IL COMPIMENTO
13. La celebrazione dell’eucaristia
I concelebranti dell’Eucaristia
La messa è la più alta azione della nostra vita. La messa è la più alta azione del mondo. E’ sempre un avvenimento insondabile. E di questo avvenimento noi siamo gli attori. Infatti, l’eucaristia è una “concelebrazione”: un “celebrare insieme”.
Tutti i cristiani presenti sono dei concelebranti, in virtù del loro battesimo e della loro confermazione.
Il prete, l’unico “sacerdote”, è Gesù Cristo. Il sacrificio, l’unico Sacrificio, è quello del Calvario.
La messa ne è il memoriale, ossia il “richiamo”, ma nei due significati del termine.
Si richiama un avvenimento del passato e, in questo senso, è un ricordo; ma si richiama anche un soldato sotto le armi, un attore in scena, e allora abbiamo una presenza, una nuova presenza. L’eucaristia è ricordo e presenza del Calvario.
Il prete ordinato è investito della grazia e della missione di presiedere e di consacrare l’eucaristia, in virtù del sacramento dell’ordine che ha ricevuto; è segno, sacramento del Cristo-capo.
Cristo, quindi, offre se stesso e noi con lui; il prete offre Cristo e offre se stesso e l’assemblea con Cristo. Ma anche il fedele, senza consacrare il pane e il vino, offre Cristo e offre se stesso con lui.
I battezzati non sono separati dal prete; non sono separati da Gesù Cristo. Concelebrano con Cristo; concelebrano col prete; concelebrano fra di loro. Per questo il prete parla al plurale: “Preghiamo……… In alto i nostri cuori”, “Rendiamo grazie”, “Anche noi, tuoi servi (ossia i preti), e il tuo popolo santo con noi, ti presentiamo questa offerta…… ecc.
E’ Cristo che, rappresentato da noi (vescovi e preti) offre in noi, poiché è la sua parola che consacra il sacrificio da noi offerto…
Quaggiù tu vedi la sua immagine (nel celebrante dell’altare). In cielo vedrai il sommo sacerdote eterno e perpetuo di cui su questa terra vedevi le immagini in Pietro, Paolo, Giacomo, Giovanni.. (sant’Ambrogio)
Con Cristo e con il prete, tutto il popolo “sacerdotale” è attore del dramma della messa, celebrante della santa “liturgia”.
Il termine “liturgia” (dal greco leitos, “pubblico”, “popolare”, ed ergon, “opera”) significa “opera pubblica”, “azione del popolo”. “Il nuovo testamento l’adopera in significati diversi, ma sempre in rapporto col servizio cultuale compiuto dalla comunità” (Louis Vereecke).
La liturgia, quindi, non è una faccenda clericale, ma appartiene a tutta la comunità cristiana. “Colui che presiede non è il proprietario dell’eucaristia ma celebra per un’assemblea, con essa, ed essa con lui, in comunione con la chiesa universale”.
Dobbiamo ammetterlo: il prete era, necessariamente, “proprietario dell’eucaristia” quando la celebrava voltando le spalle al popolo, in fondo a un coro, in latino, costringendo così la grande maggioranza dell’assemblea a fare qualche altra cosa o ad annoiarsi.
Certo, un prete si comporta da “proprietario dell’eucaristia” quando impone all’assemblea delle preghiere o dei gesti arbitrari. Questo si chiama abuso di potere, perché defrauda i battezzati del loro diritto di concelebrare con lui e in unione con tutta la chiesa.
Ma ugualmente priva l’assemblea del suo diritto a comprendere, a vivere e a partecipare, chi si limita giuridicamente (e pigramente) ai testi del messale con una comunità che non è portata a “entrarvi”. Il prete si comporta da “proprietario dell’eucaristia” tutte le volte che non la “dà” ai battezzati concreti che ha davanti.
E’ proprio questo tipo di prete che genera la noia, quella noia che fu stigmatizzata da Claudel, la noia che svuota le chiese perché è antireligiosa. “Nulla di più antitetico alla religione che la noia. La religione può nutrirsi di sofferenze, di tristezza, mai di noia”.
Una ragazza diciassettenne esprime il suo disinteresse: “Non mi sento affatto a mio agio, non mi trovo assolutamente coinvolta nella messa … Non sopporto tutte quelle preghiere ripetute senza che nessuno vi presti attenzione: credo, gloria, in alto i nostri cuori, ecc……”
E’ la grazia del battesimo a gridare la fame di celebrare veramente, di celebrare personalmente l’eucaristia che costituisce la vita stessa di questo popolo sacerdotale.
C’è una sola eucaristia, e questa è attestata dalla continuità apostolica. Celebrata nel I secolo, o nel XII o al giorno d’oggi o fra dieci secoli, l’eucaristia è la medesima, quella dei Cristo morto e risorto. La spiritualità cristiana non ha altro scopo che quello d’aiutarci a diventare uomini eucaristici. In ogni cosa, ci dice l’apostolo, fate eucaristia. Condividendo il pane e il vino dell’eucaristia, diventiamo uomini di ringraziamento, di comunione. L’eucaristia è il sacramento dei fratello. Quando ti sei appena comunicato e trovi in strada tuo fratello, questo tuo fratello, diceva Giovanni Crisostomo, è il tuo Dio. Il mondo è il dono di Dio; come potremmo appropriarcelo? (O. Clément)
Appunto questa volontà dello Spirito santo di rendere alla chiesa ciò che è della chiesa, ha ispirato al concilio la riforma.
Affermano i padri del Vaticano II: “La chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma, comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano istruiti nella parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo l’ostia immacolata, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui imparino a offrire se stessi, e di giorno in giorno, per mezzo di Cristo mediatore siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (SC 48: E VI, 84).
Operazione riuscita? Sì e no.
“La Messa di sempre”
Nella chiesa delle origini, dunque, l’eucaristia era celebrata durante un autentico pasto, “la Cena del Signore”, coi fedeli che erano fraternamente seduti attorno agli apostoli. La si chiamava “la frazione del pane”, in memoria del gesto caratteristico di Gesù: sulla montagna della moltiplicazione dei pani, durante la Cena, a Emmaus…
Il pasto comune forniva loro l’occasione di rinnovare il memoriale del Signore. Si pensi all’insistenza con cui i vangeli si richiamano a un banchetto. Così gli apostoli si sono sentiti obbligati a conservare nella misura del possibile il contesto d’un pasto, come il Signore aveva fatto istituendo l’Eucaristia.
Come si svolgeva questa Cena del Signore? Non ne abbiamo il rituale esatto. Ma, attraverso i vangeli e gli atti, ne conosciamo gli elementi principali: insegnamento degli apostoli, preghiera eucaristica, frazione del pane, spartizione del pane e del vino consacrati, salmi d’azione di grazie, il tutto durante un pasto fraterno. Se eccettuiamo il pasto festivo, ognuno può facilmente riconoscervi i tempi forti della messa di domenica scorsa “La messa di sempre” è tutta qui.
Si seguiva il rito pasquale ebraico, come certamente fece il Signore alla Cena? No. Era troppo complicato per potere essere ripreso ogni giorno e anche solo ogni settimana. E poi, esso era riservato strettamente alla festa di pasqua. Ma presso gli ebrei c’era l’usanza di un altro pasto rituale, “il pasto del sabato”, una semplificazione di quello pasquale, che si prestava alla celebrazione eucaristica. I vangeli sembrano insinuare che nella tradizione primitiva la Cena dei Signore seguisse questo canovaccio.
Il banchetto cominciava con un antipasto, preso in piccoli gruppi, in piedi, come in un preambolo d’incontro, d’accoglienza e d’attesa dei ritardatari. Poi ognuno benediva una coppa di vino: “Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, re eterno, che hai creato il frutto della vite!”. E’ la prima coppa di cui parla s. Luca (22,17), che non è ancora la coppa consacrata. Poi si lavavano le mani dicendo una preghiera, e cominciava il pasto propriamente detto: ciascuno prendeva il proprio posto, mentre non erano più ammessi i ritardatari.
Veniva portato al presidente del pane. Il presidente lo benediva (“Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, re del mondo, che fai uscire il pane dalla terra!”), lo spezzava e lo distribuiva ai commensali, ricordando Cristo che aveva aggiunto “Questo è il mio corpo”.
Alla fine del pasto, come ricordano le nostre preghiere eucaristiche, si riempiva la coppa per la terza volta. Era la “coppa di benedizione”. Al vino si mescolava una buona metà d’acqua, e il presidente iniziava la grande preghiera:
– Rendiamo grazie al Signore nostro Dio.
– Benedetto sia il nome del Signore ora e sempre.
Dopo un breve dialogo, il presidente continuava da solo la preghiera eucaristica. A questo punto bisognerebbe porre la coppa consacrata di Luca (22,20).
“La frazione del pane all’inizio del pasto e la coppa di benedizione alla fine appartengono entrambe al rituale del banchetto sia per la pasqua che per il sabato. Tuttavia questa forma della celebrazione eucaristica non poté durare molto. Dobbiamo osservare che né Matteo né Marco insistono sul “dopo il pasto” dei racconti di Luca e di Paolo. Sembrerebbe che nelle comunità in cui questi due evangelisti lavoravano, le due consacrazioni non fossero più separate da un pasto. Esse erano accoppiate e poste entrambe o prima o dopo il pasto, secondo le testimonianze che abbiamo, sembra che questi due modi di comportarsi fossero allora in vigore. Le benedizioni sul pane e sul calice furono fuse in una sola preghiera solenne d’azione di grazie, nata dalla formula inizialmente usata sul solo calice. Così le consacrazioni furono compiute con una sola benedizione” (Jungmann).Evidentemente, nelle comunità palestinesi la lingua usata era l’aramaico; altrove, nelle chiese paoline e a Roma, dove la maggioranza era costituita da immigranti venuti dall’oriente, il greco. La Cena del Signore, infatti, era celebrata nella lingua di tutti, nella lingua del popolo, in quella dei poveri. E il popolo cristiano, anche a Roma, parlava greco e non latino.
Verso l’anno 150 a Roma s. Giustino ci lascia la prima “corrispondenza” della celebrazione eucaristica. Giustino è un laico, professore di filosofia, un credente che spingerà la sua testimonianza fino al martirio. In un’opera, che scrive per quelli che non condividono con lui la fede cristiana, soprattutto per gli imperatori, la sua Prima apologia, capitoli 65,66 e 67, ci riporta una duplice descrizione della messa del suo tempo come veniva celebrata a Roma e nei paesi mediterranei orientali e occidentali attraverso i quali questo cristiano d’élite aveva molto viaggiato. Ecco queste due descrizioni che “sovrapponiamo” in una sola, per amore di semplicità di svolgimento:
“Nel giorno detto del sole, convengono tutti nello stesso luogo, sia quelli della città sia quelli della campagna. E, finché il tempo lo permette, si leggono le memorie degli apostoli, oppure le scritture dei profeti, poi quando il lettore ha cessato, chi presiede parla ammonendo ed esortando a imitare sì belli esempi, quindi ci alziamo in piedi e facciamo preghiere ad alta voce, per noi, per i nuovi battezzati e per tutti gli altri cristiani che sono sparsi nel mondo Finite le preghiere ci salutiamo scambievolmente con un bacio. Quindi a colui che presiede ai fratelli si portano del pane e un calice d’acqua e di vino ed egli, dopo averlo preso, innalza lode e gloria al Padre comune, nel nome del Figlio e dello Spirito santo, e lo ringrazia a lungo per averci fatti degni di questi suoi doni. E quando egli ha terminato le preghiere del ringraziamento, tutto il popolo presente acclama dicendo: ‘Amen’. Amen in lingua ebraica significa ‘Così sia’. Poi quando colui che presiede ha fatto il ringraziamento e tutto il popolo ha acclamato, quelli che noi chiamiamo diaconi danno a ciascuno dei presenti una porzione del pane e del vino e dell’acqua, su cui è stato celebrato il ringraziamento, e ne portano agli assenti”.
E questo cibo si chiama fra noi eucaristia. Noi infatti non prendiamo questo come un pane e una bevanda comune; noi crediamo che quell’alimento, consacrato per virtù delle parole di preghiera, istituite da lui, è corpo e sangue di quell’incarnato Gesù del quale il sangue e le carni nostre si nutrono per assimilazione. Gli apostoli, nelle memorie da loro stese, che si chiamano evangeli, insegnarono che era stato dato questo comandamento: che cioè Gesù preso del pane e rese grazie disse: “Fate questo in memoria di me: Questo è il mio corpo, e similmente preso il calice e rese grazie disse: Questo è il mio sangue e ne distribuì ad essi soli.. I ricchi, che ne abbiano volontà, danno a proprio piacimento quello che vogliono, e quanto così viene raccolto, si depone davanti a chi presiede. Egli soccorre orfani, vedove, chi per malattia o altra causa è bisognoso, chi è in prigione e gli ospiti che vengono da altri paesi; insomma prendiamo a cuore quanti si trovano in necessità. Ci raduniamo tutti insieme nel giorno del sole, perché è il primo giorno, nel quale Dio, mutando la tenebra e la materia, creò il mondo, e anche perché Gesù Cristo nostro salvatore, nello stesso giorno, risorse da morte”.
Attraverso questa testimonianza che è, questa sì!, due volte millenaria, possiamo facilmente cogliere i seguenti punti:
L’eucaristia è celebrata in greco, lingua nella quale Giustino scrive la sua corrispondenza. Essa inizia con la liturgia della parola: proclamazione delle scritture, in lettura continuata, tratte dall’antico e dal nuovo testamento; omelia del vescovo; preghiera universale per la chiesa di tutto il mondo; infine g che segna il passaggio dalla parola all’eucaristia propriamente detta.
Segue la liturgia eucaristica. Il gruppo è numeroso; non ci si siede più a tavola; in piedi, si sta attorno (circumstantes) a un altare dal quale presiedono il vescovo e il suo presbiterio. Abbiamo l’offertorio del pane e del vino rosso misto ad acqua, la preghiera eucaristica lungamente improvvisata dal vescovo a partire da qualche linea di forza (lode alla Trinità, racconto dell’istituzione eucaristica, invocazione dello Spirito santo o epiclesi), e il potente ‘Amen’ dell’assemblea; infine la frazione del pane e la comunione di tutti, sotto le due specie (il pane dato nelle mani, il vino bevuto dal calice). La colletta per i poveri chiude la messa per far calare nella vita quotidiana la “spartizione fraterna”: è questa un’usanza apostolica!
Il più antico canovaccio di preghiera eucaristica che abbiamo non è quello del “Canone romano” della messa di s. Pio V, ma quello de La tradizione apostolica di sant’Ippolito, del secolo III; che è stata da poco riscoperta e rimessa in uso dal papa Paolo VI (la preghiera II col suo mirabile prefazio). Prete romano, Ippolito la scrive in greco, perché la chiesa di Roma prega ancora in greco, la lingua del popolo cristiano romano … di ieri. Ippolito polemizza perfino col papa, perché quest’ultimo fa virare la liturgia verso il latino per seguire il popolo nella evoluzione anche linguistica. Un “integrista”, questo Ippolito, che dimostrerà il suo vero amore a Cristo col martirio!
Nella seconda metà del secolo III, dunque, la liturgia romana passa senza troppe scosse dal greco al latino, lingua sempre più universalmente parlata dal popolo.
Nel IV secolo s’introducono nella messa l’Alleluia dell’evangelo e il Padre nostro.
Nel V secolo appaiono le tre “orazioni”, o “collette” che ora chiamiamo “orazione d’apertura”, “orazione sulle offerte” e “orazione dopo la comunione”. Il Kyrie eleison (tratto, per amore dell’unità, dalla liturgia orientale) sottolinea alcune preghiere litaniche all’inizio della celebrazione, e ciò purtroppo a detrimento della preghiera universale che cadrà ben presto nel dimenticatoio. Il bacio di pace che suggellava questa preghiera universale è portato verso la comunione. Le messe di piccoli gruppi sono solo un lontano ricordo; siamo passati alle celebrazioni di massa che è necessario animare. Si organizza così una processione d’offertorio, si solennizzano i movimenti della folla con canti di processione: canto d’entrata, canto d’offertorio, canto di comunione; e nasce il graduale (gradus = gradino).
Nel VI secolo s. Gregorio Magno arricchisce la celebrazione delle feste con l’introduzione del Gloria in excelsis Deo (“Gloria a Dio nel più alto dei cieli”). Privilegia e completa una preghiera eucaristica che sostituirà quella de La tradizione apostolicacanone romano”. che l’occidente conoscerà, e solo questo, per quattordici secoli: è la nostra preghiera eucaristica. Da quell’epoca viene solennizzato il prefazio col Sanctus . e altre, molto numerose nella liturgia della Gallia e di Spagna, diventando ben presto “il canone” (canone = regola), “il
Sfortunatamente, in questo trambusto unificatore, si è perduto di vista lo Spirito santo: il canone romano non contiene nessuna epiclesi (l’invocazione dello Spirito per consacrare il pane e il vino). Ciò ci verrà rinfacciato, e con ragione, dalla tradizione orientale.
Nei secoli VII-VIII ecco le luci non più per sola utilità, ma anche come decorazione, e le grandi incensazioni, i paramentilavanda delle mani e l’Agnus Dei; il Credo di Nicea-Costantinopoli sostituisce il simbolo degli apostoli. In compenso, per dare spazio ai melismi del Sanctus, il “canone “, fino a quel tempo proclamato ad alta voce e anche cantato in gran parte, si attenua nel sottovoce per poi inabissarsi nel silenzio d’un semplice movimento di labbra; e così l’assemblea non saprà nemmeno su che cosa dovrà dire il proprio amen!
Nel IX secolo la mentalità mistica e simbolistica del medioevo si scatena variando i colori liturgici.
Nei secoli X-XII la messa è progressivamente appesantita da preghiere che il prete recita a bassa voce: mentre si veste in sacrestia, quindi ai piedi dell’altare, prima del vangelo, durante l’offertorio, prima della comunione, e alle abluzioni e dopo la messa. Il messale di s. Pio V ne fisserà l’abbondante lista.
Il XII e il XIII secolo vedono nascere l’Orate fratres, l’elevazione dell’ostia consacrata. Non ci si comunicava quasi più, ma si voleva vedere l’ostia; una credenza superstiziosa vi legava la certezza di non morire per quel giorno o per quella settimana.
Nel secolo XIV l’elevazione del calice seguirà quella dell’ostia, e “l’ultimo vangelo”, il prologo di s. Giovanni, fermerà paradossalmente il popolo in chiesa, quando era già stato congedato con l’Ite missa est. Il prete lo recitava, mentre si svestiva, ma siccome gli si attribuiva un potere d’esorcismo, i fedeli ne vollero la recita all’altare. E s. Pio V lo fece obbligatorio.
Il domenicano s. Pio V fu papa dal 1566 al 1572. Sarebbe stato ai nostri giorni un grande realizzatore del Vaticano II, poiché consacrò il suo pontificato a mettere la chiesa al passo col concilio di Trento (15451563). Di qui fra le altre riforme, quella liturgica promulgata nel 1568 e 1570, imponendo un breviario e un messale uniformi per tutte le chiese occidentali, che non beneficiavano d’una liturgia propria da duecento anni. La sua scelta cadde sul rito romano-franco, perché tale rito era, di fatto, il più diffuso grazie ai francescani.
Pertanto, i grandi riti orientali (siriaco, caldeo, bizantino, armeno, copto e abissino) erano lasciati alle loro tradizioni. Questi cristiani, cattolici al pari di noi, continuarono e continuano tuttora a celebrare, in lingue e rituali differenti, “la messa di sempre”.
In occidente, gli antichi riti (lionese, ambrosiano, mozarabico, carmelitano, domenicano, certosino) conservarono e conservano tuttora il loro volto particolare. Lo stesso s. Pio V continuò a usare personalmente il rito domenicano e probabilmente non celebrò mai “la messa di s. Pio V”. La riforma di Pio V ebbe un grande risultato: la fine dell’anarchia liturgica.
Sfortunatamente la partecipazione concreta del popolo al sacrificio diminuì sempre di più, perché si mantenne il latino, la cui comprensione era riservata ai chierici e all’elite.
Pio XII, nel 1956, ne rimodellò il cuore nella sua liturgia rinnovata del triduo pasquale.
E poi venne il Vaticano II.
La riforma conciliare
Con la costituzione apostolica del 3 aprile 1969, Paolo VI ordinava, per il 30 novembre dello stesso anno, l’entrata in vigore del “messale conciliare” nel testo latino dell’edizione tipica. Spettava alle conferenze episcopali tradurlo in lingua volgare e determinare la data in cui tale messale tradotto sarebbe entrato in vigore in ogni regione linguistica. In obbedienza a questa Istruzione e in virtù di questo mandato apostolico, l’episcopato italiano ad esempio, rese obbligatori i testi del nuovo messale a partire dalla Pentecoste del 1973.
Il concilio aveva precisato due linee di forza della riforma, che dovevano essere perseguite: semplificazione e restaurazione.
Il movimento spontaneo del fervore e dell’arte (e l’arte è una forma di fervore) porta ad aggiungere, fino all’esagerazione, una cosa bella, ora, un’altra domani, una perla qui, un diamante là, in uno splendore sempre crescente… In questo modo le nostre pure cattedrali romaniche o gotiche del XIII secolo hanno visto le loro consorelle meno antiche sovraccaricarsi col rinascimento fino a esplodere nell’esuberanza del barocco.
Allo stesso modo si è potuto paragonare la nostra liturgia eucaristica, dalle forme semplici e belle, a una splendida statua che i secoli hanno ornato di vesti preziose, di tuniche multicolori, di veli e di trine, di finissimi ricami, al punto da non sapere più che cosa nascondessero tutte queste aggiunte. La prima preoccupazione, quindi, del concilio fu quella di sfrondare:
Ma il testo conciliare continua:
“alcuni elementi, invece, che col tempo andarono ingiustamente perduti, siano riportati alla primitiva tradizione dei padri, nella misura che sembreranno opportuni o necessari”(ivi).
Così decide che si riprendano la proclamazione continua delle scritture, l’omelia anche nelle messe durante la settimana, la preghiera universale o “preghiera dei fedeli”, la lingua del paese, la concelebrazione, l’invito a comunicarsidue specie.
La celebrazione dell’Eucaristia
La Liturgia dell’Eucaristia si svolge secondo una struttura fondamentale che, attraverso i secoli, si è conservata fino a noi. Essa si articola in due grandi momenti, che formano un’unità originaria:
-la convocazione, la Liturgia della Parola, con le letture, l’omelia e la preghiera universale;
-la Liturgia Eucaristica, con la presentazione del pane e del vino, l’azione di grazie consacratoria e la comunione.
Liturgia della Parola e Liturgia Eucaristica costituiscono insieme “un solo atto di culto” (SC 56); la mensa preparata per noi nell’eucaristia è infatti ad un tempo quella della Parola di Dio e del Corpo e Sangue del Signore (cfr. DV 21).
Non si è forse svolta in questo modo la cena pasquale di Gesù risorto con i suoi discepoli? Lungo il cammino spiegò loro le Scritture, poi, messosi a tavola con loro, “prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” (Lc 24,13-35).
Catechismo della Chiesa Cattolica, 1346-1347
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L’indole sacra e organica della comunità sacerdotale viene attuata per mezzo dei sacramenti e delle virtù. I fedeli, incorporati nella Chiesa col battesimo, sono destinati al culto della religione cristiana dal carattere, ed essendo rigenerati quali figli di Dio, sono tenuti a professare pubblicamente la fede ricevuta da Dio mediante la Chiesa. Col sacramento della confermazione vengono vincolati più perfettamente alla Chiesa, sono arricchiti di una speciale forza dallo Spirito Santo, e in questo modo sono più strettamente obbligati a diffondere e a difendere con la parola e con l’opera la fede come veri testimoni di Cristo. Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la Vittima divina e se stessi con Essa; così tutti, sia con l’oblazione che con la santa comunione, compiono la propria parte nell’azione liturgica, non però ugualmente, ma chi in un modo chi in un altro. Cibandosi poi del corpo di Cristo nella santa comunione, mostrano concretamente l’unità del Popolo di Dio, che da questo augustissimo sacramento è adeguatamente espressa e mirabilmente effettuata. Lumen Gentium, 11
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Come definisco la mia partecipazione alla liturgia eucaristica: è “attiva, consapevole, pia” (cfr SC 48)? Cosa potrei fare per migliorare la mia partecipazione?
L’eucarestia è azione di tutto il popolo di Dio che è sacerdotale in virtù del battesimo e della confermazione, non è un’esperienza di fede individualista e intimistica. Durante l’eucaristia sento di far parte di un popolo, di un’assemblea? Mi sento unito agli altri? Cosa potrei fare a livello personale e comunitario per migliorare questo aspetto? Cosa proporre?
La liturgia è esperienza di fede che si colloca all’interno della vita. Deve dialogare con la vita per essere vera e fruttuosa. Cosa fare per migliorare questo aspetto? Cosa proporre?
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