Chi non è contro di voi è per voi Lc 9,49-50
di p. Attilio Franco Fabris
Sempre nell’ottica dell’autoaffermazione vediamo ancora i discepoli impegnati a porre rigidi confini che divengono vera e propria intolleranza per quelli che stanno “al di fuori” della loro cerchia.
Se nel brano precedente Gesù si identifica con il bimbo, il “più piccolo”, ora si identifica con l’anonimo emarginato dalla comunità. Così dopo aver smascherato il delirio di grandezza del singolo discepolo, ora intende smascherare quello dell’intera comunità.
Al mistero di Dio che si fa il “più piccolo” mettendosi al servizio di tutti, svuotando se stesso, corrisponde l’egoismo dell’uomo che si gonfia e mette il proprio io o il noi al di sopra di tutti operando separazioni e divisioni.
Ciò che vale per il discepolo che ricerca il modo per essere “il più grande” ma vale anche per la la Chiesa, la comunità dei discepoli.
Questa per essere fedele al suo Signore deve continuamente rinnegare se stessa, il “noi” e farsi piccola. Perché il “noi” rischia sempre di voler sostituirsi al Signore nella ricerca della propria grandezza e del proprio potere. Si potrebbe parlare di un peccato di… ecclesiolatria! Un peccato che distrugge la chiesa stessa, perché il “noi” che vuole separarsi dall’ “altro” in forza propria, esclude noi dalla comunione con il Signore.
La comunità dei discepoli corre sempre il pericolo di diventare un “noi” centrato su di sé, invece che sul Signore da seguire. La conseguenza è questo “noi” diviene una solidarietà aggressiva, dettata dalla paura e dal voler difendere il proprio nome che si forma escludendo altri.
Il testo esclude categoricamente il “noi” come fondamento della Chiesa: “nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” (1Cor 3,11).
Altrove Gesù affermerà che: Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde (11,23), così che la discriminante per essere chiesa è l’essere “con lui” e non l’essere “con noi” riferito alla Chiesa. La Chiesa non preesiste a Cristo e neppure lo sostituisce. Essa non può mai identificarsi con Cristo, anche se Cristo si identifica con essa. Il Signore trascende sempre la stessa Chiesa e in questo modo fa sì che essa rimanga aperta e nella tensione continua che la fa abbracciare tutti, perché in tutti vede dei fratelli.
Il rischio è sempre quello di stravolgere il rapporto di fede per cui il Signore è ridotto a strumento in funzione del “noi” ecclesiale! Per questo c’è chi fa parte della chiesa visibile ma non di quella invisibile, come c’è chi fa parte della quella invisibile e non di quella visibile.
Essa è veramente cattolica quando non esclude nessuno e rispetta la libertà di tutti. Ogni diversità allora non solo è tollerata, ma considerata positiva (1Cor 12) perché l’ unità della Chiesa non è un modello socio-culturale-politico o una spartizione di potere, ma è il nome di Gesù che è stato escluso da ogni potere.
La Chiesa è la sposa che si prepara alla nozze con l’Agnello, ed è necessariamente una, ma essa ha la prerogativa di un destino universale per cui la comunità non pretende che gli altri la seguono (“non segue noi!” v. 49) ma che tutti seguano il Signore.
v. 49 I discepoli si sono sforzati nel voler impedire che un estraneo al gruppo potesse compiere esorcismi nel nome di Gesù. Ci troviamo in una situazione similare alla precedente. I discepoli devono imparare ad acquisire una mentalità accogliente.[1]
Le parole di Giovanni sono l’immediata risposta a quanto Gesù ha detto circa l’accoglienza del “più piccolo” fatta “nel suo nome”. Siamo nella linea della più netta incomprensione (cf v.45) che esprime un atteggiamento diametralmente opposto a quello del Signore.
“Maestro abbiamo visto uno scacciare i demoni”: la vittoria sul male è lo scopo della missione di Gesù e della Chiesa. Ed è solo in forza nel nome di Gesù che il male può essere sconfitto, non in forza del proprio (cf At 19,15: Alcuni esorcisti ambulanti giudei si provarono a invocare anch’essi il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi, dicendo: «Vi scongiuro per quel Gesù che Paolo predica». Facevano questo sette figli di un certo Sceva, un sommo sacerdote giudeo. Ma lo spirito cattivo rispose loro: «Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?»).
“nel tuo nome”: (cf v. 48) è nel nome di Gesù che è possibile accogliere la diversità dell’altro, ponendosi a servizio del “più piccolo”.
“e lo impedivamo”: è un imperfetto che indica un tentativo ripetuto e non riuscito. Invano la comunità vuol impedire l’opera di salvezza di questo discepolo anonimo ed escluso, e per fare questo cerca l’avvallo di Gesù. Ciò dimostra che ai discepoli non sta a cuore tanto la salvezza dei fratelli, quanto l’affermazione di se stessi e l’esclusiva dell’appoggio del Signore. Non interessa loro tanto la liberazione dal male, quanto paradossalmente la sua affermazione.
“perché non segue noi”: ciò che sta a cuore ai discepoli non è seguire Gesù ed essere con lui. Infatti Gesù non è neppure nominato con pronome (non potevano dire: “Non ti segue con noi”?). La formula indica un orgoglio collettivo tanto disastroso come quello individuale. Tale orgoglio cerca invece del bene dei fratelli l’affermazione del “noi” mediante l’esclusione degli altri.
Un tale atteggiamento arriva all’aberrazione del Gott mit uns servendosi di Dio per esaltare se stessi, e si può arrivare a questo pensando di agire giustamente! Questo accade ogni qual volta la comunità cristiana pone al centro se stessa invece di Cristo piccolo ed escluso.
È il capovolgimento radicale della fede, quasi che noi non dovessimo seguire lui ma lui seguire noi facendosi garante dei nostri interessi di parte (Cf 1Sam 4,3: Quando il popolo fu rientrato nell’accampamento, gli anziani d’Israele si chiesero: «Perché ci ha percossi oggi il Signore di fronte ai Filistei? Andiamo a prenderci l’arca del Signore a Silo, perché venga in mezzo a noi e ci liberi dalle mani dei nostri nemici»).
Ovunque la comunità dei discepoli impedisca il bene o esclusa qualcuno, essa cade nel peccato di non voler seguire il Signore Gesù bensì che lui “segua” lei.
v. 50 La risposta di Gesù si oppone decisamente all’intenzione discriminatoria dei discepoli: non impedite!. Ed egli motiva tale posizione con un proverbio: Chi non è contro di voi è per voi! (In Mc è alla prima persona plurale “noi”; Lc pone l’accento sulla comunità).[2]
Emerge la convinzione dell’evangelista che il Risorto è efficacemente presente anche al di fuori dei canali istituiti dalla Chiesa.[3]
“non glielo impedite”: questo atteggiamento del “noi” è un impedimento a vincere il maligno, anzi fa fare alleanza con lui (cf Mc 8,32s).
Se Gesù si è fatto piccolo ed escluso per accogliere e includere tutti, anche noi dobbiamo lasciare ogni ricerca di potere e di grandezza personale e comunitaria per non escludere nessuno. Bisogna bandire ogni autoesaltazione tanto personale che comunitaria, superare ogni forma di associazionismo, di ghetto, di partitismo che ha come centro di aggregazione il “noi” e si cementa solo in quanto riconosce negli altri dei nemici e concorrenti. È una solidarietà negativa che, per essere tale ha bisogno di mettersi “contro” gli altri.
“Chi non è contro di voi è per voi”: Gesù prende le distanze da questo “noi” e si allontana da una tale comunità: non tollera essere chiamato “noi” e non si include con loro: li chiama “voi”. Gesù non può identificarsi con chi esclude qualcuno!
Questa parola di Gesù non indica semplicemente una tolleranza illimitata. Essa invece indica la direzione per leggere la vera cattolicità della Chiesa che è chiamata ad allargare la cerchia di coloro che seguono Cristo, abbracciando tutti, nessuno escluso. Solo allora Gesù potrà dire “noi” perché si sentirà incluso anche lui che si è fatto l’ultimo di tutti. Allora sarà il Regno, le nozze con la Sposa!
Una cattolicità fondata sull’unico Padre dell’unico Signore di tutti “che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,6). È un’unità che rispetta la libertà, che non impone nessun giogo a nessuno e tende a formare un corpo con tutte le sue differenziazioni e nel rispetto reciproco.
Quindi il termine dell’unità non è il “noi” dei discepoli, ma l’ “io” di Cristo, unico Signore: è lui che si deve seguire ed è “con lui” che bisogna stare.
Da ciò si comprende che le difficoltà all’interno e all’esterno della comunità sono sempre dovute dalla ricerca dell’autoaffermazione dell’io (vv 46-48) e del noi (vv 49-50). Queste difficoltà si risolvono ponendo sempre e solo al centro il nome del Signore.
L’appartenenza al “noi” visibile non è dato dal “seguire con noI”, ma dal seguire l’unico Signore e operare insieme a lui vincendo il male. Non la Chiesa fa il Cristo, ma è il Cristo che fa la Chiesa. E la Chiesa forma un “noi” definibile e visibile, voluto dal Signore, ma che deve sempre restare aperto e centrifugo: perché la sua essenza è fuori di lei.
La tensione tra libertà e istituzione è inevitabile ed è un bene, perché il “noi” resti proteso ad accogliere il diverso e si mantenga insieme uno e diffrenziato. Questa unità nell’amore esige e sopporta tanta diversità e pluralismo quanto è stretto il vincolo di amore all’unico Signore.
Il cap. 9 iniziava con il mandato dei discepoli di cacciar dei demoni (v.1). Ora come conclusione della sezione si termina ricordando a questi stessi discepoli che il Signore può agire anche fuori di tale potere istituito: l’importante è che ne gioiscano senza temere la concorrenza: Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. Questi lo fanno per amore, sapendo che sono stato posto per la difesa del vangelo; quelli invece predicano Cristo con spirito di rivalità, con intenzioni non pure, pensando di aggiungere dolore alle mie catene. Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene. (Fil 1,15-18).
Piste di meditazione
C’è sempre il rischio di anteporre il “noi” a Cristo, nella ricerca di un’autoaffermazione che dimentica il nostro essere costruiti su di un unico fondamento che è Cristo.
È lui che dobbiamo seguire, e il nostro “noi” si radica solo nel suo “io”. Ogni qualvolta dimentichiamo questo stravolgiamo la realtà e il dinamismo della comunità.
Gesù invita la comunità a permanere in un atteggiamento fondamentale di accoglienza e di stima nei confronti di tutti: nessuno è escluso dal suo abbraccio. Solo in questo modo rimane fedele al suo Signore che si è fatto il più piccolo e il più ultimo affinché il nostro abbraccio non lasciasse fuori nessuno.
[1] Chiaramente sottostante è un problema pastorale serio: quanto valore ha un’attività svolta “nel nome di Gesù” al di fuori della comunità cristiana? (Fli 1,15).
[2] Il riferimento storico del proverbio sembra risalire alla guerra civile tra Pompeo e Cesare (I sec a.C.). Le due frasi sono riportate da Cicerone.
[3] Luca vuol vedere una mentalità di accoglienza richiesta nei rapporti fra i credenti estesa anche allo straniero, a quelli che benché non cristiani, agiscono come persone che sono “vicine al Regno di Dio” (anche se non può essere letto isolatamente come abolizione di ogni distinzione!).
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