se fossero prodotti sul mercato.

    E tu mi butti fuori dalla mia casa,
    dove gli armadi sono pieni e gli scaffali ordinati.
    E tu sempre mi costringi a guardare più lontano
    e a piantare altrove le radici del mio cuore.

    (Charles Singer)

  • 29 Ago


    Mentre le porte erano chiuse

    Lectio di Gv 20,19-23

    di p. Attilio Franco Fabris

    Mentre le porte del luogo dove si trovavano i discepoli erano chiuse per paura” (v. ). Come ripartire nel nostro cammino di fede e di sequela se le nostre porte sono ben serrate, sprangate a doppia mandata perché presi da mille timori e scoraggiamenti e incertezze?

    Le nostre paura ci immobilizzano, ci impediscono ogni movimento. Il cammino ci mette in gioco verso il nuovo, ma il nuovo ci spaventa ed è meglio rifugiarci nelle nostre piccole sicurezze che comunque prima o dopo saranno, inevitabilmente, spazzate via. Paura di giocarci, paura del futuro, paura di perdere i nostri vantaggi e sicurezze, paura del cambiamento…

    Lo Spirito vuole “abbattere” queste porte sprangate e barricate, infondendo in ciascuno di noi una sventagliata di coraggio e santa intraprendenza. Vuole, col suo solito impeto di vita, farci ripartire, come i discepoli di Emmaus dalle porte della locanda, perché sa bene che saremo sempre tentati di rallentare, fermarci, o deviare dal percorso imboccando strade alternative,vicoli ciechi, angoli bui.

    Chiediamo allo Spirito che soffi in modo sì travolgente da costringerci a muoverci, e che con la forza della Parola udita, nella quale il Risorto nuovamente ci parla e ci invia, trovi in noi disponibilità a riprendere il cammino.

    “Spirito del Signore, vieni su di noi, trasforma il nostro cuore e prendine possesso. Brucia le nostre paure, sciogli le nostre resistenze… Fa’ che non restiamo prigionieri della nostalgia o del rimpianto del passato, ma sappiamo aprirci con serena fortezza alle sorprese di Dio… Rendici vigili, fiduciosi e prudenti nell’attendere il domani della promessa nella fatica delle opere e nella pazienza dei giorni della nostra vita” (B. Forte).

    Lectio

    La nostra pagina evangelica si apre con un’introduzione in cui vengono offerte all’ascoltatore le coordinate di tempo – “la sera di quello stesso giorno” –  e di spazio – “nel luogo dove erano i discepoli” –  all’interno delle quali avviene l’incontro di Gesù risorto con i discepoli impauriti e disorientati dopo i tragici avvenimenti della sua passione e morte. Tutta la scena ha Gesù come protagonista: è lui il punto di convergenza da cui si diparte nuovamente la sequela e la missione.

    Il racconto è ambientato alla “sera del primo giorno della settimana”. E’ il giorno della resurrezione stessa di Gesù: Maria di Magdala ha già portato la buona notizia al gruppo incredulo, Pietro e Giovanni sono già corsi alla tomba vuota.

    L’apparizione di Gesù è descritta da Giovanni come una “venuta” – “venne” -. E’ un verbo significativo perché rimanda all’esperienza liturgica e di preghiera delle comunità cristiane delle origini pervasa insistentemente dall’invocazione “Maranahthà” che potrebbe tradursi con: Vieni, Signore, oppure con: Il Signore viene. Da parecchi indizi, e da tutto il contesto, possiamo cogliere nel nostro brano evangelico una sottintesa volontà dell’evangelista di sottolineare l’esperienza liturgica della comunità come luogo di incontro col risorto (la “sera”, il verbo “venne”, lo stare insieme dei discepoli, il mandato….).

    I discepoli sono “a porte chiuse dentro al luogo dove si trovavano per paura dei Giudei”. Essi hanno paura. Di cosa? Avvertono un’ostilità crescente fuori di quelle stesse mura, e che potrebbe riversarsi su di loro da un momento all’altro come lo è stato per il loro Maestro di cui hanno terrore di fare la fine. Sono tuttavia angosciati e impauriti perché incapaci di dare senso, ragione a tutto ciò che è avvenuto: quella morte di croce è lì fissa dinanzi alla loro coscienza come uno scandalo insormontabile. E’ in fin dei conti una comunità alla deriva, destinata allo sgretolamento, alla dispersione (Tommaso se ne è già andato, e così i due di Emmaus!). Senza il punto di riferimento rappresentato da Gesù essa si sente sola, abbandonata, isolata, impossibilitata a muoversi.

    Dopo questa introduzione “in tonalità minore”, il nostro evangelista ecco procedere con l’esplosione di due scene che vengono a frantumare questa esperienza di vuoto e di angoscia.

    Due scene susseguenti che è possibile porre benissimo in parallelo.

    La prima scena trova il suo nucleo nel riconoscimento di Gesù da parte dei discepoli intimoriti. La prima parola che il risorto pronuncia è: “Pace a voi! – Shalom ‘alekem”. Non si tratta semplicemente di un augurio, ma è una consegna effettiva e autorevole del dono promesso dello “shalom” quale pienezza di vita, quel dono che i profeti e lo stesso Gesù avevano preannunciato come compimento delle promesse dei tempi messianici. Durante i discorsi dell’ultima cena Gesù aveva preannunciato ai suoi: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore” (Gv 14,27), e ancora: “Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). Finalmente questa shalom tanto attesa può pervadere il cuore di ogni uomo che accoglie il dono della venuta del Signore risorto.

    Dopo queste parole Gesù mostra le ferite delle mani e del costato. La menzione del costato è tipica di Giovanni il quale certamente ci rimanda così alla scena della morte e del costato trafitto dalla lancia (19,34-37). In quel momento “uscirono sangue e acqua” simbolo della vita e del dono dello Spirito che Gesù sta per fare. Notiamo che per Giovanni questo gesto di Gesù risorto non ha alcuna intenzione apologetica, quasi che volesse dimostrare la verità della resurrezione, esso possiede una finalità più profonda di rivelazione; infatti nel nostro evangelista il verbo “mostrare” ha quasi sempre questa valenza “rivelativa” (cfr 2,18; 5,20; 10,32; 14,8).

    La reazione dei discepoli è immediata. I discepoli “vedendo” il Signore che “mostra” le sue piaghe riconoscono in lui il Crocifisso Risorto: “gioirono nel vedere il Signore”.

    Anche la gioia, e non solo la pace, è frutto dell’adempimento della promessa. Sempre nei discorsi di addio Gesù aveva infatti affermato: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia.” (16,21-23). Questa promessa ora si realizza.

    Dopo l’offerta del dono della pace e della gioia, il cuore dei discepoli si infiamma: la “contemplazione” delle piaghe testimoni di un amore “sino alla fine” (13,1), la pace e la gioia che scaturiscono dall’incontro li predispone ad un ulteriore passo, all’accoglienza di un ulteriore dono.

    Si apre così la seconda scena. Essa contiene nel suo nucleo il mandato missionario di Gesù ai discepoli: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Anche questa formula è già presente nei discorsi di addio: “Come tu mi hai inviato nel mondo, così io li ho inviati nel mondo” (17,18). Ciò che appare evidente e caratteristico è che Gesù pone un chiaro parallelismo tra la missione a lui affidata dal Padre e quella che lui affida ai suoi discepoli. Vi è perciò, per i discepoli, una partecipazione alla missione stessa del Figlio, sono chiamati a continuarne “nel mondo” l’opera di annuncio della buona notizia dell’amore del Padre.

    Dopo queste parole di mandato Gesù compie un gesto estremamente significativo: “soffiò su di loro”. Tale gesto è accompagnato dalle parole: “Ricevete lo Spirito santo”. Nell’antico testamento abbiamo due riferimenti importanti: in Gn 2,7 dove Dio creando dalla terra Adamo “soffiò nelle sue narici un alito di vita”, e in Ez 37,9: dove il soffio di Dio è invocato sulle ossa aride “perché riprendano vita” (cfr Sap 15,11). Dunque il gesto di Gesù ha un valore di dono di vita e di nuova creazione. E’ questa, secondo alcuni esegeti, la “pentecoste giovannea”.

    Per rendere effettiva la missione i discepoli, in certo qual modo, hanno bisogno di essere ricreati-rigenerati mediante l’accoglienza della buona notizia della morte di Gesù: ma questa è opera dello Spirito di verità. Vi è perciò una strettissima relazione tra la missione e il dono dello Spirito. Senza quest’ultimo la missione non sarebbe possibile. Invasi dallo Spirito, che li apre all’accoglienza del dono della morte-resurrezione di Gesù, i discepoli sono così consacrati per la missione.

    Questa missione si riassume con l’incarico di annunciare il perdono dei peccati.(cfr Mt 16,19; 18,18. La terza persona plurale – “sono rimessi… sono ritenuti” – sottintende che è Dio stesso che rimette o ritiene i peccati) è un il compito affidato alla comunità cristiana e ai suoi responsabili col il quale essi sono chiamati ad annunciare la buona notizia e di ammettere al battesimo coloro che l’accolgono. E’ inevitabile che l’annuncio della parola e i gesti che l’accompagnano portino un giudizio sul mondo dinanzi al quale gli uomini sono chiamati a scegliere: alcuni l’accolgono ricevendo il perdono altri lo rifiutano indurendosi nel proprio male (14,17; 16,8).

    Collatio

    La comunità dei discepoli rinserrata dentro il cenacolo è allo sbando, il disorientamento è totale e immobilizza ogni sforzo per ripartire. Serpeggia solamente la nebbia dello scoraggiamento e della sfiducia. I discepoli sono incagliati, arenati in quello scoglio “scandaloso” che è la croce. sono come una barca impossibilitata a prendere il largo.

    Per loro, negli angusti orizzonti di quella stanza buia dalle porte e finestre sbarrate, non appare alcuna via di uscita, alcuna soluzione: è l’immobilizzazione così simile alla morte. Sempre la paura paralizza, immobilizza e spegne ogni desiderio. Il cammino fatto fino a quel punto sembra dissolversi come un’illusione da strapazzo.

    Ripartire come? Da dove? È una domanda che avrà sicuramente rimbalzato nelle menti di tutti i discepoli ma alla quale nessuno sa trovare risposta né soluzione.

    Se il Crocifisso risorto non mettesse mano lì dentro sarebbe la catastrofe per tutti. E’ solo l’incontro con lui a possedere la forza straordinaria capace di rimettere in moto quella comunità, di infonderle nuovo dinamismo capace di stravincere ogni paura. E’ il soffio impetuoso dello Spirito donato dal Risorto a possedere la forza travolgente di spingere questo gruppo sparuto e impaurito ad affrontare i confini del mondo per portare la Buona Notizia.

    Cosa significherà per noi “ripartire” nuovamente, come i discepoli, da quel cenacolo ostruito dai massi delle nostre paure?

    Ripartiamo se ci accorgiamo anzitutto che abbiamo ancora tanta strada da fare, e che forse ci siamo per troppo tempo fermati. Capita di trovare persone, autodefinitisi credenti, che si sentono già arrivate, già a posto. A costoro la parola “ripartire” non evoca nulla, non suscita alcun desiderio, perché “ripartire” è un verbo compreso solo da chi abita il mistero, da chi avverte una nostalgia indefinibile di bellezza, di vita e di pienezza di cui si vuole cercare la fonte; è compreso da chi vive una sana insoddisfazione nella propria vita perché sente l’urgenza di cercare nuovamente, di non accontentarsi. Riparte l’uomo “desideroso”, ovvero etimologicamente (desiderio = ad sidera) l’uomo capace di “guardare le stelle”, ovvero di alzare lo sguardo e di uscire dalla stanza chiusa del suo piccolo mondo per cercare qualcosa di più grande, non accontentandosi più del “già visto”. E’ l’uomo desideroso di infinito che richiama a quell’Infinito che è Dio stesso.

    Questo significa vincere il rischio di quella terribile malattia che la miopia della coscienza che porta al ripiegamento su di sé. Ma questo significa la rinuncia a quelle fragili sicurezze fatte di tante piccole e grandi chiusure che sono disseminate nella nostra vita e nelle nostre comunità.

    Vi è inoltre un’ulteriore strada che può spingere a “ripartire”, ad uscire dalla stanza chiusa, ed è quella che possiamo percorrere accanto al dolore. È una strada rischiosa e faticosa perché sollecita fortemente alla rabbia, alla rivendicazione, all’immobilizzazione: come i discepoli impauriti e pervasi dal dolore siamo incapaci di alzare nuovamente lo sguardo e di tornare a sperare.

    Tuttavia, se ci lasciamo interrogare dallo scandalo del male nostro e di quello che ci circonda e che sembra avere l’ultima parola, dall’assurdità della violenza che abita il cuore nostro e di ogni uomo,  avvertiremo la necessità di andare oltre, di uscire, di cercare, di appunto… ripartire. Il dolore possiede la grazia di scomodare la fede scontata fatta di facili risposte artefatte che rinserrano la mente e il cuore.

    In tutto questo ciò che è fuoco che può riscaldarci, vivificarci e illuminarci, ciò che è soffio capace di farci rivivere sarà il nostro “perseverare nell’ascolto della parola”. Una comunità che desidera “ripartire”, è una comunità disponibile all’ascolto. Tale dono impedisce di rinserrarci dentro le illusorie sicurezze delle nostre quattro mura (fatte magari anche di belle progettazioni, di belle celebrazioni, di agende stracariche di impegni ma in cui perdiamo di vista il cardine essenziale).

    Una autentica “ripartenza” porrà Cristo e la Buona Notizia della sua morte e resurrezione al centro di ogni cosa, come perno imprescindibile e insostituibile. Ciò significa lasciare che sia lui il fondamento e la misura di tutto che siamo e facciamo. È necessario in un mondo che vede più che mai la tentazione titanica dell’uomo di farsi misura a se stesso, di voler ripartire da sé stesso per trovarsi poi a girare a vuoto, o “in tondo” come afferma la scrittura parlando dello stolto.

    Contemplando le piaghe del Cristo crocifisso e risorto, riudendo sempre la sua parola che è promessa di pace e perdono, ci apriamo sempre più al soffio del suo Spirito. Ed è lo Spirito a trasformare la nostra vita in un itinerario, un pellegrinaggio, una missione. La vita non sarà più un circolo vizioso avvolto dalle brume delle nostre noie, della nostra sfiducia e  delle nostre paure. Essa si aprirà al futuro di Dio, alla sua promessa… nonostante tutte le nostre porte sprangate.

    Oratio

    L’incontro con te, Signore Gesù, attraverso l’ascolto della tua parola diventi una rinnovata occasione del dono del tuo Spirito di vita su di noi, sulla Chiesa e il mondo intero.

    Soffia ancora Signore Gesù: ne abbiamo bisogno! Come i discepoli spesso ci intristiamo e ripieghiamo nei nostri scoraggiamenti, siamo attanagliati dalle nostre mille paure. Nonostante questo tu “vieni” ancora e sempre in mezzo a noi con il dono della tua presenza fatta parola e pane. Questo rinnovato incontro con te infonde, come un tempo ad Elia stanco e scoraggiato, una nuova energia, ci rialza e ci fa riprendere il tratto di strada. Ora ci inviti a percorrere con te le strade del mondo per portare quello che tu stesso ci hai donato: la pace e la gioia contenute nella Buona Notizia.

    Trasformarci in strumenti di pace e di riconciliazione in questo nostro mondo, in cui troppe barriere e steccati chiusi impediscono di uscire, di incontrarsi, di riconciliarsi. Ci si rinserra nella propria paura e la vita intristisce e la gioia della comunione non viene vissuta.

    Che la comunità dei tuoi discepoli risplenda in questo nostro mondo per la missione che tu le hai affidato: sia capace con la forza dell’evangelo di dissolvere ogni porta chiusa perché tutti si possano incontrare sulla strada ed insieme ripartire verso l’unico Padre di tutti.

  • 13 Ago

    Assetati di felicità

    Lectio dal Qoelet  2,1-11

    di p. Attilio Franco Fabris

    1 Mi son detto: «Ora voglio provare ogni specie di piacere e di soddisfazione». Ma tutto mi lasciava sempre un senso di vuoto. 2 Il divertimento lascia insoddisfatti, l’allegria non serve a niente. 3 Allora ho cercato il piacere nel bere, ma senza perdere il controllo. Mi son dato alla pazza gioia. Volevo vedere se questo dà felicità all’uomo durante i pochi giorni della sua vita. 4 Ho fatto anche grandi lavori. Ho fabbricato palazzi, ho piantato vigneti. 5 Ho costruito giardini e parchi, dove ha piantato ogni qualità di alberi da frutto. 6 Ho costruito serbatoi d’acqua per irrigare quegli alberi. 7 Ho comprato schiavi e schiave; avevo molti servi in casa mia, possedevo moltissimi buoi e pecore, più di tutti i re di Gerusalemme. 8 Ho accumulato molti oggetti d’oro e d’argento. Ho preso le ricchezze e i tesori di altri re e governanti. Ho fatto venire nel mio palazzo cantanti e ballerine: per i miei piaceri, tante belle donne. 9 Insomma, ero diventato più ricco e più famoso di tutti i miei predecessori di Gerusalemme. Per di più, non ho mai perso la testa! 10 Ho soddisfatto ogni mio desiderio; non ho rinunziato a nessun piacere. Sono riuscito a godere delle mie attività: questa è stata la ricompensa per tutte le mie fatiche. 11 Ho tentato di fare un bilancio di tutte le opere che avevo fatte e della fatica che mi erano costate. Ma ho concluso che tutto è vanità, come inseguire il vento. In questa vita sembra tutto inutile.

    (traduzione interconfessionale)

    Perché tanto malessere nella società del… benessere? E’ un interrogativo che si affaccia ripetutamente nella mente di chi possiede ancora – speriamo –  il dono di interrogarsi sulla vita e di non semplicemente “lasciarsi vivere”. Il benessere dovrebbe portare con sé, secondo la nostra “mitologia” culturale, la felicità. Più benessere equivale a più felicità! E chi non desidera essere felice? Così si crede di trovare appagamento in quella vacuità proposta dal consumismo. Ciò che si crede appaghi il cuore è riempirlo di “cose” sempre nuove, di sempre nuove “esperienze”. Ma, ahimè! Come un miraggio nel deserto la felicità è sempre più in là, all’orizzonte sempre irraggiungibile. Così l’insoddisfazione diviene il comun denominatore dell’esperienza umana.

    Noi vogliamo leggere tutto questo non in chiave negativa ma come un’opportunità, un richiamo che spinge il cuore a cercare più a fondo e più in verità. Una sana insoddisfazione si tramuta allora in occasione di grazia, nella quale lo Spirito può suggerire alla nostra coscienza di cercare la “perla preziosa” che ci farà veramente felici: “Cerca la gioia del Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore” canta il salmo 36 (v.3).

    Che il Soffio divino di Dio apra ora le orecchie del cuore ad accogliere il dono della Parola che sarà luce nel nostro cammino di ricerca: Spirito della gioia, noi crediamo che ci sei dato per educarci alla gioia vera, per formarci alla gioia della carità e del servizio, per comunicare a tutti la tua gioia piena che non avrà mai fine. Amen.

    Lectio

    Qoelet – la tradizione lo identifica con lo stesso re Salomone – è un uomo che al termine della sua vita ripercorre tutta la sua lunga esistenza spesa nella ricerca della sapienza apportatrice di felicità. Egli cerca di trarne una valutazione finale: Qoelet ci appare come un uomo che nei confronti della vita ha acquisito uno sguardo a dir poco “disincantato”: “Vanità delle vanità, tutto è vanità e un inseguire il vento”(1,2). Dove la parola “vanità” (ebr. hebel) indica il respiro che si condensa fuggevolmente sullo specchio per poi subito svanire evaporando. Ovvero: nella vita nulla possiede un valore eterno e una consistenza, tutto prima o poi precipita inesorabilmente nell’oblio dello Scheol. Come definire allora il nostro autore: un pessimista e un cinico? Difficile trovare una connotazione adatta. Egli sembra sfuggire a qualsiasi collocazione: forse è semplicemente un uomo capace di penetrare con estrema lucidità e realismo nelle contraddittorie trame della vita.

    Qoelet ha potuto toccare con mano l’inutilità di tutti i suoi sforzi per sfuggire ad un’amara e continua insoddisfazione. Nel suo animo torna incessante l’interrogativo che non gli lascia tregua: può l’uomo eludere l’assurdità con cui la vita gli si presenta? Le promesse della vita alla fine non gli si sgretolano inesorabilmente tra le mani? Non rimane forse solo una nausea insopportabile per ogni cosa, un senso amaro di fallimento? Cosa rimane terminata la festa che illude con le sue promesse di gioia straripante? Solo un senso di vuoto e di cenere.

    Qoelet ha cercato la felicità in ogni direzione. Ha tentato dapprima nella linea della sapienza trasmessa dagli antichi, si è posto alla loro scuola, si è confrontato con essi, ha accolto il loro ammonimento di fuggire la stoltezza: “La stoltezza è una gioia per chi è privo di senno;l’uomo prudente cammina diritto” (Pr 15,21). Ma alla fine egli rimane perplesso, se non deluso. Di fronte alla consapevolezza che il sapiente e lo stolto alla fine scenderanno entrambi nello Scheol e nessuno di loro sarà ricordato il nostro autore costata amaramente: allora a che serve la sapienza? Nulla ricompensa la fatica estenuante a cui l’uomo ha sottostato per giungere alla sapienza (cfr 1,3). Anzi, la sapienza reca con sé una sofferenza ulteriore che scaturisce da una maggior consapevolezza della propria insoddisfazione: “Dove c’è molta sapienza c’è molta tristezza, e, se si aumenta la scienza, si aumenta il dolore” (1,18). Allora quale vantaggio se ne ricava perseguendola?

    Tuttavia Qoelet non desiste, non si arrende. Egli vuol cercare altrove tentando nuove piste. Il suo progetto a questo punto si fa temerario: egli decide di percorrere addirittura la via della stessa stoltezza. Forse qui scoprirà una risposta. Dandosi ai piaceri della vita il cuore troverà finalmente pace e appagamento?

    E giungiamo così al nostro testo.

    Mi son detto: Ora voglio provare ogni specie di piacere e di soddisfazione”(v.1). Teniamo presente che non si tratta di una ricerca sconsiderata; Qoelet “sa”, è “consapevole” che sta cercando una risposta alla sua insoddisfazione proprio nella “stoltezza”: “senza perdere il controllo” annota egli quasi compiaciuto. Decide così con lucidità di percorrere una strada alternativa quasi fosse un osservatore esterno in ascolto delle risonanze del cuore. Vuole costatare “se questo dà felicità all’uomo durante i pochi giorni della sua vita”(v.3).  Sono “i giorni contati” che lo assillano, la breve vita scorre inesorabile e l’uomo angosciato cerca qualcosa che dia ad essa senso e gioia.

    Inizia col buttarsi nel vino e nella “pazza gioia”. Il vino ha la capacità di mettere allegria e di far dimenticare: ma si tratta di un’allegria vuota, che ha solo l’effetto di stordire. Il risultato è la constatazione che: “il divertimento lascia insoddisfatti, l’allegria non serve a niente”(v.2).

    Vista l’inutilità di questa pista eccolo tentarne subito un’altra: gettarsi sull’attività frenetica, sul  lavoro, nella costruzione di grandi opere “faraoniche” che diano la sensazione di essere protagonisti e persone di successo capaci di realizzare qualcosa che resterà nel tempo. Qoelet può affermare con una certa qual fierezza: “Ho fatto anche grandi lavori” (v.4).  Ha fatto costruire “grandi palazzi”, piantare grandi “giardini” (lett. “paradisi” v.5), innaffiati con immense “cisterne d’acqua”.  Per coltivarli si procura ovviamente schiere di “schiavi e schiave più di tutti i suoi predecessori in Gerusalemme” (v.7).

    Dopo aver realizzato tutto questo il cuore rimane tuttavia ancora insoddisfatto. Altra pista: “Ho accumulato molti oggetti d’oro e d’argento. Ho preso le ricchezze e i tesori di altri re e governanti” (v.8). I “tesori di re” sono i frutti delle battaglie vinte, mentre i tesori “dei governanti” sono i tributi degli stati vassalli. La nuova strada alla ricerca della felicità è dunque incrementare all’inverosimile la propria ricchezza. In effetti il denaro non offre un senso di onnipotenza? Con esso l’uomo può accaparrarsi qualsiasi cosa, si illude di poter comprare con essa anche la felicità. Ma già il salmo 48 accennava alla stoltezza del gettarsi nell’illusione della ricchezza: “Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine, e non vedere la tomba” (v 9).

    Quale pista rimane? Se stordimento, successo e denaro non sono serviti allora non resta che tentare la strada dei piaceri e del sesso. Ecco il nostro Qoelet circondarsi allora di una corte gaudente e di “tante belle donne” (v.8; cfr 1Re 11,3). Trascorrere le giornate tra musica, balli e piaceri riempirà finalmente il suo cuore?

    Alla fine Qoelet può ben affermare a ragion di causa: “Ho soddisfatto ogni mio desiderio”. Non si è negato nulla! Ha provato di tutto pur di trovare una risposta alla sua insoddisfazione.

    Ma quale la sua risposta finale? Da un lato egli afferma solo un unico guadagno: una certa soddisfazione per ciò che è riuscito a realizzare: “Sono riuscito a godere delle mie attività: questa è stata la ricompensa per tutte le mie fatiche”(v.10).  Ma dopo questa considerazione ecco riaffacciarsi con lucidità spietata il solito e lucido ritornello: “Ma ho concluso che tutto è vanità” (v.11). Sì c’è un guadagno in ciò che si è riusciti a fare con le proprie forze, ma tutto questo a che scopo? L’agire umano, il suo agitarsi, il suo affannarsi alla fine gli risulta senza senso. Chi sa quel che all’uomo convenga durante la vita, nei brevi giorni della sua vana esistenza che egli trascorre come un’ombra?” (6,12).

    La tesi finale di Qoelet sarà che pur ricercando il bene, sola cosa che conta, il cuore dell’uomo rimane insoddisfatto. Il discorso rimane aperto perché rimane una nostalgia di assoluto che attende una rivelazione ulteriore, una nuova possibilità che Qoelet non può ancora intravedere.

    Collatio

    Il libro del Qoelet è un libro attualissimo, può essere dato in mano all’uomo di oggi che vi si rispecchierà alla perfezione. Come Qoelet egli può, in questa nostra società del benessere ammalata di un indefinito malessere, avere tutto, provare tutto… rimanendo, a quanto pare, sempre insoddisfatto. Non è felice anche se la sua vita è piena di “cose”, di nuove opportunità.

    Come bambini scontenti vogliamo giocattoli sempre nuovi: le novità per un certo tempo mettono a tacere il nostro vuoto, le paura, l’ansia. Ma ben presto le “novità” cessano di essere tali e l’insoddisfazione, inesorabile e appiccicaticcia compagna di viaggio, si riaffaccia bussando alla nostra porta e pretendendo un nuovo appagamento in un inesauribile circolo vizioso. Nelle nostre città dove sono offerti a cascata miriadi di svaghi, di divertimenti e di piaceri i volti rimangono nonostante tutto tristi, tirati, fuggevoli, chiusi. Alla fine la vita diviene insopportabile perché sembra tradire quella sete di felicità sempre inappagata: “In questa vita sembra tutto inutile” (v.11) ricorda, scotendo il capo, il nostro Qoelet..

    Vi è il più delle volte un’allegria sguaiata che è una gioia falsa: una maschera della felicità. Essa cerca di nascondere miseramente il vuoto e l’angoscia che si cerca a forza di mettere a tacere, schiacciare, rinchiudere come il bagaglio in una valigia troppo piccola. E quando questa falsa allegria svanisce come “hebel-soffio che svanisce” l’uomo si trova attanagliato dalla noia dalla quale non riesce a fuggire. Non sa più cosa volere e cosa cercare: “Ora voglio provare ogni specie di piacere e di soddisfazione. Ma tutto mi lasciava sempre un senso di vuoto” (v.1). Qoelet è annoiato. Ma cos’è la noia, chi è la sua “infelice madre”? La psicologia insegna che essa è figlia di un rifiuto inconsapevole di un “qualcosa”. Questo rifiuto inconscio crea un vuoto che non è rimpiazzato da nulla se non dalla… noia appunto che sola rimane conscia.  In un testo conciso lo scrittore francese Antoine de Saint Exupery diceva: “E lavorano nella noia /  nulla manca loro / fuorché il nodo divino / che lega tutte le cose / e tutto manca”. “Tutto manca” e la noia come un campanello rosso d’allarme segnala un vuoto al quale non si riesce a dare un nome. Rimane l’infelicità: fortunatamente! perché questa può trasformarsi in un richiamo a qualcos’“altro”, impedendoci di sprofondare nella voragine disperata del non senso. L’insoddisfazione allora, come accade a Qoelet, si trasforma in nostalgia di una pienezza di vita avvolta ancora nella nebbia, di un legame che tenga insieme finalmente il tutto: “nulla manca loro / fuorché il nodo divino / che lega tutte le cose”.

    A questo punto diamo atto al coraggio della ricerca di Qoelet che non si ripiega su se stesso e sulla propria infelicità. Ha il coraggio di rimanere in ascolto della propria insoddisfazione, non la nega, non la tarpa, ma accondiscende alla sua richiesta che lo spinge a cercare oltre: “Il divertimento lascia insoddisfatti, l’allegria non serve a niente. Allora ho cercato…” (v.2s).

    Non teme di  percorrere le strade più diverse al fine di trovare una risposta che appaghi finalmente il suo cuore. A questo scopo l’alcol, il sesso, il denaro, il successo divengono percorsi, anche se infruttuosi, di una ricerca consapevole di senso, di felicità. Tutte queste strade per Qoelet si trasformano in successivi – e provvidenziali! – trampolini di lancio per una ricerca che lo costringe ad andare  sempre più in profondità al proprio cuore. E il cuore reclama l’infinito.

    Sant’Agostino afferma più volte che il cuore dell’uomo è stato creato a misura dell’infinito che è Dio stesso. Egli inizia il libro delle sue “Confessioni” con una delle sue frasi lapidarie, riassuntive di tutta un’esperienza, che è un grido di preghiera: “Signore ci hai fatti per te, e il nostro cuore non trova pace finché non riposa in te”. Inutile allora tentare di colmare il proprio vuoto mediante poveri espedienti umani che si riducono alla fine a inutili tentativi di riempirlo di “cose”. Il cuore  mai potrà essere colmato se non da ciò che è infinito: da Dio solo.  Non per nulla il santo appare come l’uomo più felice di questa terra: ha scoperto una gioia piena e infinita che nulla potrà mai turbare. Il monaco Landuino nell’elogio di san Bruno, fondatore della Certosa, poteva affermare di lui: “Sempre erat festo vulto – Il suo volto era sempre gioioso”.

    Il nostro Dio non vuole la sua creatura triste e annoiata: l’ha creata per la gioia che scaturisce dalla comunione nell’amore con lui e con i nostri fratelli. Non per nulla la gioia del regno è paragonata a un festoso banchetto e il primo miracolo di Gesù avviene forse proprio nel contesto gioviale di un pranzo di nozze? Fiodor Dostoevskij, nei “I fratelli Karamazov” fa dire a Mytia, uno dei protagonisti: Signore facci ricordare che il tuo primo miracolo lo facesti per aiutare degli uomini a far festa, alle nozze di Cana. Facci ricordare che chi ama gli uomini, ama anche la loro gioia, che senza gioia non si può vivere, che tutto ciò che è vero e bello è sempre pieno della tua misericordia infinita”.

    Oratio

    Dio della mia gioia e del mio giubilo”: sono parole del salmo 42 e il credente, nel grigio e nella noia di tante strade percorse dall’uomo d’oggi, dovrebbe testimoniarlo.

    Signore, donaci allora la tua gioia, quella che hai promesso la sera di pasqua ai tuoi discepoli. Una gioia che nessuno potrà mai toglierci, perché non costruita sulla sabbia delle cose, dei ruoli, dei successi, ma sulla roccia certa che la nostra vita è ancorata alla tua, che tu ci hai fatti per te, per la vita, per la comunione con te. Facci scoprire che la felicità non sta nell’avere ma nel donare senza misura. E che nel dono di noi stessi, in questa partecipazione alla tua passione, possiamo sperimentare la gioia della vita nuova.

    Liberaci dalla tentazione di credere che saranno le cose di questo mondo a riempirci il cuore, liberaci da questa illusione. Fa’ che ti cerchiamo in verità con cuore indiviso, sostieni tu il nostro incerto cammino e la nostra faticosa ricerca: facci sin d’ora toccare con mano che solo tu puoi riempire totalmente il nostro cuore rendendolo capace di amore e di gratuità.

    Annunceremo così al mondo che tu hai colmato la nostra vita della gioia più vera “in misura colma e pigiata”, più di “quando abbondano vino e frumento” (Sal 42). La nostra gioia e il nostro sorriso diverranno testimonianza più di tante altre parole.

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