• 20 Set

    Chi non è contro di voi è per voi  Lc 9,49-50

     di p. Attilio Franco Fabris

    Sempre nell’ottica dell’autoaffermazione vediamo ancora i discepoli impegnati a porre rigidi confini che divengono vera e propria intolleranza per quelli che stanno “al di fuori” della loro cerchia.

    Se nel brano precedente Gesù si identifica con il bimbo, il “più piccolo”, ora si identifica con l’anonimo emarginato dalla comunità. Così dopo aver smascherato il delirio di grandezza del singolo discepolo, ora intende smascherare quello dell’intera comunità.

    Al mistero di Dio che si fa il “più piccolo” mettendosi al servizio di tutti, svuotando se stesso, corrisponde l’egoismo dell’uomo che si gonfia  e mette il proprio io o il noi al di sopra di tutti operando separazioni e divisioni.

    Ciò che vale per il discepolo che ricerca il modo per essere “il più grande” ma vale anche per la la Chiesa, la comunità dei discepoli.

    Questa per essere fedele al suo Signore deve continuamente rinnegare se stessa, il “noi” e farsi piccola. Perché il “noi” rischia sempre di voler sostituirsi al Signore nella ricerca della propria grandezza e del proprio potere. Si potrebbe parlare di un peccato di… ecclesiolatria! Un peccato che distrugge la chiesa stessa, perché il “noi” che vuole separarsi dall’ “altro” in forza propria, esclude noi dalla comunione con il Signore.

    La comunità dei discepoli corre sempre il pericolo di diventare un “noi” centrato su di sé, invece che sul Signore da seguire. La conseguenza è questo “noi” diviene una solidarietà aggressiva, dettata dalla paura e dal voler difendere il proprio nome che si forma escludendo altri.

    Il testo esclude categoricamente il “noi” come fondamento della Chiesa: “nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” (1Cor 3,11).

    Altrove Gesù affermerà che: Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde (11,23), così che la discriminante per essere chiesa è l’essere “con lui”  e  non l’essere “con noi” riferito alla Chiesa. La Chiesa non preesiste a Cristo e neppure lo sostituisce. Essa non può mai identificarsi con Cristo, anche se Cristo si identifica con essa. Il Signore trascende sempre la stessa Chiesa e in questo modo fa sì che essa rimanga aperta e nella tensione continua che la fa abbracciare tutti, perché in tutti vede dei fratelli.

    Il rischio è sempre quello di stravolgere il rapporto di fede per cui il Signore è ridotto a strumento in funzione del “noi” ecclesiale! Per questo c’è chi fa parte della chiesa visibile ma non di quella invisibile, come c’è chi fa parte della quella invisibile e non di quella visibile.

    Essa è veramente cattolica quando non esclude nessuno e rispetta la libertà di tutti. Ogni diversità allora non solo è tollerata, ma considerata positiva (1Cor 12) perché l’ unità della Chiesa non è un modello socio-culturale-politico o una spartizione di potere, ma è il nome di Gesù che è stato escluso da ogni potere.

    La Chiesa è la sposa che si prepara alla nozze con l’Agnello, ed è necessariamente una, ma essa ha la prerogativa di un destino universale per cui la comunità non pretende che gli altri la seguono (“non segue noi!” v. 49) ma che tutti seguano il Signore.

    v. 49   I discepoli si sono sforzati nel voler impedire che un estraneo al gruppo potesse compiere esorcismi nel nome di Gesù. Ci troviamo in una situazione similare alla precedente. I discepoli devono imparare ad acquisire una mentalità accogliente.[1]

    Le parole di Giovanni sono l’immediata risposta a quanto Gesù ha detto circa l’accoglienza del “più piccolo” fatta “nel suo nome”. Siamo nella linea della più netta incomprensione (cf v.45) che esprime un atteggiamento diametralmente opposto a quello del Signore.

    Maestro abbiamo visto uno scacciare i demoni”: la vittoria sul male è lo scopo della missione di Gesù e della Chiesa. Ed è solo in forza nel nome di Gesù che il male può essere sconfitto, non in forza del proprio (cf At 19,15: Alcuni esorcisti ambulanti giudei si provarono a invocare anch’essi il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi, dicendo: «Vi scongiuro per quel Gesù che Paolo predica». Facevano questo sette figli di un certo Sceva, un sommo sacerdote giudeo. Ma lo spirito cattivo rispose loro: «Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?»).

    nel tuo nome”: (cf v. 48) è nel nome di Gesù che è possibile accogliere la diversità dell’altro, ponendosi a servizio del “più piccolo”.

    e lo impedivamo”: è un imperfetto che indica un tentativo ripetuto e non riuscito. Invano la comunità vuol impedire l’opera di salvezza di questo discepolo anonimo ed escluso, e per fare questo cerca l’avvallo di Gesù. Ciò dimostra che ai discepoli non sta a cuore tanto la salvezza dei fratelli, quanto l’affermazione di se stessi e l’esclusiva dell’appoggio del Signore. Non interessa loro tanto la liberazione dal male, quanto paradossalmente la sua affermazione.

    perché non segue noi”: ciò che sta a cuore ai discepoli non è seguire Gesù ed essere con lui. Infatti Gesù non è neppure nominato con pronome (non potevano dire: “Non ti segue con noi”?). La formula indica un orgoglio collettivo tanto disastroso come quello individuale. Tale orgoglio cerca invece del bene dei fratelli l’affermazione del “noi” mediante l’esclusione degli altri.

    Un tale atteggiamento arriva all’aberrazione del Gott mit uns servendosi di Dio per esaltare se stessi, e si può arrivare a questo pensando di agire giustamente! Questo accade ogni qual volta la comunità cristiana pone al centro se stessa invece di Cristo piccolo ed escluso.

    È il capovolgimento radicale della fede, quasi che noi non dovessimo seguire lui ma lui seguire noi facendosi garante dei nostri interessi di parte (Cf 1Sam 4,3: Quando il popolo fu rientrato nell’accampamento, gli anziani d’Israele si chiesero: «Perché ci ha percossi oggi il Signore di fronte ai Filistei? Andiamo a prenderci l’arca del Signore a Silo, perché venga in mezzo a noi e ci liberi dalle mani dei nostri nemici»).

    Ovunque la comunità dei discepoli impedisca il bene o esclusa qualcuno, essa cade nel peccato di non voler seguire il Signore Gesù bensì che lui “segua” lei.

    v. 50 La risposta di Gesù si oppone  decisamente all’intenzione discriminatoria dei discepoli: non impedite!. Ed egli motiva tale posizione con un proverbio: Chi non è contro di voi è per voi! (In Mc è alla prima persona plurale “noi”; Lc pone l’accento sulla comunità).[2]

    Emerge la convinzione dell’evangelista che il Risorto è efficacemente presente anche al di fuori dei canali istituiti dalla Chiesa.[3]

    “non glielo impedite”: questo atteggiamento del “noi” è un impedimento a vincere il maligno, anzi fa fare alleanza con lui (cf Mc 8,32s).

    Se Gesù si è fatto piccolo ed escluso per accogliere e includere tutti, anche noi dobbiamo lasciare ogni ricerca di potere e di grandezza personale e comunitaria per non escludere nessuno. Bisogna bandire ogni autoesaltazione tanto personale che comunitaria, superare ogni forma di associazionismo, di ghetto, di partitismo che ha come centro di aggregazione il “noi” e si cementa solo in quanto riconosce negli altri dei nemici e concorrenti. È una solidarietà negativa che, per essere tale ha bisogno di mettersi “contro” gli altri.

    Chi non è contro di voi è per voi”: Gesù prende le distanze da questo “noi” e si allontana da una tale comunità: non tollera essere chiamato “noi” e non si include con loro: li chiama “voi”. Gesù non può identificarsi con chi esclude qualcuno!

    Questa parola di Gesù non indica semplicemente una tolleranza illimitata. Essa invece indica la direzione per leggere la vera cattolicità della Chiesa che è chiamata ad allargare la cerchia di coloro che seguono Cristo, abbracciando tutti, nessuno escluso. Solo allora Gesù potrà dire “noi” perché si sentirà incluso anche lui che si è fatto l’ultimo di tutti. Allora sarà il Regno, le nozze con la Sposa!

    Una cattolicità fondata sull’unico Padre dell’unico Signore di tuttiche è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,6). È un’unità che rispetta la libertà, che non impone nessun giogo a nessuno e tende a formare un corpo con tutte le sue differenziazioni e nel rispetto reciproco.

    Quindi il termine dell’unità non è il “noi” dei discepoli, ma l’ “io” di Cristo, unico Signore: è lui che si deve seguire ed è “con lui” che bisogna stare.

    Da ciò si comprende che le difficoltà all’interno e all’esterno della comunità sono sempre dovute dalla ricerca dell’autoaffermazione dell’io (vv 46-48) e del noi (vv 49-50). Queste difficoltà si risolvono ponendo sempre e solo al centro il nome del Signore.

    L’appartenenza al “noi” visibile non è dato dal “seguire con noI”, ma dal seguire l’unico Signore e operare insieme a lui vincendo il male. Non la Chiesa fa il Cristo, ma è il Cristo che fa la Chiesa. E la Chiesa forma un “noi” definibile e visibile, voluto dal Signore, ma che deve sempre restare aperto e centrifugo: perché la sua essenza è fuori di lei.

    La tensione tra libertà e istituzione è inevitabile ed è un bene, perché il “noi” resti proteso ad accogliere il diverso e si mantenga insieme uno e diffrenziato. Questa unità nell’amore esige e sopporta tanta diversità e pluralismo quanto è stretto il vincolo di amore all’unico Signore.

    Il cap. 9 iniziava con il mandato dei discepoli di cacciar dei demoni (v.1). Ora come conclusione della sezione si termina ricordando a questi stessi discepoli che il Signore può agire anche fuori di tale potere istituito: l’importante è che ne gioiscano senza temere la concorrenza: Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. Questi lo fanno per amore, sapendo che sono stato posto per la difesa del vangelo; quelli invece predicano Cristo con spirito di rivalità, con intenzioni non pure, pensando di aggiungere dolore alle mie catene. Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene. (Fil 1,15-18).

    Piste di meditazione

    C’è sempre il rischio di anteporre il “noi” a Cristo, nella ricerca di un’autoaffermazione che dimentica il nostro essere costruiti su di un unico fondamento che è Cristo.

    È lui che dobbiamo seguire, e il nostro “noi” si radica solo nel suo “io”. Ogni qualvolta dimentichiamo questo stravolgiamo la realtà e il dinamismo della comunità.

    Gesù invita la comunità a permanere in un atteggiamento fondamentale di accoglienza e di stima nei confronti di tutti: nessuno è escluso dal suo abbraccio. Solo in questo modo rimane fedele al suo Signore che si è fatto il più piccolo e il più ultimo affinché il nostro abbraccio non lasciasse fuori nessuno.



    [1] Chiaramente sottostante è un problema pastorale serio: quanto valore ha un’attività svolta “nel nome di Gesù” al di fuori della comunità cristiana? (Fli 1,15).

    [2] Il riferimento storico del proverbio sembra risalire alla guerra civile tra Pompeo e Cesare (I sec a.C.). Le due frasi sono riportate da Cicerone.

    [3] Luca vuol vedere una mentalità di accoglienza richiesta nei rapporti fra i credenti estesa anche allo straniero, a quelli che benché non cristiani, agiscono come persone che sono “vicine al Regno di Dio” (anche se non può essere letto isolatamente come abolizione di ogni distinzione!).

     

  • 23 Ago
    1. Li farà mettere a tavola e passerà a servirli

    Luca 12,35ss.

     

    L’indicazione al versetto 35 del cap.12 di Luca è: “Siano i vostri fianchi cinti e le lampade accese”. Questa espressione la ritroviamo nelle indicazioni che Mosè dà per la prima Pasqua: “Ecco in quale modo mangerete, con i fianchi cinti, pronti per la partenza, e i sandali ai piedi, il bastone in mano. Lo mangerete in fretta. E’ la Pasqua del Signore”.  Cosa significa  “cingere i fianchi”? A quell’epoca l’indumento degli uomini era una lunga tunica, ma quando si doveva lavorare o quando si doveva partire per un viaggio, questa tunica era di impaccio, arrivava infatti fino ai piedi, allora cosa si faceva? Si prendeva il lembo della tunica, la si raccoglieva e la si metteva nella cinta ai fianchi, di modo che ci fosse più agilità di movimento. Per cui “cingere i fianchiindica un atteggiamento di servizio – erano i servi che avevano i fianchi cinti per essere sempre pronti al servizio – e di cammino verso una meta.

    La caratteristica che allora Gesù chiede ai discepoli è di avere un atteggiamento abituale di servizio, e di prontezza nel mettersi in cammino dietro di lui verso la pienezza della liberazione.

    Servire significa nutrire, rafforzare, comunicare vita: e questa è un’immagine dell’eucaristia, bellissima, che abbiamo nel vangelo di Luca, confermata dalle parole di Gesù, durante l’ultima cena.

    Abbiamo poi l’immagine delle lampade accese. Perché queste lampade accese? Anche questa è un’indicazione che troviamo nel libro dell’Esodo. Si richiedeva che nella tenda dove si pensava ci fosse la presenza del Signore, ci fosse sempre una lampada accesa[1]. Ebbene con questo invito l’evangelista ci sta dicendo che la comunità di Gesù è il nuovo santuario dove si manifesta e si irradia la presenza e l’amore del Signore.

     

    Continua Gesù “E voi siate simili ad uomini che attendono il loro signore quando torna dalle nozze in modo che, arrivando e bussando, subito gli aprano”. Gesù si paragona ad una sposo di ritorno dalle nozze.  Nella tradizione dell’Antico Testamento è consuetudine presentare il Signore come sposo del suo popolo. Perché “il signore” deve bussare? Se è il padrone di casa avrà ben le chiavi!  Ebbene Gesù non impone mai la sua presenza, ma sempre la propone; lui non obbliga, ma si offre.  C’è un richiamo di questo nell’Apocalisse, al capitolo 3: “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”.  Anche qui ritroviamo un’immagine eucaristica.

    Beati quei servi che troverà vigilanti – cioè svegli in atteggiamento di servizio – vi assicuro”, e qui c’è la sorpresa. Immaginiamo questa immagine di un padrone che arriva a casa sua a tarda notte, bussa, trova i servi ancora svegli che gli aprono, cosa fa? E’ normale, non si farà servire dai servi? Invece c’è un capovolgimento, un sovvertimento dei valori: “Vi assicuro che si cingerà” esattamente come si erano cinti i servi e il padrone – Gesù – lui si cingerà i fianchi per servire i servi. Il distintivo di Gesù non sono i paramenti sacri, non sono emblemi o segnali di gradi religiosi; il distintivo di Gesù, l’unico distintivo che Gesù mai si toglie, è il grembiule del servizio.

     

    Continua: “Vi assicuro che si cingerà, li farà giacere”, a tavola, ecco l’immagine dell’eucaristia, “e, passando, li servirà”.  E’ clamoroso quello che Gesù sta dicendo, è completamente nuovo. Chi si poteva sdraiare durante la cena o durante il pranzo? Soltanto i signori. Ovvero quelli che avevano dei servi che li servivano. Da sempre si pensava che i servi dovessero servire il loro padrone, e questo veniva applicato anche alla liturgia. La liturgia era un servizio di lode, un sacrificio, che gli uomini rendevano a Dio.  Ma qui è tutto il contrario. Nell’eucaristia il Signore fa giacere i suoi discepoli, ed è lui che si fa servo degli uomini perché gli uomini si sentano signori.

    Ed essere signori significa essere pienamente liberi; c’è un dono prezioso che Dio ci dà e ci offre, un dono che, una volta conquistato non può essere tolto: è la libertà. Nell’eucaristia il Signore ci fa sentire dei signori perché passa lui a servire i suoi.

     

    Perché questo? Perché servire gli altri stanca, servire gli altri significa consumare energie, servire gli altri significa dissipare le forze. Allora c’è un momento in cui la comunità viene fatta riposare ed è il Signore che passa servendo, ovvero comunicando la sua stessa energia, in un crescendo senza fine. Più noi serviamo gli altri e più dobbiamo permettere al Signore di comunicarci la sua energia d’amore.

    Ma i discepoli questo non lo capiscono (cfr Gv 13), ci vorrà tempo, infatti litigheranno tra di loro per sapere chi è il più importante. Ebbene Gesù li richiama e dice “Io sono in mezzo a voi come colui che serve”.

    E, Gesù continua “E se nella seconda e nella terza vigilia troverà i suoi servi ancora svegli, beati loro”. Il servizio di Gesù consente ai discepoli di essere continuamente in una disposizione di servizio. L’eucaristia è ciò che assicura – potremmo dire in un linguaggio attuale – la ricarica di energie da parte di Gesù per poi essere di nuovo capaci di trasmettere agli altri amore.

    In altre parole: nell’eucaristia Gesù si fa pane perché quanti lo accolgono siano poi capaci di farsi pane per gli altri.

    (sintesi di una conferenza di p. A.Maggi)

     

     



    [1] Da qui l’uso nelle chiese cattoliche della lampada accesa posta accanto al tabernacolo dove viene conservata l’eucarestia.

  • 19 Ago

    Fino alla misura di Cristo

    Lectio di Ef 4,11-16

     

    La Conferenza Episcopale Italiana ha posto come tema di riflessione pastorale per questo decennio l’“Educare alla vita buona del Vangelo”. La Chiesa è consapevole che oggi affrontare il problema educativo è un compito urgente sia per quanto riguarda gli obiettivi come i metodi. Il disorientamento, associato a una quasi generale mancanza di maturità umana e spirituale, è realmente un flagello nella nostra società. Educare significa “far crescere”, “far maturare”: alla sua base sta dunque la consapevolezza che l’uomo non è un “dato di fatto” acquisito alla nascita una volta per tutte, e neppure che la sua crescita, in tutte le sue dimensioni, sia realtà scontata e connaturale che “va da sé”. L’educare esige che prima si dia insieme, educatore ed educando, la risposta ad una domanda di fondo che esige una risposta: chi è l’uomo? A cosa tende? Chi è chiamato a diventare? La risposta nel nostro contesto culturale non è né chiara né tantomeno univoca.  Le proposte sono molte, di cui molte insufficiente altre totalmente erronee.

    Per la comunità dei discepoli di Gesù l’obiettivo fondamentale è promuovere lo sviluppo della persona nella sua totalità, in quanto soggetto in relazione, secondo la grandezza della vocazione dell’uomo e la presenza in lui di un germe divino. «La vera formazione consiste nello sviluppo armonioso di tutte le capacità dell’uomo e della sua vocazione personale, in accordo ai principi fondamentali del Vangelo e in considerazione del suo fine ultimo, nonché del bene della collettività umana di cui l’uomo è membro e nella quale è chiamato a dare il suo apporto con cristiana responsabilità» (Paolo VI). Tutti sono responsabili dell’educazione di sé stessi e di conseguenza degli altri; e come credenti sappiamo che primo protagonista della spinta a crescere è lo Spirito. Egli “forma il cristiano secondo i sentimenti di Cristo, guida alla verità tutta intera, illumina le menti, infonde l’amore nei cuori, fortifica i corpi deboli, apre alla conoscenza del Padre e del Figlio, e dà «a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità»”. Lui dobbiamo invocare come energia sempre viva, luce e acqua che fa crescere ciascuno fino “alla statura di Cristo”.

    Lectio

    Con il quarto capitolo si apre la seconda parte della lettera ai cristiani di Efeso caratterizzata da maggiori riferimenti alla vita cristiana inserita nella vita quotidiana: in questa seconda parte Paolo desidera tracciare i tratti fondamentali che devono contraddistinguere la “vita nuova” del credente la quale è scaturita dalla fede e dal battesimo. Una vita nuova che dovrà coincidere sempre più con i tratti della vita stessa di Cristo (Gal. 2,20). Tutto questo esige un cammino di crescita, un luogo educativo adatto, degli strumenti appropriati: la fede non è un dato di fatto acquisito una volta per tutte.

    Il nostro brano racchiude perciò una forte esortazione affinché i credenti “crescano” ogni giorno di più (v. 15) nell’assimilazione del mistero del Signore Gesù, in modo che sia lui a vivere sempre più in loro stessi. Quanto più crescerà Cristo in noi, tanto più egli penetrerà le profondità del nostro cuore e della nostra mente, che “cresceranno” ovvero si conformeranno sino alla misura della sua stessa mente e del suo stesso cuore.

    Al v. 11 Paolo afferma che nella Chiesa i carismi per l’utilità comune sono diversi. Una comunità pienamente matura ha molte membra con funzioni diverse che si articolano perfettamente per lo scopo comune del bene e della crescita dell’intero corpo. Il fine di questa diversità e vitalità non è esclusivamente il bene dell’individuo, ma ha come scopo il “preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo” (v. 12). Qui troviamo l’indicazione di un “perfezionamento”, di una crescita nella conformità a Cristo non solo di ciascun credente, ma di tutta la Chiesa “corpo di Cristo”. Anch’essa è chiamata a crescere vero la maturità di sposa di Cristo.

    “Finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (v. 13). Se c’è perfezionamento nelle membra; se la loro funzione matura; allora tutto il corpo si edifica nell’unità della fede e della comunione in Cristo. Allora si diventa uomini e donne cresciuti sino alla “misura della pienezza di Cristo”. Detta così questa considerazione sembra quasi di importanza relativa, invece è di necessità assoluta, perché è necessario per la crescita armonica e fruttuosa del singolo credente e della Chiesa essere uniti nella fede perché così che non saremo più fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all’errore” (v. 14). Senza il presupposto di un solido fondamento unitario della fede il credente sarebbe nella situazione spiritualmente infantile. Se questo accadesse egli non sarebbe in grado di raggiungere la propria identità spirituale, sarebbe impreparato a far fronte alle offerte di tante “false dottrine” “in balia delle onde” trasportati qua e là.  

    Al contrario, agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo” (v. 15). Agire secondo verità nella carità” significa che occorre tradurre in termini concreti di amore la rivelazione donataci da Cristo. Questo è crescere nella fede in tutte le dimensioni del nostro essere: intelligenza, volontà e affettività secondo un ben preciso progetto e orientamento: “tendendo a lui che è il capo Cristo”. Non si tratta dunque nel cammino di crescita di raggiungere un qualche obiettivo morale ma di essere pronti a vivere una comunione sponsale con la persona stessa di Cristo Gesù.

    Meditatio

    Poiché siamo stati fatti ad immagine di Colui che è la fonte di ogni vita, e la vita in se stessa è energia che si espande e cresce, ogni essere umano nasce con il bisogno impellente di portare a compimento se stesso. La vita è una chiamata a crescere e questa chiamata è accompagnata dall’istintivo desiderio di scoprire il senso della propria esistenza. Il nostro crescere abbisogna di una direzione (Ql 3,11). Un po’ come per una pianta che istintivamente cresce verso la luce.

    Potrà sembrare banale ma un essere vivente per crescere non basta che venga all’esistenza! In altre parole: non basta che Dio desideri la nostra crescita spirituale o che noi desideriamo ardentemente “realizzarci” nella vera vita: per poter registrare una progressiva e reale maturazione cristiana occorre vivere un’autentica vita spirituale (Mc 4,30-32). Perché questo accada occorre abbandonare lo stato infantile per tendere alla maturità che si identifica con la capacità di agire nella vita con libertà e responsabilità: ma qual è l’obiettivo finale di tale crescita? Ogni caratteristica del nostro corpo fisico è “programmata” dalla nascita e dipende da precise istruzioni registrate in microscopici “nastrini” di sostanza genetica (il famoso DNA) presente nel nucleo di ogni cellula. In essi Dio ha “scritto” l’intero progetto del nostro corpo: colore degli occhi, tipo e colore dei capelli, grado di elasticità della nostra pelle, qualità delle unghie, efficienza muscolare, statura, ecc… Se nulla ne ostacola l’espressione e lo sviluppo (denutrizione, stress, malattia, incidenti, morte), nel tempo tutti questi caratteri si manifestano fino ad un massimo stabilito dal progetto registrato. Ma esiste anche un preciso “DNA spirituale” che i credenti ricevono nel momento della loro “nuova nascita” battesimale. In esso è registrato un progetto spirituale (forse più conosciuto con il nome di “progetto di Dio”);  se nulla ostacola l’espressione e lo sviluppo di questo progetto, nel tempo, tutte le sue caratteristiche spirituali previste si manifesteranno nella vita di un figlio di Dio fino ad un massimo stabilito dal Signore. Qual è questo grado spirituale, verso cui dovrebbe tendere ogni credente?  La misura è quella della perfetta statura di Cristo (Ef 4,13). In altre parole: è il nostro divenire sempre più conformi a Cristo, secondo la cui immagine, come dice la teologia orientale, siamo stati creati e progettati.

    L’ambito in cui questa crescita può avvenire in modo reale e armonico è solo la Chiesa, che si concretizza nella propria comunità. San Cirillo d’Alessandria lo esprime molto bene in un suo testo:  “O allievi della divina pedagogia! Orsù, completiamo la bellezza del volto della Chiesa e corriamo, noi piccoli, verso la Madre buona; diventando ascoltatori del Logos, glorifichiamo il divino piano provvidenziale, grazie al quale l’uomo viene sia educato dalla pedagogia divina che santificato in quanto bambino di Dio: è cittadino dei cieli, mentre viene educato sulla terra; riceve lassù per Padre colui che in terra impara a conoscere”.

    La maggior parte dei battezzati purtroppo dimentica o tralascia questa dimensione dinamica ed essenziale della vita cristiana. Ci si limita ad assolvere solo alcuni doveri religiosi. La vita spirituale ne risulta spenta e senza…spinta. Magari si ricercano obiettivi di per sé buoni, come l’impegno nel sociale, nel volontariato, nelle opere religiose… ma tutto questo non è sufficiente per realizzare in tutte le sue dimensioni il progetto di crescita iscritto nel cristiano… perché, spiritualmente parlando, c’è un inconsapevole bisogno di “crescere” in conformità al nostro DNA costitutivo e primario che è il nostro vivere sponsalmente in Cristo. Finché l’uomo resta lontano da Dio, magari impegnato per le cose “da fare per Dio”, questo compito di “crescita” non può essere appagato (Gv 17,3; 10,10).

    Risulta evidente dal brano biblico proposto che il desiderio dell’apostolo Paolo sia quello di vedere ogni membro del Corpo di Cristo che è la Chiesa, crescere, prosperare, affinché possa prendere il proprio posto nella famiglia di Dio collaborando in modo adulto e responsabile all’opera che Dio ha affidato a lui e che nessun altro potrà mai svolgere al suo posto. Anche l’apostolo Pietro si esprime in termini simili a quelli di Paolo quando, parlando della comunità cristiana usa l’immagine di un’immensa costruzione in fieri, un grande “edificio spirituale” che è il risultato dell’aggiunta di un “mattone su mattone” che si identifica in ogni singolo credente (cfr 2Pt 1,5-8).

    Purtroppo accade, come sopra accennato, che molti cristiani, tra cui anche uomini e donne consacrati, non realizzano pienamente questo privilegio e responsabilità di appartenere in modo vivo e maturo all’edificio spirituale del corpo di Cristo. Essi pensano di poter agire come credono, fare e disfare della loro vita a proprio piacimento, senza alcun concreto riferimento a Cristo capo (Gal 4,19,20; 5,7; 1Cor 11,22). La Parola di Dio insegna perciò che la crescita spirituale non è scontata: non basta che un neonato venga alla luce per avere la matematica certezza che diventerà un adulto fisicamente forte e mentalmente valido: ci sono precisi meccanismi ed inevitabili esigenze da soddisfare per determinare il buon esito di una crescita (Sal 129,6; Gb 8,11; Mt 13.4-8). E la spinta alla crescita spirituale viene da Dio e da Dio solo,  ma esige esige anche il nostro assenso e la nostra collaborazione! (1Cor 3,6,7; Gn 4,6,10; Ez 16,6).

    La Scrittura ci rivela che Dio non è un genitore “sbadato”: Egli protegge il suo popolo e ne accompagna la crescita (Is 27,2-3) accettando il reale “rischio educativo” per usare l’espressione di don Giussani, derivante dal rispetto della libertà dell’altro. Se Dio svolge con grande attenzione quest’opera di accompagnamento, vuol dire che ci sono dei reali pericoli! Satana e il peccato, a cui egli induce l’uomo, mirano sicuramente ad arrestare, in mille modi diversi, la crescita spirituale. Il peccato è veleno per la crescita della “nuova creatura” e ogni volta che esso riesce a fare breccia nelle difese e a penetrare nella vita di un credente, provoca una “battuta d’arresto” nella crescita e, se non c’è una pronta “disintossicazione” (conversione e confessione), esso porta alla malattia e ad un’inevitabile morte per avvelenamento! La nostra crescita se non siamo vigilanti rischia continuamente di bloccarsi, regredire, deviarsi o addirittura spegnersi.

    Infine non dimentichiamo, sulla linea della stessa riflessione paolina, che la crescita e la maturazione spirituale è in vista sicuramente del bene dell’individuo che è un membro del corpo ecclesiale, ma in concomitanza questa stessa crescita e maturazione fa sì che lo stesso corpo della Chiesa possa svilupparsi armonicamente sempre più.  Non è indifferente perciò che io riesca o meno a raggiungere la misura della mia maturità in Cristo: ne va a discapito non solo la mia realizzazione ma anche quella della Chiesa di cui ciascuno deve sentirsi responsabile. Di questa realtà ben pochi ne sono consapevoli poiché vivono la fede in modo individuale il che è immaturità. Quando una macchina ha tutti gli ingranaggi collocati al proprio posto, funziona in modo perfetto. Nel campo della meccanica c’è bisogno di chi progetta, di chi costruisce pezzi, di chi li assembla, di chi collauda il lavoro terminato, di chi gestisce il macchinario. Così, in certo qual modo, è della Chiesa. Il lavoro di ciascuno serve per rendere completa e perfetta, adulta, l’opera di Dio. Non vedranno sicuramente buoni giorni tutti quelli che manomettono, modificano, deturpano, secondo il loro piacimento e gusti, il sistema di salvezza assemblato direttamente dal Signore! Ci troviamo così di nuovo dinanzi all’invito di Paolo a ricercare costantemente l’“unità dello fede e della conoscenza di Cristo” perché tutto e tutti possano giungere alla maturità della fede. Scriveva il beato cardinal Neuwann con estrema chiarezza: “Dio mi ha creato perché gli rendessi un particolare servizio; mi ha affidato un lavoro che non ha affidato ad altri. Ho la mia missione, che non saprò mai in questo mondo, ma mi sarà detta nell’altro. Non so come, ma sono necessario ai suoi fini, necessario nel mio posto come un Arcangelo nel suo; […] ho una parte in questa grande opera; sono un anello della catena, un legame di parentela tra le persone. Non mi ha creato per nulla. Io farò il suo lavoro”.

    Oratio

    Isacco della Stella fu abate cistercense inglese nel secolo XIII.  Nei suoi numerosi scritti affiora costantemente l’immagine mariana applicata sia alla Chiesa che e al singolo credente: come Maria che fa crescere in lei e dà alla luce fisicamente il Figlio di Dio così la Chiesa e ogni cristiano concepisce e partorisce spiritualmente, per mezzo dello Spirito, il Cristo l’uomo nuovo per donarlo al mondo.  Solo nella maturità della fede questo concepimento e parto è possibile a va a buon termine e il Cristo non ne viene “abortito”. Chiediamo allora a Maria la grazia dell’obbedienza alla fede, di un sì perseverante, che permetta allo Spirito di generare, far crescere e partorire Cristo in noi e al mondo.

    Che il Figlio di Dio
    già formato in te, o Maria,
    cresca in te,
    fino a diventare immenso.
    Ed egli sarà per te
    un sorriso,
    un’esultanza,
    una pienezza di gioia
    che nessuno potrà toglierti.

    Attilio Franco Fabris
    Casa di Preghiera Sant’Andrea
    Abbazia di Borzone
    16041 – Borzonasca – Ge
    www.abbaziaborzone.it

  • 28 Mag

    GESÙ FRA I DOTTORI

    (Lc 2,41-52)

     

    La famiglia di Nazareth ci viene sempre proposta come modello a cui conformare la nostra famiglia.
    Leggendo questo passo molti di voi si saranno chiesti: ma come fanno a proporci questa famiglia come modello se succede una cosa di questo genere? Pensate un attimo, questi genitori sono così sbadati che perdono il figlio. Questa senz’altro è la prima impressione ma questa distrazione ci permette in effetti di capire qual è la realtà del rapporto che esiste nell’ambito di quella famiglia, sia tra i genitori che tra i genitori ed il figlio.

    Innanzi tutto il racconto inizia con un’affermazione: “I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua“. Questo è quello che veniva fatto da tutti gli ebrei osservanti e quindi Maria e Giuseppe si mettono tra coloro che sono osservanti; la cosa bella che viene sottolineata è che vanno entrambi, il che significa che pregano insieme, significa che hanno un’esperienza di preghiera insieme, che è un’esperienza esaltante. Non solo. Per gli ebrei la maggiore età si raggiunge a dodici anni; Gesù viene portato a Gerusalemme quando egli ebbe dodici anni; lo avviano, lo abituano a frequentare il tempio, la festa prima dell’età alla quale diviene obbligatoria la partecipazione al culto.

    Questo ci fa notare una differenza sostanziale con quello che avviene oggi. Per gli ebrei la fede è una cosa per adulti. Chi è che va, chi è che frequenta il tempio, chi è che si impegna nella sua vita di fede? Soltanto gli adulti, bisogna avere almeno dodici anni per frequentare il Tempio, gli altri, i bambini non vanno nel Tempio, devono giocare, devono dedicarsi ad altro. Che cosa succede nella nostra società? Spesso avviene l’opposto, cioè quando i bambini sono piccoli gli facciamo fare il segno della croce, gli facciamo fare la… preghierina, li accompagniamo al Catechismo, gli facciamo fare la Comunione e spesso anche la Cresima e poi… arrivederci e grazie: forse li rivediamo al momento del matrimonio. Fondamentalmente stiamo instillando nelle nuove generazioni un’idea che è fortemente sbagliata, quella che la fede sia una cosa per bambini; una volta che si è grandi non ce n’è più bisogno. Gli ebrei ci dicono esattamente l’opposto.
    La fede è qualcosa per adulti, di persone dotate della ragione.
    Perché? A che cosa serve la fede? La fede dà le risposte alle nostre domande fondamentali; un bambino non si chiede: Da dove viene? Chi è? Dove va? Perché vive? Queste domande ce le facciamo noi adulti, non se le fanno i bambini. E la fede può rispondere a queste domande, certamente non anzitutto alle domande dei bambini. In effetti, se ci guardiamo intorno, quello che sta succedendo è proprio questo: li accompagniamo fino a dodici anni e poi invece di condurli al tempio li facciamo andar via.

    Ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero“. Qui possiamo sottolineare due cose ma bisogna che prima ci soffermiamo su quelle che erano le abitudini del tempo.
    Quando si viaggiava in carovana, avviene ancora da qualche parte nel mondo, si formavano due gruppi, da una parte le donne e da un’altra gli uomini. I bambini, che non avevano ancora dodici anni, potevano scegliere di stare o con la mamma oppure – visto che era un maschietto – con il papà.
    Né Giuseppe né Maria si preoccupano di cercarlo: questo ci dice qual era il rapporto tra questi genitori ed il figlio: era un rapporto di serenità, di tranquillità. Gesù era un bambino obbediente, per cui se si era detto che la carovana partiva ad una certa ora Gesù sarebbe stato lì perché questa era la sua abitudine ed i genitori di questo erano certissimi, per cui non si sono posti il problema.
    Maria avrà pensato che Gesù era con Giuseppe e Giuseppe viceversa. Quand’è che se ne accorgono? Quando si fa sera, la carovana si ferma ed i nuclei familiari si ricompongono. A quel punto Giuseppe chiede a Maria: “Gesù…?”. Maria dice a Giuseppe: “Gesù…?”. Però ancora non si preoccupano, come capita oggi; quando i nostri figli sfuggono al nostro controllo ci sono veri momenti di panico. Che fanno Giuseppe e Maria? Si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti.
    Questo ci dà un altro spaccato di quella che era la vita di allora e ci spiega che in una comunità contribuisce a guardare, ad educare i bambini anche il contesto in cui vivono, e quindi anche parenti e conoscenti per cui un bambino può benissimo stare un’intera giornata senza che i genitori l’abbiano sotto controllo perché c’è una comunità che lo segue ed è attenta a quelle che potrebbero essere le sue esigenze. Era un fatto normale.

    Pensate invece quello che succede oggi se non ci sono i nonni che ci controllino i figli, che siano a disposizione, siamo completamente isolati, cioè non c’è comunità; oltretutto siamo talmente ossessionati da tutto quello che sentiamo e leggiamo, che veramente pensare a un bambino comunque lontano da noi ci terrorizza. Ma non è questo il concetto della famiglia!
    Qui possiamo quasi immaginare una parrocchia ideale: una parrocchia ideale è fatta da una comunità di famiglie, che non solo educano i propri figli ma partecipano della vita comune aiutando gli altri, dandosi reciprocamente una mano: forse è una società idilliaca, ma certamente questo è possibile se c’è un’apertura verso gli altri e non c’è quella che oggi si sta consolidando, cioè la famiglia mononucleare, dove esistono solo genitori e figli e tutto il resto non conta più niente. C’è un certo recupero dei nonni nel periodo in cui i bambini sono piccoli dopo di che anche i nonni cominciano ed essere pesanti perché possono essere invadenti.
    Il Vangelo ci rappresenta una situazione completamente diversa ed è una situazione in cui si può essere tranquilli. Esaurita questa ricerca, tornano indietro. Non è che vanno a cercare da un’altra parte; questo mostra che sono molto attenti, sanno già Gesù dov’è. Se Gesù non c’è sanno già dov’è.

    Infatti il testo dice: “Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio“. L’idea dei “tre giorni” ci vuole richiamare altri “tre giorni” in cui Gesù non è stato a disposizione dei suoi genitori, è sparito dalla loro vista; sono i tre giorni della passione; Cristo muore, sparisce, per ritornare “risorto” il terzo giorno. Questi tre giorni sono da contare alla stessa maniera; gli ebrei non contano i giorni sulle 24 ore, ma per la presenza del sole; quindi i tre giorni indicati sono il primo, di andata – visto che avevano viaggiato tutto il giorno – un altro giorno per tornare e la mattina del terzo giorno, così come la mattina del terzo giorno Cristo risorge, vanno direttamente al tempio perché sanno di trovarlo lì.

    E lì lo trovano, ma come lo trovano? Seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. Che idea vi fate di Gesù che in mezzo ai dottori li ascolta e li interroga? Che cosa fa Gesù? La prima interpretazione che viene data è che Gesù sia in mezzo ai dottori ad insegnare. Ma un insegnante prima spiega e poi interroga. Invece Gesù prima ascolta e poi interroga. Di chi è la funzione di chi ascolta e poi interroga? Chi ascolta e poi interroga è il giudice, che ascolta la deposizione, interroga e poi dà la sentenza. È questo, forse, il punto centrale di questo racconto.

    Chi giudicherà il mondo di oggi? Chi ci giudicherà? Saranno i nostri figli! I nostri errori, le nostre scelte, se buone o cattive, non le giudicheremo noi ma i nostri figli. Questo ci dice che cosa dobbiamo fare. Gesù dice E tutti quelli che l’udivano – quando il giudice dice è la sentenza, quando dice qualcosa è la conclusione del processo, di quello che ha ascoltato ed interrogato – erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.

    Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Tutti quelli che sentivano erano stupiti, anche i genitori.

    Questa è una cosa grande: i nostri figli ci stupiscono! Perché ci stupiscono? Perché i nostri figli non sono la nostra copia, essi hanno la loro autonomia, sono liberi; ci stupiscono perché le loro scelte vanno in direzioni diverse. Ed allora che cosa significa far nascere un bambino, mettere al mondo un figlio? Certamente non significa averne la gestazione per 9 mesi, ma significa farlo diventare uomo, educarlo, far sì che sia un uomo autonomo e libero. Restarono stupiti!
    È la fatica di credere al mistero che cresce nella concretezza della vita coniugale e familiare, carica di gioie e di problemi.

    Gesù adolescente crea problema, progressivamente si rivela nella sua divinità. Maria e Giuseppe “si stupivano delle cose che si dicevano di lui”, con trepidazione si chiedevano: che sarà di Gesù?
    Lo accettano nella sua alterità divina ma devono entrare negli orizzonti di un disegno più grande. Prendono coscienza del divario tra il progetto di Dio ed il progetto che essi avevano sognato.

    E sua madre gli disse. I genitori erano due, sua madre parla anche per conto del padre, quindi la loro intesa, il loro comunicare non era un prevaricare di uno sull’altro: erano profondamente uniti come erano uniti nella preghiera: infatti le parole che dice sono: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo“. Tuo padre ed io! Maria sapeva che Giuseppe non era il padre, non è che lo ignorasse ed allora perché dice “tuo padre ed io“? Perché Giuseppe era veramente il padre di Gesù; Gesù lo chiamava papà, ma perché? Perché per essere padre non bastano i dieci minuti che sono necessari per concepire un bambino; si è padri tutti i giorni perché tutti i giorni si dà la vita, tutti i giorni si aiuta il figlio a crescere, a diventare uomo: allora si è veramente padre, questa è la vera paternità al di là di quella strettamente biologica.
    Quindi Giuseppe è veramente padre anche se non lo è sul piano biologico.

    Angosciati! Che cosa è l’angoscia? I figli ci fanno angosciare. Come prima abbiamo parlato di stupore, che è qualcosa di positivo, perché c’è dentro la meraviglia della sorpresa, ora parliamo di angoscia, che ha invece una connotazione negativa perché la nostra angoscia non è tanto quella che ci viene dai figli ma quella che ci viene da noi stessi quando scopriamo di non essere adeguati per il nostro compito. Molto spesso non siamo capaci di essere genitori; genitori non si diventa per caso, sul piano biologico lo si può essere anche per caso, ma per essere genitori veramente ci si costruisce tutti i giorni. Si commettono degli errori, certamente, ma dobbiamo fare in modo di cercare di essere adeguati a quelle che sono le attese dei figli. Quindi è scoprile la nostra inadeguatezza la vera angoscia. Non è per il fatto che non sapevano dove fosse Gesù, non era il suo smarrimento o la sua perdita la causa dell’angoscia di Maria e Giuseppe.
    La vera angoscia era che il figlio li aveva stupiti, li aveva sorpresi e quindi si erano accorti di essere inadeguati per questo figlio
    .

    Ed egli rispose: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?“. Se un nostro bambino di dodici anni, di fronte alla domanda dei genitori che dicono di essere angosciati e che lo cercano perché sono angosciati, rispondesse in questa maniera, che cosa saremmo portati a fare? È abbastanza immediato pensare: adesso gli do un bel ceffone e così impara a rispondere come si deve un’altra volta! Però, anche questo fa parte di quella che è la sorpresa perché Gesù perché non dovevano farlo: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?“. Qui Gesù non parla di Giuseppe, qui sta parlando di Dio; ma quello che dice lo dice ad ognuno di noi: i figli non sono nostri, non sono nostra proprietà, non sono un possesso.
    C’è un proverbio cinese che dice che noi ai nostri figli diamo due cose: le radici e le ali, le ali sono tanto più forti e robuste quanto più le radici sono profonde, quindi quanto più il terreno nel quale li abbiamo fatti crescere è fecondo, è ricco, non è arido. Quindi su questo ci giudicheranno i nostri figli, sul terreno che abbiamo messo loro a disposizione, su come li abbiamo aiutati, li abbiamo sostenuti nella loro crescita, li abbiamo aiutati a diventare uomini.

    Però non è facile come ci dice il Vangelo: “Ma essi non compresero le sue parole“.
    Tante volte noi i figli non li capiamo, tante volte capita ancora oggi; che cosa si fa quando non si capisce? Ecco, se leggiamo appresso ora che Gesù ha fatto la lezione, ora che ha detto che le cose per cui è venuto sono altre, che li ha messi a posto, da questo momento in poi in casa comanda lui! No.

    Partì dunque – sembra una continuazione del discorso precedente – con loro e tornò a Nazareth e stava loro sottomesso“. Ecco, Gesù sa qual è la sua missione, glielo dice, però cresce: la sua crescita è perché impara innanzi tutto ad ubbidire, ad essere umile, ad essere sottomesso.
    Quando noi ci abituiamo ad obbedire sapendo quali sono i nostri limiti e quali i nostri compiti, questo ci aiuta a crescere, non con la prepotenza, non battendo i pugni, non facendo i capricci, non vincendo con i capricci; sono cose che sappiamo.

    Gesù stava loro sottomesso. Giuseppe è una grande figura di padre vicino e presente ma “Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore.” Il verbo serbare ci fa pensare al momento più bello del rapporto tra una madre ed il figlio, che è il rapporto prima della nascita, quando il figlio viene serbato nel proprio corpo, e quindi continua questo rapporto con il figlio anche quando il figlio ha una età diversa; non si smette di essere genitori quando i figli sono grandi; si è genitori anche quando i figli raggiungono la maggiore età e seguono la loro strada.

    E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini. Ecco Gesù è Dio, però cresceva in sapienza, che cosa significa? Che Gesù come uomo si è fatto carico della nostra limitatezza; non sapeva della sua missione, non era a conoscenza di quello che sarebbe stato il suo compito come uomo e quindi come tale, lui come tutti noi, ha sopportato il peso della crescita, il peso di apprendere, di studiare, di approfondire: “cresceva in sapienza, età …” – cosa questa normale, ma soprattutto cresce “…in grazia davanti a Dio e agli uomini.
    Cresce il suo rapporto di uomo che riconosce in Dio il vero Padre.

  • 24 Mag

    Offrite voi stessi in sacrificio

    Lectio di Rm 12,1-2

     

     di p. Attilio Franco Fabris

     
    Iniziamo la nostra lectio con una testimonianza tratta dagli scritti del beato Edward Giovanni Maria Poppe, sacerdote (Temsche in Belgio 1890 – Moerzeke-lez-Termonde 1924). Fu un grande pedagogista dell’Eucarestia. Istituì infatti la «Lega della Comunione frequente» tra i bambini e le operaie. Per i fanciulli della «Crociata eucaristica Pio X» di tutto il Belgio, pubblicò un settimanale apposito. Costretto a vivere su una poltrona per motivi di salute – morì a soli 34 anni – scrisse opere di grande valore spirituale. Scrive con parole che possono essere un sunto del suo insegnamento: “Restate ostia con l’Ostia. La nostra vita non ha alcun senso se non siamo vittime. Senza quest’opera di continua “victimatio”, le nostre preghiere e i nostri colloqui spirituali si riducono a chiacchiere superficiali, le nostre prediche sono semplici parole gettate al vento… Un cuore di sacerdote che non sanguina non è un cuore di sacerdote”.

    Giovanni Maria ci insegna l’essenziale della vita cristiana: unirsi totalmente  e concretamente a Cristoche ci ha già incorporati a sé nel battesimo e nell’eucarestia, e questo al fine di poter offrire, come sacerdoti, ostia per ostia,  con lui, per e in lui la nostra vita in offerta al Padre per la sua gloria e in espiazione dei peccati nostri e del mondo intero.

    Nel rito di benedizione dell’altare troviamo un distinto richiamo alla vita cristiana chiamata a divenire offerta cultuale al Padre: “Dona a noi tuoi fedeli che ci accostiamo al Cristo pietra viva di essere in lui edificati in tempio santo, per offrire sull’altare del nostro cuore in sacrificio spirituale la nostra vita realmente vissuta a lode della tua gloria” (Benediz. 1282). Chiediamo allora allo Spirito che questo diventi esperienza concreta per la vita di ciascuno di noi “vissuta a lode della gloria di Dio”.

    Lectio

    Paolo dopo aver affrontato nei primi capitoli (1-11) della Lettera ai Romani l’annuncio della salvezza offerta da Dio all’umanità attraverso il dono della fede in Cristo, nei cc.12-15 prosegue indicando quali sono le conseguenze che scaturiscono dall’accoglienza di questo annuncio. È la cosiddetta parte “parenetica” della lettera tutta tesa ad offrire ai cristiani di Roma indirizzi concreti e pratici del come vivere la grazia battesimale che pone il credente a camminare “in una vita nuova” (6,4). Da quanti per il battesimo sono divenuti membra vive del corpo di Cristo ci si attende che cerchino anzitutto di vivere all’insegna della carità che riassume tutta la legge; solo una vita imperniata sull’amore è gradita a Dio. La sintesi che Paolo offre è che i cristiani sono chiamati a vivere la propria esistenza in “questo mondo” in una costante offerta d’amore di se stessi a Dio e ai propri fratelli: è questa la “vita nuova”.

    Il testo che vogliamo meditare sono i primi due versetti del cap. 12 che fanno da introduzione a tutto l’insegnamento successivo.  

    Il v.1 inizia con l’appellativo dato ai cristiani di “fratelli”. È il titolo usuale usato all’interno delle prime comunità cristiane: l’essere fratelli non ha nulla a che fare con parentele di famiglia perché in tutti scorre lo stesso sangue –l’eucarestia ne è sacramento-, potremmo dire così, di Cristo nostro fratello che fa di noi fratelli e figli dello stesso Padre. I credenti perciò sanno di vivere per la fede e il battesimo una comunione che è più forte di quella del sangue.  

    Vi esorto”: Paolo si rivolge alla comunità di Roma in qualità di apostolo e dunque con un’autorità che sa essergli data dall’alto. L’apostolo sa di essere voce stessa di Dio. L’espressione andrebbe tradotta con un “vi esorto insistentemente”: quindi ciò che verrà detto riveste molta importanza.

    Per la misericordia di Dio”: è incerto se questo inciso sia riferito a ciò che precede o segue. Nel primo caso è l’amore di Dio la motivazione che spinge Paolo a parlare. Nel secondo caso l’offerta di se stessi sarebbe motivata dall’amore di Dio nei nostri confronti. E’ comunque l’amore di Dio che sta alla base dell’agire sia dell’apostolo come degli altri fedeli. Non siamo noi a far sì che il vangelo trasformi le nostre e altrui esistenze, ma è questo amore straordinario che cambia radicalmente il cuore di tutti.

    Ad offrire i vostri corpi”: il verbo non indica solo un generico “a mettersi a disposizione”. Esso riveste invece il significato cultuale di “offrire un sacrificio”. Se nel sacrificio giudaico c’è l’uccisione della vittima, ora lo stesso verbo in senso figurato viene applicato all’esistenza del cristiano.  Il “corpo” (sòma) è l’aspetto biologico, visibile e dunque concreto di noi stessi. Offrire il proprio corpo allora equivale a offrire “se stessi totalmente”, anima e corpo, senza alcuna “riserva”. È ciò che Paolo aveva precedentemente annotato: “Non mettete le vostre membra a disposizione del peccato come armi di ingiustizia, ma mettete voi stessi a disposizione di Dio, come persone tornate in vita dalla morte, e offrite le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia” (6,13). Questo nostro “corpo” un tempo dominato dal peccato era divenuto “corpo di morte” (7,24), ma nel battesimo il principio del nostro essere non è più il peccato apportatore di morte ma lo Spirito vivificante che viene a invaderci totalmente, anima e corpo. In tal modo l’uomo intero è divenuto capace di divenire sacerdote e offerta gradita a Dio. È questa la “giustizia” ovvero la giusta corrispondenza al disegno originario voluto dal Creatore.

    L’offerta del proprio corpo a Dio è definito da Paolo un “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”. Qui il paragone è in riferimento alle vittime sacrificali del culto giudaico e dei culti pagani. Non è più perciò un culto “morto”che offre a Dio animali uccisi. Ma è un culto “vivo” che unito a quello eterno di Cristo diviene “santo e gradito” al Padre. È ciò che Gesù preannunciava alla samaritana presso il pozzo di Sicar:  “Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori” (Gv 4,23).

    Continuando nella stessa linea Paolo dice “E’ questo il vostro culto spirituale”. Si potrebbe anche tradurre “è questo il culto che conviene alla vostra natura di esseri ragionevoli”; ovvero un culto guidato dal “logos”, dalla ragione e perciò dalla consapevolezza di cui godono solo gli uomini e non un culto in cui si offrono animali irragionevoli. Il “culto spirituale” corrisponde all’effettiva comprensione che l’uomo centro di tutta la creazione è chiamato ad esservi in qualità non di despota ma di sacerdote abilitato a innalzare a nome di tutta la creazione la lode, il ringraziamento (eucarestia), l’adorazione e questo a partire da se stesso, unico essere dotato di logos, di ragione. Probabilmente qui intravediamo anche una sfumatura polemica in opposizione a un culto tutto esteriore, formalistico che non coinvolge la vita, ovvero un culto che manca dell’essenziale culto della propria vita (il cuore) e che veniva già denunciato da tutta la predicazione profetica (cfr Os 6,6; Sal 50,14.23). Nel cristiano che ha ricevuto il dono dello Spirito il culto viene dunque a permeare ogni realtà a partire da se stessi: “Se viviamo grazie allo Spirito, dobbiamo anche camminare secondo lo Spirito”.

    Dopo questa presentazione generale dell’intera vita cristiana chiamata a divenire un vero sacerdozio e culto, Paolo esprime il medesimo concetto in termini imperativi e al negativo. E siamo al v.2.

    Non conformatevi alla mentalità di questo mondo”. “Questo mondo” è segnato dal peccato, dalla lontananza da Dio, dal dominio di Satana. Il battezzato è morto a “questo mondo” essendo entrato a far parte del “mondo nuovo” (il “regno di Dio”) già presente nella storia anche se in germe: perciò ai discepoli di Gesù è dato di vivere già in un “mondo nuovo” (cfr Fil 3,21; Gal 1,4). In Gal 5,24 Paolo aveva detto: “Coloro che appartengono a Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e le sue concupiscenze”. Ora l’espressione “aver crocifisso” rimanda alla dimensione sacrificale e cultuale del sacrificio di Cristo al quale il cristiano si assimila mediante la morte dell’ ”uomo vecchio” interamente sprofondato in “questo mondo”.

    Ma trasformatevi” (o “lasciatevi trasformare”) dalla grazia di Dio, ossia attraverso l’azione dello Spirito Santo. In che cosa consiste questa trasformazione? Paolo risponde: “rinnovando completamente il vostro modo di pensare” (“rinnovando la vostra mente”). Questa “vita nuova” non è una verniciatura esterna che lascia però la realtà sottostante quale era, essa invece è una autentica trasformazione interiore, che comporta un rinnovamento del “nous” ovvero del dinamismo con cui operiamo i nostri giudizio intellettivi e morali. Si tratta di acquisire una “mente” non più governata dalle passioni del corpo che fanno propri criteri di “questo mondo”, perché ha ormai fatto sua la “mente” di Cristo stesso: “Noi abbiamo la mente (pensiero) di Cristo” (1Cor 2,15). Il cristiano non ragiona più con i parametri dell’uomo vecchio guidato dalle sue passioni ma con i parametri di Cristo, uomo nuovo. Questo “modo di pensare di Cristo” aiuterà di conseguenza il cristiano e la comunità a “discernere la volontà di Dio”. Ora la volontà del Padre è l’unica realtà che Cristo ha cercato sempre e di cui si è cibato sino alla fine. Facendo nostro il pensiero di Cristo entreremo nella volontà del Padre con la certezza così di perseguire “ciò che è buono, gradito e perfetto”. “Fare la volontà del Padre” sarà il culto spirituale che salirà a Dio come “sacrificio di soave odore”.

    Meditatio

    La “Lumen gentium” afferma, riprendendo le parole della prima lettera di Pietro, che tutti i battezzati costituiscono “un sacerdozio regale”. Questa affermazione viene fatta ancor prima di trattare il sacerdozio ministeriale, e quindi ne è in qualche modo una premessa. Il ministero episcopale, presbiterale e diaconale è un servizio all’interno della comunità a beneficio del sacerdozio comune. Prima della distinzione tra vocazioni diverse all’interno del popolo di Dio occorre perciò riconoscere la presenza di un fondamentale sacerdozio comune che scaturisce dal sacramento del battesimo.  Dice l’Apocalisse che Dio Padre “ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il nostro Dio” (5,10).  Sempre lo stesso importante documento conciliare ribadisce che a tutti i battezzati “Cristo… concede anche una parte della sua funzione sacerdotale per esercitare un culto spirituale, affinché sia glorificato Dio e gli uomini siano salvati” (n.34).

    Questo nostro comune sacerdozio scaturisce dalla consacrazione che lo Spirito santo, nel sigillo sacramentale del battesimo e della confermazione, ha attuato in noi rendendoci capaci di offrire al Padre tutta la nostra vita, e l’intera creazione, in un “sacrificio spirituale”.  Nel cuore della liturgia eucaristica il celebrante chiede esplicitamente che lo Spirito “faccia di noi un sacrificio perenne gradito” (Preg. Euc. III) al Padre ed elevato unitamente al sacrificio di Cristo. Il nostro sacrificio spirituale trova nell’eucarestia il suo punto di forza, la sua sorgente e il suo sbocco naturale.

    Cosa comporta concretamente questo sacerdozio? Che culto il Padre si attende da ciascuno? Sempre la Lumen gentium esplicita: “Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio, offrano se stessi come vittima viva, santa, gradita a Dio, rendano ovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della speranza che è in loro della vita eterna (cfr1Pt 3,15)” (n. 10). E ancora si sottolinea che questo sacerdozio si esercita “con la partecipazione ai sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abengazione e l’operosa carità” (n. 10). Quindi ci viene detto che esercitiamo con diritto il nostro sacerdozio comune attraverso la partecipazione ai sacramenti, in modo particolare l’eucarestia, attraverso la preghiera, la testimonianza, la nostra carità. Le occasioni dunque non mancano: ma occorre esserne consapevoli!

    Il nostro battesimo, e la professione religiosa che ne è esplicitazione, racchiude in sé una dimensione cultuale che non si esaurisce certamente nel momento liturgico ma viene ad inglobare per sempre tutta l’esistenza del discepolo. Siamo uniti indissolubilmente a Cristo e con Lui, per Lui, in Lui possiamo offrirei nostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”. San Gregorio Magno afferma che chi ridona a Dio ciò che ha ricevuto in dono compie non solo un sacrificio, ma un “olocausto”, ovvero un atto totale di offerta. Quindi accogliendo il dono della consacrazione il religioso si impegna a fare della propria vita un “olocausto” a Dio perché restituisce a Dio tutto ciò che è e ciò che ha: così l’intera vita diventa un ininterrotto atto di culto a Dio. Recita il canone 607 del Diritto Canonico: “La vita religiosa, in quanto consacrazione di tutta la persona, manifesta nella Chiesa il mirabile connubio istituito da Dio, segno della vita futura. In tal modo il religioso porta a compimento la sua totale donazione come sacrificio offerto a Dio, e con questo l’intera sua esistenza diviene un ininterrotto culto a Dio nella carità”. La nostra consacrazione è dunque atto di offerta e di culto sia perché siamo entrati totalmente, anima e corpo, nell’alleanza sponsale con Cristo. E questo comporta un’espropriazione di sé che si concretizza nell’impegno a vivere la  povertà, la castità e l’obbedienza.

    Dovremmo allora interrogarci se viviamo la nostra realtà di consacrazione battesimale e religiosa nella consapevolezza di essere chiamati a divenire concretamente un “culto spirituale” per la gloria di Dio. Nella vita di una persona consacrata dovrebbe essere sempre presente la coscienza che nell’osservanza quotidiana dei voti essa presenta a Dio l’offerta cultuale che ha promesso nel giorno della professione. In questo senso è possibile affermare che il consacrato è nello stesso tempo, come Cristo sulla croce, vittima e sacerdote. Il rischio infatti è quello di riprenderci pian piano, magari senza accorgercene, quello che un giorno abbiamo donato in sacrificio. E allora la consacrazione e il nostro sacerdozio comune perde la sua verità.

    Ma se questo atto di “olocausto” si realizza allora la nostra vita si trasforma realmente in una continua eucarestia che prolunga e prepara quella sacramentale che si celebra all’altare. E come il sacrificio di Cristo si riversa a beneficio della salvezza di tutti, così anche la nostra vita divenuta offerta-sacrificio, unita al suo, collabora alla redenzione del mondo intero.

    Il nostro donarci quotidiano – diremmo il “nostro sacrificarci” – magari nascosto e dimenticato, in questa visione di fede assume sempre un valore straordinario. Un gesto, una sofferenza, una carezza, una parola, un servizio umile può trasformarsi in un atto di culto di straordinaria potenza che offriamo al Padre, sapendo che è da lui accolto perché vi intravvede l’amore stesso del Figlio. Origene commentando il libro del Levitico, essenzialmente un testo sacerdotale, ad un certo punto scrive: “Ignorate forse che anche a noi, cioè a dire tutta la Chiesa di Dio, a tutto il popolo dei credenti, fu dato un sacerdozio?…Se io amo i miei fratelli fino a donare la mia vita per essi, se combatto fino alla morte per la giustizia e la verità, se mortifico il mio corpo astenendomi da ogni concupiscenza carnale, se il mondo è a me crocifisso e io crocifisso al mondo, io ho offerto un olocausto all’altare di Dio e sono così il sacerdote del mio sacrificio” (Om. In Lev.)

    Oratio

    Concludiamo la nostra lectio con le parole di Teresa di Gesù Bambino. Ella ha saputo cogliere, nell’apparente banalità del quotidiano, una via di perfezione che seppur definita “piccola” contiene la sapienza straordinaria della croce che appare follia al mondo. Impariamo ad offrirci nelle piccole cose per essere pronti ad offrire a Dio, con Cristo, la nostra stessa vita come “vittima d’olocausto all’amore misericordioso”:

    Per vivere in un atto di perfetto amore, mi offro come vittima d’olocausto al vostro amore misericordioso, supplicandovi di consumarmi senza posa, lasciando traboccare nella mia anima i flutti d’infinita tenerezza che sono racchiusi in voi, e così possa diventare martire del vostro amore, o mio Dio.

     

     

     

  • 20 Mag

    AFFAMATI E ASSETATI DI GIUSTIZIA
    Mt 6,5

     

    di p. attilio franco fabris

    1.  AFFAMATI E ASSETATI

    Quando pensiamo alla parola affamati pensiamo a essere affamati di hamburger, di vittoria sportiva, o affamati di amore per una persona speciale, o di potere, ma essere affamati di giustizia, per come la intende Gesù, certamente molti non l’hanno mai sentita o la ignorano. Sei mai stato davvero affamato o assetato? Hai mai sofferto la fame o la sete? La maggior parte di noi oggi nel mondo occidentale non ha questa necessità, abbiamo cibo in abbondanza. Nell’antichità, però, anche se le persone lavoravano, avevano una paga bassa e per questo motivo non mangiavano la carne che una sola volta a settimana, se andava bene. Inoltre quello che mangiavano era proprio l’indispensabile e qualche volta provavano la fame. L’acqua potabile non era a portata di mano come adesso e si soffriva di più la sete. A chi di noi, soprattutto d’estate non è capitato di avere sete, che può essere subito soddisfatta. Nell’antichità avevano meno comodità, non si aveva acqua dal rubinetto, la vita doveva essere attentamente pianificata per avere la disponibilità di acqua sufficiente per rimanere in vita.

    Persone che hanno vissuto sulla loro pelle l’esperienza della sete e della fame, raccontano di essere stati disposti a correre rischi di vario genere e di essersi esposti a numerosi pericoli pur di poter estinguere quella fisiologica esigenza che li attanagliava. L’emergenza di ingerire liquidi e cibo giunge a tal punto da essere travolgente.

    Ora Gesù, nelle beatitudini, parla di “fame” e di “sete” in rapporto alla giustizia. Non è possibile comprendere la vita di Gesù di Nazareth senza la “fame e sete di giustizia”, ovvero, senza l’esistenziale sua passione per il Regno, che ha dato senso ed unità piena al suo stile di vita, alla sua predicazione, alle sue scelte, alla sua coerenza ed alla sua azione. La causa principale che mosse la vita di Gesù e la spiegazione delle condizioni radicali del discepolato fu sostanzialmente il desiderio ardente, fame e sete appunto, di creare le condizioni affinché  il Dio-Abbá potesse regnare, che fosse accettata la sua paternità-maternità, la quale potesse generare nuove relazioni di fraternità tra gli esseri umani e tra questi ed il resto della creazione.

    Questo cosa significa per il discepolo?

    Affamati e assetati” di giustizia indica un desiderare fortemente qualcosa, quindi una passione. Secondo alcuni studiosi i due verbi (affamati e assetati) si intensificano l’uno con l’altro e indicano appunto un ardente o appassionato desiderio, un desiderio da soddisfare a tutti i costi, infatti chi ha fame o sete cerca subito e si da fare per soddisfare questa necessità. Questa fame e questa sete di cui parla Gesù, sono simili a quello di un uomo che potrebbe morire di fame per mancanza di cibo o morire di sete per mancanza di acqua. Dunque la fame e la sete a cui si riferisce Gesù, non è quella fame e quella sete che risolvi con uno spuntino o una bibita. È quella fame e quella sete estrema, come se fossero diversi giorni che non si mangia e si sta per morire. Insieme, questi due verbi descrivono desideri profondi che non  sono passeggeri. Sono il desiderare con tutto il cuore una necessità vitale con la consapevolezza che senza giustizia non puoi vivere.  

    Il verbo “affamati e assetati (participio presente attivo) secondo gli studiosi, indica che la fame e la sete non è qualcosa di momentaneo, passeggero, ma è qualcosa di continuo, un desiderio quotidiano di tutta la vita! Quindi un credente quotidianamente desidererà ardentemente la giustizia!

    L’aver “fame e sete” è un segno di vita. È chiaro che una persona morta non ha appetito, anche se gli presentassimo cibo prelibato, non sarebbe stimolato e non muoverebbe nemmeno un dito. Quindi spiritualmente parlando chi non ha fame e sete di giustizia è morto, non ha una relazione con Dio, non è salvato, ma morto spiritualmente (cfr Efesini 2:1-3). Questo significa che è proprio questo desiderio che ci fa capire se la fede è viva o languisce. M.L. Jones diceva: “Non conosco test di verifica migliore per valutare la genuinità di una professione di fede cristiana. Infatti, se questo verso della Bibbia rappresenta per voi una delle affermazioni più meravigliose della Parola di Dio, allora sicuramente siete dei veri cristiani. Se non è così, fareste meglio a esaminare di nuovo i fondamenti su cui poggia la vostra professione di fede”. Per te questa è un’affermazione meravigliosa? Allora sei veramente un credente vivo!!

    È un segno di buona salute. Una delle domande più importanti che un medico fa ad un paziente è: “Come va il vostro appetito?”  Questo perché la mancanza di appetito è sempre un motivo di preoccupazione e potrebbe essere un sintomo di una grave malattia. Lo stesso principio vale in termini spirituali. Quando uno che si professa cristiano ha poco o nessun appetito per le cose di Dio, significa che c’è qualcosa di seriamente compromesso! Quando un credente non ha quel desiderio profondo della comunione con Dio, quando trascura la preghiera, i sacramenti, la comunità vuol dire che quel credente è  malato spiritualmente! 

     

    2.  DI GIUSTIZIA

    L’etimologia “justitia” rimanda al latino “jus” ovvero al diritto di ciascuno di avere ciò che gli è dovuto. Nella Bibbia è impossibile comprendere ed interpretare il termine “giustizia” su di un piano esclusivamente giuridico (la “giustizia distributiva”).  E allora domandiamoci: a che cosa si riferisce la “giustizia” di cui Gesù ci chiede di aver fame e sete?

    A)  La giustizia appartiene a Dio.

    La giustizia è un attributo di Dio, è una qualità, una caratteristica di Dio:

    Salmi 11:7: Poiché il Signore è giusto; egli ama la giustizia; gli uomini retti contempleranno il suo volto.

    Deuteronomio 32:4: Egli è la rocca, l’opera sua è perfetta, poiché tutte le sue vie sono giustizia. È un Dio fedele e senza iniquità. Egli è giusto e retto.

    La giustizia di Dio equivale alla coerenza con se stesso. Quello che noi chiamiamo la fedeltà di Dio alle sue promesse. Dire allora che Dio è giusto significa che Dio fa quello che ha promesso di fare.

    Ma in base a che cosa Dio è fedele e quindi “giusto”? Solo è in relazione a se stesso, Dio non ha altri standard (metri di misura) che la sua stessa natura ed essenza.  La sua eterna essenza è eterna giustizia (Salmi 111:3 ; Salmi 119:142 ; Isaia 51:8; Salmi 19:9; 119:137-138 ) che non vuole compiere una qualunque azione che non sia perfettamente buona e santa. Se volesse agire scorrettamente, egli agirebbe pertanto contro la sua natura, il che sarebbe assurdo:

    Daniele 9:14: Il  Signore, il nostro Dio, è giusto in tutto quello che ha fatto  (cfr. Salmi 145:17 ; Geremia 9:24 ).

    La giustizia di Dio è legata alla sua fedeltà all’Alleanza con il suo popolo. In base a questo patto la sua giustizia si manifesta come liberazione e salvezza del suo popolo ( Isaia 46:12-13 ; Isaia 51:5-6 ; Salmi 31:1 ; Salmi 85:8-11 ).

    In relazione con quest’aspetto Dio è giudice giusto perché libererà il povero e l’oppresso e stabilirà il suo diritto (Salmi 7:9 ; Salmi 9:1-4 ; Salmi 103:6,17 ; Salmi 34:16-22 ; Salmi 72:1-4 ; Salmi 82 ; Isaia  11:4).

    B).  La giustizia di Dio è stata comunicata all’uomo attraverso il Vangelo di Gesù.

    Paolo afferma in Romani 1:16-17 : Infatti non mi vergogno del vangelo; perché esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede; del Giudeo prima e poi del Greco;  poiché in esso la giustizia di Dio è rivelata da fede a fede». Nel Vangelo vediamo che è rivelata una giustizia che proviene da Dio e che soddisfa Dio! La giustizia di Dio è legata anzitutto al dono che egli fa all’umanità di suo Figlio, il quale divenuto uomo come noi adempie eternamente e perfettamente all’Alleanza. E solo lui può giustificarci perché di per sé nessuno può vantare una tale giustizia davanti a Dio! (cfr Salmi 130:3 ). Tutti gli uomini sono peccatori e destinati a perdizione ma Dio giustifica in Cristo i credenti, li dichiara giusti: questa è la giustizia di Dio rivelata nel Vangelo. Filippesi 3:8-9 : io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo  e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede.

    Dio giustifica i credenti in Gesù in due modi:

    • Facendo ricadere sul Figlio il nostro peccato. Gesù è agnello che liberamente si carica del nostro male e ne porta fino in fondo le conseguenze.

    • Facendo sì che possiamo partecipare in base alla fede e al battesimo della giustizia di Gesù. Essa viene celebrata/rinnovata ogniqualvolta si celebra l’Eucarestia che è “remissione dei peccati”.

    C). L’uomo reso capace di opere di giustizia

    La giustizia di cui partecipiamo attraverso la grazia di Gesù deve occupare un posto importante nel nostro rapporto con Dio. “Giustizia” in questo senso è il vivere in conformità all’evangelo,  cercando di vivere in conformità con la volontà di Dio. È una condizione gradita a Dio perché è la nostra risposta alla giustizia di Dio, che attraverso il dono della grazia ci rende capaci di rispondere liberamente a lui con “opere di giustizia”.  Fame e sete di giustizia” non è altro che il desiderio di entrare nel Regno di Dio e di operare perché esso sia seminato già ora nei solchi della storia. E questo soprattutto attraverso l’esercizio della condivisione fraterna.

    Il desiderio di giustizia è la conseguenza del fatto che siamo stati salvati, giustificati. Giovanni dice: ” Se sapete che egli è giusto, sappiate che anche tutti quelli che praticano la giustizia sono nati da lui”. (1 Giovanni 2:29).

    L’evidenza che siamo figli di Dio, che siamo nati da Lui è assomigliare a Gesù, praticare la giustizia! Sempre Giovanni dice: Figlioli, nessuno vi seduca. Chi pratica la giustizia è giusto, com’egli è giusto.  Colui che persiste nel commettere il peccato proviene dal diavolo, perché il diavolo pecca fin da principio. Per questo è stato manifestato il Figlio di Dio: per distruggere le opere del diavolo. Chiunque è nato da Dio non persiste nel commettere peccato, perché il seme divino rimane in lui, e non può persistere nel peccare perché è nato da Dio.  In questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chiunque non pratica la giustizia non è da Dio; come pure chi non ama suo fratello.” (1 Giovanni 3:7-10).

    In questo senso il mondo non incoraggia alla vera giustizia, basta fare un giro in un’edicola, in internet o vedere i programmi in televisione e ci accorgiamo che non c’è nessun o quasi incoraggiamento a ricercare un carattere e una condotta santa, ma a ricercare solo il proprio interesse o tutt’al più a puntare il dito sull’ “ingiustizia” altrui mai sulla propria.

    Ovvio che le nostre opere di giustizia non sono improntate ad una religiosità “farisaica” che attraverso di esse ricerca una propria giustizia che non vuole abbisognarsi della grazia (cfr Matteo 23:25 ). L’ubbidienza a Dio secondo la giustizia approvata da Dio, nasce dal cuore e non è pretesa di autosufficienza, (1 Samuele 16:7 ), non è religione vanagloriosa, ma si rivela attraverso opere di misericordia, tenerezza e perdono (Matteo 6:1-5 )

     

    3. SARANNO SAZIATI

    Con la scelta del verbo “saziare“, in luogo di “nutrire”, l’evangelista vuol sottolineare che gli “affamati e assetati” verranno abbondantemente, appagati da Dio, il quale soddisferà pienamente la loro esigenza di giustizia: “Beato colui che semina un seme di giustizia, perché mieterà sette volte tanto” (2 Enoch 42,8). Gesù in due diverse occasioni la prima con la samaritana con l’acqua e l’altra dopo la moltiplicazione del pane con il pane, afferma che l’acqua che Lui da disseterà e anche il pane sazierà in eterno, ovviamente riferendosi alla salvezza alla vita eterna (Giovanni 4:10-14 ; Giovanni 6:34-35 ; cfr. Apocalisse 7:16). La fonte della sazietà è Dio (forma del verbo saziati- chortazomai è al passivo).

    Saziati” è una parola molto forte, esprimeva l’alimentazione e l’ingrasso degli animali con foraggi e cereali, indica il dare cibo in abbondanza e quindi avere la fame soddisfatta. La stessa parola la troviamo quando Gesù fece la seconda moltiplicazione dei pani e dei pesci e la folla mangiò e fu saziata (Marco 8,8).

    La sazietà della fame e della sete fanno parte delle promesse nell’Antico Testamento. La sazietà della fame e della sete si riferisce al bisogno di salvezza. In diversi passi Dio promette a Israele il ristabilimento e il rinnovamento di Israele,  trasformando il deserto in lago, spandendo le acque sul luogo assetato  (Isaia 41:17-18 ; Isaia 44:3). Quindi non ci sarà più fame e sete (Isaia 49:8-10 ; Ezechiele 34:29 ; Ezechiele 36:29).

    Isaia 55:1-5 : O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro venite, comprate e mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte!  Perché spendete denaro per ciò che non è pane e il frutto delle vostre fatiche per ciò che non sazia? Ascoltatemi attentamente e mangerete ciò che è buono, gusterete cibi succulenti!  Porgete l’orecchio e venite a me; ascoltate e voi vivrete; io farò con voi un patto eterno, vi largirò le grazie stabili promesse a Davide. Ecco, io l’ho dato come testimonio ai popoli, come principe e governatore dei popoli.  Ecco, tu chiamerai nazioni che non conosci, e nazioni che non ti conoscono accorreranno a te, a motivo del Signore, del tuo Dio, del Santo d’Israele, perché egli ti avrà glorificato. Isaia qui si riferisce al banchetto escatologico.

    L’invito è per gli assetati e affamati ad andare a Dio, ovvero ad entrare nella sua alleanza, per essere saziati gratuitamente. La Bibbia descrive la salvezza e la comunione del credente con Dio in termini di banchetto con cibo abbondante e vini raffinati.

    Isaia 25:6-8 : Il Signore degli eserciti preparerà per tutti i popoli su questo monte un convito di cibi succulenti, un convito di vini vecchi, di cibi pieni di midollo, di vini vecchi raffinati. Distruggerà su quel monte il velo che copre la faccia di tutti i popoli e la coperta stesa su tutte le nazioni.  Annienterà per sempre la morte; il Signore, Dio, asciugherà le lacrime da ogni viso, toglierà via da tutta la terra la vergogna del suo popolo, perché il Signore ha parlato.

    Anche il nuovo testamento usa moltissimo le immagini del banchetto e delle nozze. Così anche in Matteo 8:11-12 : E io vi dico che molti verranno da Oriente e da Occidente e si metteranno a tavola con Abraamo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli,  12 ma i figli del regno saranno gettati nelle tenebre di fuori. Là ci sarà pianto e stridor di denti.   (Cfr. 2 Corinzi 11:2 ; Efesini 5:25-27 ; Osea 2:19-20 ).

    Quindi la beatitudine si conclude con una certezza, una promessa, dicendo che saranno “saziati” gli assetati ed affamati di giustizia. Essi potranno finalmente beneficiare dell’autentico ristoro non solo nella pienezza nel Regno, ma in parte già sin d’ora nella misura in cui ci poniamo a “cercare prima il Regno e la sua giustizia”. Il resto ci sarà dato in aggiunta.

    Già il solo volere, ciò che il Vangelo designa come fame e sete di giustizia, possiede la virtù miracolosa di farci pregustare questa beatitudine, la gioia di cercare il bene nostro e degli altri. Questo è già grande conforto per noi. La pace dello spirito ci può essere anticipata già nella fase preparatoria del compimento del nostro dovere, ch’è appunto la fase del desiderio, del proposito, del buon volere.

    E sovente avviene che questa aspirazione alla giustizia modifichi e purifichi nelle anime generose l’orientamento generale dei desideri insoddisfatti che rendono infelice l’esistenza, perché in genere tali desideri sono egoisti, non dettati dalla «giustizia» che nel Vangelo si raggiunge e si realizza nell’amore. Questo è già beatitudine, oggi, nella vita presente; e domani, in quella futura, in pienezza ed eternamente. Per cui i nostri sforzi oggi non sono vani e irrisori.

    Ma chi non ha fame e sete di giustizia non può essere saziato. Coloro che non appartengono a Cristo non sperimenteranno la sazietà! Solo gli affamati e assetati di giustizia saranno saziati. Che meravigliosa promessa! 

     

    Per la riflessione

    – Di che cosa ho fame e sete per la mia sussistenza? Provo ad elencare una piccola lista in ordine di priorità.

    – Questi desideri in quale misura possono essere appagati, sfamati, nella mia vita? Posso dirmi soddisfatto? Oppure sento di aver “fame e sete” di qualcos’altro?

    – In quale modo cerco di soddisfare la mia fame e sete?

    – Fame e sete di giustizia: in base alla spiegazione sento che questa beatitudine mi riguarda. Sotto quale aspetto? In che misura?

    – Gesù mi rivolge una promessa: la mia fame e sete saranno finalmente appagati, nella misura in cui cerco di pormi in armonia con il disegno del Padre nella mia vita. Dinanzi a questa promessa che lui mi fa come gli risponderei? Gli darei fiducia oppure risponderei che non si tratta altro che di vana consolazione destinata a finire come tutte le altre?

    – Questa beatitudine rivela la nostra condizione spirituale. La mancanza quasi o assoluta di questo desiderio spirituale  rivela la debolezza o la mancanza di maturità spirituale, rivela una fede debole e anemica oppure una mancanza di fede. Il cristiano che è in sintonia con il Signore ha appetito per le cose di Dio. Coloro che hanno fame e sete di giustizia hanno una passione per Dio, sono coloro che hanno fame e sete di Cristo!  (Giovanni 3:3-5 ; 2 Corinzi 5:17 ;Tito 3:4-7 ).

     

     

  • 14 Apr

    Io sono la vite vera

    Giovanni 15, 1-8


    Lectio

    Il contesto del capitolo 15 è l’insieme dei discorsi d’addio che occupano un quarto di questo vangelo (capp. 13-17). Il capitolo 15 segna una cesura nel racconto e appare come una ripresa (e un ulteriore sviluppo) dei temi presenti nei capitoli 13-14, forse con un accento più caldo; il nostro testo è occupato dalla similitudine della vite; prima esposta (1-6) e poi spiegata (7-17). Il testo di questa domenica dunque è strettamente unito a quello della prossimo (9-17).

    L’immagine della vite è di derivazione biblica (cfr. Is 5,1-7; 27,2-5; Ger 5,10; 12,10s; Ez 15,1-8; Sal 80), quasi sempre applicata ad Israele, tranne che in Ez 17,5-10 dove ci si riferisce al Messia. Ci sono altri testi interessanti con riferimento all’attività di coltivazione delle vigne, caratteristico del popolo ebraico, come Gn 9,20; Nm 13,23; Ct 1,14; 2,15; 8,12; 1Re 5,5; e anche nel N. T. abbiamo dei riferimenti come in Mt 21,33-43 e paralleli Mc 12,1-12; Lc 20,9-19 (cfr. Mt 20,1-16). All’interno di questo panorama possiamo accostare la pericope proposta per questa domenica, mantenendola in tensione con il tema della IV domenica e con i temi generali del testo giovanneo.

    1 Io sono la vite vera, e il Padre mio è l’agricoltore.

    Gesù si autorivela, notare la formula solenne io sono, come la vera (alethinè) vite e l’accento della frase cade su di lui, anche se nello stesso tempo si parla del Padre che è definito l’agricoltore, colui che si prende cura della vite (tema molto presente nell’A.T.). Ancora una volta al centro sta la persona di Gesù, vera vite; cogliamo qui, come nel capitolo 10 del buon pastore o al capitolo 6 con il vero pane, un sottinteso confronto tra Gesù e quanti l’hanno preceduto nella storia di Israele, in particolare coloro che dovevano esserne le guide.

    2 Ogni tralcio in me che non porta frutto, lo toglie, e ogni tralcio che porta frutto, lo monda affinché porti più frutto. 3 Voi siete già puri per la parola che vi ho detto.

    Con un riferimento al lavoro dei contadini Gesù ricorda che in un primo tempo è necessario tagliare i rami infruttuosi (marzo-aprile) e poi, in estate (agosto), potare o mondare i germogli superflui. A cosa si riferisce il portare frutto sarà chiarito dall’applicazione successiva (vv. 9-17); per il momento è introdotta l’idea dello stretto legame tra Gesù, la vite, e i discepoli, i tralci. I discepoli a cui Gesù sta parlando hanno già avuto modo di essere purificati (kathatoi’ con riferimento a 13,10) o potati attraverso la sua parola; il testo passa dall’esposizione della similitudine ad una prima tringata applicazione, il rapporto tra Gesù e i credenti. Infatti la parola entra in gioco nella relazione personale.

    4 Rimanete in me, e io in voi. Come il tralcio non può portar frutto da sé se non rimane nella vite, così neppure voi se non rimanete in me.

    Rimanete in me, è la parola chiave del nostro testo (ripetuta 8 volte in 4 versetti), ed ha un forte legame con la prima lettera di Giovanni dove pure ricorre spesso questa espressione. La formula di immanenza reciproca con cui si apre questo versetto è sorprendente e conferma che l’orizzonte del testo è l’Alleanza dell’A.T.; l’esortazione a rimanere è proposta sia in modo reciproco, come qui, sia in modo esortativo, rivolta ai discepoli, e questo crea il ritmo del nostro testo. Riprendendo il paragone con la vite Giovanni chiarisce il senso dell’imperativo iniziale: l’unità tra Gesù e i credenti è spiegata con questa immagine vegetale, in certo senso più forte di quella del pastore e del suo gregge, suggerendo un legame più vitale e intimo. Infatti benché Gesù e i discepoli siano chiaramente distinti, sono presentati da questa immagine come strettamente uniti, come i tralci esistono solo per e nella vite, che li porta (cfr. 1Gv 3,24).

    5 Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, questi porta molto frutto, poiché senza di me non potete far nulla.

    Con un richiamo al v. 1 Gesù definisce di nuovo se stesso come la vite e poi i discepoli come i tralci,

    indicando esplicitamente il suo rapporto personale e vitale con i credenti. L’affermazione finale di questo versetto è molto forte (possiamo coglierne un’eco nel testo di Paolo Fil 4,13: tutto posso in colui che mi dà forza); non si tratta di una negazione delle capacità umane, ma di sottolineare l’importanza per il discepolo di accogliere in sé l’attività stessa di Gesù e di permettere al suo amore, che si diffonde per sua stessa natura, di suscitare vita in lui. L’insistenza sul frutto da portare, si ricollega alla potatura dei vv. 2-3; ma di quale frutto sta parlando Gesù? Della fede del credente o della sua testimonianza? O dell’amore reciproco che è il tema del brano successivo del capitolo (cfr. vv. 9-17)? Viviamo in Cristo se abbiamo, o cerchiamo di avere, in un implacabile rinnovamento interiore, l’apertura universale dei figli di Dio. La linfa di Gesù alimenta un’umanità di uomini e donne forti e liberi che da lui hanno non solo una legge, ma un principio vitale di apertura e di comunione (cfr. G. Vannucci).

    6 Se uno non rimane in me, viene gettato fuori come il tralcio e si dissecca; e questi (tralci) si raccolgono e si gettano nel fuoco, e bruciano.

    Una nuova ripresa del tema nel v. 6 presenta una variante: la sorte dei tralci che non restano in Cristo è la morte (il fuoco, cfr. Ez 15,2-5; anche Mt 3,10 e paralleli; 25,41). La risposta personale del discepolo/tralcio non conosce vie intermedie: o si porta frutto o si muore. Questo versetto sembra fare riferimento ad un momento di fragilità e crisi della comunità giovannea, come nella sua prima lettera, (1Gv 5,16 parla del peccato che conduce alla morte). La prospettiva di questo versetto è universale e si può applicare ai credenti di tutti i tempi: quelli che rifiutano di credere in Gesù, nel Figlio, non sono innestati nella vite, l’invito a rimanere in Lui è rivolto a tutti.

    7 Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete, e vi sarà fatto.

    Abbiamo un rinvio al v. 3 dove pure si citavano le parole o parola di Gesù; e di nuovo l’invito a rimanere, nel senso della reciprocità come nei vv. 4.5; l’esaudimento della preghiera era stato anticipato il 14,13 (cfr. 16,23) dove pure si parla della gloria del Padre. Anche qui il soggetto attivo è, indirettamente, Dio Padre che esaudisce le preghiere rivolte a lui (cfr. Mt 18,19).

    8 In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

    La glorificazione di Dio avviene quando si compie il suo progetto di salvezza, quando si manifesta il suo amore e quindi quando i discepoli lo accolgono pienamente restando uniti a Gesù, il Figlio (cfr. Mt 5,16). Sorprende che Gesù dica diventiate, perché si rivolge a coloro che sono già suoi discepoli. Il senso del verbo greco gignomai indica in genere una trasformazione, ma qui significa mantenersi e manifestarsi come discepoli; la condizione di discepoli è infatti dinamica, si realizza nell’agire che a sua volta esprime la condizione di unità con Gesù. Il significato sacramentale del testo è solo secondario: sebbene il discorso sia inserito nel contesto dell’ultima cena e l’immagine della vite rimandi al vino e dunque al sangue di Gesù, il messaggio dell’evangelista non è diretto principalmente alla comunione eucaristica, ma all’inabitazione di Gesù nei suoi discepoli (X. Léon-Dufour).

     

    Meditatio

    – Cosa dice alla mia esperienza di comunione con Gesù l’immagine della vite proposta da questo testo evangelico?

    – Qual è il frutto che Gesù si attende dai suoi discepoli e da noi?

    – La comunità dei credenti e Cristo condividono la stessa vita come i tralci e la vite: quale idea di chiesa veicola questa immagine?

  • 05 Apr

    Ascolta il mio grido, mio Dio!

    Lectio di Es 2,23-25; 3,7-12

     

     a cura di p. Attilio franco fabris

     

    Morte, disastri naturali e bellici, catastrofi, percorrono non solo le pagine dei nostri giornali e la TV ma anche le pagine della Bibbia, e raccontano il lacerante grido del povero che in ogni tempo e luogo si innalza fino al cielo invocando una risposta, un senso a ciò che la vita sembra imporre talvolta spietatamente. Questa dimensione del dolore umano è un dato così costante nella Scrittura da aver dato origine a un preciso genere letterario: quello della “lamentazione”. Il sangue di Abele grida verso Dio (Gn 4,10), Israele grida in Egitto (Gn 41,55; Es 1,23s), i profeti gridano contro i tiranni che sfruttano e schiacciano il povero, gridano i figli di Israele esiliati a Babilonia (Es 14,10; Gdt 3,9). Anche la maggior parte dei salmi sono testi di lamentazione da parte di chi è circondato da nemici, o si trova sull’orlo della morte: “A te grido, Signore; non restare in silenzio, mio Dio, perché, se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa” (Sal 27,1);  “Nella mia angoscia ho invocato il Signore… dal profondo degli inferi ho gridato” (Giona 2,3). Questa litania di sofferenza si prolunga con le grida del cieco Bartimeo lungo la strada polverosa di Gerico (Mc 10,47) e con quelle insistenti e quasi fastidiose della donna cananea (Mt 15,23). Per giungere alle stesse “forti grida e alle lacrime” (Ebr 5,7) di Gesù dinanzi alla prospettiva della sua morte violenta. Lo Spirito vinca ogni nostra sordità dinanzi alla voce della Parola. Intenerisca il nostro cuore rendendolo capace di compassione. Questa consiste proprio nell’aprire il nostro sguardo e il nostro orecchio a colui che ci si presenta dinanzi con tutta la sua povertà spirituale e materiale. Nel suo grido sapremo riconoscere la voce stessa di Dio che per primo l’ascolta?

    Lectio

    “Gemettero… alzarono grida….“: sono due verbi intensissimi per descrivere l’angoscia degli ebrei che subiscono la vessazione della schiavitù egiziana. Israele si trova in un vicolo cieco, senza scappatoie, né possibili compromessi. La sua sofferenza provoca un grido di aiuto che  si configura non tanto come un’esplicita supplica a Dio, un’invocazione che esprime una preghiera, quanto piuttosto come un “gemito disperato” che diventa “grido” di dolore. E’ come il pianto di Agar l’egiziana e di Ismaele suo figlio dispersi nel deserto del Negheb che vedono dinanzi a sé solamente la prospettiva della morte (cf Gn 21,17), o come il pianto della madre vedova che a Naim sta portando l’unico figlio alla sepoltura e muove a compassione il cuore di Gesù (cf Lc 7,13).

    Tutte queste grida di dolore hanno la forza di “salire a Dio” (cfr 2,23): “Giunga fino a te il gemito dei prigionieri; con la potenza della tua mano salva i votati alla morte” (Sal 78,11; Sal 55,9).  È Dio che per primo “ascolta” il gemito del povero.

    Il testo dell’esodo afferma che Dio “guardò” alla sofferenza del suo popolo: non ha mai distolto lo sguardo come invece faranno il levita e il sacerdote della parabola, ma come il buon samaritano egli “vede” la sofferenza del povero e se ne prende cura (cfr Lc 10,33; Sal 9,35). Anzi il testo dice che Dio “se ne prese pensiero” (2,25) il che equivale a decidere di entrare in azione, di agire in ordine alla salvezza del suo popolo schiavo. 

    Ma perché Dio ascolta, guarda, si prende pensiero? La risposta è racchiusa unicamente nel mistero della fedeltà di Dio alle sue promesse che non vengono meno: “Si ricordò dell’alleanza” (2,24; 1Sm 1,20; Ez 16,60; Sal 74,2.18-22; 89,51;…). Ricordarsi” in ebraico significa non solo un richiamare alla memoria il passato ma anche un intervenire nel presente e nel futuro a motivo di una preciso impegno assunto (1Sm 25,31; Lc 1,54; cfr Sal 105,45). L’azione divina non è perciò motivata da obiettivi filantropici, o da una promozione di giustizia sociale, neppure dal fatto che Israele sia migliore degli altri popoli e meriti il suo intervento.

    Ma come Dio interviene? Non usa la strada del “miracolo”, quasi che con una bacchetta magica si ribalti le situazioni! Questo è il dio del nostro immaginario! La sua azione invece si avvale sempre di una mediazione e collaborazione umana: in questo caso Mosè. Dio costruisce la storia della salvezza non malgrado l’uomo, ma insieme all’uomo.

    Mosè, dopo il fallimento dei suoi ideali giovanili di liberazione, è fuggito dall’Egitto, ha messo su famiglia, è divenuto pastore delle greggi del suocero. In questi lunghi anni di pausa Dio lo sta preparando alla missione che Mosè un tempo credeva sua. Questo Mosè è ormai ben diverso da quello degli anni giovanili: ha conosciuto la sconfitta, l’esilio, il mistero. Ora è solo un anonimo pastore di greggi e capre in mezzo al deserto,  un povero emigrato, non è più di certo un emergente della società, un uomo di palazzo, un “e-gregio”!  Ha preso coscienza finalmente della sua povertà che lo rende capace, ora sì, di udire realmente e in modo diverso il grido dei suoi fratelli perché è nella loro stessa condizione di esilio.

    Nel dialogo tra JHWH e Mosè, sul monte Sinai alla luce del roveto che brucia e non si consuma, ad un certo punto Dio dice: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti. Conosco infatti le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese, verso un paese bello e spazioso, dove scorre latte e miele. Ora il grido degli Israeliti è arrivato fino a me ed io stesso ho visto l’oppressione con cui gli egiziani li tormentano”. È Dio dunque che per primo ha “visto”, ha “udito” e “conosce” le sofferenze del popolo ebreo. L’opera della salvezza è già iniziata con questo dialogo, il verbo infatti è al passato “sono sceso per liberarlo (la traduzione più esatta sarebbe “per strapparlo” che indica un’azione faticosa e impegnativa, quasi Dio dovesse “faticare”. Ma questa fatica è dovuta alla resistenza dell’uomo non solo del faraone ma dello stesso Israele).

    Attraverso queste parole Dio vuole chiarire a Mosé un aspetto importante della missione che sta per affidargli: “Finora hai pensato di essere stato solo tu a udire il grido del tuo popolo, di dovertene prendere cura e di volerlo salvare. Credevi che l’iniziativa fosse tua con l’illusione forse di volermi poi coinvolgere in essa. Mosè non avevi capito che i tuoi progetti invece provenivano da me e perciò hai sbagliato metodo e sei andato incontro al fallimento: adesso comprendi che sono io per primo che vedo, sento, provo compassione per il grido del mio popolo.  Se in te ora vi è la stessa compassione sono io che te l’ho suscitata, se c’è in te il desiderio della libertà per i tuoi fratelli, sono ancora io che te l’ho posto nel cuore”. Il primato, l’iniziativa, della missione spetta dunque sempre a Dio ed è stolto colui che crede di essere lui il protagonista e l’interprete principale.

    E’ solo a questo punto  che Dio può affidare ufficialmente la missione a Mosè: Ora va!”. Mosè è scelto da Dio come suo mediatore proprio per quell’opera che tanti e tanti anni prima aveva creduto fosse sua e si era trasformata perciò in terribile fallimento: “Ora và! Io ti mando dal faraone; fa uscire il mio popolo dall’Egitto”. Nel discorso dinanzi al sinedrio Stefano proclama il suo stupore per questa inusuale e umanamente incomprensibile inventiva di Dio: “Questo Mosè che avevano rinnegato dicendo: Chi ti ha nominato capo e giudice? proprio lui Dio aveva mandato per esser capo e liberatore, parlando per mezzo dell’angelo che gli era apparso nel roveto” (At 7,35).

    L’incontro con il Signore nella vita di un uomo non lascia spazio ad intimismi inutili o illusori protagonismi: ogni esperienza di Dio si trasforma sempre in una chiamata ad una missione di annuncio e liberazione nei confronti dei “poveri”. Sarà la scelta fatta da Gesù stesso:Egli allora chiamò a sé i Dodici e diede loro potere e autorità su tutti i demòni e di curare le malattie. E li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi” (Lc 9,1).

    Meditatio

    Mi piace introdurre la nostra meditazione con un breve passaggio tratto dalle “Lettere” di san Vincenzo de’ Paoli, l’apostolo della carità (1581-1660). Egli scrive alle sue Figlie: “Sforziamoci di diventare sensibili alle sofferenze e alle miserie del prossimo. Preghiamo Dio, per questo, che ci doni lo spirito di misericordia e di amore, che ce ne riempia e ce lo conservi. Il servizio dei poveri deve essere preferito a tutto. Non ci devono  essere ritardi. Se nell’ora dell’orazione avete da portare una medicina o un soccorso a un povero, andatevi tranquillamente. Offrite a Dio la vostra azione, unendovi l’intenzione dell’orazione. Non dovete preoccuparvi o credere di aver mancato, se per il servizio dei poveri avete lasciato l’orazione. Non è lasciare Dio, quando si lascia Dio per Iddio”. Il nostro santo invita le sue religiose a non essere sorde, insensibili al grido del povero. Il motivo è che in esso devono riconoscervi la stessa voce di Cristo ultimo e povero che con questi si identifica: “Quel che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”.

    Essere, come dice il nostro santo, “sensibili alle sofferenze e alle miserie del prossimo” oggi sta diventando difficile. Sembra che nella cultura occidentale così precaria e violenta ciascuno tenti in modo egoistico anzitutto di “salvare se stesso”. Non è senza significato se diminuisce ad esempio il numero delle persone che dedicano parte del loro tempo al volontariato. Anche il livello e la qualità di ascolto vicendevole sembra diminuire sempre di più: non ci si ascolta, non si ha tempo di fermarsi di ascoltare l’altro (qualche volta anche nelle nostre comunità cristiane!) si corre con l’orologio in mano perché si hanno i propri impegni sempre guarda caso improrogabili. Assistiamo ad una sorta di massiccio ripiegamento nel privato, ad un rincorrere soprattutto nel mondo giovanile una virtuale piazza di incontro – le “migliaia” (sic!) di amici in Facebook! – rifugiandosi dinanzi allo schermo del PC o del cellulare dove il volto e la voce la presenza dell’altro si smaterializza nel gelido linguaggio informatico, dove in verità la comunicazione si consuma ma non si ascolta.

    È una società violenta la nostra che vorrebbe mettere a tacere il grido dell’ammalato terminale e dei disoccupati che non sanno come far fronte alla vita,  le grida silenziose di milioni di innocenti bambini a cui è negato il diritto alla vita. Una società dove si mettono a tacere le grida di tante popolazioni che vivono nella guerra, nella fame e di cui i mass media non parlano per non suscitare uno scomodo problema…facendo così il gioco sfruttatore delle nazioni potenti.

    E ancora quante solitudini nascoste e grida inascoltate si annidano nelle vie delle nostre città. Trascrivo un brano significativo: “Solo, come solo ha passato tutta la sua esistenza, andava lento sotto la pioggia. Quell’andatura ciondolante di chi ormai da troppo tempo ha imparato che la pioggia che cade lava e disseta la terra, che il sole scalda e da vita, che i suoi unici problemi sono quelli di vivere in un mondo che non lo guarda. In un mondo che lo considera un problema. Invisibile agli occhi della gente. Che quando per sbaglio gli sbatte davanti gli da quasi noia perché la obbliga a vederlo, a pensare, a fargli un gesto…magari solo un cenno con la mano. La macchina inarrestabile lo sorpassa e lo lascia indietro. Lo cerco ancora nello specchietto retrovisore, ma ormai la pioggia e la notte lo hanno risucchiato. Ed io mi riimmergo nei miei piccoli e insignificanti problemi quotidiani”. 

    Urge diventare persone capaci di ascolto. Sono necessari luoghi, le nostre comunità, le nostre famiglie, in cui ritrovare il calore del contatto della mano, della voce, di un viso che sorride e accoglie, perché vi possa nascere un ascolto vero e fecondo di gioia e di speranza.

    Se ciò ancora non accade è perché il cuore si è indurito e di conseguenza si è indurito l’orecchio. E ogni indurimento è segno della presenza del male, del peccato che ci rende estranei e nemici gli uni gli altri. Caino replicherà indispettito alla domanda di Dio: “Sono forse io il guardiano di mio fratello?” (Gn 4,9).

    Imparare ad obbedire – “ob-audire” – al grido del fratello è obbedire –“ob-audire” alla Parola che ci spinge a farcene carico. Per i profeti e per Gesù questa è la condizione della vera religione: Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue…imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1,15.17). Perché troppo spesso “il grido del povero sale fino a Dio, ma non arriva alle orecchie dell’uomo” (Felicité-Robert de Lamennais).

    Ora va!” dice JHWH a Mosè sul Sinai. La missione è opera di Dio, è lui che manda, e ciò non nasce dai nostri ideali, ma dal cuore stesso di Dio. Il nostro rispondere al grido del povero è sorretto dal fondamento della fede: ci riconosciamo non estranei gli uni agli altri ma fratelli di uno stesso Padre, figli amati da sempre e in egual modo e per ciascuno dei quali Gesù ha donato la sua vita: non ci è permesso, se viviamo in questa consapevolezza, di “passare oltre” come il sacerdote e il levita facendo finta di non vedere né udire.

    Certo è una decisione scomoda, pericolosa, spesso comporta ostilità, persecuzione, talvolta il dare la stessa vita.  E’ dell’ottobre dello scorso anno la notizia dell’assassinio di padre Fausto Tentorio, missionario del PIME, ucciso perché scomodo “ascoltatore” della povertà di intere popolazioni indigene delle Filippine. Così fu ed è di tanti e tante altri. Costoro come Mosè si sono lasciati mettere in gioco da Dio, che per primo, attraverso loro, ascolta il grido del suo popolo e manda i suoi collaboratori.

    Che il nostro farci capaci di ascolto del grido dell’uomo non sia elemosina fatta a denti stretti, con un sorriso forzato chiedendoci in cuore se ne val la spesa, che sia invece pura, anche se talvolta faticosa,  gioia di una condivisione della vita stessa che nasce dalla fede di un Dio che non ci vuole indifferenti ma fratelli gli uni agli altri. La salvezza che Dio opera in questo nostro povero mondo inizia quando ciascuno diventa attento al grido di colui che gli sta a fianco (a volte è più facile essere attenti a grida lontane e sconosciute!), quando ha il coraggio di aprire la sua porta al malato, al pellegrino e allo straniero, quando sfama l’affamato, quando nella preghiera porta davanti a Dio tutto il grido dell’umanità!

    Una frase del teologo e martire luterano Dietrich Bonhoeffer potrebbe concludere e riassumere quanto sinora detto: “Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Come l’amore per Dio comincia con l’ascoltare la sua Parola,  così l’inizio dell’amore per il fratello sta nell’imparare ad ascoltarlo” (La vita comune).

    Oratio

    Udire il grido del povero, raccoglierlo facendolo nostro, “farcene carico” non è facile. Siamo presi dalla paura perché temiamo di dover confrontarci con il nostro stesso grido spesso nascosto, la nostra povertà, il nostro limite, il nostro peccato.  La paura ci può bloccare e irrigidire rischiando di renderci insensibili al grido dell’uomo fatto anch’esso di speranze, sofferenze, miserie, peccato. Preghiamo perché soprattutto i consacrati divengano “icona dell’orecchio di Dio” che con tenerezza porge il suo orecchio al grido dell’ultimo, facendosi loro stessi ultimi. Non è questa la strada tracciata per noi dal Signore nostro Gesù?

    È veramente giusto renderti grazie, Padre misericordioso: tu ci hai donato il tuo Figlio, Gesù Cristo, nostro fratello e redentore. In lui ci hai manifestato il tuo amore per i piccoli e i poveri, per gli ammalati e gli esclusi. Mai egli si chiuse alle necessità e alle sofferenze dei fratelli. Con la vita e la parola annunziò al mondo che tu sei Padre e hai cura di tutti i tuoi figli. Per questi segni della tua benevolenza noi ti lodiamo e ti benediciamo, e uniti agli angeli e ai santi cantiamo l’inno della tua gloria (Preghiera eucaristica V/C).

     

     

     

  • 19 Mar

    “Detto questo…”

    Gv 18,1a

    di p. Attilio Franco Fabris

     

     “Detto questo…”. L’evangelista inizia il racconto della Passione allacciandolo immediatamente con quanto Gesù ha detto in precedenza nel Cenacolo durante l’ultima cena.

    Gesù ha tenuto tre ultimi importanti discorsi che possono essere letti come il suo testamento alla sua comunità. Nel terzo Gesù afferma: “Ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (17,26). Gesù ha già iniziato a far conoscere, durante il suo ministero, il nome del Padre suo ma è un’opera che non è ancora conclusa: “lo farò conoscere.  Ricordiamo che il nome, nel mondo ebraico, indica la realtà più profonda di una persona. Far conoscere il nome di Dio equivale dunque a far conoscere il suo mistero: Qui Gesù avanza la pretesa di far conoscere il nome del Padre suo. Questo un semplice uomo non lo può fare. Come ciò è possibile? Gesù ne dà la motivazione: perché il Padre conosce il Figlio e viceversa:come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore” (10,15). Nel prologo questo è già asserito chiaramente: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (1,18). Desiderio di Gesù,e sua missione, è consegnare alla sua comunità, a ciascuno di noi, questa sua “conoscenza”, è rivelare il volto di Dio in modo da divenirne partecipi.

    Ma vediamo perché è importante questo aggancio a ciò che precede la Passione. Il capitolo 13, che corrisponde all’inizio dell’ultima cena, era iniziato in una maniera molto solenne che si rivela poco dopo sconcertante. Scrive l’evangelista che “conoscendo Gesù che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò fino alla fine”. Gesù sapendo che ormai sta per andare incontro alla morte vuole manifestare al massimo (“fino alla fine) il suo amore, ed anticipare il significato della sua morte violenta.

    Ci immagineremmo chissà quale grande discorso, o gesto straordinario! Invece Gesù “si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto” (13,4-5). Gesù ci rivela il volto di Dio lavando i piedi ai discepoli. Non è un esercizio di umiltà da parte di Gesù ma un segno di rivelazione del suo mistero che apre al mistero di Dio.

    A Mosé che lo chiede non è concesso di vedere il volto di Dio: JHWH concede una visione “parziale”: “toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (Es 33,22s). Pertanto la Legge non è incapace di aprimi alla visione del volto di Dio. Solo il Figlio che è nel seno del Padre “lui lo ha rivelato” (letteralmente solo lui ne può fare l’ “esegesi”). È come se l’evangelista ci avvertisse: “Da questo momento fissa la tua attenzione su quanto Gesù dice e fa e tutto quello che credi di sapere e di conoscere di Dio verificalo, confrontalo con quanto vedi e senti in Gesù”. Perché non è Gesù è uguale a Dio ma è Dio che è uguale a Gesù.  Se noi diciamo che Gesù è uguale a Dio significa che Dio già lo conosciamo, che sappiamo già che è. Ogni teologia deve far sempre e solo riferimento a Gesù: lui solo ne è piena e definitiva rivelazione.

    L’affermazione del prologo (1,18), viene riformulata nel capitolo 14, quando Filippo chiede a Gesù: “Mostraci il Padre e ci basta”. Gesù risponde: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre?” (14,9). Ora il desiderio espresso da Mosè è finalmente esaudito, ma attraverso una strada che l’uomo non avrebbe mai sospettato.

    La religione – adopero il termine religione sempre in senso riduttivo ovvero come sforzo dell’uomo di porsi in contatto con Dio il che è diametralmente opposto alla fede cristiana che riconosce che è Dio a farsi incontro all’uomo – inevitabilmente proietta in Dio paure, frustrazioni, desideri e ambizioni dell’uomo rendendo Dio lontano, inaccessibile, soprattutto temibile. Ora la religione fabbrica sempre un idolo: un dio fatto ad immagine dell’uomo. Se la religione insegna che l’uomo impuro deve purificarsi per essere degno di avvicinarsi al Signore. Gesù dimostra il contrario: accogli il Signore e sarà lui a purificarti.

    Così Gesù nella lavanda dei piedi ribalta totalmente la concezione “religiosa” che l’uomo coltiva nei confronti di Dio. Lavare i piedi era compito dello schiavo pagano: la gente andava in giro scalza e quindi calpestava sterco, immondizie, polvere. I piedi erano perciò la parte dell’uomo la più impura. Gesù non pretende che i discepoli si purifichino per essere da lui accolti ma è lui che si mette al loro servizio, e cominciando dalla parte più impura. Questo è il volto di Dio: un Dio che non arretra di fronte alla sporcizia che c’è nell’uomo.

    Dopo la lavanda dei piedi Gesù dice: “ho fatto conoscere loro il tuo nome”.  Il nome di Dio che Gesù ha fatto conoscere ai suoi è “Agape : un Dio che si mette a servizio degli uomini gratuitamente, totalmente, a fondo perduto. Un Dio che si mette a servizio completo dell’uomo: disposto a deporre la sua stessa vita per il suo bene. È questo il leit motiv che percorre la prima lettera di Giovanni: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore (agape); chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,16). Non è vero dunque come afferma la religione che gli uomini devono servire Dio in qualità di schiavi, nella paura, perché Dio non è un tiranno e non ha bisogno di niente. È Dio, che è Padre, che prende invece l’iniziativa di scendere in mezzo all’umanità, di abitare in essa, di servirla. Il Signore si fa servo, perché coloro che erano considerati servi entrino nella categoria di signori. (Panis angelicus fit panis hominum; dat panis caelicus figuris terminum; O res mirabilis: manducat Dominum pauper, servus et humilis – trad. Il pane degli angeli diventa pane degli uomini; il pane del  cielo dà fine a tutte le prefigurazioni: qual meraviglia! il servo povero e umile mangia il Signore: sequenza Panis Angelicus).

    Ma non basta. Gesù aggiuge “E lo farò conoscere”. Qui si accenna alla “esegesi” più gloriosa del volto di Dio che avverrà nella sua passione e morte, scandalosa per l’uomo religioso, stoltezza per l’uomo chiuso nel suo ragionamento: entrambi rifiuteranno questa rivelazione (cfr 1Cor 1,23).  Il nome di Dio che Gesù farà conoscere nel brano della Passione sarà quello di Dio che è amore fedele e gratuito all’uomo ad ogni costo, che fino all’ultimo farà una proposta incessante d’amore per l’uomo nonostante egli “paghi” tutto questo con il dono della propria vita.

     

    Per la meditazione:

    Mi pongo davanti alla croce: quale il Nome di Dio che Gesù mi rivela?
    Sono disposto a farmi lavare i piedi da Gesù? Ovvero a lasciarmi amare da Lui? Oppure come Pietro avrò paura di questa rivelazione? Chiedo allo Spirito di liberarmi dalle false immagini di Dio e di imparare a non temere la gratuità dell’amore incondizionato di Dio, a lasciarmi abbracciare dalla gratuità da lui.

     

  • 15 Mar

    SIGNORE MIO E DIO  MIO
    Lectio di Gv 20,19-31

                               

                        

    Se al mattino il sepolcro vuoto dominava il racconto, alla sera lo domina la presenza di Gesù in mezzo ai suoi discepoli. Ma la ripresa delle relazioni é solo un primo passo.  Il seguente è l´invio dei discepoli.  Il terzo passo è il dono dello Spirito. L´ultimo passo è il potere di perdonare i peccati.  A partire dal v. 24 il racconto continua con il racconto di Tommaso, “uno dei dodici”.

    Apparizione agli apostoli e presentazione delle piaghe

    19.La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!».20 Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.

    Il luogo è uno spazio chiuso per la paura. Gesù si fa presente in quello spazio, e la sua presenza comunica pace e infonde gioia. Al posto della paura, la pace. Il saluto pasquale produce la trasformazione, l´identificazione grazie alle ferite allontana il dubbio e il turbamento. La scena racchiude l´abbozzo di una celebrazione domenicale: il giorno del Risorto, la presenza di Gesù nella comunità, la riconciliazione per il perdono dei peccati, la memoria della passione, il dono dello Spirito. È la Pasqua settimanale.

    Il dono dello Spirito per la missione 

    21. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». 22.Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. 23. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

    Per la seconda volta offre la pace. E con essa la missione. Non si tratta di una missione nuova, ma della stessa missione di Gesù, che si estende a tutti quelli che sono i suoi discepoli: essere testimoni dell´amore del Padre. Per realizzare questo compito ricevono la forza dello Spirito.

    Così come nella creazione dell´uomo, Dio gli trasmise la vita, così anche l´alito di Gesù comunica la vita alla nuova creazione.

    Cristo, che morì per togliere il peccato del mondo, già risuscitato, lascia ai suoi il potere di perdonare.

    In questo modo, il Signore non istituisce solo un sacramento; condivide il suo trionfo sul male e sul peccato. Dopo la risurrezione è possibile credere nel perdono perché il potere delle tenebre non è più il dominatore assoluto del mondo. Il risorto è il Signore, perché ha vinto la morte. Credere questo e lavorare di conseguenza è essere cristiano. Di lì che il perdono dei peccati sia per i discepoli di Cristo la ricchezza più grande della Chiesa. La capacità di perdonare è l´immagine più vera del Padre e la forza che permette di risolvere le grandi tensioni dell´umanità. Chi non sa perdonare, non sa amare. Nella riconciliazione si mostra l´amore più autentico.

    I dubbi di Tommaso

    24. Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. 25. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».26. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c´era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!».

    Tommaso, uno dei protagonisti del quarto vangelo, mostra il suo carattere dubbioso e facile allo sconforto. Si era dato una certa importanza invitando i compagni a morire con il Maestro (11,16), non sapeva dove andasse Gesù (14,5) e adesso rifiuta l´omaggio della sua fede nella risurrezione affermata dagli apostoli. Abbiamo visto il Signore! All´inizio del vangelo (Gv 1,41.45), Andrea, Giovanni e Filippo, quando incontrarono il messia, corsero ad annunciarlo ad altri. Adesso l´annuncio è ufficiale da parte dei testimoni oculari. Ma Tommaso non riesce a credere attraverso a dei testimoni. Vuole fare la  sua esperienza. Il vangelo è cosciente della difficoltà di qualunque persona per  aderire al Kerygma. Tommaso è disposto a  credere, ma vuole  risolvere personalmente  ogni dubbio. Gesù non vede in lui uno scettico  indifferente, ma un uomo alla ricerca della verità e  gli offre piena  soddisfazione.

    Gesù e Tommaso, otto giorni dopo

    27. Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere più incredulo, ma credente!». 28. Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». 29. Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

    Gesù ripete le parole di Tommaso, entra in dialogo con lui, comprende i suoi dubbi e lo vuole aiutare. Gesù sa che Tommaso lo ama ed ha compassione per lui, perché non gode ancora della pace, che viene dalla fede. Lo aiuta a progredire nella fede. Signore mio e Dio mio! E´ la professione di fede nel Risuscitato e nella sua divinità come è proclamata anche all´inizio del vangelo di Giovanni (1,1) È la professione di fede pasquale nella divinità di Gesù, la più chiara e diretta. Gesù non corregge le parole di Tommaso, come aveva corretto quelle dei Giudei che lo accusavano di voler essere “uguale a Dio” (Gv 5,18ss), approvando così il riconoscimento della sua divinità. “Perché mi hai visto hai creduto? Beati quelli che credono senza aver visto”. Da un lato Giovanni pone in chiaro che aver convissuto fisicamente con Gesù non è criterio sufficiente per conoscerlo in profondità. D´altra parte, anticipa che questa conoscenza di Gesù si può dare anche in coloro che non hanno convissuto fisicamente con Lui. Si tratta di una realtà sentita intensamente nelle prime comunità cristiane. Questo testo ci offre la grande gioia di sapere che, oggi, possiamo cononoscere Gesù perfino meglio di quelli che vissero con Lui. Ci troviamo realmente nel tempo pasquale.

    Finalità del Vangelo di Giovanni

    30. Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. 31. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù é il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

    Con queste parole terminava il quarto vangelo. La sua finalità non era quella di scrivere la vita completa di Gesù, ma di dimostrare che Gesù era il Messia, il Figlio di Dio. Credendo in Lui abbiamo la vita eterna. L´autore dà così conto della doppia finalità del suo scritto. La frase “perché crediate” non è diretta ai non credenti, per cercare di convertirli, ma ai credenti, per rafforzare la fede che già hanno. La finalità che riguarda Cristo si completa con l´altra che riguarda la salvezza: “perché abbiate la vita”. Il quarto Vangelo è essenzialmente un messaggio di salvezza, con l´annunzio esplicito di Cristo, come vero Salvatore. L´autore sa che questa non è una realtà assolutamente evidente. Per questo, forse, nel suo vangelo, non parla di miracoli, ma di segni. Il segno bisogna saperlo scoprire. Credere in Gesù non è un processo facile, perché esige sempre un rinnovamento nel modo di pensare e di agire da parte di colui, che si dice credente.

    Alcune domande

    – E´ possibile che qualcuno si professi cristiano, ma non creda nella Risurrezione di    Gesù? È  così importante credere in essa? – Che cosa cambierebbe se solo ci fermassimo agli insegnamenti e alla   testimonianza di vita di Gesù?
    – Che significato ha per me il dono dello Spirito per la missione?
    – Come continua, dopo la Risurrezione, la missione di Gesù nel mondo?

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