• 17 Mar

    La terra:  L’acquisto di un sepolcro

    Gn 23,1-20

    di p. Attilio Franco Fabris


    L’ultimo racconto si riaggancia al tema iniziale: quello della promessa della terra.

    Sara muore e Abramo deve pensare al luogo della sua sepoltura.

    Il nostro testo è minuzioso nel riportare le varie trattative giuridiche per l’acquisto di un terreno.

    La morte di Sara: vv.1-2

    La morte di Sara è collocata immediatamente dopo la vicenda del sacrificio di Isacco, e la tradizione talvolta ha voluto collegare i due fatti: una Sara che muore di crepacuore dinanzi all’accaduto del figlio amato.

    Essa muore all’età di centoventisette anni, dunque trentasette anni dopo la nascita di Isacco, e tre anni prima del suo matrimonio con Rebecca. Muore in terra straniera e per lei la promessa della terra non si è avverata. Il testo infatti ricorda che Abramo e Sara vivevano nella terra dei cananei, essi sono ancora pellegrini, ospiti di una terra non loro.

    Abramo «entra» nella tenda dove giace il corpo di Sara e lì «fa lutto per lei e la piange».

    La richiesta di un terreno: vv. 3-6

    La richiesta di un terreno si svolge in tre fasi: la richiesta, la scelta, l’acquisto.

    Ora l’acquisto di un terreno era affare delicato. La gente era molto attaccata alla sua terra e non era propensa a cederla facilmente ad altri, ancor più se stranieri.

    Abramo è consapevole della difficoltà: “io sono forestiero tra voi”, avanza perciò una richiesta molto limitata: “sicché io possa portar via il mio morto e seppellirlo”. Una richiesta questa che rende difficile un rifiuto.

    Tuttavia la proprietà sepolcrale del terreno richiesto assume un carattere perenne, essa servirà per la sepoltura della futura discendenza (cosa che accadrà).

    La risposta degli hittiti è benevola e rispettosa: “O signore! Tu sei principe eccelso in mezzo a noi!”. Lo considerano come un capotribù, al loro pari. La loro offerta appare molto dignitosa: Abramo può seppellire Sara nel migliore dei loro sepolcri, ovvero esitano però a cedere per sempre un terreno ad Abramo: “Sì, ti vogliamo bene, ma rimani ospite, rimani forestiero”.

    A questo punto Abramo deve insistere: “si alzò, s’inchinò” nell’atteggiamento umile di colui che sente di dover fare una richiesta importante: egli indica la caverna di Macpela come possibile luogo per farvi il suo sepolcro. Chiede solo un pezzetto di terra “all’estremità del campo di Efron” il che implica la sua decisa volontà di  rispetto del diritto di passaggio sul resto del terreno al proprietario. Infine si dice pronto a pagare.

    Abramo domanda solo la caverna, Efron gli offrirà anche il campo: non resta che concludere legalmente il contratto alla presenza della popolazione.

    Ad Abramo basterà un pezzetto di terra, come gli è bastato Isacco.. Quel pezzetto di terra sarà segno e pegno, caparra e anticipazione della promessa della terra.[1]

    L’acquisto del terreno: vv. 12-18

    Efron accetta la proposta e avanza il prezzo di quattrocento sicli d’argento (“che cosa è fra me e te?”) cosa da lui ritenuta a buon mercato. Tuttavia si tratta di una cifra esorbitante (la Samaria è valutata in seimila sicli: 1Re 16,24). Al che sembrerebbe che Efron sia un approfittatore. Ma per Abramo quel terreno è troppo importante per stare a questionare sente di dover fare quel passo a qualunque prezzo.

    L’acquisto viene dunque ufficializzato con un vero e proprio atto notarile.

    Sara è seppellita: vv. 19-20

    Ora Abramo possiede un terreno in terra di Canaan nel quale egli vede anticipata la realizzazione della promessa della terra. E’ un sepolcro nel quale saranno posti oltre a Sara, Abramo stesso, Isacco e Rebecca, Giacobbe e Lia.

    Sara muore in terra straniera ma non sarà sepolta in terra di Canaan: è sepolta nella terra promessa. . Potranno alla loro morte riposare nella propria terra e non in una tomba hittita.

    Questa proprietà non è che un piccolo inizio, un seme per una promessa ancor più grande.[2]

    Ora Abramo ha un pozzo e un sepolcro

    “Per chi crede, per chi ha giocato la sua vita sulla Parola di Dio, anche un piccolo segno, anche un’anticipazione, che agli occhi degli altri appare poco, è una gioia immensa, perché questo poco è la caparra dell’amore di Dio che promette tutto” (C.M. Martini).



    [1] Atti 7:5 ma non gli diede alcuna proprietà in esso, neppure quanto l’orma di un piede, ma gli promise di darlo in possesso a lui e alla sua discendenza dopo di lui, sebbene non avesse ancora figli.

    [2] L’esperienza cristiana e la promessa della vita non scaturisce forse anche per noi dall’umile segno di un sepolcro nuovo ormai vuoto?

  • 15 Mar

    Gli ebrei in Egitto:
    una condizione di sofferenza e umiliazione

    Es. 1

    di p. Attilio Franco Fabris

    E’ evidente che gli episodi narrati nei primi capitoli dell’esodo e così solennemente celebrati dalla tradizione biblica di fatto furono episodi del tutto marginali rispetto alla grande storia dell’impero egiziano durante la XIX dinastia. Alla lettura ufficiale dei fatti sfugge l’avventura di per sé apparentemente irrilevante di quel gruppo di ebrei sbandati.

    Ma alla coscienza di Israele si manifesta nel fatto che proprio con questa vicenda di così scarsa rilevanza si è iniziata una storia che assumerà un significato fondamentale in ordine alla salvezza non solo di Israele, ma anche della comunità dei discepoli di Gesù e di tutti i popoli: è una storia che inizia con un atto di fede che impara a leggere nel proprio passato, nella storia, il compimento delle promesse sempre aperte e attuali di Dio.

    Il racconto dell’esodo ci pone così fuori da ogni prospettiva mitologica o mitizzante. La nascita del popolo di Israele, a differenza di altre mitologie religiose, non viene fatta risalire in alcun modo ad un’origine divina e gloriosa. Né il sorgere di questo popolo viene fatto risalire ad un nucleo di personalità particolarmente brillanti. Esso ci colloca invece all’interno di una lettura teologica di una storia di oppressione e umiliazione.

    Potremmo interrogarci: in quale misura la nostra fede è radicata nella storia? Nel riuscire con uno sguardo di fede a leggere negli avvenimenti la presenza e l’agire del Dio della promessa? Non corriamo forse talvolta il rischio di rinchiudere la fede in schemi mentali, in belle affermazioni teoriche, in teologie costruite in modo asettico e a tavolino ma staccate dalla vita? È il rischio di disincarnare la fede biblica, di “sciogliere” la carne di Cristo.

    Una minoranza che rischia di “dimenticare”.

    Gli israeliti ormai si erano da tempo ambientati nel paese straniero ospitante e fertile d’Egitto: le famiglie vi si trovano bene, aumentava il numero dei figli. Il testo abbonda di verbi per descrivere questa prosperità: gli israeliti fruttificarono, pullulavano si moltiplicarono, divennero molto forti, il paese si riempì di loro… Tutto questo è già in parte realizzazione della benedizione data ad Abramo: una delle tre promesse (quella di una discendenza numerosa: cfr Gn 12,3) si sta realizzando! Sembrerebbe quasi un’età dell’oro.

    Ma proprio questa situazione racchiude in sé un pericolo mortale, un veleno micidiale: è il rischio di accontentarsi, di adattarsi che porta con sé inevitabilmente un vuoto progressivo di memori. Il ricordo del proprio passato scompare, e con essa tutto il bagaglio di esperienze spirituali e culturali accumulato pazientemente dai propri padri. Così il divario tra le generazioni si amplia sempre più trascinando con sé, in questa sorta di vuoto, una dimenticanza di sogni più grandi, la rinuncia della ricerca di una propria identità e di un proprio spazio. Un popolo senza memoria, senza radici è inesorabilmente destinato a scomparire, a dissolversi. Israele in Egitto rischia di scordarsi della stessa esperienza di Dio fatta da Abramo e delle promesse da lui ricevute. Questo fa sì che gli israeliti siano ormai un gruppo senza passato né futuro.

    È un rischio sempre possibile: Ma guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste: non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita. Le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli.(Dt 4,9).

    Viviamo in un contesto in cui è facile “dimenticare”, trascurare le “domande” essenziali, rinunciare alla ricerca. Questo anche nella vita delle nostre comunità e a livello individuale. Il prezzo è alto: la coscienza ne è assopita con conseguenze disastrose.

    Una minoranza angariata e umiliata

    Il nostro testo avverte il lettore di un cambiamento di governo  in Egitto che comporta un cambiamento di politica. Il re d’Egitto – probabilmente Ramses II – “che non aveva conosciuto” Giuseppe adotta una politica molto diversa dai predecessori. L’espressione “non conoscere” equivale a non voler tener conto di tutto un passato. Per il nuovo faraone la politica adottata è di tipo ultranazionalistica, il che comporta un’opera di repressione di tutti gruppi etnici stranieri ritenuti pericolosi per l’unità dell’immenso impero.

    Questo gruppo straniero minoritario inizia così ad essere visto come presenza. Si tratta di un destino comune a tutte le minoranze lungo la storia umana! La presenza di minoranze non recuperabili entro l’ambito sociale dei gruppi dominanti o entro determinati e sicuri spazi psicologici, si traduce sempre in un incubo minaccioso (1,12). L’«altro» nella sua diversità di cultura, razza, lingua, religione viene percepito come un pericolo, una minaccia per la propria sicurezza. La diversità invece di ricchezza suscita problema e la soluzione più immediata e facile è la sua eliminazione (cfr Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Giacobbe e Esaù…i due fratelli della parabola).

    Questa situazione fa sì che il gruppo degli ebrei inizi ad essere sottoposto alla prepotenza di chi ha come obiettivo il negare loro ogni loro originalità culturale e spirituale. Ci troviamo di conseguenza dinanzi ad un gruppo di minoranza umiliato (1,11), che non ha né la forza né il coraggio di reagire. Si tratta ormai di una massa lavorativa da sfruttare da parte dei potenti del momento: gli egiziani fecero lavorare i figli di Israele trattandoli duramente (1,11.13); Resero loro amara la vita costringendoli  a fabbricare mattoni di argilla e con ogni sorta di lavoro nei campi; e a tutti questi lavori li obbligarono con durezza (1,14).

    La prima azione repressiva nei confronti della minoranza ebraica è perciò di angariarla con lavori forzati al fine di “rendere loro amara la vita”. I verbi sono eloquenti: “schiacciare con pesi faticosi” (v. 11) “prendere in orrore” (v. 12) “asservire al lavoro con crudeltà” (vv. 13.14) “rendere la vita amara con lavori terribili” (v. 14). Un’osservazione: il verbo tradotto con “schiacciare” e “affliggere” (vv. 11.12) è anah, della stessa radice di anw o ani, povero da cui anawim: poveri, viene indicata un’esperienza di sventura, indigenza, afflizione, umiliazione caratteristica del povero che non ha alcuna difesa.

    Il fine di questa politica è di porre la minoranza ebrea sotto stretto controllo e nello stesso tempo sfruttarla. Il lavoro forzato e massacrante agisce come deterrente, esso debilita, toglie energie, non concede tempo per coltivare sogni e desideri, abbruttisce solamente, pone sotto la paura di più gravi oppressioni. Si vuole ad ogni costo esattamente “rendere amara la vita”. Perché? Perché è ferma volontà dell’oppressore estirpare ogni desiderio di libertà. Troppe volte, anche oggi, il lavoro si trasforma in strumento di oppressione e sfruttamento della vita dell’altro, del povero che non può rivendicare diritti, del minore incapace di autodifendersi. Allora il lavoro, da occasione per lasciar esprimere la creatività e assicurare il diritto-dovere a procurarsi ciò che è necessario alla vita, si trasforma in schiavitù, oppressione, ingiustizia “che grida vendetta al cospetto di Dio”.  Siamo in direzione opposta al significato del lavoro attribuito nei primi due capitoli della genesi, dove esso diviene occasione per esprimere la dignità di colui che partecipa all’opera divina e umana della creazione.

    Angariare col lavoro significa schiavizzare. Cosa significa essere schiavi? Significa essere privati della libertà di vivere e di essere se stessi e di decidere della propria vita. E’ sentirsi sacrificati violentemente contro la propria volontà dal più forte, sentirsi privati dei propri talenti, delle proprie forze a beneficio unico di altri che non ti vedono come persona ma come merce. E’ non poter rivendicare in alcun modo i propri diritti fondamentali. E’ perciò una non-vita perché è negata la stessa possibilità di aspirare ad un futuro, è negato il diritto fondamentale e più prezioso della vita stessa che è la libertà dono prezioso di Dio all’uomo. E’ una drammatica esperienza di morte:  maledette le città in cui sono stati schiavi i tuoi figli, maledetta colei che li ha trattenuti (Br 4,32).

    La seconda azione repressiva consiste in una violenta imposizione di  limitazione delle nascite. I figli maschi devono essere immediatamente sterminati. Questa crudele decisione assume una valenza drammatica che investe non solo la vita del nascitura ma quella dello stesso popolo. Eliminare il figlio maschio significa troncare non solo la vita del piccolo, ma anche tutta la futura discendenza. Uccidere il figlio è troncare la speranza della vita che è riposta i  lui, è per l’uomo antico il figlio rappresenta l’unica alternativa per sconfiggere la morte. Questa azione repressiva è diametralmente in contrasto con la promessa fatta ad Abramo di una numerosa discendenza. La potenza del male vuole vanificare, rendere in-credibile la promessa di Jhwh.

    Queste decisioni del faraone appaiono sagge! Ma è sempre la paura che impone le sue decisioni “sagge” (“comportiamoci saggiamente” proclama il faraone al suo popolo v. 10)  dettate dalla preoccupazione e dall’ansia per la vita. A livello politico forse “sagge” lo sono effettivamente, ma nell’ottica della storia della salvezza questa paura e la persecuzione che ne consegue segnano il rifiuto della benedizione di Dio che passa attraverso Israele. Commenta il salmo 104: “E Israele venne in Egitto, Giacobbe visse nel paese di Cam come straniero. Ma Dio rese assai fecondo il suo popolo, lo rese più forte dei suoi nemici. Mutò il loro cuore e odiarono il suo popolo, contro i suoi servi agirono con inganno” (vv. 23-25)

    Il senso del primo capitolo è chiaro: Israele sta vivendo una situazione impossibile, una esperienza progressiva di morte e di non speranza. Eppure proprio nella sofferenza e nella schiavitù si realizzerà la salvezza del popolo di Dio e, per prima cosa, nascerà l’uomo che sarà strumento nelle mani di Dio per questa salvezza.

    Ci interroghiamo: quante situazioni oggi di ingiustizia, di sopruso, di diffidenza e di rifiuto dell’altro. A livello internazionale, nazionale ma anche di quartiere e in … casa nostra.  Le dinamiche delle risposte “sagge politicamente” (ne mettiamo sempre in atto) solleticano una soluzione facile, ma è quella di Dio? In questa complessità e confronto come agire da credenti?

    E a livello personale: dove sperimento questa situazione di oppressione e umiliazione? Qual è il “faraone” che mi schiaccia e mi vuole annientare? E dove invece rischio di assumere le fattezze del “faraone” nei confronti dell’altro che avverto come una minaccia? Quali strategie utilizzo?

    Il “timor di Dio” dei semplici

    Nei primi quattordici capitoli del libro dell’esodo la figura del faraone più che ad un preciso riferimento storico di un personaggio viene a simbolizzare una sorta di ipostatizzazione di tutte le forze negative e oppressive che si schierano in opposizione al progetto di Dio. In tal modo il racconto descrive il realissimo e perenne scontro storico che sempre  pone sulla scena della storia due posizioni inconciliabili: da un lato sta la violenza autoritaria di un potere che si auto divinizza rappresentato dal faraone dall’altro la resistenza a questa pretesa assoluta da parte di coloro che credono in Dio e che la bibbia denomina “timore di Dio” (1,17.21). E’ la resistenza degli anawim, di Azaria Misaele e Anania che non si prostrano dinanzi alla statua di Nabucodonor,  dei fratelli Maccabei, di coloro che rifiutano di adorare “la Bestia” (cfr Ap)-  Qui la resistenza è rappresentata è data da due povere donne che trovano il coraggio di opporsi all’autorità del faraone e che osano disobbedirgli: Ma le levatrici temettero Dio e non fecero come aveva loro ordinato il re (1,17).

    Il popolo di Dio non nasce gloriosamente da esperienze di vittorie politiche, culturali, sociali di successo, esso viene scandalosamente partorito da Dio in una situazione di umiliazione profonda e quando esso si vede contestato il diritto fondamentale di esistere (1,15-22).

    Questo fatto posto agli inizi della storia di Israele ha un significato preciso: perché nasca un popolo di credenti, Dio utilizza le persone umanamente più insignificanti, senza peso politico diremmo in questo caso. E’ questa una dimensione essenziale all’economia della salvezza rivelata dall Scrittura: Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? (1Cor 1,19-20). I disegni della Provvidenza non si attualizzano mediante strumento forti e potenti.

    Queste due donne assumono un ruolo profetico: per via misteriosa l’opposizione nascosta che la gente povera contrappone al potere oppressivo del potere, fosse anche in quello spazio ristrettissimo ma fondamentale che è la propria coscienza, acquista sempre la funzione di una profezia per il bene di tutti, essa rivendica sempre la dignità, il valore e il diritto di ciascuno.

    Il frutto di questo coraggio motivato dal “timor di Dio”, è la benedizione di Dio stesso: “diede loro una numerosa famiglia” (1,21).  Da notare che “loro” è usato alla forma maschile e quindi non si riferisce tanto e solo alle due donne, quanto piuttosto a tutto il popolo: è tutto Israele che tramite queste due donne riceve da Dio il beneficio di una “numerosa famiglia”, ovvero il dono della speranza.

    Ma anche se derisa da questo raggiro la cattiveria del faraone non disarma, anzi!: ogni figlio maschio che nascerà agli ebrei lo getterete nel Nilo, lascerete vivere ogni figlia” (1,22). Quindi non più sole le figlie dovranno essere eliminate ma anche i neonati maschi. Questa è volontà di estirpare ormai la radice dell’esistenza di Israele: è una prima “soluzione finale”.  Il male non si arrende, percorre sempre tutte le possibili strade pur di contrastare il disegno di Dio. È una vicenda che si ripete lungo la storia (ritornerà a proposito della strage dei bambini di Betlemme “dai due anni in giù” dettata dal disperato tentativo di Erode il Grande di eliminare inutilmente il suo concorrente: il re-messia). Ancora una volta, come con Caino e Abele, la convivenza delle diversità appare  impossibile: uno dei due dovrà per forza essere eliminato perché l’altro si senta al sicuro e più forte.

    Ci interroghiamo: la coscienza delle due donne levatrici di Israele è più forte della paura. Il loro coraggio è attinto dal “timore di Dio”. Riconosco la mia debolezza nei momenti in cui la paura ha avuto il sopravvento sulla voce di Dio che risuonava nel sacrario del mio intimo.

    Ringrazio il Signore per quelle volte in cui ho saputo ascoltare quella stessa voce trovando la forza di operare scelte secondo la volontà di Dio.

    Ringrazio infine il Signore per il dono della testimonianza di tutti coloro, che soprattutto nel nascondimento e nel silenzio, senza alcun applauso da alcuno, lungo la storia hanno saputo seguire il dettame della coscienza “voce di Dio di fronte alla prepotenza e alla prevaricazione del male e della menzogna.

  • 14 Mar

    La discendenza: L’offerta del figlio della promessa

    Gn 22,1-24

    di p. Attilio Franco Fabris

    Il ciclo non ha esaurito il tema della promessa della discendenza: nel nostro testo viene ancora una volta ripreso drammaticamente.

    Dio domanda ad Abramo di sacrificare Isacco che lui stesso gli ha donato contro ogni sua speranza.

    E’ un episodio che segna una tappa fondamentale nell’itinerario di fede di Abramo.

    Infatti “Abramo dal Dio su cui si può contare, di cui si può disporre, passa gradualmente al Dio che dispone di lui, ne dispone continuamente, sempre di più, con prove sempre più sottili, difficili, intercalate da promesse, lo raffina in questa conoscenza e lo porta al Dio della promessa, al Dio al quale bisogna appoggiarsi interamente, totalmente, unicamente, al Dio che ha in mano il destino della sua vita, che lo conosce, ma di cui Abramo non riesce a vedere le realizzazioni concrete, fino al punto che la conoscenza precedentemente acquisita con tanta fatica sembra di nuovo scoppiare” (C.M. Martini).

    Che ciò che accade ad Abramo sia una prova lo sa il lettore, ma non Abramo.

    Introduzione: v. 1a

    “Dio tentò Abramo”: una tentazione, una prova serve a dimostrare il valore di una persona, allo stesso tempo le è utile, malgrado la sofferenza che procura, per il raggiungimento di un bene più grande..

    La prova di Abramo è, come ogni prova seria, un mettere l’uomo di fronte al caso limite, dove l’uomo mostra veramente ciò che è, ciò che c’è in lui. Un po’ come Giobbe: anch’egli è portato al caso limite affinché si dimostri ciò che è.

    In altri racconti Dio inizia a parlare dando subito il suo comando senza preamboli. Qui procede in modo diverso. Chiama anzitutto per nome Abramo, e lui risponde che la solita prontezza: “Eccomi!”.

    Dio prosegue: “prendi tuo figlio”. Di quale figlio parla? Abramo ne ha tre: Eliezer, Ismaele e Isacco. Dio specifica: “il tuo diletto”, quello che è pienamente tuo figlio. Specifica ancor più: “quello che tu ami: Isacco”. E’ di Isacco allora che Dio parla! Che cosa Dio domanderà?

    Cosa ci aspetteremmo noi?

    Passo passo, Dio giunge all’ordine. Come mai si procede così lentamente?

    “Va’!”: è lo stesso verbo dell’inizio della storia di Abramo (12,1). Ma dove ora? Dio specifica: “nel territorio di Moria”. La tradizione l’ha identificato con la collina di Gerusalemme dove sorgerà l’altare dei sacrifici del Tempio.

    Solo a questo punto la parola giunge inaspettata, come una pietra che sprofonda nel cuore di Abramo: “e lì offrilo in sacrificio su di un monte che io ti indicherò”.

    Ascoltiamo le risonanze di Abramo? Che fa? Che dice? Cosa faremmo noi?

    La prima volta che Abramo incontrò Dio si sentì fare la richiesta, in virtù di una promessa, di sacrificare il suo passato. Qui gli viene chiesto di sacrificare il suo futuro: e senza che vi sia una promessa! Se Dio gli avesse chiesto di sacrificare se stesso, questo comando sarebbe stato più “comprensibile” in un certo senso: il frutto della promessa infatti rimane.

    Deve offrire il figlio che rappresenta l’adempimento della fedeltà di Dio alle sue promesse.

    Abramo ha già perduto da poco Ismaele, ora deve perdere anche Isacco. La coscienza di Abramo vive un dramma senza pari. Questa richiesta è incomprensibile da ogni punto di vista.

    Da un Abramo così portato al limite della provocazione della fede non possono che sorgere tremendi interrogativi: ma chi è questo Dio che sembra contraddirsi? Questo Dio che dopo avermi portato per un certo cammino ora mi chiede il contrario? Dov’è allora la benedizione e la promessa del Signore?

    Cosa farà Abramo?

    L’esecuzione: vv. 3-10

    “Abramo si alzò di mattino per tempo”: non tarda, non indugia a mettersi in viaggio. Abramo si comporta esattamente come fece quando mandò via il figlio Ismaele con Agar (20,8).

    E’ da notare l’assenza di Sara in tutto il racconto: come mai?

    Il viaggio dura tre giorni: si vorrebbe non terminasse mai… Ma “al terzo giorno” Abramo e Isacco giungono al monte. Tre giorni come Israele nel deserto per giungere al Sinai (Es 3,18; 19,11.16).

    “Abramo, alzando gli occhi, vide da lontano il luogo”: al che lascia indietro i servi e con Isacco sale.

    Le parole di Abramo sono ambigue: “Io e il ragazzo andremo fin là, faremo adorazione e poi ritorneremo a voi”. Sorprende quel “ritorneremo”. Abramo ha forse deciso di non sacrificare Isacco? Vuole nascondere ai servi quel che accadrà? E’ certezza che Dio non potrà contraddire alle sue promesse? Oppure è un po’ tutto questo che si avvicenda nella sua coscienza?

    I due iniziano a salire: Abramo ha il fuoco, la legna è caricata sulle spalle di Isacco. Il testo lascia intuire un pesante silenzio. Un silenzio che è rotto dalla domanda di Isacco: “padre mio”. E Abramo: “Eccomi, figlio mio”; c’è tanto affetto in questa espressione: “Ecco qui il fuoco e la legna: ma dov’è l’agnello?”. Risponde Abramo con la morte nel cuore: “Dio si provvederà l’agnello”. Quest’ultima espressione è oscura, sarà sembrata evasiva per Isacco: non inizia forse a sospettare qualcosa? Ma non insiste.

    Giunti alla cima: Abramo compie tutte le azioni preparatorie al sacrificio: non una sola parola viene detta tra i due.

    La sospensione: vv. 11-14

    All’ultimo istante Jhwh, il Dio vicino e delle promesse, interviene: “Non stendere la mano! Ora so che rispetti Dio e non mi hai risparmiato il tuo figlio, il tuo unigenito”.

    Abramo non ha sacrificato il suo figlio, ma lo ha effettivamente e veramente offerto a Dio. Il Signore ha conosciuto la sua obbedienza.

    “Ora so che tu temi Dio”: sappiamo perciò ora che ciò che è avvenuto era una prova, una prova che ha toccato Abramo nel profondo, nel suo rapporto con Dio, nel suo rapporto di obbedienza e di fede. La prova è stata sul timore di Dio, su come Abramo accoglie il Dio della promessa dalla quale ormai dipende tutta la sua vita.

    Infine come Agar e Ismaele sfuggono la morte quando l’angelo indica la sorgente vicina, così ora Abramo vede l’ariete impigliato a loro vicino pronto al sacrificio. Abramo potrà chiamare a ragione quel luogo: “Il Signore provvede”.

    La promessa: vv. 15-18

    L’angelo di Dio riprende tutte le promesse e dice: “Giuro per me stesso”.

    E’ molto di più che promettere. Dio qui si impegna con giuramento (cfr Gn 24,7; 26,3; 50, 24; Es 13,5.11; Dt 1,8.35).

    Abramo ha ricevuto nuovamente in dono Isacco: la promessa è gratuita. La grande sorpresa per Abramo è che Dio non vuole nulla in cambio della promessa: gli basta la fiducia accordatagli. “in compenso del fatto che tu hai ubbidito alla mia voce”.

    La tradizione biblica darà diverse angolature di letture all’episodio pur sempre esaltando la fede incondizionata alla parola di Abramo: Ebr 11,17-19; Ebr 6,15; Gc 2,21;  Sap 10,5.

    Il gesto di Abramo rimane talmente esemplare che nel nuovo testamento, i testi, parlando del sacrificio di Cristo sulla croce non potranno che rifarsi al sacrificio di Isacco.

    Conclusione: v. 19

    Il nostro racconto è imperniato sul tema della promessa della discendenza. Di Abramo si vuole sottolineare la piena fiducia accordata alla parola contro ogni ragionamento e calcolo umano. Un uomo pronto a sacrificare, a giocarsi, non solo il passato ma anche il suo futuro sulla parola.

    Abramo ha superato la prova. Ha conosciuto ancor più profondamente Jhwh, il Dio della promessa. E’ chiamato ancor più a riconoscerne la gratuità, e la gratuità di colui che le fa.

    Vi sono anche per noi prove che come frecce infuocate del nemico che tendono a colpire quella che è la nostra stessa identità di fede e che arrivano all’intimo di noi. Sono prove che fanno percepire in modo drammatico lo scarto tra promessa divina e realtà.

    La prova come tale, proprio perché prova, ha qualcosa di imprevedibile, incomprensibile, assurdo. Prova suprema è l’esperienza della morte: essa è tutto il contrario della promessa della vita di Dio.

    La morte mostra degradazione, decadenza, tutto il contrario di ciò che Dio ci ha promesso.

    Ma perché la prova è necessaria? Forse proprio perché Dio è Dio. Nel cammino della fede si suppone il superamento di una idea originaria di Dio per lo più sbagliata, almeno in parte, e quindi da correggere e per conseguenza questo comporta delle crisi successive della nostra idea di Dio e della nostra identità di fronte a lui. Dio è il Dio della promessa, della salvezza, della parola; noi invece vogliamo istintivamente un Dio della sicurezza, dai fondamenti chiari ed evidenti, di cui sappiamo tutto, di cui possiamo prevedere e programmare tutto a nostra misura. Lo scontro tra queste due cose è la prova: cioè capire che Dio è diverso da come l’avevo capito.

    Dove sta il kerygma nella prova? Di che tipo è: consolatorio? Appello alla volontà? All’eroismo?…

    Il vangelo più fondamentale è : la prova è prova di Dio nelle cui mani io sto. Anche nel colmo dell’oscurità di Dio so con certezza che la promessa di Dio non mi ha abbandonato: sono nella prova ma Dio mi ha nelle sue mani. Mi abbandono con fiducia all’obbedienza alla Parola.

    Un brano straordinario di commento potrebbe essere Rm. 8,35-39.[1]

    Appendice: La nascita di Rebecca: 22,20-24

    Nacor fratello minore di Abramo è felicemente sposato e il testo avvisa con ben dodici figli, otto dalla moglie Milca e quattro dalla concubina Reuma. Questi dodici figli sono i capostipiti della dodici tribù aramaiche.

    Abramo ha un solo figlio: Nacor dodici: non è forse lui manifestamente padre di una moltitudine? Il granello di senape che Abramo ha tra le mani rischia di scandalizzarlo e di spegnere  la fiducia. Ma dopo la prova dell’Oreb Abramo non vacillerà più.

    Ora uno dei figli: Betuel, generò Rebecca che andrà sposa ad Isacco.

    Così la discendenza di Abramo potrà realmente iniziare a moltiplicarsi.


    [1] Romani 8:35-39 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.

  • 13 Mar

    Alla scuola dei ladroni

    Lettura di Luca 23,39-43

    I due personaggi certo possono essere intesi, come normalmente avviene, quali figure contrapposte, negativa e positiva. Ma possono essere ripensate anche come «un’unica figura complessa che consente di costruire un cammino di fede completo, attraverso due diverse reazioni all’incontro con il Cristo crocifisso: prima imprecando nella ribellione, ma infine invocandolo nella conversione». A noi lettori viene così offerta la possibilità di un realistico cammino di fede che conduce fino alla sorprendente risposta di Gesù, che dona subito la salvezza.

    Ci mettiamo «Alla scuola del “ladrone” penitente»(1), alla scuola cioè di un «personaggio di prima grandezza e figura chiave del terzo vangelo… Forse la figura più singolare di tutta l’opera lucana»(2), qualcuno cui una sola parola bastò per ottenere la salvezza senza fatica (così osservavano, con ammirata e santa invidia, i Padri del Deserto per i quali invece la fatica quotidiana dell’ottemperare radicalmente e puntigliosamente nell’obbedienza a Dio era all’ordine del giorno per tutta la loro esistenza, all’insegna dell’opus deificum.

    Facciamocene aiutare, in ordine a recuperare quello sguardo al Messia Crocifisso, che, incontrando i due ladroni (Lc 23,39-43), tocca il culmine degli intensi e frequenti incontri salvifici di Gesù nel vangelo di Luca:

    32Con lui venivano condotti anche altri due malfattori, per essere giustiziati. [23.33] Quando giunsero al luogo detto Cranio, là crocifissero lui e i due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. 34 Gesù diceva: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno!» E dopo esser si poi divise le sue vesti, le tirarono a sorte (Sl 22,19). 35II popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: «Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto!». 36Anche i soldati lo prendevano in giro, e gli si accostavano per porgergli dell’aceto, e dicevano: 37 «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso!» 38 C’era anche una scritta, sopra il suo capo: «Costui è il re dei Giudei».

    39Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!». 40 Ma l’altro, prendendo la parola, lo rimproverava: «Neanche tu temi Dio per il fatto di condividere la stessa pena? 41 Noi giustamente, poiché riceviamo conseguenze di quanto abbiamo commesso, costui invece non ha commesso nulla di male». 42E diceva: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno!» 43 Gli rispose: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso».

    Un’unica figura complessa

    Possiamo interpretare il dialogo tra Gesù e i due ladroni, appesi alla croce, come una straordinaria espressione di poetica teologica lucana, come ripresa geniale di due personaggi originariamente univoci, identici, di segno negativo (i due malfattori concrocifissi con Gesù, che Marco ci presenta accomunati nella blasfemìa contro di lui: 15,32), successivamente differenziati da Luca, che li configura diversamente, distinguendone uno ‘negativo’ e sarcastico (il primo ladrone), da uno positivo e confessore della messianità di Gesù (il «buon ladrone»). Due personaggi chiaramente antitetici, appositamente contrapposti, ma ripensabili nei termini di un’unica figura complessa, che consente di costruire un cammino di fede completo, attraverso due diverse reazioni all’incontro con il Cristo crocifisso: prima imprecando nella ribellione, ma infine invocandolo nella conversione, regalando così a noi lettori la possibilità di un cammino sofferto ma resipiscente che guida fino alla sorprendente risposta di Gesù.

    Questa chiave di lettura non è certo una novità (Filone di Alessandria, anche come esegeta oggi meritato oggetto di rinnovata attenzione, ce ne offre numerosi esempi, più o meno felici). Tuttavia essa non nasce tanto da una generica nostalgia per la tradizionale allegoresi (che, assieme a intollerabili esagerazioni, conosce pure usi pertinenti), né intende ricalcarne pedissequamente le orme. Trae spunto, invece, più direttamente – così par poter pensare – dalla stessa poetica lucana, una poetica di mitezza, all’insegna della mansuetudo Christi, che non solo privilegia la potenza del perdono, ma che ama presentare l’evento salvifico di Gesù come incontro paziente, attentamente e progressivamente mediato rispetto a un’accoglienza mai attuabile al primo colpo, destinata a fronteggiare anche molto accanite resistenze. Tra i quattro vangeli canonici, dove a pie’ sospinto spiccano indimenticabili numerosi incontri di Gesù con i suoi contemporanei, quello di Luca senza dubbio eccelle nel farcene assaporare la nutrita frequenza e straordinaria portata (con un debole tutto speciale per gli incontri di mensa). Proiettato lungo la sua «via», la sua salita a Gerusalemme – che in realtà è una ascesa al Padre – il Gesù di Luca infila incontri l’uno dietro l’altro, come una serie di momenti di grazia salvifica pienamente operativa, che proprio sulla croce dispiega tutta la propria straordinaria potenza, quando Gesù pronuncia quella parola in tutta la sua missione mai riservata ad alcuno: «in verità ti dico: oggi tu sarai con me nel paradiso!» (23,43).

    In particolare, Luca volentieri caratterizza questi incontri di Gesù con i propri contemporanei, piuttosto che in termini strettamente individuali, giocando invece sull’accostamento, più o meno simultaneo, di due personaggi distinti ma in realtà profondamente collegati, cioè sul raffronto parallelo tra due figure di volta in volta antagonistiche, ovvero piuttosto complementari (ancorché non esattamente alla pari): pensiamo, per intenderci, ai chiari paralleli tra Giovanni Battista e Gesù, Elisabetta e Maria, Maria di Betania e sua sorella Marta, i due figli del Padre, da entrambi – così diversi eppure più somiglianti tra loro di quanto non paia – puntualmente temuto e incompreso. E ancora non scordiamoci del pubblicano e del fariseo al tempio, del cieco di Gerico e di Zaccheo e, negli Atti degli apostoli, di Pietro e Giovanni, Pietro e Paolo, tanto per citare i più famosi. Si tratta di accostamenti vivaci, con esiti diversi, talvolta addirittura lasciati aperti, in sospeso per uno dei due personaggi (per cui il lettore si chiede legittimamente come avranno reagito infine, per esempio, Marta, o il figlio più vecchio, risentito verso il padre che festeggia il ritorno del minore, quello prodigo. E anche nel nostro caso: che reazione avrà avuto il primo ladrone dopo avere ascoltato i suoi due compagni di pena?).

    In termini di retorica classica, da parte dei suoi lettori più esperti, Luca è riconosciuto adottare qui l’espediente letterario (ben noto agli autori antichi) cosiddetto della synkrisis, cioè di un confronto sinottico tra due figure in qualche modo esemplari, su cui si può costruire addirittura un intero libro (un’opera gigantesca come le Vite parallele di Plutarco, ovvero come quel libro biblico, scritto direttamente in greco, della Sapienza di Salomone, con il diffuso raffronto iniziale tra il destino del giusto e dell’empio – capp. 1-5 -, nonché con quello tra Israele salvato e l’Egitto piagato dal Signore, ai capp. 10-19). Con un linguaggio più moderno parleremo di un gioco di doppio (ma lasciamo stare, per non complicarci la vita).

    Su questa linea di interpretazione, che valorizza il contributo attivo del lettore, oltre alla consuetudine lucana, ci porta anche il confronto di Luca con il testo di Marco, che anche per il racconto della passione gli fornisce il canovaccio narrativo di base, da raffrontare con altre tradizioni e da cui far emergere un ulteriore sviluppo drammatico. Per quanto riguarda il nostro episodio e personaggio, solo un brevissimo cenno circa i compagni di pena di Gesù ci offre il più antico testo di Marco. Urtante e spigoloso anche qui come suo solito, il più antico vangelo, proponendosi in termini di verosimile resoconto, con accenti trattabili come cronachistici, ci riferisce appunto che i due ladroni, concrocifissi con lui, in realtà non si distinguono affatto fra loro, proponendo ciascuno un atteggiamento diverso nei confronti di Gesù, ma lo insultano entrambi (Mc 15,31), unendosi così a modo loro al più generale coro sarcastico e blasfemo di passanti, sacerdoti e scribi, che monta dai piedi della croce:

    «Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse quello che ciascuno dovesse prendere. 25 Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. 26 E l’iscrizione con il motivo della condanna diceva: II re dei Giudei. 27 Con lui crocifissero anche due ladroni, uno alla sua destra e uno alla sinistra. ..29 I passanti lo insultavano e, scuotendo il capo, esclamavano: “Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, 30 salva te stesso scendendo dalla croce ! “. 31 Ugualmente anche i sommi sacerdoti con gli scribi, facendosi beffe di lui, dicevano: “Ha salvato altri, non può salvare se stesso! 32 II Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!”. E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano».

    Rispetto a questo particolare che fa piombare Gesù in un’atmosfera di truce disprezzo, Luca invece, da artista appassionato della mediazione della trascendenza nella storia, trae spunto geniale per cavarne un grande, magnifico incontro, senza pretendere di restituirci un resoconto, quanto piuttosto – da ciò che possiamo ragionevolmente intendere – illustrando drammaticamente, con ispirata creatività narrativa (qualcuno parlerebbe opportunamente di «immaginazione pasquale»), il processo di conversione, il cammino penitente che la croce di Gesù è capace di generare.

    Rielaborando liberamente questo più antico e marginale particolare della storia della passione in forza della sua attenzione speciale agli incontri di Gesù, Luca introduce un magnifico dialogo triangolare, senza paralleli con gli altri vangeli, «uno dei passi più importanti dell’intera opera lucana» che narrativamente e drammaticamente ci restituisce tutto lo spessore della verità dell’evento salvifico nella sua forza d’impatto sulla coscienza del peccatore.

    In un ascolto attendibile del testo lucano, e in sintonia con l’attuale clima ecclesiale – propizio per una lettura credente e perciò stesso intelligente dei testi, per quanto concerne il Magistero, nonché una larga quota degli studiosi, e dello stesso popolo di Dio -, diciamolo in santa pace (senza patemi apologetici, come pure senza alcun pregiudizio contro la sostanziale storicità dei vangeli): in quel dialogo tra crocifissi non cerchiamo qualche verità di cronaca. Come ragionevolmente par potersi pensare, non è quella che Luca ci restituisce. Un dialogo siffatto tra crocefissi, come possiamo facilmente presumere, sarebbe piuttosto improbabile di per sé, ma anche impossibile da registrare. A quel tempo non c’erano infatti ancora quei cronisti disinvoltamente petulanti, a caccia del dolore in diretta, pronti, come oggi spesso purtroppo avviene, a importunare gli agonizzanti di turno, issando fino alla loro scomoda postazione qualche microfono (una «giraffa», o qualche «pulce»), per carpire le parole che i tre si sarebbero scambiate nei loro ultimi momenti letali, poco favorevoli per qualsiasi ragionato confronto di idee. Sarà ben più sensato pensare a un ardito e geniale guizzo della penna lucana che, alla luce della fede pasquale che svela la potenza del Crocifisso, inventa un dialogo  tra i tre, mettendo in scena non una cronaca, bensì piuttosto una sua drammatizzazione della ben più decisiva verità salvifica di quell’evento di grazia, per darcene un’idea adeguata. E lo fa ripensandone l’impatto diretto, ma graduale, sulla coscienza peccatrice, propensa dapprima al sarcasmo incredulo e blasfemo contro un pretendente messia finito come e con i peggior delinquenti (Le 23,39); ma – in un secondo momento – capace di ricredersi a fronte del mistero del dolore innocente, in nome del timor di Dio, vindice di ogni empietà e retributore di ogni giustizia, e del regno inaugurato da Gesù, memoria vivente della sua misericordia (23,40-42).

    Insomma – per farla breve in rapporto a problemi la cui trattazione sarebbe qui troppo lunga e comunque fuori luogo – abbiamo buone ragioni per trattare i due ladroni distinguendoli (ovviamente), ma non separandoli (il che è meno ovvio). Trattandoli cioè proprio come se, alla fine, fossero un solo personaggio da ricostruire; e quindi per ascoltare le loro voci contrastanti – seguite infine dalla parola conclusiva di Gesù – come le tappe di un intreccio, che vede il cammino del peccatore passare dal sarcasmo incredulo iniziale all’invocazione di fede cristologica, per sfociare in un esaudimento il più sorprendente che si possa immaginare, oltre ogni aspettativa possibile, garantito dalla promessa finale di Gesù (23,43).

    Se si vuole, considerando le prime due tappe (23,39.40-41) come il monologo interiore di un’anima in dibattito con se stessa, impegnata a confutare il suo stesso proprio smarrimento – di quelli in stile antirretico, che tanto piacevano ad Evagrio Pontico -, che in premio al proprio travaglio riceve infine l’insperabile l’illuminazione salvifica promanante dal Messia Crocifisso (23,41).

    La coscienza del peccatore incallito

    Per la bocca del primo ladrone parla evidentemente la coscienza del peccatore incallito e perfino esasperatocoscienza tanto degradata e ferita, è senz’altro ribelle e impenitente; per ricomporsi, molto dovrà faticare, accettando appunto la voce successiva del «buon ladrone», che, in nome del timore di Dio, contrasterà vivacemente il sarcasmo impenitente zittendolo, e soprattutto risanandolo con l’invocazione subentrante alla blasfemìa, intuendo la potenza salvifica legata alla persona di Gesù, capace appunto di attrarre efficacemente il peccatore a conversione («ricordati di me, Gesù …!»). (socialmente parlando, altresì un delinquente, giudicato reo della più efferata e crudele pena capitale).

    In ogni caso, la situazione iniziale è chiara: alla radice, la coscienza del peccatore e del reo è per sua stessa definizione quella di un ribelle e impenitente. Costui non sa e soprattutto non vuol saperne nulla del proprio peccato, e tantomeno della grazia che può riscattarlo rispetto a cui lo separano anni luce.

    Il primo dei due occasionalmente accompagnati a Gesù lungo la via dolorosa fino all’estremo esito sul Calvario («venivano condotti insieme con lui anche due malfattori per essere giustiziati»; 22,32 – un particolare specifico, questo, della redazione lucana), a partire dalla sua disperata oscurità, non può/non vuole vedere alcuna salvezza in quell’inatteso compagno di patibolo. Non vede la vera differenza tra sé e lui.

    La sua disperazione cinica, senza timor di Dio, cancella la differenza capitale (salvifica) tra il proprio dolore colpevole e quello dell’innocente, tra il dolore schiavo e quello regale, messianico. Per il ladrone impenitente, Gesù è di fatto come lui, ridotto alla sua stessa stregua. Anzi, in quanto innocente, ma condannato come lui, Gesù vale molto meno di lui. Se il profeta e il bandito hanno la stessa sorte, subendo la stessa estrema pena legale («stessa fine per tutti!» – direbbe Qohelet), allora la sua brutta fine dimostra che evidentemente non c’è differenza tra chi serve Dio e chi non lo serve, non c’è alcun vantaggio a servire Dio (Mal 1-3).

    Varrà la pena ricordare che, uno come il primo ladrone, peccatore e delinquente, è per definizione un professionista, uno specialista di autosalvezza e di complicità, un buon esperto di potere arbitrario. Deve infatti vedersela contro un’intera società, un sistema da cui sarà braccato e perseguito in ragion delle sue malefatte. Sicché, alla fine, è uno che può contar solo su se stesso. Al massimo sui propri complici. Su questa base valuta Gesù: se veramente fosse il re dei giudei, dovrebbe disporre di una onnipotenza autoimmunitaria, con cui preservarsi, difendersi, una potenza capace di concedere salvezza a proprio piacimento e arbitrio. Godrebbe in sommo grado del potere di autosalvezza, molto più dotata e meno rischiosa di quella praticata da un qualunque ladrone. Una potenza che comunque, dispiegata all’ultimo momento con tanto di effetto teatrale, rispetterebbe le leggi più elementari della solidarietà nella disgrazia, della complicità, schierandosi con i compagni di pena, e con le vittime del supplizio capitale, piuttosto che a oltranza, secondo un’insana generosità, con i propri carnefici! Ne capiamo senza troppa fatica il pensiero: invece di perdonar loro, salva te e noi ora qui con te! Gesù gli appare debole come Messia, e scarsamente solidale come compagno di sventura. Simultaneamente segnato dalla massima impotenza, e da nessuna complicità. Piuttosto che invocar perdono sui suoi nemici, Gesù dovrebbe preoccuparsi della salvezza propria e perfino di quanti sono nella sua stessa condizione. Chiedendogli di produrre un miracolismo complice, di parte, il ladrone impenitente rinfaccia una potenza e una solidarietà deficitarie.

    Ma in realtà, propriamente, non chiede nulla, dal momento che, piuttosto che come una vera supplica, la sua suona infatti come una provocazione sarcastica e blasfema, un insulto prolungato, reiterato (Le 23,39). Ai suoi occhi la singolarità messianica di Gesù rispetto alla comune sorte dei malfattori è solo illusoria e simulata. Su di lui il ladrone la pensa proprio come i loro carnefici. Il mistero della regalità del crocifisso, la signoria del dolore innocente, il giusto sofferente, il Messia rifiutato dal proprio popolo, che tuttavia intercede e invoca perdono proprio per i suoi, rivelatisi nemici, per lui è una totale assurdità, sterile per sé e per gli altri come lui. Questa è la grande tentazione del peccatore indurito di fronte al Crocifisso. Del resto è proprio così: del mistero della croce non si vuole sapere, resta oscuro e temibile, si ha paura a fare domande come i discepoli in via con Gesù (Le 9,43-45).

    Non a caso il Servo del Signore fa distogliere lo sguardo, suscita assoluta repulsione, che è una non volontà di confronto, ovvero incapacità di lasciarsi interrogare:

    Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi,

    non splendore per provare in lui diletto.

    Disprezzato e reietto dagli uomini,

    uomo dei dolori, che ben conosce il patire,

    come uno davanti al quale ci si copre la faccia,

    era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima (Is 53,2-3).

    Sguardo di fede

    Arriva però – quantomeno può davvero arrivare – un momento in cui lo sguardo al crocifisso si trasforma, rivolgendosigli in modo diverso (cfr. Gv 19,37), proprio come accade ai contemporanei del Servo del Signore, che prima lo disprezzano, ma poi si ricredono completamente su di lui, trasformando il loro occhio disgustato in uno sguardo di fede:

    Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,

    si è addossato i nostri dolori,

    e noi lo giudicavamo castigato,

    percosso da Dio e umiliato!

    Egli è stato trafitto per i nostri delitti,

    schiacciato per le nostre iniquità.

    Il castigo che ci da salvezza si è abbattuto su di lui;

    per le sue piaghe noi siamo stati guariti (Is 53,4-5).

    Questa trasformazione di sguardo, finalmente capace di percepire la singolare differenza del messia sofferente, è evidentemente la stessa grazia di cui gode il Buon Ladrone rispetto al suo compare.

    Nonostante le apparenze contrarie, per lui c’è enorme differenza tra loro due e Gesù, che pure pende dallo stesso patibolo. Così la voce dei due Ladroni, feccia dell’umanità, se inizialmente fa lugubre eco alle dichiarazioni di passanti, sacerdoti e scribi, successivamente riecheggia Pilato (23,4.14.16) ed Erode (23,15), riconoscendo l’innocenza di Gesù, che «non ha fatto nulla fuori luogo». In merito il Buon Ladrone dimostra di possedere una sua sana teologia del timor di Dio, in base alla quale innocenza e colpevolezza, nonostante le terribili confusioni degli uomini e dei loro tribunali, fanno la differenza, per cui comunque una retribuzione diversa pende sul capo di chi fa il bene o il male. Timor di Dio altro non è che il rispetto delle autentiche differenze, in primo luogo tra uomo e Dio, ma includendo anche il rispetto per il prossimo, tutto quello appunto di cui non dispongono i carnefici (e neanche il compagno di pena).

    Il Buon Ladrone nutre poi evidentemente fede in un oltre-questa-vita, facendo conto in una condizione futura definitiva in cui la confusione apparente tra buoni e cattivi sarà superata da parte del giudizio divino. In questo condividerebbe la lucida considerazione della Lettera agli Ebrei, che fissa lucidamente le condizioni fondamentali minimali della fede: credere non solo che Dio c’è, ma anche che retribuisce tutti gli uomini, secondo le loro opere (Eb 11,6).

    L’impotenza di Gesù

    A salvare il Buon Ladrone non è però solo il sempre sano e basilare timor di Dio, ma la sua ben più profonda intuizione, per cui l’impotenza di Gesù a salvarsi con le proprie mani, e a sottrarre i compagni di sventura dalla stessa croce, non soltanto non contraddice alla sua messianità, ma ne dispiega invero la forma più propria. L’innocenza di quel giusto, pretendente messianico e comunque immeritatamente sofferente, rientra nella sua stessa regalità, la cui potenza va oltre la morte, perché capace di invocare perdono per i carnefici. Gesù dispone di un regno, quello promesso agli apostoli durante l’ultima cena (22,28-30), cioè di una signoria e libertà che, nel segno del servizio (22,24-27), cominciano a manifestarsi appieno dallo stesso patibolo, da Gesù trasformato in trono di filiale misericordia: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno!» (23,34).

    Nel Gesù ingiustamente assimilato a loro malfattori, e nonostante tutto magnanimo coi suoi nemici, il Buon Ladrone riconosce quel Messia rifiutato sofferente che potrà forse ricordarsi anche di un delinquente, quando, proprio con questa sua morte vergognosa, si insedierà nella pienezza della sua condizione regale (cfr. At3,21). Per lui Gesù appeso al legno è il re messia che sta per entrare (o venire) nel suo regno (il che corrisponde a entrare nella gloria: 24,26). Colui che non ha fatto nulla di male, di fuori-posto, paradossalmente, sulla croce sta perfettamente al suo posto, anzi lo sarà ancora meglio quando verrà nel suo regno.

    Già dalla croce il Ladrone penitente confida anticipatamente nel destino di gloria di Gesù, capisce fin d’ora in tempo reale quel che i discepoli di Emmaus, sciocchi e tardi di cuore verso la parola dei profeti (24,25), nemmeno lontanamente riescono a presentire in tutte le loro discussioni lungo la via, finché Gesù risorto, non senza un certo qual dispendio di tempo, non ne abbia riscaldato il cuore e guarito gli occhi. La sua intuizione illetterata sa andare dritta al nucleo incandescente delle Scritture, intuendo la logica (il famoso e ripetuto dei: 9,22; 17.25; 24,5-8.26.44) intrinseca alla sequenza sofferenza/gloria, morte/risurrezione (logica che soggiace ai molti incontri di Gesù nel vangelo: cfr. 2,49; 4,43; 15,32; 19,5).  Per il Ladrone ormai «la sofferenza e morte di Gesù fa parte della definizione stessa del Messia» (G. Rosse). A questo punto il Ladrone è confessore e annunciatore, prima di essere discepolo 4.

    La croce di Gesù è luogo di scambio e di proporzionamento salvifico tra la sofferenza per una pena meritata (in quel supplizio tanto atroce comunque eccessiva) in ragion di effettive colpe commesse, e quella cristologica, essa sì totalmente in eccesso, esuberante di speciale scandalo in ragione dell’innocenza e della messianità, e, proprio come tale, salvifica. In Gesù, giusto sofferente e messia crocifisso, si apre una via per chiunque soffre crudelmente: per quanti soffrono «a ragione» (nonostante l’esasperazione), come pure per chi come Gesù stesso, pur non avendo fatto nulla di «fuori luogo» (atopon), patisce tutto l’assurdo della volontà di male.

    La supplica di salvezza

    Contro il sarcasmo ribelle e incredulo della coscienza impenitente, la parte sana della coscienza, toccata dalla conversione, fa partire un’energica confutazione, che apre la strada a una vera e propria supplica di salvezza.

    A ben vedere, la parola del Ladrone penitente è scandita conformemente al linguaggio e allo stile che sarà più tardi dei Padri del deserto: un’energica contestazione (antirretico) contro la precedente parola, stolta e blasfema, senza timor di Dio, seguita da un’intensa invocazione del nome salvifico di Gesù, riconosciuto Signore in procinto di instaurare un proprio regno.

    La prima fornisce il presupposto, la piattaforma di partenza. Ma solo la seconda offre la vera chiave di volta di questo incontro straordinario. Questa è appunto l’invocazione, diretta e confidente del nome di Gesù quale primitiva esperienza salvifica, quell’unico nome dato agli uomini sotto il ciclo attraverso cui avere salvezza (At4,l2), il nome dell’obbediente capace infine di ricevere universale obbedienza, di far piegare ogni ginocchio e sciogliere ogni lingua a gloria di Dio Padre (Fz/2,5-11). Una sola invocazione, ma insistente, ribattuta come un chiodo che deve conficcarsi in profondo: una preghiera ripetuta cento volte come quelle stessa di Gesù («e diceva: …»: 23,34.42).

    «Ricordati di me!» è formula biblica ben nota, che richiama l’accorata supplica di Ezechia: Ricordati Signore, che ho camminato davanti a Te…! (Ez 38,3; 2 Re 20,3), e quella dei salmisti: Signore, non ricordarti dei peccati della mia giovinezza! Ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà! (Sal 25,7). Ma qui l’invocazione suona con accenti ancor più poveri. Nel regno imminente di Gesù c’è spazio per essere ricordati, perdonati. A differenza del suo compare, il Buon Ladrone ha evidentemente apprezzato il perdono invocato da Gesù sui suoi nemici e carnefici, che «non sanno (nel senso di: non vogliono sapere) quello che fanno». Potrà aver ragionato più o meno così: «Se quest’innocente invoca perdono per quanti sono colpevoli contro di lui, allora potrà farlo anche per me, una volta investito di tutta la sua potenza regale! Sì, Gesù: se tu invochi il Padre per i tuoi nemici, allora, posso invocarti anch’io, malfattore concrocifisso con te! Proprio perché perdoni loro, allora puoi salvare anche noi!».

    La lapidaria risposta di Gesù regala una garanzia di forza inaudita. Introducendola con il suo abituale Amen, in verità, io dico a te:…, egli impegna per il proprio interlocutore tutta la fides/fidelitas filiale di cui è dotato: non a caso due parole rivolte al Padre incorniciano quelle rivolte al Ladrone, sicché tra il «Padre, perdona loro» e il «Padre, mi affido a te»: 23,34.46, si incunea la promessa: tu, oggi, con me in paradiso!

    Il Buon Ladrone non sarà semplicemente «ricordato», ma addirittura subito sarà con Gesù (cfr. 22,28-30) nel luogo escatologico che, come già il giardino edenico, Dio prepara per i suoi santi, per i giusti. Notare l’escatologia quanto mai relazionale e personalizzata: «con me, cioè in paradiso». Conviene qui un senso epesegetico, per cui il paradiso coincide con Cristo in persona; ed essere in paradiso altro non sarà che essere con Cristo morto e risorto (come ripeterà Paolo). Un’escatologia a modo suo più che urgente: «oggi» – quell’oggi assai caro a Luca, che qui spicca in termini straordinari per l’anticipazione mozzafiato dell’escatologia.

    I Padri del Deserto guardavano al Buon Ladrone come a una figura assolutamente autorevole, tra i migliori modelli di fede che salva. Le loro testimonianze meritano attenzione: II Ladrone penitente «pendeva dalla croce e fu giustificato da una sola parola»5. «La tua supplica sia assolutamente semplice, poiché con una sola parola il pubblicano e il figliuol prodigo si riconciliarono con Dio. […] Una sola parola del pubblicano placò Dio, e una sola parola piena di fede salvò il ladrone»6 .

    «Un anziano disse: “Spesso l’umiltà ha salvato molti senza fatica. Lo attestano il pubblicano (Lc 18,9-14) e il figliuol prodigo (Lc 15,11-32), che dissero soltanto poche parole, e furono salvati“»7 .

    «Un tale disse al Padre Giovanni il Persiano: “Abbiamo tanto penato per il regno dei cicli. Lo erediteremo infine?” E l’anziano rispose: “Confido di ereditare la Gerusalemme dell’alto (Gai 4,26), iscritta nei cicli (Eb 12,23). Colui che ha promesso è fedele (Eb 10,23), perché dovrei dubitare? Sono stato ospitale come Abramo, paziente come Giobbe, umile come Davide, mite come Mosè, santo come Aronne, eremita come Giovanni, contrito come Geremia, dottore come Paolo, fedele come Pietro, saggio come Salomone. E credo, come il Ladrone, che Colui che per sua bontà mi ha donato tutto ciò, mi darà anche il regno dei cieli»8.

    L’istanza della gratuità è fatta prevalere sulla fatica delle opere, pure così importante per gli asceti, anzi per chiunque prenda sul serio la vita cristiana. In effetti, dalla fatica delle opere non si potrà essere esentati, e anche questa è l’altra faccia della grazia: Ai peccatori che si pentono, come alla Peccatrice, al Ladrone, al Pubblicano, il Signore perdona tutto il debito. Ma ai giusti chiede anche gli interessi. Ecco cosa significa ciò che disse agli apostoli: “Se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli scribi, non entrerete nel regno dei cicli” (Mt 5,20)»9.

    Gesù crocifisso occupa il nostro posto di peccatori, muore pro nobis, cioè a nostro favore, a causa nostra, e al nostro posto. Non però per sostituirci. Ma perché in lui e con lui crocifisso e risorto, ritroviamo il nostro vero posto di figli, eredi della gloria.

    Note

    1 Così intitola uno schematico ma penetrante libretto postumo di P. Ledrus, Sj, ed. ADP, Roma 1982. Le citazioni dei Padri del Deserto sono tratte rispettivamente da L. Mortari (a cura di), Vita e detti dei Padri del Deserto/1 e 12, Città Nuova, Roma 1971, e da L. Cremaseli (a cura di), Detti inediti dei Padri del Deserto, Qiqayon, Bose 1986. Sul Buon Ladrone di Luca inoltre vedi P. Tremolada, «E fu annoverato fra gli iniqui». Prospettive di lettura della passione secondo Luca alla luce di Le 22,37 (Is 53,12d), (An Bi 137), Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1997.

    2 P. Tremolada, «E fu annoverato fra gli iniqui», cit., p. 213, n. 125.

    3 P. Tremolada, «E fu annoverato tra gli iniqui», cit., p. 212.

    4 P. Ledrus, Alla scuola del ‘ladrone’ penitente, cit., p. 34.

    3 Xantia in L. Mortari, Vita e detti dei Padri del deserto, voi. II, cit., p. 70.

    6 Giovanni Climaco, Scala del Paradiso, XXVIII, pp. 188-189.

    7 Detti inediti dei Padri del Deserto, cit., n. 552, p. 219.

    8 Giovanni il Persiano, n. 4, p. 286.

    9 Epifanie di Cipro, n. 15, p. 187.

  • 13 Mar

    La benedizione e la terra

    Gn 21,22-34

    di p. Attilio Franco Fabris

    L’incontro tra Abramo e Abimelech: vv.22-24

    Le autorità di quel territorio: Abimelech e Picol capo dell’esercito incontrano Abramo il patriarca.

    Il re inizia il suo discorso dicendo: “Dio è con te in tutto quello che fai”. La presenza del Signore si manifesta nel successo di tutti i suoi atti.

    Il re di una nazione riconosce che Abramo è “benedetto” da Dio (cfr. 12,3).

    Passa dunque alla proposta: “Giurami ora”. Il re vuole un patto garantito da Dio. Comincia col chiedere che Abramo non lo “inganni” più. Non si può instaurare un rapporto di alleanza e di amicizia sulla frode. Abimelech usa la parola “Hesed” che ha molteplici significati ma che implica sempre lealtà. Il re domanda questo non solo per se stesso, ma per la sua discendenza e il suo paese.

    Così facendo vuol vivere in armonia con Abramo per aver parte della sua benedizione.

    Abramo accetta: “io giuro!”.

    La lealtà nei rapporti è di massima importanza e valore soprattutto nelle culture antiche: oggi è così? L’uomo infatti si misura sulla sua parola, sulla fedeltà alla parola data. Fa quel che dice e dice quel che fa: egli vive all’ombra di Dio e in ascolto della sua coscienza.

    Troppe volte accade che le parole dette con le labbra non corrispondano a quelle interiori, della coscienza. Si bara con se stessi per paura. Di conseguenza i rapporti sono vissuti e giocati sull’ordine dell’ambiguità, del sotterfugio, dell’interesse e del potere sull’altro. La vita diviene una giungla nella quale vige la legge del più forte e del più furbo.

    La lite: vv. 25-26

    Ma è Abramo che ora si sente ingannato: “Abramo rimproverava Abimelech per la questione di un pozzo d’acqua che i servi di Abimelech avevano usurpato”. I pozzi sono spesso causa di litigi in territori con carenza d’acqua.

    Si ripropone in questi termini lo stesso problema incontrato nel rapporto di Lot con Abramo. Ma l’esito è ben diverso: non vi è separazione tra i due, ma una convivenza. E’ possibile stare insieme e questo diviene benedizione per tutti per Abimelech e Abramo che sperimenta ancora una volta la sovrabbondanza del dono di Dio: “Come è bello che i fratelli stiano insieme…” (Sal 121).

    Il re risponde affermando la sua estraneità al fatto: egli è uomo onesto e corretto. Della cosa lamentata egli è all’oscuro (come era all’oscuro che Sara era moglie di Abramo). Ma c’è da domandarsi se un buon re non debba essere al corrente di quello che accade nel suo paese.

    L’alleanza: vv. 27-31

    Ora è Abramo che prende l’iniziativa: “prese pecore e buoi e li diede ad Abimelech”. Così i due stipulano (tagliano) il patto.

    Altro particolare importante: Abimelech accetta sette agnelle riconoscendo così pubblicamente che Abramo è proprietario del pozzo. Dopo questa storia non ci stupiamo che il nome del luogo sia Bersabea che significa “Pozzo del giuramento”. L’azione si è svolta nello stesso luogo in cui Agar aveva sperimentato il soccorso di Dio (21,14-19).

    La terra

    Da questo momento Abramo ha una prima proprietà nel paese. Inizia da questo piccolo terreno l’adempimento della promessa della terra. Abramo è sì sempre un forestiero ma da ora esercita un diritto di proprietà, giuridicamente riconosciuto, su una porzione della terra promessa.

    Qui Abramo pianta una tamerice per commemorare l’alleanza e come azione cultuale. Il piantare un albero può sostituire l’erezione di un altare. “Ivi invocò il nome del Signore”. Lo invoca come El ‘Olam (= Dio eterno) per affermare la fedeltà di Jhwh.

    E’ un piccolo “segno” che la promessa inizia a concretizzarsi.

    Questa lentezza nell’adempimento esige molta pazienza nei confronti del tempi di Dio così diversi dai nostri. Noi vorremmo tutto e subito, ma Dio non adotta mai questo metodo: vuole educare l’uomo alla fede. Se avessimo tutto e subito ciò non permetterebbe una purificazione della coscienza e una sua crescita: saremmo come bambini viziati e quindi immaturi, irresponsabili.

    La pedagogia di Dio ha di mira la crescita nella coscienza dell’uomo della libertà e responsabilità: ciò esige un paziente cammino in cui l’uomo giorno per giorno impara a dare fiducia alla parola.

  • 12 Mar

    Alterne vicende ancora riguardo alla discendenza:
    Abimielech e Agar

    Gn 19,30-21,21

    di p. Attilio Franco Fabris

    Il ciclo di Abramo riprende a trattare il tema della discendenza ma con sorpresa si interessa soprattutto alla discendenza di Lot.

    La discendenza di Lot: una soluzione umana: 19,30-38

    Lot dunque “salì a Zoar e andò ad abitare sulla montagna”. Si direbbe che si decida ad obbedire al primo ordine del Signore. Ma non è così: egli sale sulla montagna perché “aveva timore di restare a Zoar”. Dubita della parola del Signore che glielo aveva permesso. Lot appare un uomo assillato dalla paura.

    Egli non trova di meglio che trovare una caverna e lì prendere dimora.

    Sarà sepolto proprio in quel luogo dove ha scelto di vivere.

    Lot è un morto vivente e nella sua scelta trascina anche le sue due figlie.

    Per la paura Lot nega a sé e agli altri la gioia di vivere.

    Il problema: v.31

    Anche le due figlie sono prese dalla stessa angoscia del padre. La paura è contagiosa!

    Non hanno marito e non hanno figli: anch’esse come Abramo si vedono precluso il futuro, la speranza rappresentata da una discendenza. Rivivono la stessa angoscia della sterile Sara. Chi si prenderà cura di loro quando verrà a mancare il padre? Che senso ha la loro vita lì, in una caverna?

    Desiderano in ogni modo sfuggire a questa situazione, ma non hanno la forza e il coraggio di andarsene. Occorre trovare una soluzione, fosse anche con un sotterfugio.

    La maggiore prende l’iniziativa: “Il nostro padre è vecchio… non c’è alcun uomo di questo territorio per unirsi a noi secondo l’uso di tutta la terra”. La figlia è disperata, non ragiona più! Possibile che non ci sia un uomo a Zoar!

    La soluzione proposta: vv. 32-35

    Attraverso uno stratagemma decidono  di avere un figlio dal proprio padre. Lo scopo della loro sconcertante iniziativa non è un piacere incestuoso, ma una soluzione disperata per assicurarsi la vita. A tutto si è disposti per conservarla, tanto è forte l’ansia per essa.

    In questa situazione Lot non merita biasimo; al contrario, si è abusa di lui. Qui sono due donne che abusano di un uomo, il loro padre. L’abuso non è dunque limitato a solo uno dei due sessi.

    Il risultato: vv.36-38

    Lo stratagemma riesce. Le due figlie “concepirono dal loro padre”.

    A loro mettono nome “Moab” (= me’abh = da mio padre) e Ben’Ammì (= Figlio del mio popolo). Da loro la tradizione biblica vede gli antenati dei popoli confinanti Israele: i moabiti e gli ammoniti, guardati da Israele con disprezzo.[1]

    Da questo momento la tradizione biblica non si interesserà più di Lot figura del “padre degli increduli”.

    Che valutazione dare della vicenda?

    Lot è sempre stato preda della paura e dell’ansia per la vita. Questo l’ha portato a scelte infelici: la separazione da Abramo, la scelta di scegliere l’apparente terra migliore e di risiedere nella città, a Sodoma, a rifugiarsi per salvare se stesso in una caverna scegliendo di rimanervi per sempre.

    Dalla stessa paura e ansia sono state contagiate le figlie, che non esitano a compiere un gesto inaccettabile pur di raggiungere anch’esse il loro scopo.

    Sempre la paura e l’ansia per la vita ci portano a compiere scelte contrarie alla vita.

    Quale ruolo giocano nella nostra vita e nelle nostre scelte?

    Non siamo tentati di ricorrere a stratagemmi di qualsiasi genere per salvare noi stessi?

    L’abbandono della madre del figlio promesso: 20,1-18

    Il redattore ci sorprende ancora una volta. Ci narra una nuova situazione nella quale ancora una volta Abramo mette in pericolo la moglie e la realizzazione della promessa, facendo credere che sia sua sorella.

    Sembra che Abramo non abbia imparato nulla: ancora riaffiorano titubanze, paure, diffidenze. Realmente il cuore dell’uomo resiste ad abbandonarsi alla parola, alla buona notizia.

    Abramo discende a Gerar: v.1

    Abramo decide di spostarsi e di “prendere residenza” a Gerar, città al confine sud orientale di Canaan. Il verbo indica che Abramo vi prende residenza “come straniero”, così come già aveva fatto in Egitto. Non si sa il motivo di tale trasferimento. Ha forse timore di restare nei pressi della distrutta Sodoma?

    Abramo parla di Sara: v. 2a

    Se nel primo racconto Abramo parla a Sara per concordare l’inganno del farsi presentare come sua sorella, ora Abramo non gli chiede più nulla. Dice direttamente che è sua sorella.

    Perché lo fa? Il testo per non indica nessuna ragione (lo farà in seguito: vv 11-13).

    Abimelech prende Sara: v. 2b

    Il re Abimelech manda a prendere Sara. Il motivo, anche qui, non lo si sa. Sara ha già quasi novant’anni? Il testo non parla più della sua bellezza!

    Dio avverte Abimelech: vv.3-7

    “Dio venne da Abimelech nel sogno della notte”. Dio dunque non si rivela al solo Abramo, ma anche agli stranieri. Lo fa per rivelare la vera identità di Sara.

    Abimelech che non si è accostato a Sara presenta la sua difesa e giustificazione: le sue intenzioni erano rette. Abimelech non si è unito a Sara, Dio aggiunge: “Fui ancora io a  preservarti dal peccato contro di me; perciò non ho permesso che tu la toccassi.

    Si ribadisce un dato importante: il Signore vuole che Sara partorisca il figlio della promessa, e non un figlio di Abimelech

    Abimelech emerge dal racconto, a differenza di Abramo, come uomo “integro” (cfr. Gn 6,9; 17,1). E’ una vera ironia il fatto che Abramo sarebbe potuto diventare la causa dei peccati di Abimelech, lui che era stato esortato ad essere “integro” (17,1) e ad insegnare alla sua discendenza “la giustizia e il diritto” (18,19).

    Tocca ad Abimelech fare la sua scelta: “Ora restituisci la moglie di quest’uomo: egli è un profeta e pregherà per te, sicché tu conservi la vita”. E’ l’unico testo in cui Abramo riceve l’appellativo di profeta: Abramo è chiamato a svolgere il suo ruolo di mediatore di benedizione.

    Abimelech avverte i suoi servi: v. 8

    La risposta di Abimelech non si fa attendere. Convoca “tutti” i suoi servi e riferisce “tutte queste cose (parole)”.

    Tutti “si impaurirono”. Il verbo è ripetuto più volte nel ciclo di Abramo ed è usato per indicare il timore di Dio, ovvero il rispetto dinanzi alla grandezza e al mistero: tale timore si traduce in un atteggiamento “giusto” davanti a Dio che implica a sua volta obbedienza.

    Abimelech rimprovera Abramo: vv. 9-13

    L’accusa del re è formulata in diverse  domande: “Che cosa ci hai fatto?”.

    Il faraone aveva detto: “Che cosa mi hai fatto?”. Costui si preoccupava solo di se stesso, Abimelech al contrario si prende cura di tutti i suoi.

    Passa poi ad una nuova domanda: “Che colpa ho commesso io contro di te?”

    In questo caso il re Abimelech dimostra molto più senso morale del faraone e dello stesso Abramo: “Cose che non si devono fare tu hai fatto a mio riguardo!”.

    Alle accuse del faraone Abramo non aveva risposto. Adesso egli prende la parola. Ma la sua spiegazione diventa una autocondanna. Dice diverse cose il che lascia intendere che si rende conto che nessuna delle ragioni addotte è sufficiente.

    Dice: “Io mi son detto: forse non c’è timore di Dio in questo luogo… mi uccideranno per causa di mia moglie”. Abramo ha paura: ma paura degli uomini non di Dio. La paura gli fa distorcere la realtà, a rileggerla a partire dalla sua ansia.

    Aggiunge un’altra spiegazione: Sara è davvero sua sorella perché “figlia di mio padre ma non figlia di mia madre”. Ma questo non è un matrimonio incestuoso condannato poi dalla legge? (Lv 18,9.11; Dt 27,22). Abramo comunque ha taciuto sempre una parte di verità.

    Abramo continua: lui stesso ha chiesto a Sara di dire che è suo fratello. La colpa è scaricata in parti uguali. Ma questo non è vero! Abramo non ha chiesto nulla a Sara.

    Altra giustificazione: lui si è comportato così “in ogni luogo” in cui sono andati da quando “Dio mi fece errare lungi dalla casa di mio padre”. A questo punto sembra che Abramo sottintenda un rimprovero a Dio che lo ha reso insicuro facendolo “errare”. E se Abramo lo ha fatto in ogni luogo ammette allora di aver ingannato dovunque la gente. Chi si scusa si accusa.

    Questi sono tutti sotterfugi per sfuggire alla verità di se stessi che risuona nel profondo della coscienza.

    Perché Abramo resiste al riconoscersi umilmente e secondo verità colpevole? Perché volersi nascondere dietro mille scusanti?

    Come mi muoverei io al posto di Abramo?

    Abimelech resituisce Sara: vv. 14-16

    Il faraone aveva detto ad Abramo: “Vattene!”. Abimelech fa il contrario: “Ecco davanti a te il mio territorio; dimora dove ti piace!”. Per lui la coabitazione è possibile. Poi consegna mille pezzi d’argento ad Abramo (una somma enorme) come risarcimento del torto fatto a Sara: la somma attesta che è rimasta fedele al marito, e che non vi è stato adulterio.

    Veramente Abimelech da questo racconto ne esce come persona retta e generosa, ben diversamente da colui che è il depositario della promessa.

    Quanta rettitudine a volte scorgiamo in persone da noi dichiarate “lontane”, e quante meschinità da coloro che si definiscono “praticanti”!

    Abramo intercede: vv. 17-18

    Ora Abramo può mettere in atto la sua intercessione affinché la casa di Abimelech sia guarita dall’impotenza e dalla sterilità. Questo non era stato un castigo ma azione preventiva “per il fatto di Sara moglie di Abramo”.

    Concludendo: se nel primo racconto della discesa di Abramo in Egitto il tema predominante era quello della terra. In questo secondo racconto l’accento è posto sul tema della discendenza. Non manca però un accenno al tema del paese e della benedizione.

    Anche in questa situazione Abramo fa una figura alquanto meschina: dominato ancor una volta dalla paura. Tuttavia quest’uomo imperfetto svolge un ruolo di intercessione per Abimelech e i suoi, che sono più giusti di lui.

    Il dono di Dio, “scandalosamente”, passa attraverso mediazioni povere, segnate dal peccato e dalla debolezza. Esso è posto spesso in fragili “vasi di creta”. La mediazione umana scelta da Dio è sempre segnata dal limite e dall’ambivalenza, da qui il rischio di rifiutarla. Ma Dio “ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, e ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, perché sia rivelata a tutti la multiforme grazia di Dio”.

    La nascita del figlio promesso

    Finalmente il nostro racconto giunge a narrare la nascita del figlio della promessa: Isacco.

    I protagonisti del racconto sono tre: Jhwh, Abramo, Sara. E’ un testo stranamente breve per essere un brano centrale del ciclo: esso tuttavia contiene in densità tutti i dati principali dell’esperienza di fede.

    Jhwh mantiene la promessa: vv. 1-2

    “Dio visitò Sara… come aveva promesso” (cfr. 18,10.14).

    Dio “fa” quel che “promette” (= dice). Il bambino è un suo dono, una nascita umanamente impossibile.

    Abramo mantiene i suoi impegni: vv. 3-5

    Abramo agisce secondo il comando di Dio: “Pose nome Isacco a suo figlio” (cfr 17,19).

    Dopo otto giorni lo circoncide (cfr 17,12) facendo entrare il figlio nella alleanza con Jhwh in qualità di erede.

    Tutto ciò accade quando Abramo ha cent’anni e Sara novanta, ovvero dopo venticinque anni di cammino sotto la guida di Jhwh.

    Sara mantiene il suo riso: vv. 6-7

    Sara fa più che partorire. Alla nascita di Isacco il cuore prorompe di gioia e gratitudine. Sara pronunzia una composizione poetica, il che sta a dire lo stupore e la gioia di ciò che si sta vivendo: “Un sorriso ha fatto Dio per me! Quanti lo sapranno rideranno di me!”.

    Essa non nasconde più il suo riso, anzi lo ostenta.

    Gli altri rideranno di me o con me? sarà derisione o condivisione della gioia?

    Noi come rideremmo?

    Sara aggiunge: “Chi avrebbe mai detto?”. Ciò che è accaduto sembrava follia, era impossibile non solo a Sara e ad Abramo ma anche a chiunque l’avesse udita.

    Sara ora non solo è stata in grado di partorire, ma è capace anche di allattare! E’ questa la pienezza del dono, una sovrabbondanza di grazia.[2]

    La cacciata di Agar e Ismaele: 21,8-21

    Ora l’attenzione del redattore si sposta sull’altro figlio, Ismaele figlio della schiava Agar.

    Come si porranno ora i due figli in rapporto alla promessa: ambedue infatti sono figli di Abramo!

    Il brano sembra ripetere quello narrato al c. 16,1-16: ma vi sono differenze: la più vistosa è che se nel primo Sara era sterile e Agar incinta, ora ciascuna delle donne ha un figlio.

    Il problema: vv.8-9

    Isacco “crebbe e fu slattato e Abramo fece un grande convito il giorno in cui Isacco fu divezzato”. Lo svezzamento avveniva intorno ai tre anni. Abramo e Sara hanno ora maggiori garanzie che il bambino vivrà e dunque è l’occasione di far festa alla nuova vita donata.

    Ma durante la festa “Sara vide che il figlio di Agar l’egiziana, quello che essa aveva partorito ad Abramo, “derideva” (o “giocava”) suo figlio Isacco”. Ismaele “deride” ancora una volta il gioco del verbo ridere in riferimento ad Isacco.

    Sara fantastica sul futuro: avverte un pericolo intollerabile, va in ansia, che il più grande, Ismaele, prenda il posto di Isacco. La legislazione normale infatti riconosceva al figlio della padrona solo il diritto di scelta sull’eredità, per il resto aveva gli stessi diritti della figlia della concubina.

    Rivalità, gelosia, paura si fanno sentire nella coscienza di Sara: quando si vivono tali risonanze è difficile essere aperti alla realtà e vedere le cose nella loro giusta dimensione. Sotto la loro spinta si fanno scelte avventate, frettolose, spesso sbagliate.[3]

    La cacciata: vv. 10-14

    Ancora una volta Sara prende l’iniziativa. Dà un ordine ad Abramo: “Scaccia questa serva e il figlio di lei, perché il figlio di questa serva non dev’essere erede con mio figlio Isacco”.

    Sara vede in Ismaele una minaccia per l’eredità di Isacco. Sara evoca il linguaggio della promessa divina per giustificare la sua pretesa (15,4), il che forse spiega perché Dio consenta alla decisione.

    La prima volta Abramo aveva obbedito senza proferir parola; ora invece disapprova la decisione di Sara: “La cosa dispiacque assai ad Abramo, per causa del figlio suo”: Egli non vuole perdere Ismaele, è preoccupato per lui (e Agar?).

    Come noi ci muoveremmo in una situazione simile?

    La situazione è in stallo finché Dio non interviene, prendendo (scandalosamente) le parti di Sara: “Non dispiaccia agli occhi tuoi per riguardo al fanciullo e alla tua serva”. Dio ha un progetto per Ismaele, e questo progetto passa attraverso la debolezza umana. Dio sempre si vuole servire del male per trarre il bene: “Ma io farò diventare una grande nazione anche il figlio della serva, perché è tua discendenza”.

    Abramo dunque decide di mandar via Agar e il figlio: dà stranamente a loro una provvista appena sufficiente per sopravvivere (cfr Dt 15,12-18). Abramo “le consegnò il ragazzo e la cacciò via”.[4]

    Vicino alla morte: vv. 14b-16

    Agar che non ha scelta si avvia con il ragazzo: “partì sviandosi per il deserto di Bersabea”. Il verbo indica l’incertezza, la mancanza di direzione. Questo verbo non viene mai usato per descrivere l’azione degli israeliti nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto.

    Cammina “finché fu esaurita l’acqua dell’otre”: non c’è più speranza di sopravvivere.

    Agar si allontana dal figlio: non vuole vederlo morire. Ma egli “alzò la sua voce e pianse”.

    La salvezza: vv. 17-19

    “Dio udì la voce del ragazzo”. L’angelo di Dio chiama Agar “dal cielo” rivolgendole la domanda: “Che hai tu Agar?”. Agar non ha il tempo di rispondere. Il messaggero continua: “Non temere perché Dio ha ascoltato la voce del ragazzo là dove si trova. Alzati! Solleva il ragazzo e stringi con la tua mano la sua, perché io ne farò una grande nazione!”. Vi è il rilancio della promessa per Ismaele in termini ancor più allargati (cfr. 16,10).

    Così Dio riapre ai due un cammino di speranza: “Dio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo d’acqua”.

    Conclusione: vv. 20-21

    Isamele dunque è benedetto da Dio: “Dio fu col ragazzo che crebbe”.

    Agar “gli prese una moglie del paese d’Egitto”: ovvero dal suo paese di origine. Agar vuole la certezza che la discendenza di Ismaele sia egiziana.[5]

    Certamente il comportamento di Sara ed Abramo risulta deplorevole.

    Abramo non ha il coraggio di opporre con forza una sua decisione a quella di Sara.

    Dio stesso sembra prender le parti dell’oppressore.

    Questo storia ha tratti profondamente umani, dove qui si intende segnati profondamente da quelle risonanze che rendono difficile se non impossibile l’accoglienza dell’altro vissuto come pericolo e rivale.

    E’ consolante considerare come Dio si inserisca in questo tessuto di miseria inserendovi la sua storia di salvezza che passa attraverso il nostro male.

    La pienezza della grazia e della promessa potrà essere donata solo in Cristo. Solo in lui vi potrà essere piena riconciliazione lui “che fece dei due un popolo solo abbattendo il muro di separazione cioè l’inimicizia”.



    [1] Deuteronomio 23:3-4 Il bastardo non entrerà nella comunità del Signore; nessuno dei suoi, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore. L’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore;

    [2] Ebr 11,11 Per fede anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre perché ritenne fedele colui che glielo aveva promesso

    [3] Gal 4,29 Come allora colui che era nato secondo la carne perseguitava quello nato secondo lo spirito, così accade anche ora.

    [4] Rm 9,7ss Non tutti i discendenti di Israele sono Israele, né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli. No, ma: In Isacco ti sarà data una discendenza, cioè: non sono considerati figli di Dio i figli della carne, am come discendenza sono considerati solo i figli della promessa.

    [5] Gal 4, 21-31 ditemi, voi volete essere sotto la legge: non sentite, forse cosa dice la legge? Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello dalla schiava è nato secondo la carne; ma quello dalla donna libera, in virtù della promessa. Ora, tali cose sono dette in allegoria: le due donne infatti rappresentano le due Alleanze; una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, rappresentata da Agar – il Sinai è un monte dell’Arabia -; essa corrisponde alla Gerusalemme attuale, che di fatto è schiava insieme ai suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre… Ora, voi, fratelli, siete figli della promessa, alla maniera di Isacco. E come allora colui che era nato secondo la carne perseguiatava quello nato secondo lo spirito, così accade anche ora. Però che cosa dice la Scrittura? Manda via la schiava e suo figlio, perché il figlio della schiava non avrà eredità col figlio della donna libera. Così, fratelli, noi non siamo figli di una schiava, ma di una donna libera.

  • 11 Mar

    La benedizione: l’intercessione di Abramo

    Gn 18,16-19,29

    di p. Attilio franco Fabris

    Il racconto dell’incontro di Abramo con i tre ospiti prende inaspettatamente una nuova piega, incentrandosi non più sul tema della discendenza, ma su quello della benedizione.

    E’ una pagina di grande bellezza, pregna di teologia espressa in forma drammatica.

    Abramo accompagna i visitatori: v.16

    Abramo, da buon ospite e secondo l’uso orientale, accompagna i tre viaggiatori per un tratto di strada. Essi si dirigono verso un punto da cui contemplare dall’alto la città di Sodoma dove Lot si era stabilito dopo la separazione da Abramo.

    Una rivelazione ad Abramo: vv.17-21

    Il testo inizia con una riflessione che il Signore fa tra se: «Forse io celerò ad Abramo quello che sto per fare?». E’ come se Dio dicesse tra sé: “E’ tempo che Abramo prenda consapevolezza del suo diritto dovere di svolgere il suo ruolo profetico”. In quanto profeta egli è ammesso al consiglio divino[1] chiamato ad intercedere per il suo popolo.[2]

    Si ripete la relazione tra Dio e Noè (cfr. Gn 6,5-13), ma con una differenza notevole. Lì Jhwh rivelò il suo progetto a Noè perché l’uomo giusto potesse essere salvato; qui la situazione è diversa: può il Signore nascondere quello che sta per fare «mentre Abramo diventerà certamente una nazione grande e potente, e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra»?. Ovvero: Dio intende rivelare il suo progetto ad Abramo come logica conseguenza delle promesse a lui fatte al momento della sua chiamata. E’ l’«amico di Dio», al quale non si può nascondere nulla.[3]

    Abramo è chiamato a svolgere il ruolo di mediatore, al quale Dio attribuisce autorità sulle sue stesse decisioni: non può rifiutare nulla al suo portavoce accreditato.

    Ora la gente di Sodoma «era molto cattiva e peccatrice» (cfr 13,13).  Il grido della sua malvagità e della sua ingiustizia è giunto al cielo.  In che cosa consiste tale grido? Si tratta dell’ingiustizia causata dal venir meno alla legge morale alla quale è obbligata tutta l’umanità.

    Proprio per giustizia Dio vuole «scendere a vedere» (cfr Gn 11,7).

    C’è poca speranza, pur tuttavia rimane una porta aperta alla speranza: «se proprio hanno fatto il male… oppure no; lo voglio sapere». La possibilità di un no, non è quindi del tutto esclusa.

    Abramo solo con Dio: v.22

    Nel testo si chiarisce sempre più l’identità dei visitatori.

    Giunti al punto panoramico da cui contemplare Sodoma. Due di loro vi si avviano.

    Qui il testo si può leggere in due modi: “Abramo stava davanti a Jhwh”; ovvero egli si accinge a interpellare il Signore; oppure: “Il Signore stava davanti ad Abramo”: ovvero Jhwh si sente in dovere di giustificare ad Abramo la sua decisione. E’ quasi come se Jhwh desiderasse essere interrogato, sta in silenzio in attesa di udire una parola di Abramo. Che il Signore desideri cedere, essere vinto dalla mediazione di Abramo? Vuole esercitare la sua sedaqah attraverso la misericordia invocata dal mediatore Abramo. Egli fece già da mediatore mettendosi in combattimento, ora svolge questo stesso compito attraverso la preghiera.

    Abramo si appresta a svolgere il suo compito: “si avvicinò e disse”: è il primo uomo nella Bibbia a prendere l’iniziativa di un dialogo con Dio. Da buon mercante sa come trattare il suo visitatore.

    Non potrebbe Dio perdonare a tutti proprio in base ai giusti che lì si troveranno? Sono gli empi o i giusti che determinano il futuro e l’operato di Dio? Dio vuole punire o salvare? Infatti per la cultura antica tutti sono responsabili di tutto. La colpa di una è la colpa di tutti. Sempre il singolo è coinvolto totalmente nel destino sociale.

    Egli per ben sei volte si appella a Jhwh, il quale puntualmente gli risponde affermativamente. La triplice preghiera ripetitiva è frequente, ma qui il numero è “scandalosamente” raddoppiato. Abramo oserà diminuire di volta in volta il numero di giusti.

    Abramo qui tenta, in base proprio alla legge della solidarietà, di applicare la giustizia di alcuni a tutti gli altri. Accetterà il Signore questa inversione di ottica?

    Sembra proprio che il Signore spinga Abramo a cercare un nuovo concetto di giustizia: non quella giustizia che vuol dare a ciascuno il suo mette da una parte i peccatori e i giusti dall’altra, ma una giustizia che cerca di salvare tutti, e per questo si serve dei giusti e fa leva su di loro.

    La risposta di Dio è condizionata: “Se io trovo…”.

    Abramo riesce a scendere al numero di dieci. Perché a questo numero si fermi resta un mistero. Jhwh infatti non lo ha rimproverato né ha rifiutato le proposte. Che Abramo pensi che dieci siano il numero minimo su cui affidare la salvezza? Dieci è infatti il numero minimo per costituire un gruppo sociale.

    Geremia e Ezechiele diranno in seguito che basterà un solo giusto per salvare tutti [4].

    “Qui abbiamo la base di quella teologia che emergerà poi in tutta la sua potenza in Isaia 53[5]: per un solo giusto Dio salverà tutto il popolo.

    Quindi Abramo lotta per una nuova conoscenza di Dio, del Dio della salvezza, cioè di quel Dio che vuole totalmente salvare, che per uno è disposto a perdonare a tutti, e si fa quell’uomo per perdonare tutti” (C.M. Martini).

    Sodoma nel disegno biblico non è più considerata come una città estranea al popolo dell’alleanza, quasi che Sodoma possa perire purché Israele si salvi.

    La visita a Lot: 19,1-3

    Il testo ora si incentra sulla figura di Lot.

    Il ciclo di Abramo ama mettere a raffronto questi due personaggi nella stessa situazione. Anche Lot ottiene il privilegio di una visita da parte di Dio.

    Perché questo privilegio? Perché è giusto o in virtù delle promesse di Abramo?

    La grande differenza tra le due visite è che Abramo riceve un annuncio di vita, mentre Lot uno di morte.

    La protezione degli ospiti: vv.4-11

    “Tutto il popolo” si raduna davanti alla casa di Lot. Dunque non vi si trovano neppure dieci giusti! Essi avanzano pretese di carattere sessuale nei confronti degli ospiti.

    Lot rifiuta categoricamente di far uscire i suoi ospiti. “Esce” lui stesso per affrontare quella folla ostile. Ha l’accortezza di chiudere la porta dietro di sé. Lot avanza una soluzione: offre loro le due figlie “che non hanno ancora conosciuto uomo”. Questa alternativa ci sbalordisce. Abramo per salvarsi non disdegna  di sacrificare la moglie. Lot che non deve salvare se stesso ma gli ospiti non esita a sacrificare le figlie. Realmente le donne non hanno qui nessun valore peso. Ma nessuna usanza può giustificare questa proposta, nemmeno i doveri dell’ospitalità. Quante volte la coscienza si trova a dover scegliere tra due mali!

    Come interpretare il gesto di Lot? E le figlie come reagiranno nei confronti di quest’abuso da parte del padre?

    La folla rifiuta l’offerta, e a lui che li chiama “fratelli” risponde con l’appellativo di “straniero”. Lot invoca di “non fare alcun male”, la risposta è  che a lui “faranno di peggio”.

    Non hanno coscienza che così facendo  allontanano da sé l’unica possibilità di salvezza.  La folla si scaglia contro Lot ma gli ospiti gli vengono in aiuto: “dall’interno gli uomini sporsero le mani, trassero in casa Lot” e “chiusero il battente”. Vi è un forte richiamo all’arca dove si rinchiude Noè e tutta la sua famiglia. (Gn 7,16).

    La folla è colpita da “cecità”.

    La passione non induce forse ad una sorta di cecità? Non ottenebra lo sguardo per cui l’uomo diviene capace di tutto, in preda al dominio dell’istinto?

    L’ordine di lasciare Sodoma: vv.12-17

    I messaggeri rivolgono a Lot un ordine: quello di uscire non solo dalla casa, ma dalla stessa città.: “Chi hai ancora qui? Il genero, i tuoi figli e le tue figlie e tutti quelli che hai in città, falli uscire da questo luogo”.  Lot coraggiosamente esce per avvisare i futuri generi fidanzati alle figlie. Essi ricevono una possibilità di salvezza attraverso Lot e quindi per la mediazione di Abramo.

    Il tragico è che ai generi “parve ch’egli scherzasse”. Essi ridono (sahaq) di Lot. Ridono della loro morte.

    Gli angeli “fanno premura a Lot”. Probabilmente anch’egli tentenna: “indugiava”. E’ faticoso staccarsi dal proprio ambiente, dalle proprie cose: vi si vorrebbe rimanere attaccati per sempre, rappresentano sicurezza, quando in realtà non lo sono e rischiano di divenire “fossa di morte”. Lasciare è morire! Lot è invitato ad “uscire”, a fare una “pasqua” incontro alla salvezza sperimentando la promessa di Dio fatta ad Abramo.

    I due angeli prendono per mano Lot e la sua famiglia e li trascinano fuori “per un atto di misericordia del Signore verso di lui”.

    Rivolgono dunque quattro ordini precisi: “Fuggi!”, “Non guardare indietro!”, “Non fermarti”, “Vai verso la montagna”. Il verbo fuggire e ripreso ben cinque volte.[6]

    L’obiezione e la preghiera di Lot: vv. 18-22

    Lot domanda di potersi rifugiare nella città di Zoar: “Lascia che io fugga colà – non è una piccolezza? – e così la mia vita sia salva”. Lot chiede che sia risparmiata quella città, assumendo un ruolo simile a quello di Abramo. Questa preghiera cambia la decisione divina. Ma Lot deve agire in fretta “perché io non posso far nulla finché tu non sia arrivato”.

    La distruzione di Sodoma: vv. 23-26

    Il testo narra con rapidità gli avvenimenti. La distruzione non è più operata dall’acqua bensì dal fuoco. “Distrusse… tutta la valle… tutti gli abitanti… e la vegetazione”. Tutta la regione diviene un deserto.

    E’ la moglie di Lot che si attarda, essa “guardò indietro” contravvenendo all’ordine. Si lascia sfuggire la possibilità di salvarsi. Volgersi indietro nel linguaggio biblico sta ad indicare rimpianto, nostalgia, volersi trattenere.[7]

    Abramo testimone: vv. 27-28

    Abramo si reca di buon mattino allo stesso luogo “per contemplare dall’alto la città di Sodoma”.

    Il suo intervento sarà servito a qualcosa?

    La sua speranza è subito infranta: sotto il suo sguardo solo distruzione.

    Il contrasto è violento: quello che un tempo era un paradiso, ora è tutto un vero deserto di cenere, fuoco e zolfo.[8]

    Nel suo cuore quante domande riguardo a Lot e alla sua famiglia. Quali sentimenti lo attraversano? (“Ben gli sta!”?). E nei confronti di Dio che pensa?

    Conclusione: v. 29

    Perché Lot è stato risparmiato? Dio si è ricordato di lui perché ricorda il suo patto con Abramo.

    La sua intercessione non è stata completamente inutile. A suo modo Lot ha saputo essere giusto (v. 9).

    Allora perché il giusto Lot non ha saputo salvare la città? Se Dio si fosse accontentato di un solo giusto ciò non sarebbe bastato. Ma gli abitanti di Sodoma lo hanno estromesso da loro definendolo uno “straniero”. Nessun abitante di Sodoma era allora effettivamente giusto.


    [1] Amos 3:7 In verità, il Signore non fa cosa alcuna senza aver rivelato il suo consiglio ai suoi servitori, i profeti. Geremia 23:18 Ma chi ha assistito al consiglio del Signore, chi l’ha visto e ha udito la sua parola? Chi ha ascoltato la sua parola e vi ha obbedito?

    [2] Amos 7:1-6 Ecco ciò che mi fece vedere il Signore Dio: egli formava uno sciame di cavallette quando cominciava a germogliare la seconda erba, quella che spunta dopo la falciatura del re. Quando quelle stavano per finire di divorare l’erba della regione, io dissi: «Signore Dio, perdona, come potrà resistere Giacobbe? È tanto piccolo». Il Signore si impietosì: «Questo non avverrà», disse il Signore. Ecco ciò che mi fece vedere il Signore Dio: il Signore Dio chiamava per il castigo il fuoco che consumava il grande abisso e divorava la campagna. Io dissi: «Signore Dio, desisti! Come potrà resistere Giacobbe? È tanto piccolo». Il Signore se ne pentì: «Neanche questo avverrà», disse il Signore.

    [3] Giovanni 15:15 Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi.

    [4] Ezechiele 22:30 Io ho cercato fra loro un uomo che costruisse un muro e si ergesse sulla breccia di fronte a me, per difendere il paese perché io non lo devastassi, ma non l’ho trovato.

    Geremia 5:1 Percorrete le vie di Gerusalemme, osservate bene e informatevi, cercate nelle sue piazze se trovate un uomo, uno solo che agisca giustamente e cerchi di mantenersi fedele, e io le perdonerò, dice il Signore.

    [5] Isaia 53:11 il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità.

    [6] Sapienza 10:6-8 E mentre perivano gli empi, salvò un giusto, che fuggiva il fuoco caduto sulle cinque città. Quale testimonianza di quella gente malvagia esiste ancora una terra desolata, fumante insieme con alberi che producono frutti immaturi e a memoria di un’anima incredula, s’innalza una colonna di sale.  Allontanandosi dalla sapienza, non solo ebbero il danno di non conoscere il bene, ma lasciarono anche ai viventi un ricordo di insipienza, perché le loro colpe non rimanessero occulte.

    2Pietro 2:6-9 condannò alla distruzione le città di Sòdoma e Gomorra, riducendole in cenere, ponendo un esempio a quanti sarebbero vissuti empiamente. Liberò invece il giusto Lot, angustiato dal comportamento immorale di quegli scellerati. Quel giusto infatti, per ciò che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, si tormentava ogni giorno nella sua anima giusta per tali ignominie.Il Signore sa liberare i pii dalla prova e serbare gli empi per il castigo nel giorno del giudizio,

    [7] Luca 9:62 Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».

    Luca 17:31-33 In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza, se le sue cose sono in casa, non scenda a prenderle; così chi si troverà nel campo, non torni indietro. Ricordatevi della moglie di Lot. Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà.

    [8] Luca 17:28-29 Come avvenne anche al tempo di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; ma nel giorno in cui Lot uscì da Sòdoma piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece perire tutti.

  • 09 Mar

    La discendenza: la soluzione di Dio: una promessa

    Gn 17,1-27

    di p. Attilio Franco Fabris

    Il racconto della nascita di Ismaele poteva lasciar indurre che la promessa si sia realizzata. Non è così!

    Jhwh riprende in pugno la situazione e diventa il protagonista principale.

    La discendenza, frutto della promessa,  non può essere il risultato di espedienti umani.

    E’ questo il significato di questo racconto in cui si parla nuovamente di alleanza (cfr c. 15).

    L’apparizione di Jhwh: vv. 1-3a

    Abramo ha ormai novantanove anni, uno meno di cento. La cifra significa: “ora o mai più”.

    Per la seconda volta Jhwh gli appare. Le parole che gli saranno rivolte assomigliano molto a quelle udite nel momento della sua chiamata (12,1-4).

    Anzitutto si rivela con il nome solenne di “El Shaddai” (l’Altissimo, l’Onnipotente): Colui che può tutto.

    Poi a differenza della prima alleanza qui Dio avanza alcune richieste: “Cammina nella mia presenza (= davanti al mio volto)”. Se all’inizio Dio gli ha chiesto di partire, ora gli chiede di vivere in relazione con lui, ogni suo atto dovrà essere in riferimento a Dio.

    “Sii integro”, ovvero giusto come Enoch e Noè (Gn 5,24; 6,9). Questo significa che finora Abramo non ha vissuto finora così? Potrebbe essere. Non sempre infatti il suo comportamento è stato corretto e improntato sulla fiducia sulla Parola. L’invito ad essere “integro” non è appello semplicemente morale, ma desiderio che l’uomo si apra alla fiducia e alla collaborazione col suo progetto.

    La realizzazione della Promessa dunque richiede anche la collaborazione dell’uomo. Diceva Agostino: “Chi ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te”. Se Dio avanza richieste lo è sempre in vista delle promesse (cfr 12,3: “cosicché io…”). Ordine e promessa sono inseparabili.

    Dio dunque rinnova a questo punto le promesse: “Stabilirò la mia alleanza tra me e te…ti moltiplicherò grandemente”. Ma è sempre Dio che “pone”, mette dinanzi, ad Abramo la proposta di alleanza. Alla libertà dell’uomo aderirvi o meno.

    Abramo al termine di queste parole si prostra in obbedienza e sottomissione.

    Quali le sue risonanze? Si risveglia in lui la speranza? Oppure… ha novantanove anni!

    La promessa e il cambiamento del nome: vv. 3b-8

    In un secondo intervento Dio, che qui viene chiamato con il nome di Elohim, esplicita ancor più le promesse.

    La parola alleanza è ripresa tre volte. Se prima dice di volerla “stabilire” (v.2), adesso dice di volerla “far sussistere” (v.7), non solo tra lui e Abramo ma “con te e con la tua discendenza dopo di te”, essa sarà “perenne” il che finora non era mai stato detto. Il dono del patto di amicizia tra Abramo e Dio non sarà mai più ritirato: “i doni di Dio sono irrevocabili” (cfr Rm 11,29).

    Un grande dono è collegato a quest’alleanza, Dio afferma di voler “essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te” (vv. 7.8). Un’amicizia che non sarà mai tradita.

    Anche la promessa della discendenza viene qui sviluppata. Abramo sarà “Padre di una moltitudine di Nazioni” (‘Abh hamon), per cui non si chiamerà più solo Abram ma Abramo. Egli assume una paternità universale. Il cambiamento di nome sta a sottolineare questo.[1]

    A tutto ciò si aggiunge la promessa della terra.

    L’ordine: vv.9-14

    “Da parte tua…”: ora Abramo è invitato a rispettare l’alleanza che Jhwh ha stabilito, cosa che non dovrà far solo lui ma tutta la sua discendenza. L’obbligo dell’alleanza consiste nella circoncisione di tutti i maschi.

    Quale il significato di tale rito? Diversi popoli praticavano e praticano la circoncisione per ragioni iginieniche ed è legata quindi alla nozione di purità (cfr Ger 9,24-25). La circoncisione toglie dall’uomo il “difetto”, l’impurità, e lo rende così senza macchia e integro agli occhi di Dio.

    La circoncisione veniva praticata all’età della pubertà come rito di iniziazione ed era legata alla fertilità. Praticata dopo otto giorni dalla nascita assume un ulteriore significato: diviene “segno” visibile di appartenenza al popolo dell’alleanza (v.11).[2]

    Il gesto di recidere l’estremità dell’organo sessuale fa ricadere simbolicamente sul bambino le maledizioni dell’alleanza, se non vi rimane fedele. Il gesto ha un significato simbolico simile all’azione di passare in mezzo alle parti degli animali divisi. L’ottavo giorni è significativo: il bambino è vissuto già sette giorni, i giorni della creazione (cfr Lc 2,21).

    Chi nel popolo rimarrà incirconciso dovrà essere eliminato: ovvero chi non avrà tagliato l’alleanza con Jhwh sarà tagliato dal popolo.

    La promessa e il cambiamento del nome di Sara: vv. 15-17

    Jhwh cambia il nome anche a Sarai in Sara. Ambedue i nomi significano “Principessa”. Anche Sara riceve una benedizione immediata e universale. La benedizione immediata è il dono di un figlio non più frutto di espedienti umani, proprio da lei che ora ha ottantanove anni e che è sterile.

    LA benedizione universale sarà una grande discendenza di nazioni  e re.

    La reazione di Abramo: vv. 18-22

    Abramo si prostra a terra, ma nello stesso tempo il testo pone sulle sue labbra il riso. Il gesto esteriore corrisponde a ciò che Abramo avverte nella sua coscienza? Cosa esprime questo riso? Sorpresa, gioia, dubbio…?

    Nel commentare la promessa di Dio, il suo riso (jishaq = egli ride) annuncio il futuro bambino.

    Per la prima volta Abramo parla: lo inizia a fare tra se e se. Egli dubita sperando: “Ad uno di cento anni nascerà un figlio? E Sara, all’età di novant’anni potrà partorire?”. Umanamente tutto ciò è impossibile.

    Abramo si rivolge dunque a Dio: “Che almeno Ismaele viva sotto il tuo sguardo!”. Che significato può avere questa preghiera? Abramo dubitando offre un’alternativa, vuole andare sul sicuro: si accontenterebbe già che Ismaele possa vivere sotto lo sguardo di Dio, non potrebbe già essere lui l’erede delle promesse.

    La risposta di Jhwh ad Abramo è categorica: “no!”.

    Sara avrà un figlio. Il vero erede della promessa non sarà unicamente del sangue di Abramo ma anche di Sara. Questo bambino si chiamerà Isacco (“Egli ride”: chi Abramo o Dio?).

    Tuttavia Dio dice di voler esaudire la preghiera riguardo ad Ismaele (Dio ha ascoltato). Egli gli riserva un grande avvenire: sarà benedetto con una discendenza grande e forte.

    Strana figura quella di Ismaeòe: pur circonciso si pone dentro e fuori l’alleanza.[3]

    Quale il significato di questa posizione e decisione di Dio? Quale la differenza essenziale tra Isacco e Ismaele?

    L’esecuzione dell’ordine: vv. 23-27

    Abramo immediatamente obbedisce all’ordine di Dio: “in quello stesso giorno… come Dio gli aveva detto”.


    [1] Romani 4:17 Infatti sta scritto: Ti ho costituito padre di molti popoli; [è nostro padre] davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono.

    Galati 3:16 Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furon fatte le promesse. Non dice la Scrittura: «e ai tuoi discendenti», come se si trattasse di molti, ma e alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo.

    [2] Romani 4:10-11 Come dunque gli fu accreditata? Quando era circonciso o quando non lo era? Non certo dopo la circoncisione, ma prima. Infatti egli ricevette il segno della circoncisione quale sigillo della giustizia derivante dalla fede che aveva già ottenuta quando non era ancora circonciso; questo perché fosse padre di tutti i non circoncisi che credono e perché anche a loro venisse accreditata la giustizia

    [3] Galati 4:22-23 Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello dalla schiava è nato secondo la carne; quello dalla donna libera, in virtù della promessa.

  • 07 Mar

    La discendenza

    Seconda soluzione umana: la schiava Agar

    Gn 16,1-16

    di p. Attilio Franco Fabris

    Abramo e Sara sono ricorsi alla prima soluzione umana adottando Eliezer. Ma la promessa di Dio ha richiesto l’abbandono di tale decisione. Ma gli anni passano… e il figlio non appare all’orizzonte.

    Siamo già dieci anni dopo l’entrata nella terra di Canaan: Abramo ha ottantacinque anni  Sara settantacinque! Per quanto tempo è ancora “logico” sperare e perseverare nella fede?

    Ecco allora la coppia ricorrere ad un ulteriore espediente.

    Al centro del racconto troviamo ora due donne: Sara e Agar.

    Il problema: v. 1

    Sara “aveva (lett. possedeva) una schiava egiziana, di nome Agar”. Vengono sottolineati i diritti di proprietà. Agar è di Sara, non è schiava di Abramo.

    Sono due donne molto diverse: una moglie della stessa tribù di Abramo, ricca ma anziana e sterile. Agar, straniera, schiava, povera ma feconda e dunque giovane. Forse su data ad Abramo insieme a numerosi altri beni quando fu cacciato dall’Egitto.

    La loro diversità è motivo di incontro e di conflitto?

    Come vivo le diversità?

    L’espediente di Sarai: vv. 2-6

    Sara, che è sembrata finora sempre passiva, prende l’iniziativa. Trova il coraggio di esporsi e di giocarsi nella vicenda. Essa parla per la prima volta ad Abramo: “Ecco, il Signore mi ha impedito di partorire; deh, allora accostati alla mia schiava; forse da lei sarò costruita (trad. lett.)”. La discendenza è presentata in termini di costruzione della casa/del casato; essa ricerca il suo riscatto di fronte agli smacchi della vita.

    E’ Sara che ora detta ordini ad Abramo. Insiste non lasciandogli scelta; attribuisce la sua sterilità a Dio, e quindi decide di sua iniziativa di contrastare questa disposizione divina ricorrendo ad una soluzione umana.

    Quali risonanze spingono Sara a cercare questa soluzione? Ne è convinta? Appare un’espediente in cui si “tenta” (ma a quale prezzo) lo scopo? E’ disposta realmente a rinunciare ai suoi privilegi per un bene più grande?

    Essa agisce secondo una consuetudine dell’epoca che avrebbe almeno parzialmente realizzato la promessa: Jhwh non aveva forse detto che il discendente sarebbe stato dello stesso sangue di Abramo (15,4)? Ciò dunque non esclude che la madre possa essere un’altra.

    Abramo non dice neanche una parola. Il testo annota: “Abram ascoltò la voce di Sarai”. Dove ascoltare significa obbedire.

    Quali le risonanze di Abramo? Approva pienamente? Si sente costretto? …

    Nessuna parola viene invece rivolta ad Agar; non viene chiesto il suo parere ed è trattata esattamente da schiava, senza alcun diritto, come un oggetto: “Sarai, moglie di Abram, prese l’egiziana Agar… e la diede in moglie ad Abram, suo marito”.

    Apparentemente nulla cambia: Sara è sempre moglie e Agar sempre sua schiava. Tuttavia un cambiamento importante avviene: ella non è più concubina, ma moglie effettiva di Abram, esattamente come lo è Sara. Sara per “costruirsi” ha dovuto umiliarsi.

    Con quali conseguenze?

    Improvvisamente chi occupa il posto centrale ora è Agar. Infatti “restò incinta”.

    La conseguenza di questo fatto è che “quando essa si accorse di essere incinta la sua padrona non contò più nulla per lei”. La schiava è consapevole di avere ormai un vantaggio sulla padrona.

    Perché?

    L’umiliazione per Sara scotta sempre di più. Quella gravidanza da lei voluta le appare ora insopportabile. Comincia dunque non a rimproverare se stessa ma Abramo: “Il mio torto è a tuo carico”.

    Abram rimanda l’accusa a Sara: “Ecco la tua schiava è in tuo potere; falle quello che ti par bene”. Sarai non riesce ad accettare di essere lei l’origine di tutta questa difficile situazione: scarica la sua responsabilità. A sua volta Abram rigetta la palla a lei: il gioco rischia di divenire infinito e doloroso fonte di tensione e sofferenze.

    Sarai di ripicca inizia a “maltrattare” Agar rendendole la vita impossibile: con questa violenza vuole riconquistare la sua superiorità su questa.

    Queste modalità di relazione sono così lontane dalla nostra esperienza?

    Fino a che Agar esasperata “fuggì dalla sua presenza”. L’egiziana fugge come Israele fuggirà dal faraone: sono i corsi e ricorsi della storia che vedono molti capovolgimenti ironici delle sorti.

    Agar scappa, in un colpo di testa, illudendosi di conquistare la sua libertà e autonomia, vuole prendere in mano la sua vita. Ma cosa può fare una donna sola, incinta, senza appoggi in un mondo che le totalmente estraneo?

    E Abramo scoprendo la schiava fuggita che fa? Come vive il fatto? La speranza riposta in quel figlio da lei concepito sembra svanire ancora una volta. Perché non la rincorre, non la cerca?

    Ci illudiamo di conquistare la libertà fuggendo da ciò che ci fa soffrire?

    L’incontro e dialogo tra Dio e Agar: vv. 7-14

    Il racconto potrebbe finire qui. Ma esso continua prendendo una piega inaspettata.

    Agar si è diretta verso il deserto, in direzione di Sur, verso il confine dell’Egitto. Essa vuol tornare tra i suoi. Ma come attraversare il deserto senza nulla? E’ un’impresa assurda che può nascere solo da un colpo di testa sconsiderato, destinata solo al disastro.

    Ma “la trovò un angelo del Signore presso una sorgente d’acqua, nel deserto, sulla strada di Sur”.

    Agar, la schiava egiziana, è la prima persona nella Bibbia ad essere visitata da un angelo. (L’angelo non è un essere distinto da Dio, è un’immagine per parlare di Dio che si rivela a una persona in forma visibile).

    L’angelo ha trovato per caso Agar? L’ha cercata? Come si evolverà la storia?

    Il messaggero inizia un dialogo con Agar. Finalmente qualcuno parla con lei chiamandola per nome. E per la prima volta Agar prende la parola: “Da dove vieni? Dove vai?”.

    Agar dice da dove viene ma non dove sta andando, non lo sa nemmeno lei, non ha casa, sta solo fuggendo lontano.

    L’angelo le dà un’indicazione chiara: “Ritorna alla tua padrona e sottomettiti al suo potere” (cfr v. 6).

    Jhwh che vedendo più tardi l’oppressione degli israeliti sotto gli egiziani vorrà liberarli, non ha lo stesso messaggio per Agar: questo intervento dunque ci sorprende. Agar sa che tornando sarà maltrattata, ma nello stesso tempo ha la certezza che solo così suo figlio avrà una casa e di che vivere.

    Agar, come tante altre madri, sarà pronta a sacrificare se stessa, la propria libertà, per il figlio vivendo la gratuità dell’amore, fino a che punto?

    Al suo posto che faremmo?

    Ma se ad Agar viene richiesta questa “uscita” (che è un ritorno), questo distacco dai suoi progetti, l’angelo sorregge questa richiesta con due promesse: il figlio nascerà e da lui essa avrà una discendenza. Quest’ultima assomiglia a quella di Abramo: “Moltiplicherò assai la tua discendenza e non la si potrà contare”. Agar è la sola donna nell’antico testamento a ricevere delle promesse. La gravidanza di Agar anche se frutto di un espediente umano, è da parte di Dio ratificata. Egli può far rientrare e riscattare nel suo disegno di salvezza ogni realtà.

    Il Dio biblico entra in dialogo con l’uomo accettando anche i suoi tempi, fatiche, contraddizioni, incertezze.

    Il bambino sarà chiamato Ismaele che significa “Dio ha ascoltato”. Che cosa ha ascoltato? Agar non gli ha rivolto alcuna invocazione. Ha ascoltato invece la sua afflizione.

    Dopo l’ordine di Dio Agar “diede” un nome a Dio: essa è la sola persona nella Bibbia che fa questo. Lo chiama “Tu sei El Roy” che significa “Dio che vede”. Dio ha visto il dolore di Agar e l’ha ascoltato. Essa spiega il nome: “Non ho continuare a vedere (= vivere) dopo che mi ha veduta?”. La donna è meravigliata di come dopo l’incontro con Dio possa essere rimasta in vita. Vedere Dio non è morire (Es 33,20)?

    Il ritorno di Agar: vv. 15-16

    Agar ritorna, partorisce il figlio ed è Abramo che dà il nome al bambino, indicato dall’angelo.

    Il secondo espediente umano sembra coronato da successo. A ottantasei anni finalmente Abramo diventa padre.

    Si è realizzata la promessa? Non ha egli finalmente un figlio del suo stesso sangue? Sembrerebbe di sì. Abramo è felice, aperto al futuro nella speranza.

    La stessa cosa non si può dire si Sarai. Ella si sente umiliata. Il bambino non viene dato a lei ma ad Abramo. Il suo nome non compare per nulla nella scena. Di per sé il figlio doveva prima essere consegnato a lei.

    Concludendo…

    Quali considerazioni fare concludendo questo episodio?

    La decisione di sarai è data dalla paura e dalla sua disperazione. La sua decisione non nasce dalla gioia e dalla gratuità.

    Quel concepimento che dovrebbe essere motivo di gioia diviene per lei così occasione per vivere la sua rabbia nei confronti della vita e di se stessa. Non ci meraviglia che essa divenga ingiusta e violenta.

    Abram appare succube di sarai, in sua balia. Sta alle sue decisioni senza nulla obiettare. A cosa attribuire questa passività? Non è che forse nel suo animo si stia insinuando l’incertezza, la paura, la non speranza nelle promesse?

    Così ancora non sa opporsi all’ingiustizia, non fa nulla per sanarla, è come trascinato dagli eventi.

    E nemmeno Agar è perfetta. Anch’essa appare incapace di gratuità. Sfrutta la situazione per rifarsi della sua condizione, per vendicarsi della sua umiliazione. Anch’essa nei confronti di Sarai si comporta male, in modo arrogante incapace di ascoltare il dolore del cuore di Sarai.

    Jhwh sembra a sua volta seguire una scelta sbalorditiva chiedendo ad Agar di tornare ad essere oppressa. Ma è scelta che si impone con realismo: e così Dio entra nella storia umana fatta di contorcimenti, corsi e ricorsi, instaurando con l’uomo quel dialogo che lo apra alla vera libertà.

    Cosa vi è di positivo in tutto il racconto? E’ la nascita di un figlio, di Ismaele.

    Ma il prezzo è stato molto alto, come capita spesso quando l’origine delle scelte è frutto della paura, dell’amarezza, della disperazione: fonte di sofferenze per sé e per gli altri.

    Il racconto illustra anche un ulteriore aspetto: Jhwh non è solo il Dio di Abramo, ma anche di Agar l’egiziana e di tutta la sua discendenza. In Abramo Dio benedice tutte le nazioni (12,3) e abbraccia tutte le nazioni. Realmente in Abramo ebrei, cristiani, mussulmani si ritrovano uniti nella fede in quel Dio che guida la storia.

  • 05 Mar

    Dall’aurora io ti cerco

    Lectio del Sal 62

    di p. Attilio Franco Fabris

    Per un desiderio, che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre, la brama dura a lungo, le esigenze vanno all’infinito… Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole, che più non muti: bensì rassomiglia soltanto all’elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento. Quindi finché la nostra coscienza è riempita dalla nostra volontà; finché siamo abbandonati alla spinta dei desideri, col suo perenne sperare e temere; finché siamo soggetti del volere, non ci è concessa durevole felicità né riposo”. E’ un brevissimo testo che traggo dal filosofo tedesco Schopenauer (da “Il mondo come volontà e rappresentazione”) che ben si addice ad introdurci alla meditazione del salmo 63. Il nostro filosofo riconosce un’impossibilità nell’uomo di trovare appagamento pieno al suo desiderio che è fatto a misura dell’infinito. Ciò che cerchiamo a volte è solo spesso un’elemosina. Il salmo 63 ci invita ad un balzo straordinario di consapevolezza: il nostro riposo è solo in Dio: lui solo potrà saziare la fame e la sete che albergano sempre insoddisfatti nel profondo di noi stessi. E un salmo che produce vita, tensione, allontanandoci dal grigiore di una religiosità fredda, moralistica. Nei “Racconti dei Chassidim” si narra che il “rabbi Kobryn diceva: Pensa a ciò che Davide dice nel salmo: La mia anima è assetata di te e poi così ti ho cercato nel santuario. Davide prega Dio di concedergli di provare nel luogo santo lo stesso fervore che l’assaliva quando era nel deserto, senz’acqua, esausto. Perché prima Dio pietoso risveglia gli uomini alla santità, ma poi, quando Dio comincia a fare qualcosa, gli ritoglie quanto gli ha dato, affinchè egli agisca da solo e sa solo arrivi ad un pieno risveglio”.


    Lectio

    Vogliamo fermare la nostra contemplazione sul Salmo 63. E’ un salmo che conosciamo molto bene perché la Liturgia delle Ore ce lo propone spesso. Per questo è utile approfondirlo perché l’abitudine della recita, la ripetizione delle stesse parole, non rischi alla lunga di svuotarlo nel suo splendido contenuto.

    Diciamo anzitutto che tra gli esegeti non vi è accordo sul caratterizzare in modo preciso il genere letterario a cui appartiene il nostro salmo: per alcuni è un salmo di fiducia, per altri di ringraziamento o liturgico, per altri ancora un salmo regale. Tuttavia una sua attenta lettura dovrebbe forse portarci a considerarlo fondamentalmente come un salmo di lamentazione individuale, a cui si affiancano gli elementi degli altri generi letterari sovracitati.  L’esegeta tedesco Kraus propone un’interpretazione che ci sembra plausibile: il salmista è perseguitato da nemici (vv. 10.12). Nella prova ardentemente desidera trovare aiuto stando alla presenza di Dio (v. 2). Rifugiatosi perciò nel santuario, sentendosi protetto da JHWH (v 8), il perseguitato sente di aver finalmente raggiunto un sicuro rifugio. Tuttavia il giudizio divino di condanna contro i suoi nemici non è stato ancora pronunziato, ma l’orante, con grande fiducia, vede in anticipo la rovina definitiva dei suoi persecutori. Può dunque innalzare a Dio la sua lode e il suo ringraziamento per la salvezza ricevuta che si augura tutti possano sperimentare. Circa la data di composizione del salmo sembrerebbe da doversi collocare verso il  597 a.C., sul finire dunque della dinastia davidica, poco prima della tragica deportazione a Babilonia.

    Ma veniamo al testo.

    Anzitutto troviamo il titolo del salmo che, come da tutta la tradizione biblica, rimanda come suo autore al re Davide: viene precisato anche il contesto in cui egli l’avrebbe composto; esso ci riporta all’episodio in cui il futuro re di Israele, braccato dal re Saul che cercava di ucciderlo, “dimorava nel deserto di Giuda”(v.1; cfr 1Sam 22-26). Il salmista, facendo memoria di questo triste precedente, compone la sua lamentazione in cui invoca JHWH affinché, come liberò Davide, salvi anche lui dalle mani dei nemici.

    Il salmo vero e proprio inizia con un forte movimento di attesa, di desiderio e di speranza: troviamo subito all’inizio la calda invocazione del nome di Dio, con premesso l’aggettivo “mio”: “O Dio, tu sei il Dio mio” (v.2).Essa esprime una relazione intensa, nella quale sembra di risentire le parole della sposa del Cantico dei Cantici: “Il mio amato è mio e io sono sua” (2,16).

    Viene immediatamente esplicitato da parte dell’orante l’urgente bisogno di raggiungere Dio come unica roccia di salvezza: “dall’aurora ti cerco” (v.2). Anche qui il “cercare dall’aurora” assume il significato di cercare ardentemente senza perdere tempo: è la cosa più urgente da fare perché il nuovo giorno permetterà al salmista di contemplare la salvezza che Dio opererà per lui. Non per nulla la tensione verso Dio viene paragonata alla ricerca dell’acqua da parte di un uomo sperduto nel deserto (“in terra arida, assetata, senz’acqua”) che rischia di morire: “di te ha sete l’anima mia” (v.2). Come l’uomo ha bisogno dell’acqua per sopravvivere “in terra arida” così il salmista sa che solo in Dio egli potrà trovare la vita: lontano da lui andrebbe incontro inesorabilmente alla morte. La sete di Dio è lo stesso tema ricorrente che troviamo ad esempio nel salmo 41: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?” (vv.2-3). È tutto l’uomo che ha bisogno di Dio per vivere; non solo l’anima, ma anche la sua stessa carne: “Ha sete di te l’anima ( ebr nèfesch)  mia, desidera te la mia carne (ebr. basàr)”(v.2); tutto il suo essere è proteso verso il Signore sorgente di vita (cfr Ger 2,13). Nel salmo vedremo che oltre all’anima e alla carne  anche gli occhi, la bocca, le labbra, le mani sono chiamati a sperimentare la presenza “saziante e dissentante” di Dio.

    Alla gola riarsa dalla sete subentra al v.3 l’occhio: nel santuario il salmista può sperare il dono della visione di Dio. Lì si spegnerà la sua sete quando potrà finalmente “contemplare nel tempio il volto di Dio” (v.3; la forma verbale più che al passato andrebbe letta al futuro: “Nel tempio vorrei  contemplarti”). Ma che cosa precisamene spera di contemplare il salmista visto che Dio è invisibile all’occhio? Al salmista sarà accessibile la contemplazione degli attributi di Dio che sono la sua “potenza” e la sua “gloria”, dove “potenza” e “gloria” comportano la manifestazione di Dio negli eventi della storia della salvezza. Il salmo non parla dunque di una contemplazione spiritualistica di stampo platonico, ma di una contemplazione di Dio a partire da ciò che egli farà concretamente per l’orante al fine di salvarlo.

    Il v.4 riveste notevole importanza; vi si dice: “perché il tuo amore (ebr hèsed) vale più della vita”. Per l’orante la gioia di vivere sta nello sperimentare la mano amorosa di Dio. Senza questa conoscenza la vita gli apparirebbe vuota, spenta. Alla luce di questa straordinaria esperienza egli giunge a stabilire una nuova gerarchia di valori in cui l’unità di misura è l’hesed (amore) divino.  Si tratta di un’affermazione che segna un notevole progresso nella visione biblica della salvezza perché, se finora si poneva l’esistenza terrena come bene supremo, ora questo bene supremo, superiore alla vita stessa, appartiene alla sfera divina: è sentirsi raggiunti dal suo amore di fronte al quale tutto passa in second’ordine. Al salmista preme perciò maggiormente non il salvarsi dalla persecuzione e dalle minacce di morte nei suoi confronti, quanto il poter toccare con mano ancora una volta che Dio è salvatore. Come non riandare a ciò che molti secoli dopo l’Apocalisse affermerà dei martiri del nuovo Israele i quali hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello e grazie alla testimonianza del loro martirio; poiché hanno disprezzato la vita fino a morire” (Ap 12,11)?

    Il versetto si conclude con il verbo “celebrare-lodare”: sono le “labbra” ora nella certa attesa della salvezza (cfr Sal 104,33). Una lode e benedizione che vengono estese per tutto l’arco della vita e che diventano la ragione stessa dell’esistenza: “Così ti benedirò per tutta la vita” (v.5).

    Alla benedizione delle labbra si accompagna anche il gesto dell’innalzare le mani al cielo, verso Dio (v.5). E’ la classica posizione dell’orante ripresa anche nelle prime comunità cristiane (cfr 1Tm 2,8) e di cui rimangono parecchie belle testimonianze negli affreschi catacombali.

    L’orante, che come detto all’inizio immaginiamo all’interno del tempio, ha la possibilità anche fisica di saziare la sua fame di comunione con Dio (v.6). Questo suo “sfamarsi” della presenza del Signore viene espresso attraverso l’immagine della sazietà delle sue “labbra gioiose” perché piene di cibo. L’aggancio concreto è sicuramente desunto dal rituale del sacrificio denominato “di comunione” in cui il grasso veniva offerto a Dio perché segno di abbondanza e benedizione, mentre la carne veniva consumata tra l’offerente e il sacerdote. Si esprimeva così attraverso il segno del banchetto sacro una comunione tra JHWH e il suo fedele. Banchetto che prefigurava la perfetta comunione con Dio promessa per i tempi messianici. Isaia in tal senso profetizza il convito escatologico e messianico imbandito da Dio stesso alla fine dei tempi: “banchetto di grasse vivande, di vini eccellenti, di cibi succulenti e di vini raffinati” (25,6) nel quale tutti sarebbero stati sfamati.

    Come possiamo constatare il salmo 63 ci aiuta ad entrare in uno stile di preghiera biblico che coinvolge tutto l’uomo e non solo la sua sfera mentale e/o affettiva interiore. L’uomo bisognoso di salvezza ci viene presentato come affamato e assetato che trova solo presso Dio l’acqua viva e il cibo sostanzioso per la sua vita (cfr Sal 36,8-10). E tutto questo attraverso un’esperienza di Dio reale, palpabile, fisica, non relegata alla sola sfera intima, individuale e invisibile.

    Nel tempio è calata ormai la notte. Sul suo giaciglio l’orante “ricorda” e “ pensa a Dio” (letteralmente “medita muovendo le labbra” v.7). Egli nel silenzio della notte “fa memoria” delle opere salvifiche di Dio che gli assicurano che non sarà abbandonato in mano dei nemici, perché il Signore è fedele per sempre alla parola data: egli “è stato il suo aiuto” (v.8).  Certo di questo sostegno il salmista non può non “esultare di gioia” (v. 8) in anticipo sentendosi “all’ombra delle sue ali” ovvero protetto da Dio (v.8; cfr Sal 17,8). È bella e tenera questa immagine delle ali che proteggono il fedele. Fu usata anche da Gesù stesso (Mt 23,37). Essa è legata alla simbologia materna che esprime la protezione premurosa sui piccoli. È una simbologia che nella bibbia viene estesa simbolicamente all’area del tempio con la figura dei cherubini che con le loro ali si stendono sull’arca quasi proteggere il popolo intero.

    Se la comunione con Dio è la cosa più importante da ricercare non ci meraviglia che tutto l’essere (nefesch) dell’orante voglia “stringersi” (v.9;  lett. “Rimanere attaccato dietro a te”) a lui, non volendosene separare per alcuna ragione. L’espressione è ricavata probabilmente dal linguaggio nuziale a cui attinge la terminologia dell’alleanza. Sia l’orante che JHWH vivono una indissolubile reciproca fedeltà, una mutua e  incrollabile adesione dettata dalla fede e dall’amore. Ciò è anche dall’immagine dell’intreccio delle mani. La “destra” (v.9) di Dio – che ha il primato – stringe saldamente la mano dell’orante, dove la mano destra è simbolo di forza, di potenza, e sicurezza (cfr Os 11). È la destra di Dio che “sostiene” il suo fedele impedendogli di abbattersi.

    Il testo liturgico purtroppo non ci propone i successivi  vv.10-11 che sono stati “censurati” (ma non dimentichiamo che Gesù stesso pregava anche queste parole!). Certamente si tratta di parole violentemente imprecatorie contenenti un augurio di morte per i nemici che dobbiamo immaginare fuori dal tempio mentre cercano in tutti i modi un espediente per “rovinare” l’orante. Il contrasto con le immagini tenere e serene espresse poco prima serve ad illuminare la fede del salmista che comporta inesorabilmente una lotta e uno scontro contro il male in tutte le sue forme. La speranza di quest’ultimo è che “gli empi siano consegnati in mano alla spada” (v.11), ovvero al giudizio insindacabile della parola di Dio. Il risultato di questo giudizio sarà la loro definitiva scomparsa ed eterna maledizione (sono menzionati gli “sciacalli” che, divorando i cadaveri, impediscono la loro sepoltura e quindi ogni speranza di sopravvivenza nello “scheol”).

    Il tutto si conclude col v. 12, anch’esso omesso nella versione liturgica, che contiene un augurio e una benedizione per il re. Probabilmente si tratta di una formula stereotipata che veniva aggiunta come finale al salmo vero e proprio e che veniva affidata alla proclamazione di tutta l’assemblea (un po’ come il nostro “Gloria”). Questa benedizione per il re è importante perché ha permesso alla tradizione sia giudaica che cristiana una lettura messianica del salmo: mentre infatti i nemici sprofondano nello “scheol” il re messia celebra la sua gioia per la vittoria finale accordatagli da JHWH.

    Si parla infine della “gloria” che sperimenta “chi giura in lui” (v.12). Per chi giura l’orante? Per Dio o per il re? Il giuramento classico è fatto nel nome di Dio. In questo caso si glorierà, ovvero sarà beato, chi si è affidato interamente al Signore. Ben diversa sarà la fine degli avversari che sono “mentitori”; differenza abissale tra chi giura nel nome di Dio credendo in lui, aderendo in lui e amandolo e chi invece, attraverso la menzogna e la malvagità, crede di sfidarlo.

    Possiamo concludendo ben dire che il salmo 63 ci appare come un salmo che canta la speranza incrollabile del credente. Speranza che trova la sua sorgente unicamente nella fedeltà di Dio che è salvatore, capace di sconfiggere definitivamente tutto il male che circonda il suo fedele.

    Collatio

    Propongo per la nostra “collatio” un esercizio per imparare a pregare i salmi che la Scrittura e la Chiesa ci offrono con abbondanza. Vi propongo quando pregate un salmo di compiere semplicemente tre passi ponendo le parole che pronunciate sulle labbra di Cristo, della Chiesa, e infine sulle nostre stesse labbra. È un metodo molto elementare ma che ci può aiutare ad approfondire, interiorizzare e attualizzare queste preghiere antichissime ma sempre nuove. È un metodo che ci insegna a pregare i salmi alla luce di Cristo superarando il rischio spesso inconsapevole ma estremamente deleterio per la nostra vita spirituale di ridurre i salmi ad una semplice… “recita”, un ripetere meccanico di parole lontane e staccate dalla vita che risultano alla fin fine incapaci di produrre frutti spirituali.

    Prima di compiere correttamente i tre passi occorre però cogliere anzitutto il genere letterario del salmo. In questa prima fase ci aiutano sia il titolo come anche la citazione biblica o patristica che nel breviario vengono premesse al testo del salmo vero e proprio. Lasciamo perciò un congruo spazio di silenzio tra un salmo e l’altro evitando la recita a… raffica! (perché ci sono tante cose da fare a parer nostro più importanti!).  Questo ci aiuterà a pregare i salmi di lamentazione applicando le loro parole a Gesù durante la sua passione, poi alla Chiesa perseguitata poi sulle labbra di chi vive persecuzione, prova e sofferenza. I salmi regali li pregheremo invece più facilmente ponendo le loro parole sulle labbra del Cristo glorioso assiso sul trono di Dio, circondato dalle schiere dei salvati. I salmi di lode e ringraziamento li potremo invece applicare a Gesù risorto il mattino di Pasqua, alle quali ci uniamo insieme a tutta la Chiesa. E così via. Ricordiamo che Gesù risorto apparendo ai discepoli nel cenacolo la sera di Pasqua li introdusse alla comprensione del suo mistero tenendo sullo sfondo, come in filigrana, non solo i testi profetici bensì anche gli stessi salmi: “Poi disse: «Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi»” (Lc 24,44). Essi perciò ci aiutano ad entrare nel mistero di Cristo.

    Cerchiamo ora di calare quanto detto al salmo 63.

    Essendo un salmo di lamentazione a cui però non mancano temi di lode, benedizione e ringraziamento per la salvezza ottenuta, possiamo ben applicarlo a Gesù durante la sua passione e nella gloria della sua resurrezione all’alba del primo giorno della settimana. A questa lettura ci invita la stessa liturgia che pone il salmo 63 durante la preghiera delle lodi del mattino della domenica. Gesù anche nel terribile crogiuolo della prova è certo di gustare la salvezza promessagli dal Padre: la sua speranza è riposta unicamente nel suo amore fedele che in lui perseguitato e ucciso rivelerà la sua  “potenza” e la sua “gloria”(cfr Gv 17,1). Durante la passione tutto l’essere di Cristo, la sua ”anima” e la sua “carne”, rimane teso unicamente alla volontà del Padre. Fame e sete di Cristo sono compiere pienamente questa volontà: “Gesù disse loro: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,34); “Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: «Ho sete»” (Gv 19,28): “ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne”. Fare la volontà del Padre per Gesù vale per lui “molto più della vita”: Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!” (Gv 12,27) . E’ nel mattino di pasqua che Gesù sperimenta “con esultanza” che la destra di Dio “l’ha sostenuto”, che egli è “stato il suo aiuto”, rialzandolo “dal giaciglio” del sepolcro. I suoi nemici sono definitivamente condannati “dalla spada” del giudizio divino, “sprofondati sotto terra” preda di sciacalli, ovvero definitivamente annientati (cfr Ap 21,1). A lui, re e messia, Dio ha concesso la vittoria: egli può perciò eternamente “esultare di gioia” entrando “nel santuario” del cielo (cfr Ebr 9,24) in una perenne liturgia di lode e ringraziamento. Con braccia alzate al cielo non possiamo che unirci al crocifisso risorto nel suo canto di ringraziamento e di lode al Padre.

    Dopo aver compiuto questo primo passo nella preghiera, possiamo ora accedere al secondo.

    Sappiamo che il mistero pasquale di Cristo è dato da vivere anche alla Chiesa intimamente unita a lui in un vincolo strettissimo di alleanza. La Chiesa avverte il bisogno di “cercare  Dio fin dall’aurora”, di ripararsi all’”ombra delle ali di Dio”, d’essere “sorretta dalla sua destra”, perché lasciata a se stessa ha coscienza di non aver la forza sufficiente di sostenersi. Anche la Chiesa, come Cristo nella passione, non cessa d’essere minacciata e perseguitata. Essa camminando in un mondo “arido, senz’acqua”, in cui Dio spesso sembra assente o lontano, sperimenta la croce ma nello stesso tempo si alimenta alla speranza della fedeltà di Dio che non l’abbandonerà. Guardando al suo Signore essa prevede già il giudizio e la sconfitta finale del nemico. Nella speranza e nell’amore ardente la spinge ad “aderire strettamente a lui” tocca già con mano la “potenza” e la “gloria” con cui il suo Sposo crocifisso e risorto sta operando la salvezza del mondo attraverso di lei (cfr Ap 12,10). In questo faticoso cammino verso il “santuario”, il Regno di Dio, la Chiesa si nutre “con labbra gioiose” del “cibo succulento” della Parola di Dio; si disseta al calice del sangue di Cristo, saziandosi anticipatamente nel segno sacramentale al banchetto della vita eterna.

    E dopo aver applicato il salmo a Cristo e alla Chiesa possiamo applicarlo infine anche alla nostra vita. Il salmo ci invita a domandare al Signore la grazia di desiderarlo prima di ogni altra cosa “sin dall’aurora”, di avvertire “fame” e “sete” di lui nella consapevolezza che solo lui può colmare il nostro bisogno più profondo. Come consacrati chiediamo soprattutto di volerci “saziare” della sua presenza sapendo che la sua grazia (hesed) “vale per noi molto più della vita”. Come oranti vogliamo tenere “alzate le mani” al cielo come Cristo sulla croce intercedendo per il mondo intero, con le nostre “labbra” vogliamo sempre pronunciare la “lode” e la “benedizione” per quanto Dio fa per noi. Gli domanderemo infine di “sostenerci con la sua destra” affinché non soccombiamo nella tentazione, nella lotta contro tutti quei nemici, visibili ed invisibili, che vogliono la nostra rovina. Ci uniremo infine a Cristo vincitore e nostro re perché ci renda partecipi fin d’ora e per tutta l’eternità del banchetto del suo Regno in cui saziarci della sua presenza.

    Ecco dunque un piccolo esempio di come potremmo pregare i nostri salmi che la Liturgia delle Ore pone abbondantemente ogni giorno sulle nostre labbra. Impariamo soprattutto ad “unire”, come ci chiede il Concilio Vaticano II (SC n. 99) e tutta la tradizione “le labbra al cuore”: solo così potremo pregare veramente, sapendo che il Signore  “fa dono della preghiera a colui che prega” (Evagrio Pontico).

    Oratio

    Terminiamo con un testo, una preghiera, composta dal grande mistico fiammingo Jean Van Ruysbroeck (1293 –1381) che ben esprime l’ardente e “famelico” bisogno di sfamarsi di Dio:

    Signore, tu sei per me cibo e bevanda:più mangio e più ho fame,
    più bevo e più ho sete
    più possiedo e più desidero.
    Sei più dolce al mio palato di un favo di miele,
    più di qualsiasi dolcezza che sia possibile misurare.

    Sempre rimarranno in me la fame e il desiderio,
    perché sei inesauribile.

    Sei tu che mi divori, o sono io? Non lo so.
    Perché nel profondo della mia anima sento l’una e l’altra cosa.

    Tu esigi che io sia una cosa sola con te,
    e questo per me è molto difficile,perché non voglio abbandonare le mie pratiche
    per addormentarmi tra le tue braccia.
    Non posso non ringraziarti, lodarti e renderti onore:
    per me questo è la vita eterna.
    Trovo dentro di me una certa impazienza, e non so cosa sia.
    Se potessi raggiungere l’unità con Dio
    senza lasciare le mie opere,
    smetterei subito di lamentarmi.
    Dio sa ciò di cui abbiamo bisogno: faccia di me quello che vuole!
    Mi rimetto interamente nelle sue mani,
    e così attraverserò con coraggio ogni sofferenza.

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