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Dall’abbandono alla pace
12 La sapienza è radiosa e indefettibile,
facilmente è contemplata da chi l’ama
e trovata da chiunque la ricerca.
13 Previene, per farsi conoscere, quanti la desiderano.
14 Chi si leva per essa di buon mattino non faticherà,
la troverà seduta alla sua porta.
15 Riflettere su di essa è perfezione di saggezza,
chi veglia per lei sarà presto senza affanni.
16 Essa medesima va in cerca di quanti sono degni di lei,
appare loro ben disposta per le strade,
va loro incontro con ogni benevolenza.
17 Suo principio assai sincero è il desiderio d’istruzione;
la cura dell’istruzione è amore;
18 l’amore è osservanza delle sue leggi;
il rispetto delle leggi è garanzia di immortalit�
19 e l’immortalità fa stare vicino a Dio.
Nel cammino di incontro con Dio ci accorgiamo spesso, ma tante volte questo purtroppo non accade, come noi stessi frapponiamo molti ostacoli che rendono la fatica ancora più improba e sofferta.
Questo soprattutto per quella che potremmo chiamare la nostra “alienazione spirituale”: nelle nostre giornate ci muoviamo superficialmente, “fuori di noi stessi”. Non troviamo o non vogliamo trovare il tempo per scendere dentro di noi, nel nostro intima, nella realtà che ci circonda: non siamo coscienza di quel mistero in cui siamo avvolti e nel quale viviamo.
Se non ci apriamo al nostro mistero è impossibile aprirci al mistero di Dio. Quanto spesso i mistici insistono sul fatto che luogo dell’incontro con Dio è il cuore, il centro, l’intimo…
Purtroppo siamo incatenati da così tante ansie, inquietudini, dispersione, superficialità che questo atteggiamento che ritengo fondamentale in un cammino spirituale viene ad essere soffocato. Potremmo quasi considerare questi ostacoli come i nuovi vizi che, insieme agli antichi, dobbiamo imparare a combattere.
Nella nostra vita spirituale abbiamo dunque bisogno di:
– purificazione: dai nostri egoismi, tristezze, frustrazioni, antipatie, insicurezze, aggressività… ovvero da tutti quei sentimenti che sono velenosi in noi.
– riconciliazione: con noi stessi, i nostri fratelli, con Dio
– meditazione: disponibilità a scendere più in profondità di fronte alla realtà.
Il frutto di un costante cammino di purificazione, riconciliazione, meditazione sarà la nostra pacificazione.
L’origine delle nostre tristezze
Nei confronti della realtà esterna siamo propensi a re-agire in modo istintivo, infantile.
Questa modalità di rapporto potrebbe essere suddivisa in tre categorie:
– con le realtà gradevoli che soddisfano i nostri desideri abbiamo una reazione di possesso
– con le realtà minacciose reagiamo con la paura
– con le realtà sgradevoli si reagisce con il rifiuto, la distruzione, l’aggressività.�
Ecco l’origine delle nostre tristezze:
-il possesso
-la paura
-l’odio
I nemici dell’uomo
Il nostro cammino di ascesi dovrebbe comportare un lavoro su noi stessi. Uno strappare le erbacce cattive dal nostro giardino. Sostituirle con i fiori di opposti atteggiamenti:
– il distacco
– la fiducia
– l’amore
Così dinanzi a noi si aprono due strade, due possibilità, due stili di vita:
– La strada della follia: il voler resistere a tutto ciò che non è possibile eliminare. Il coltivare autodistruttivamente dentro di noi sentimenti velenosi.
– La strada della sapienza: l’imparare a discernere ciò che si può cambiare da ciò che non si può. La pazienza di coltivare in noi emozioni costruttive e positive.
La sapienza della vita ci insegna che di fronte alle difficili realtà non dobbiamo reagire in modo istintivo, infantile. Ma ad essere consapevoli delle nostre emozioni sapendole gestire in modo costruttivo.
Quanto è fondamentale questo per entrare in quella pace interiore, profonda che nulla può sconvolgere: è la quies, l’esichia, la pace del cuore.
Certo esige la capacità di saper perdere, ma il guadagno è oltremodo vantaggioso.
Tale atteggiamento esige la resa, l’abbandono dei nostri stili infantili, un guardare la realtà, le persone, gli avvenimenti in un’ottica gratuita, paziente, benevola, fiduciosa, empatica, distaccata. Una visione sapienziale di fronte alla vita che apre alla fede in un Dio che è Padre di misericordia.
Porsi in spirito di fede
A volte è difficile questo abbandono. In noi esistono forti resistenze, pur soffrendo siamo attaccati al nostro dolore, temiamo di perderlo. Oppure il dolore è talmente grande che sembra schiacciarci e toglierci quella libertà e quella pace che desidereremmo.
Fu l’esperienza di Giobbe.
“Dopo, Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. Prese a dire: Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: E’ stato concepito un uomo! Quel giorno sia tenebra, non lo ricerchi Dio dall’alto, né brilli mai su di esso la luce. Lo rivendichi tenebra e morte, gli si stenda sopra una nube e lo facciano spaventoso gli uragani del giorno” (Gb 3,1-5).
E’ un dato di fatto che la sofferenza rappresenti uno scandalo per la fede. Possiamo infatti affermare che nulla possa allontanare di più da Dio quanto l’esperienza del dolore, soprattutto innocente.
Già il filosofo greco Epicuro (sec. IV a.C.) dichiarava: “O Dio vuol sopprimere il male e non può, e allora è impotente, oppure non vuole e non può, e allora è un niente. Oppure può sopprimere il male e non vuole, e allora è malvagio, o infine, può e vuole, e allora dove è questo Dio e da dove viene il male?”.
Per noi cristiani è un dato di rivelazione che Dio non può volere il male, poiché egli è il Bene per essenza: “Dio è amore” afferma san Giovanni nella sua lettera. Allora occorre riconoscere che egli lo permetta, in quanto chiama e l’uomo e il cosmo alla piena libertà di cui ha fatto dono.
Giobbe di fronte al mistero insondabile di Dio e di fronte al mistero della sua sofferenza di cui non riesce a capirne la ragione, non troverà altro che proferire parole di totale abbandono, le parole che dirà Gesù nel Getsemani: “Padre se è possibile… Sia fatta la tua volontà”.
“Giobbe rivolto al Signore disse: Ecco son ben meschino: Che ti posso rispondere? Mi metto la mano alla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, ho parlato due volte, ma non continuerò” (40,3-5).
E’ il silenzio adorante e contemplativo, fiducioso, abbandonato: non risolve nulla apparentemente ma apre uno spiraglio alla speranza, il bene più prezioso che l’uomo può attendere. Se Dio ha permesso tutto questo, tutto deponiamo fiduciosi nella sue mani: “Padre nelle tue mani affido il mio spirito”. L’esperienza dei santi ci dice che questo atteggiamento porta con sé il dono della pace.
Abbandono
Una cattiva interpretazione dell’abbandono è la passività, la rassegnazione amara… il lasciare che le cose vadano così perché: tanto a che serve?
L’abbandono cristiano non è rassegnazione, non è un subire passivo.
Possiamo invece leggere l’abbandono come un atteggiamento dello “scegliere”, nell'”integrare”, del far proprio ciò che nella vita è spesso inevitabile (un “volere ciò che accade”).
La rassegnazione non è atteggiamento cristiano, ma pagano (il “destino”). Purtroppo certe correnti spiritualistiche, soprattutto in questi ultimi tre secoli, hanno se non insegnato, almeno suggerito in termini ambigui la rassegnazione. La rassegnazione pagano è il consegnarsi ad un destino senza nome, il Fato, senza volto, cieco. Forza impersonale alla quale è inutile resistere, per cui tanto vale rassegnarvisi.
L’autentico abbandono è al contrario atteggiamento che scaturisce dal vangelo.
Alla sua base vi si colloca un atto di fede in un Dio che non è destino o fato, ma Padre che ha cura dei propri figli, che veste i gigli del campo e nutre gli uccelli del cielo (cf Mt 6).
A questo Padre, con la fiducia del bimbo nella madre, posso dire di “sì”.
“Per tutto quello che è stato, grazie. Per tutto ciò che sarà. Sì”.
Un grazie e un sì a tutto ciò che Dio ha permesso, voluto permetterà o vorrà.
Di fronte all’impossibile
Di fronte alla vita dobbiamo assumere un atteggiamento sapienziale.
Più vorremo resistere alla realtà che ci fa soffrire, in noi e fuori di noi, più essa ci muoverà guerra, creando in noi un’inesorabile situazione di sofferenza e rifiuto.
Vi sono difficoltà, limiti, inesorabilmente legati alla nostra esistenza. Sono essi l’origine della nostra sofferenza, del nostro disagio dovuto all’inappagamento di ciò che riteniamo essenziale alla nostra vita (e che guardato in profondità spesso non lo è!).
Accogliere
Cosa possiamo fare dinanzi a queste situazioni?
La parola è semplicissima. E’ realmente una “chiave magica”: accettare.
Accettare noi stessi. Il corpo, la psiche, la nostra storia, i nostri talenti, e i nostri difetti, accettare lo scarto che scopriamo tra gli ideali e la concretezza.
Accettare la realtà che ci circonda. Non vivere in un mondo in cui l’affezione a ciò che immaginiamo abbia il sopravvento sulla realtà, dato che diamo sempre per scontato che l’immaginato sia di per sé la cosa migliore per noi.
Accettare l’irreversibilità del tempo. Guardare al passato, saper guardare al passato senza legarvisi, guardando al Padre che ha condotto avanti la nostra storia, nonostante tutto, attraverso i momenti di gioia ed entusiasmo, stanchezze e tristezze, sofferenze e anche i nostri peccati.
Un Padre che conduce la nostra storia verso il bene e la vita… nonostante tutto.
Ricordiamo che questa accoglienza di noi stessi, della realtà, della storia, porta con sé una grande capacità di guarigione delle nostre ferite. Prendiamo coscienza che, se non guariamo le nostre ferite, continueremo a respirare soltanto risentimento attraverso esse.
Siamo chiamati per vivere nella pace a saper assumere l’abbandono in tutte le direzioni della nostra esistenza. Nei confronti del:
– passato: è riconciliazione con ciò che è stato e non è più possibile modificare
– presente: è accoglienza di ciò che è, senza rammaricarsi perché diverso dalle nostre aspettative.
– futuro: è speranza: il saper desiderare sempre più il bene e la vita, l’incamminarsi verso di essi.
RIASSUMENDO
L’abbandono, l’accettazione, l’accoglienza è un rinunciare a se stessi, alle proprie illusorie immaginazioni, per affidarci totalmente ed incondizionatamente al Dio della vita e della storia.
E’ un cammino sicuro e straordinariamente semplice: rende bambini atti ad entrare in possesso del regno.
E’ cammino di purificazione di una fede vissuta, forse con troppa paura, difese, proiezioni.
E’ cammino di amore perché ci insegna ad abbandonarci ad un Dio scoperto come Padre che ci ama.
E’ cammino che insegna a vivere in uno stato di preghiera continua, di attenzione al passaggio e alla presenza di Dio: insegna il cammino sapienziale del leggere spiritualmente la vita.
Non ci preoccupiamo più dei risultati, lasciamo che dipendano unicamente da Dio. Siamo resi liberi anche da questa preoccupazione. Tenderemo sì al massimo, ma nella pace: non pretenderemo che ai nostri sforzi debbano sempre e immancabilmente corrispondere i risultati che immaginiamo debbano seguire.
Testi
Sap. 6,12-19; 7,1-14
Sl 131
Mt 6,25-33
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