• 24 Feb


    IL    MONACO IN UN MONDO  CHE CAMBIA

    Thomas Merton

    Sarebbe illusorio pensare che il monaco possa vivere comple­tamente separato dal resto del mondo. Come singolo, è vero, mantiene pochissimi contatti con la società esterna. Egli vive nella solitudine, lontano dalle città abitate. Non esce a predicare o a insegnare. Resta nel monastero a contemplare e pregare Dio. Ciò nondimeno, è inestricabilmente coinvolto nelle sofferenze e nei problemi comuni della società in cui vive. Da queste soffe­renze e problemi non vi è e non vi può essere fuga. Anzi, nel monastero essi possono forse essere avvertiti con maggiore acu­tezza, perché colti in una forma più spirituale.

    Lungi dall’essere esonerato dalle battaglie della sua epoca, il monaco, quale soldato di Cristo, è designato a combattere queste battaglie su un fronte spirituale, nascosto – nel miste­ro, mediante la preghiera e il sacrificio di sé. Non può far questo senza essere in qualche modo a contatto con il resto del mondo, senza immedesimarsi con gli altri che soffrono fuori delle mura del monastero e per i quali sta lottando nella sua solitudine, una lotta “non contro sangue e carne, ma contro i prin­cipati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tene­bra, e contro gli spiriti malvagi che abitano le regioni celesti” (Ef 6,12).

    Pertanto, sebbene il monaco viva ritirato dal mondo, conser­va un intimo contatto spirituale con coloro che sono realmente o potenzialmente uniti “in Cristo”, nel mistero della nostra unità nel Salvatore risorto, il Figlio di Dio. Sente di averli tutti nel cuore, e che essi sono in lui e con lui, quando si pone dinanzi al trono di Dio. Le loro necessità sono le sue, i loro interessi sono i suoi, le loro gioie e i loro dolori sono i suoi, perché si è identifi­cato con loro non solo per la consapevolezza di condividere la medesima natura umana, ma principalmente per la carità di Cri­sto, riversata nei nostri cuori dallo Spirito santo che ci è stato donato in Cristo (cf. Rm 5,5).

    E così il monaco deve prendere coscienza del mondo in cui vi­ve. Non gli sarà tuttavia di giovamento perdersi nel dedalo delle complicazioni politiche che sono solo alla superficie della storia. Meglio forse comprenderà la vicenda della sua epoca se conosce di meno quanto occupa le prime pagine dei giornali. Avrà una prospettiva diversa, e forse più esatta.

    Deve chiaramente rendersi conto che il mondo del XX secolo si trova in uno stato di crisi perché sta attraversando una trasfor­mazione improvvisa e profonda come mai è avvenuto. È uno sconvolgimento di tutto il genere umano, e nessuno può dire con certezza quale sarà il risultato finale di questa trasformazio­ne. Una cosa soltanto è certa: il mondo come lo conosciamo, la società come la conosciamo subiranno, nei prossimi cinquant’anni, cambiamenti profondi, più di quanto è avvenuto nella prima metà del secolo. E questo significa che alla fine del XX se­colo la nostra società sarà irriconoscibile, rispetto agli standard del secolo scorso e delle epoche che lo precedettero.

    In questo mondo in trasformazione la chiesa, contro la quale non prevarranno le porte degli inferi (cf. Mt 16,18), ha un ruolo permanente. E il monaco, parte integrante del Cristo mistico, ha a sua volta un ruolo permanente nel mondo umano in trasformazione. Questo significa che in alcuni aspetti la chiesa e l’ordi­ne monastico devono cambiare, altrimenti non potranno rima­nere in contatto con il resto degli uomini. Certo, i cambiamenti saranno superficiali e accidentali, esterni, secondari. L’essenza profonda e nascosta della vita cristiana e monastica rimarrà sempre la stessa. Ma gli atteggiamenti secondari, le abitudini, le osservanze e le consuetudini sono sempre cambiate con i tempi e così avverrà ancora.
    Il monaco si trova quindi, nel nostro tempo, posto di fronte a una responsabilità nei riguardi di Dio, di se stesso e del mondo intero
    . Deve essere attento a che la sua vita monastica sia salda­mente radicata nelle verità essenziali del cristianesimo, che viva nel mistero di Cristo. Altrimenti, se la sua vita e il suo ideale monastico si appoggiano su quanto è secondario e accidentale, verrà tutto vanificato nel processo di trasformazione. Perché, lo ripetiamo, è certo che i cambiamenti attraverso cui deve passare il nostro mondo richiederanno il sacrificio di molti aspetti se­condari e transitori della vita cristiana e monastica. Ciò che è essenziale emergerà necessariamente in tutta la sua chiarezza e forza dopo questa trasformazione.

    Come esempio di quanto è “accidentale” e “secondario” nella vita monastica, possiamo includere tutto ciò che vi è di proprio di un’epoca o di una nazione o di una cultura particolare: per esempio, l’uso dell’architettura gotica per gli edifici monastici o alcune forme di consuetudini religiose o certe pratiche di pietà, quali la devozione a un particolare santo o l’attaccamento a pie pratiche che non siano universali. Nei loro aspetti accidentali, anche la prospettiva e la spiritualità dei monaci possono variare di epoca in epoca. Ma nella sua sostanza – solitudine, povertà, obbedienza, silenzio, umiltà, lavoro manuale, preghiera e con­templazione – la spiritualità monastica non cambia.

    La trasformazione attraverso cui il mondo deve passare non sarà solo politica. E’ infatti illusorio pensare che le forze che agi­scono nella nostra società moderna siano, anzitutto, politiche. I grandi movimenti politici del nostro tempo, così complessi e spesso così insignificanti, almeno in apparenza, sono solo la cor­tina fumogena dietro al quale si vanno sviluppando i movimenti di una guerra spirituale troppo grande perché gli uomini possa­no affrontarla con strategie umane. E’ un qualcosa che sta avve­nendo in tutta l’umanità, e andrebbe avanti anche se non vi fos­sero movimenti politici. I politici sono solo strumenti di forze che essi stessi ignorano. Queste forze sono più potenti e più spi­rituali dell’uomo.
    Dietro e oltre l’azione delle forze create, siano esse umane o sovraumane, sappiamo che attraverso tutti questi agenti in con­flitto tra loro è inesorabilmente all’opera la suprema sapienza di Dio, per una soluzione che trascende gli interessi particolari di alcuni gruppi e porzioni di umanità. Il monaco, nascosto nel mi­stero di Dio, dovrebbe essere, tra tutti gli uomini, il più consa­pevole di questa azione nascosta della volontà divina. Lo sarà certamente se è pronto al sacrificio, se è puro di cuore,se è un uomo di preghiera.

    Il monaco non deve pensare che in un’epoca caotica come la nostra la sua unica funzione sia quella di conservare le antiche abitudini e usanze del suo ordine. Queste infatti sono necessarie­ e valide nella misura in cui sono vitali, portano frutto e ci aiutano a vivere più liberamente e consapevolmente nel mistero di Cristo. Il passato deve continuare a vivere, e il monaco è cer­tamente un custode del passato. Tuttavia, il monastero deve es­sere qualcosa di più di un museo. Se il monaco non fa altro che tenere in vita i monumenti della letteratura, dell’arte e del pen­siero che altrimenti andrebbero in rovina, non è quello che do­vrebbe essere. Decadrà con quanto attorno a lui va decadendo. Il monaco infatti non esiste per conservare alcunché, fosse anche la contemplazione o la stessa religione. Il suo ruolo non è tanto di tener viva nel mondo la memoria di Dio. Dio per vivere e agire nel mondo non dipende da nessuno, nemmeno dai suoi monaci! Il ruolo del monaco ai nostri giorni è invece testimonia­re che il contatto con Dio mantiene vivi.

    Mentre il resto del mondo si inchina davanti al denaro, al po­tere e alla scienza, il monaco respinge gli espedienti mondani e si dona, nella povertà, nell’umiltà e nella fede, all’Onnipotente. Mentre il resto del mondo adora la tecnica ed è impegnato in uno sfrenato culto del lavoro fine a se stesso, il monaco, mentre vive del lavoro delle proprie mani, ricorda che l’attività più alta e fruttuosa dell’uomo è il “lavoro” spirituale della contempla­zione. Mentre il mondo, reso schiavo dal propri bisogni e desi­deri materiali, impazzisce d’ansia, il monaco si innalza al di so­pra dell’angoscia per dimorare in pace nel “sabato” della carità divina.
    Nella nostra epoca, in cui chiunque altro è travolto dalle esi­genze di una grande lotta politica e culturale, il monaco ha, co­me sua prima funzione, il compito di essere monaco, di essere un uomo di Dio, che è come dire un uomo che vive solo grazie a Dio e per Dio. Solo così il monaco conserva ciò che vi è di ricco e vitale nella sua tradizione monastica e cristiana.

    Al fine di essere quello che dovrebbe essere, il monaco deve elevarsi al di sopra del livello etico comune, che è proprio di un paganesimo umanitario, e vivere la vita “teologica” incentrata su Dio, una vita di pura fede, di speranza nella provvidenza di Dio, di carità nello Spirito santo. Deve abitare nel “mistero di Cristo”. Deve percepire che Cristo e la sua chiesa sono uno e deve radicare tutta la sua esistenza in quest’unica fede e in quest’unica direzione, verso l’unità dell’unica chiesa di Cristo. Nell’oscurità della lotta, il monaco deve aggrapparsi, con tut­te le forze della propria anima, agli insegnamenti della Chiesa, alla sua autorità e al suo potere santificante. Non può contare sulla sua visione personale limitata o prendere decisioni cruciali in base al suo giudizio personale. Oggi, soprattutto, deve pensa­re e agire con la Chiesa.

    In breve, questa è la vocazione del monaco, in ogni epoca: vi­vere in Cristo, per Cristo e grazie a Cristo. Ma quando il miste­ro dell’iniquità (cf. 2Ts 2,7) agisce più apertamente nel mondo, allora più che mai è necessario che il monaco si dissoci da tutto quello che non è spirituale e cristiano, da tutto quello che mira ad altro che non sia Dio, al fine di mantenere viva nel mondo quell’atmosfera spirituale senza la quale tutto ciò che vi è di buono e di sano nella cultura umana morirà di asfissia. Nella notte della nostra barbarie tecnologica i monaci devono essere come alberi che silenziosamente esistono nell’oscurità e con la loro presenza vitale purificano l’aria.

  • 24 Feb

    IL RITO E I SUOI CONTENUTI


    La celebrazione della Messa si divide in due parti: Liturgia della Parola e Liturgia Eucaristica. Tuttavia queste due parti sono intimamente connesse perché, in forma diversa, ci presentano un unico Cristo: è lui il contenuto ultimo delle Scritture e del segno sacramentale. Diceva Origene (+253): “È preparato a mangiare il Verbo del sacramento chi ha mangiato il Verbo della Scrittura”.
    Questo corpo centrale della Messa è preceduto da un prologo (riti iniziali) e concluso da un epilogo (riti conclusivi).

    Riti iniziali

    Comprendono tutto ciò che si svolge dall’ingresso fino alla proclamazione della Parola. Hanno il carattere di esordio, di introduzione e di preparazione. Il loro scopo è quello di far sì che i fedeli, riuniti insieme, costituiscano una comunità, e si dispongano rettamente ad ascoltare la Parola di Dio e a celebrare degnamente l’Eucaristia. Concretamente essi si articolano così:
    a) Il popolo si raduna. Il fatto di radunarsi esprime e realizza il mistero della Chiesa, che è “un popolo radunato”, e rende presente Cristo in mezzo ai suoi riuniti nel suo nome (Mt 18,20). Tutto questo è una epifania della Chiesa.
    La celebrazione comincia già quando i fedeli escono di casa e si avviano verso la chiesa.
    b) Accesso dei ministri all’altare. Canto di ingresso.
    c) Con il saluto iniziale il sacerdote apre il dialogo con l’assemblea e annuncia alla comunità radunata che il Signore è presente.
    d) Il celebrante invita tutti a compiere insieme l’atto penitenziale che si conclude con l’assoluzione del sacerdote (Dio onnipotente abbia misericordia di noi…).
    L’atto penitenziale sottolinea un’esigenza di fondo: per accostarsi al Dio tre volte Santo è necessaria la purificazione interiore del cuore per fare spazio alla grazia di Cristo.
    e) Segue il “Signore pietà” e nei giorni festivi il “Gloria”.
    f) Questi riti trovano il loro culmine e la loro conclusione con la preghiera chiamata colletta.
    Essa ha lo scopo di raccogliere la preghiera interiore dei singoli in una formula comunitaria in cui viene espressa l’indole della celebrazione, il significato della festa o della circostanza che li ha riuniti in assemblea.

    Liturgia della parola

    La Chiesa è una comunità in ascolto. Il popolo di Dio è chiamato ad ascoltare Cristo: è lui infatti, presente, che parla al suo popolo quando nella chiesa si leggono le Scritture. Essa deve accoglierne le parole e rispondergli con la preghiera e il canto. Il dialogo viene poi sancito da un sacrificio: è il sangue di Cristo che sigilla la “nuova ed eterna alleanza”.
    Il dialogo si snoda nel modo seguente:
    a) Letture. È Dio che parla. L’iniziativa parte sempre da lui, perché da lui vengono la verità e la salvezza. Non è solo la lettura di un libro. È una parola viva, perché è Cristo glorioso, presente che parla. Essa è forza divina di salvezza. Ogni domenica ha tre letture: dal profeta, dall’apostolo, dal vangelo. Nel ciclo triennale di letture vengono presentate tutte le pagine centrali della Bibbia. Le acclamazioni del popolo “Gloria a te, o Signore” e “Lode a te, o Cristo” sono rivolte a Cristo realmente presente e parlante.
    b) Dopo le singole letture non è imposta, ma è raccomandata, una pausa di riflessione e di preghiera silenziosa.
    c) Canto o preghiera responsoriale. È la risposta comunitaria attinta normalmente dai salmi e dai cantici della Scrittura perché “solo Dio parla bene a Dio” (Pascal).
    d) L’omelia commenta la Parola, la adatta alla situazione degli ascoltatori, li aiuta ad accoglierla e ad “entrare” pienamente nella celebrazione.
    e) Il “Credo” è un sì gridato con gioia a Dio. Esprime l’adesione alla Parola ascoltata. Questa obbedienza alla Parola ascoltata è la migliore preparazione al sacrificio, la cui anima è un atto di suprema obbedienza al Padre.
    f) La preghiera universale o dei fedeli. Il suo carattere è appunto l’universalità. Deve contemperare le esigenze locali con quelle della Chiesa universale e di tutto il mondo secondo questo quadruplice schema: la santa Chiesa, coloro che ci governano, quelli che si trovano in necessità, tutti gli uomini. La formulazione di queste invocazioni si dovrà muovere tra questi tre poli:
    1) La tematica delle letture proclamate.
    2) La necessità della Chiesa e del mondo.
    3) Gli avvenimenti e le necessità della Chiesa locale.

    Liturgia eucaristica

    Per comprendere bene questo rito è essenziale riferirsi alla Cena. Chi volesse vedere corrispondenze visibili tra i gesti della Messa e la tragedia del Golgota si metterebbe su una strada sbagliata. Il contenuto è il sacrificio di Gesù, ma la forma rituale è quella di un banchetto gioioso, allietato dalla presenza del Risorto.
    Ecco le principali componenti del rito:
    a)
    Preparazione dei doni. Prima di tutto si prepara l’altare collocandovi l’occorrente. Quindi si portano le offerte e si depongono sopra l’altare. È bene che siano recate dai fedeli in forma processionale, mentre si esegue un canto adatto. Questo serve ad esprimere la parte attiva che ognuno prende al sacrificio. Il pane e il vino sono il simbolo di tutto il creato. Presentiamo a Dio questi doni come per affermare il suo sovrano dominio su tutte le cose. E poiché essi sono “frutto del lavoro dell’uomo” sono anche offerta della nostra esistenza in un gesto d’amore.
    b) Preghiera eucaristica. È il centro della celebrazione ed è la chiave per afferrare la portata del rito.
    Eccone gli elementi:
    1- Il Prefazio. Un inno di ringraziamento e di lode esultante al Padre per tutta l’opera di salvezza che ha realizzato per noi.

    2- Il “Santo”, che è il grido di gioia e di riconoscenza, cantato o proclamato da tutti a conclusione dell’inno di ringraziamento.
    3- L’epìclesi (invocazione, preghiera) con cui si chiede al Padre di santificare i doni con l’effusione dello Spirito Santo trasformandoli nel corpo e sangue di Cristo e di santificare coloro che li riceveranno.
    4- Il racconto dei gesti compiuti e delle parole dette da Gesù nella Cena, quando istituì il sacramento della sua Pasqua e diede ai discepoli l’ordine di perpetuarlo.
    5- L’anàmnesi (ricordo, commemorazione) con cui la Chiesa celebra il memoriale della Pasqua di Cristo (passione, morte, resurrezione e ascensione) in attesa della sua venuta gloriosa.
    6- L’offerta con cui la Chiesa presenta Cristo al Padre e se stessa con lui per portare a perfezione i suoi figli nell’unione con Dio e tra di loro.
    7- Le intercessioni (ricordati…) per tutti i membri della Chiesa cattolica, per i defunti e per i presenti.
    8- La formula finale di glorificazione a Dio che il popolo conclude con un amen corale. Questo amen è la ratifica dell’intera assemblea a tutta la grande preghiera.
    L’asse dominante che attraversa tutta la preghiera e la sostiene è l’azione di grazie: la proclamazione, nel giubilo e nella fede, delle meraviglie di Dio. In fondo si dice a Dio: Tu che hai fatto tutto questo nella storia della salvezza, compilo nuovamente ora per mezzo di questi segni sacramentali. Tutto ciò che Dio ha compiuto in favore degli uomini in passato confluisce in questi segni sensibili ove si rende presente Cristo con tutte le ricchezze del suo regno.
    c) Riti di comunione:
    1- La preghiera del Signore, il Padre nostro. È sempre stata considerata la preghiera classica di preparazione alla comunione. In questo momento ci sentiamo tutti fratelli intorno alla mensa dell’unico Padre.
    2- L’abbraccio di pace. Significa l’unità dei cuori. Deve eliminare tutti gli spazi di indifferenza che separano i fedeli e trasformare la vicinanza fisica in un segno di unanimità spirituale.
    3- La frazione (o spezzamento) del pane. Riproduce il gesto di Cristo che nella Cena spezzò il pane e attraverso questo gesto fu riconosciuto dai discepoli di Emmaus (Lc 24,35).
    4- La comunione è la comune unione a Cristo. È questo il frutto ultimo dell’Eucaristia, ed è l’anima stessa della Chiesa. Ci vuole la Chiesa per fare l’Eucaristia, ma soprattutto ci vuole l’Eucaristia per fare la Chiesa.
    È desiderabile che le ostie a cui si comunica siano consacrate nella stessa Messa affinché la comunione appaia meglio come partecipazione al sacrificio che si sta celebrando. Il silenzio che ne segue è carico di tensione spirituale perché segna il momento personale di incontro con il Salvatore.
    5- Il rito della comunione termina con una preghiera del celebrante a nome di tutti. Esprime il grazie di tutti e chiede che il mistero celebrato produca i suoi frutti lievitando e trasfigurando la vita quotidiana.

    Riti conclusivi

    Comprendono un saluto, una benedizione e il congedo dell’assemblea: “La Messa è finita; andate in pace”.
    Il che significa: Il rito è concluso, ma ora comincia la celebrazione nella vita. Andate per le strade del mondo e siate in mezzo a tutti i testimoni della morte e della resurrezione di Cristo con la parola, con l’azione e con la vita.


    Contenuti del rito

    Ogni rito, parola o gesto, deve essere capito, diversamente non serve ed è destinato a cadere. Ci sono alcuni punti particolarmente importanti che vogliamo ricordare.
    • La celebrazione della Messa costituisce il centro di tutta la vita cristiana sia per la Chiesa universale che per quella locale e per i singoli fedeli.
    • La Messa è il culmine sia dell’azione con cui Dio santifica il mondo in Cristo, sia del culto che gli uomini rendono al Padre per mezzo di Cristo.
    • Tutte le azioni sacre e ogni attività della vita cristiana sono in stretta relazione con la Messa, da essa derivano e ad essa sono ordinate.
    • Nella Messa il popolo di Dio è chiamato a riunirsi insieme sotto la presidenza del sacerdote, che agisce in persona di Cristo. Per questa riunione, soprattutto, vale la promessa di Cristo: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20).
    * Cristo è realmente presente nell’assemblea dei fedeli riunita nel suo nome, nella persona del ministro, nella sua parola e in modo sostanziale e permanente sotto le specie eucaristiche.
    * Nell’ultima Cena Cristo istituì il sacrificio e convito pasquale per mezzo del quale è reso di continuo presente nella Chiesa il sacrificio della croce, allorché il sacerdote che rappresenta Cristo Signore compie ciò che il Signore stesso fece e affidò ai discepoli perché lo facessero in memoria di lui.
    * La Messa è il memoriale della morte e della risurrezione del Signore: sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l’anima viene colmata di grazia e ci è dato il pegno della gloria futura.
    * L’Eucaristia è anzitutto azione di Cristo, cioè intervento di Dio nella vita degli uomini. Cristo è il supremo atto divino; egli ricapitola in sé tutta la storia sacra e condensa in sé tutta la salvezza. Cristo è tutto l’agire di Dio.
    * Cristo è presente in ogni eucaristia. È una presenza dinamica che assume varie forme, tutte però reali, esprimenti l’unico Cristo. È lui che parla quando si leggono le Scritture, è lui che prega nel suo popolo, è “in sua persona” che il ministro agisce: dunque le Scritture, il popolo e il ministro diventano segni della sua presenza viva. Vertice della sua presenza il pane e il vino che diventano Cristo presente in forma sostanziale e permanente.
    * L’Eucaristia è anche azione della Chiesa ossia del popolo di Dio. La chiesa è “il Cristo diffuso e comunicato (Bossuet): è proprio nel suo agire che si rende presente l’azione di Cristo. Il soggetto della celebrazione non è la Chiesa astratta e lontana: è quella porzione concreta del popolo di Dio che è lì radunato per celebrare il memoriale del Signore. L’agire di tutti è uno strumento e un riflesso dell’azione di Cristo. Tutto il popolo quindi è soggetto della celebrazione: è il protagonista che si pone davanti a Dio come il popolo ebraico ai piedi del Sinai: perché il dialogo e l’alleanza avvengono tra Dio e il suo popolo.
    * L’assemblea concretamente fa quello che ha fatto Cristo quando ha celebrato la prima Eucaristia. Cristo ha fatto una cena, quindi l’Eucaristia è un rito conviviale. Egli prese il pane e il calice: è la preparazione dei doni; rese grazie: è la grande preghiera eucaristica; lo spezzò: è la frazione del pane; lo diede ai suoi discepoli: è la comunione. Non è esclusa neppure la liturgia della parola: nella cena Cristo ha parlato lungamente nel grande discorso sacerdotale che alla fine si traduce in preghiera al Padre. La cena eucaristica è straordinariamente densa di intimità, di fraternità e di letizia quali si hanno o si devono avere attorno a ogni desco familiare. Ma il suo contenuto trascende quello di ogni banchetto. Riproduce la cena, ma contiene la croce. Non si rende presente l’atto della morte e della risurrezione di Cristo, che sono avvenute una volta per sempre, ma il contenuto di salvezza di quell’evento.

    * * *

    Il rito per essere vero deve afferrare l’uomo reale presente alla celebrazione, diversamente non serve a nulla e a nessuno. La liturgia è fatta per gli uomini e non gli uomini per la liturgia. Il culto sale a Dio passando per il cuore dell’uomo: è lì l’altare della celebrazione, è lì che Dio trova la sua gloria. Tutto il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento è un passaggio dall’esterno all’interno.
    La partecipazione esteriore è solo segno di quella interiore. Ci vuole una partecipazione intima e personale che produca un frutto di grazia nel cuore dell’uomo. Il fine della liturgia è il bene spirituale dei fedeli; il modo è una ricerca fatta insieme da tutte le parti in causa. La creatività può essere la migliore e la peggiore delle cose: dipende dall’uso che se ne fa. L’apertura al futuro non è mai chiusura al passato: l’albero non cresce di più se si tagliano le radici. È la grande via dell’autenticità che risolve tutti i problemi. Ci vuole un cuore impregnato di Vangelo: allora la parola di Dio sulle labbra prende un sapore nuovo. Ci vogliono gesti che nascono dal cuore: allora diventano davvero espressivi del divino e sono in grado di contagiare.
    La creatività più feconda è quella che nasce da un cuore in preghiera che si è preparato alla celebrazione liturgica. Questa creatività deve nascere unicamente dallo zelo pastorale che è amore per i fratelli.


    PARTECIPAZIONE ATTIVA, COSCIENTE, PIENA

    Il solo modo di capire l’Eucaristia è quello di inserirsi nel suo svolgimento e di sintonizzare ad essa le nostre energie spirituali: la capisce solamente chi la vive.
    L’Eucaristia è un’azione, non uno spettacolo a cui si assiste, sia pur pregando. È un’azione di cui noi siamo gli attori ma in cui Cristo è il protagonista. Le parole con cui Cristo l’ha istituita non sono: “Dite questo in memoria di me” o “Ricordate, proclamate, meditate, ecc.”, ma “Fate”.
    Di conseguenza il modo di parteciparvi è quello di un’azione. Tutti i fedeli devono agire con il celebrante. “I fedeli non assistano come estranei e muti spettatori a questo mistero di fede, ma comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente” (Conc. Vat. II SC 48).
    La Messa è un’azione comunitaria. Per partecipare alla Messa è dunque necessario creare la comunità. Non basta che la gente entri in chiesa e ciascuno prenda posto accanto all’altro, per avere una comunità. Si può avere una moltitudine di piccoli mondi chiusi: ciascuno coi suoi pensieri, i suoi sentimenti, i suoi problemi che alzano un muro di indifferenza e di separazione da tutti gli altri. Bisogna abbattere questo muro, lasciar penetrare gli altri in noi, sentire le loro gioie e le loro sofferenze come nostre; in una parola: amare. Bisogna che ciascuno senta di non essere solo davanti a Dio, ma cellula viva del corpo di Cristo che è la Chiesa.
    Per lungo tempo i fedeli sono stati abituati a una preghiera individuale, ad essere raccolti, a chiudere gli occhi, a mettere il viso tra le mani per stare raccolti. Nessuna meraviglia se oggi molti si trovano a disagio quando si chiede loro di essere attivi, parlanti, fusi in una preghiera collettiva.
    Non si prega solo con l’anima, ma anche con la voce, con l’atteggiamento e con tutto l’essere. La serie di atti che si compiono in chiesa (gesti, parole, atteggiamenti) sono autentica preghiera. Nella liturgia hanno particolare importanza il guardare e l’ascoltare. La Messa è un’azione, ma non è un’azione muta. Implica dei gesti e delle parole e anzitutto la parola di Dio.
    Ora la Parola è fatta per essere ascoltata. La liturgia non vuole che la Parola sia ridotta a una lettura. Se così fosse basterebbe distribuire dei libri e tutti, sacerdoti e fedeli, si sprofonderebbero in una lettura silenziosa: ne risulterebbe un circolo di lettori, un club del libro. Agli apostoli non è stato detto di scrivere la parola di Dio, ma di proclamarla. La Parola letta non dà il senso vivo della presenza di un Altro. Le manca quella forza che solo una voce umana le può conferire. Tutte le parole veramente belle, veramente solenni, vogliono essere ascoltate dalla viva voce e non lette. E alla messa c’è assai più che delle parole belle e solenni: c’è la parola di Dio. E questa Parola, nella sua proclamazione autentica, risuona viva ed attuale in tutta la sua divina efficacia. Bisogna ascoltarla.
    Si deve indurre l’assemblea ad ascoltare i testi sacri e, per ottenere questo, il tono della proclamazione deve essere all’altezza del messaggio. I messalini e i fogli in uso sono cosa ottima per prepararsi alla Messa durante la settimana e come testi di meditazione e di preghiera. Ma il loro uso abituale durante la celebrazione spesso distoglie dal seguire i riti e dalla partecipazione comunitaria. Il messalino letto privatamente durante la Messa non può sostituire la proclamazione autentica della Parola.
    Se la Messa è un banchetto, una cena, parteciparvi significa prendere parte a questa mensa. L’atto supremo della partecipazione alla Messa, quello che li riassume tutti, è la comunione. La comunione è anzitutto essenzialmente questo: la partecipazione al mistero della cena e della croce: comunione e sacrificio sono indissolubilmente uniti. Occorre fare una revisione del modo di concepire e vivere la comunione. Essa ci inserisce in un mistero immenso, di cui la croce costituisce il centro, ma che abbraccia anche tutta la grande storia sacra, dalla creazione all’ultima venuta del Cristo.
    La Messa rende presente tutto questo grande mistero e la comunione inserisce ogni fedele nel suo dinamismo vitale. Gli incontri con Cristo nella comunione non possono essere chiusi in un individualismo angusto o in forme devozionalistiche.
    L’uomo è una unità vivente e quindi tutto l’uomo deve pregare, corpo e anima. Quindi le tre posizioni più comuni (in piedi, in ginocchio, seduti) sono atteggiamenti comunitari che esprimono modi di essere e di pregare.
    Lo stare in piedi è segno di rispetto e di disponibilità attiva.
    Lo stare in ginocchio evoca l’atteggiamento di umiltà: ci si fa piccoli, ci si dimezza, si china il capo, si dice concretamente: “Mio Dio, tu sei grande e io sono piccolo, sono un nulla”. Ma bisogna che col corpo si inchini e si pieghi anche l’anima: solo allora il gesto è umiltà, verità e adorazione.
    Lo stare seduti non è una posizione di comodo: è l’attitudine dell’attenzione raccolta e rispettosa verso Dio che parla.
    I gesti e gli atteggiamenti comunitari sono connaturali alla nostra psicologia umana, associano il corpo ai sentimenti dell’anima ed esprimono questi stessi sentimenti in stile comunitario.
    Ogni celebrazione deve essere autentica preghiera. Nessuno ha mai condotto gli altri a una esperienza vitale senza esserci passato per primo. Ne consegue che tutti gli animatori della celebrazione, sacerdoti e laici, devono prepararsi e prepararla non solo sotto l’aspetto esecutivo o “spettacolare”, ma soprattutto nei suoi contenuti spirituali. L’Eucaristia domenicale è il cuore della settimana: tutto deve partire da lì e tutto vi deve tornare: programmi di ogni genere e impegni di ogni specie. Il prete deve essere un “mistagogo”: ha il compito di prendere i fedeli per mano e condurli incontro al Cristo presente nel mistero. Ciò che è detto del sacerdote vale, con le debite precisazioni, anche per tutti gli animatori della Messa: lettori, ministranti, suonatori, cantori …
    Il presidente della celebrazione deve educare gli altri con il suo stesso modo di pregare. La sua presenza deve emanare forza spirituale, sicurezza e calma composta. Deve essere tra la sua gente come uno che veramente crede e prega e non come uno che dice di credere e recita delle preghiere. Uno che dà vita alle parole e ai riti che si compiono. Un “capo” spirituale si affina e si attrezza pregando: poi effonde sull’assemblea quello che ha attinto nella contemplazione. Lo Spirito si serve di lui per illuminare le menti, infiammare le anime e suscitare desideri fattivi di santità.
    Non sa che farsene Dio di un culto che non impegna, che non provoca una opzione concreta, che non afferra la vita con i suoi problemi e le sue aspirazioni, e il cuore con tutta la gamma dei suoi sentimenti. Le invettive profetiche contro il formalismo del culto conservano una attualità drammatica. Dio non vuole il sangue dei tori, ma il cuore dell’uomo. Il culto non ha valore in sé, ma per le energie, la fede e l’amore che le persone vi impegnano e vi fanno confluire.
    Per evitare il pericolo del formalismo, degli atteggiamenti falsi e vuoti è indispensabile avere la percezione viva del Risorto, presente nel cuore dell’assemblea. La preghiera non sgorga dal cuore, se non quando si avverte la sua divina presenza. Non si dialoga con un assente. Come i polmoni si muovono a contatto con l’ossigeno dell’aria, così l’intimo dell’uomo si muove a contatto di questa presenza percepita nella fede. Dio, in quel momento, cessa di essere un “Egli” di cui si parla e a cui si pensa, e diventa un “Tu” a cui ci si rivolge.
    Soprattutto nell’Eucaristia questa presenza del Risorto raggiunge il massimo grado di intensità. È una realtà stupenda non mai scoperta e assimilata a sufficienza.
    Nei segni del pane e del vino il Risorto si rivela come una presenza realissima e sostanziale che perdura anche al di là nella celebrazione, nel tabernacolo. Attraverso il gesto sacramentale che è azione personale di Cristo si rivela come presenza dinamica. Attraverso la proclamazione della sua Parola, in cui Cristo presente annunzia oggi il suo vangelo, si rivela come una presenza parlante. Attraverso il celebrante che agisce “in persona di Cristo”, si rivela una presenza personale. Attraverso il popolo, in cui Cristo stesso prega, si rivela come una presenza incarnata nella Chiesa.
    Questo è il cuore del mistero dell’assemblea: tutta la densità orante del suo clima dipende dalla percezione viva, commossa, esultante di questa presenza. In nessun altro spazio e tempo l’incontro con Cristo è più facile e più pieno che nella Messa. Sant’Ambrogio diceva di incontrarsi con Cristo a faccia a faccia nei suoi sacramenti e ne percepiva quasi l’alito del suo respiro (praesentiae eius flatum aspirare).
    I primi cristiani sapevano che quando la comunità si radunava per spezzare il pane Egli veniva in mezzo a loro. Il loro pensiero correva spontaneamente alla sera di Pasqua in cui il Risorto appare in mezzo ai suoi per consolarli ed incoraggiarli ma soprattutto per donare loro il suo Spirito ed inviarli in missione al mondo intero.
    La loro esperienza deve diventare la nostra. Questa presenza deve essere il centro focale che galvanizza l’assemblea e la fa prorompere in preghiera. Nulla è più importante per rendere viva una celebrazione. Ci vorrà per questo una fede altrettanto viva. Abbiamo il torto di ridurre spesso la fede all’accettazione piena di un certo numero di verità. L’essenziale della fede consiste invece nella capacità di percepire la presenza misteriosa e nascosta del Signore nelle realtà della Chiesa e del mondo; soprattutto nei sacramenti e nell’assemblea riunita che rappresentano il culmine di tutta la vita ecclesiale.
    Chi crede così, sa incontrarsi con Lui, “respira” la sua presenza, e la preghiera diventa il respiro della sua vita.
    Nella celebrazione della Messa risuona la parola di Dio ed è Lui che parla quando nella Chiesa si leggono le Scritture. Bisogna imparare a mettersi in ascolto. Questa è una componente irrinunciabile della preghiera. Se la preghiera è dialogo con Dio, è chiaro che dovremmo lasciare a Lui l’iniziativa della Parola. La nostra preghiera non potrà essere altro che un’umile risposta a quanto Lui ci ha detto. Senza un religioso ascolto della Parola non c’è preghiera cristiana. Il popolo di Dio è un popolo in ascolto. Tale ascolto esige che abbiamo ben chiari alcuni principi di fede.
    1- Cristo è presente nella sua parola. È Lui che la pronuncia ora. Perciò la liturgia della Parola non è la lettura di un libro, ma l’ascolto di Qualcuno. “È come se vedessimo la sua bocca” (san Gregorio Magno). Cristo fa risuonare viva la voce del Vangelo e in Lui il Padre “viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli e discorre con essi” (Conc. Vat. II, Dei Verbum n. 21). L’acclamazione “Lode a te, o Cristo” esprime la fede in questa presenza.
    S. Agostino commenta il versetto 3 del salmo 50 (49) “Viene il nostro Dio e non sta in silenzio” così: “Il lettore è salito al suo posto: è Cristo che non tace. Il predicatore parla: se parla secondo verità, è Cristo che parla. Se Cristo tacesse, io non sarei qui a dirvi queste cose. Ma anche sulla vostra bocca egli non tace: quando cantavate, era Lui che parlava. Egli non tace: è necessario che noi l’ascoltiamo, ma con l’orecchio del cuore; perché è troppo facile ascoltare con quello della carne”.
    2- Cristo parla oggi e interpella oggi il suo popolo e in esso ciascuno degli ascoltatori. Ognuno deve dire: “È a me che parla!”. Bisogna sentirsi interpellati personalmente. La Scrittura è tutta intera per noi: per tutti e per ciascuno. Risponde ai problemi personali e ai bisogni concreti di ciascuno.
    Non è vero che Dio ha parlato soltanto una volta: Dio parla adesso, parla sempre. Nelle parole della Bibbia è presente lo Spirito di Dio che ringiovanisce e attualizza continuamente il messaggio. “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12).
    Il vangelo è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (Rm 1,16). Nessuno ha dunque il diritto di mettersi di fronte alla Parola in atteggiamento da spettatore disinteressato. Nessuno può fare lo gnorri e dire: “Parla con me?”.
    3- Cristo domanda oggi una risposta. Una risposta a noi, a me. Esige una risposta che metta in movimento tutte le mie energie vitali: obbedienza, amore…
    La risposta avviene a due livelli:
    a) a livello di parole e di sentimenti: ed è la preghiera;
    b) a livello di atti: ed è tutta la vita.
    Anzitutto si risponde con la preghiera. Dicevano gli antichi: quando leggiamo è Dio che ci parla; quando preghiamo, siamo noi che rispondiamo. Nella liturgia questo dialogo avviene in modo comunitario. Dio parla attraverso le letture. Ognuno dà la risposta personale nella pausa di silenzio meditativo che dovrebbe sempre seguire. Poi si risponde coralmente attraverso il canto responsoriale. Per imparare a pregare bisogna guardare alla “Chiesa in preghiera”: e la liturgia non è altro che questo. È il metodo classico su cui si deve modellare il nostro colloquio personale al di là dell’azione liturgica.
    Ma non basta rispondere a parole. Ci vuole la concretezza degli atti. Bisogna rispondere con tutta la vita. L’udire deve tradursi in ubbidire. Ai piedi del monte Sinai, a Dio che parlando aveva proposto l’Alleanza, tutto il popolo rispose insieme e disse: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!” (Es 19,8). L’ascolto diventa sterile, se la vita non si lascia modellare dalla Parola.
    Bisogna imparare ad entrare nelle celebrazioni con queste disposizioni. La pratica ci sembra tanto lontana da questo ideale. Spesso la Parola non è colta sulle labbra di Cristo e perciò risuona nel vuoto, in un’assemblea che naviga nella apatia e nella noia. Entra da un orecchio ed esce dall’altro senza scalfire neppure l’epidermide dello spirito e lasciando il tempo che trova. Al più è vista come una vaga istruzione religiosa. Non suscita la preghiera, non stimola l’impegno di vita. “Basta prendere una parola di lì (dalla Bibbia) per avere un viatico per tutta la vita” (s. Giovanni Crisostomo); e da noi i fedeli escono di chiesa con il cuore vuoto.
    Quale meraviglia se durante la settimana muoiono di fame o sono sopraffatti dalle chiacchiere degli uomini? Quando riusciremo a creare delle assemblee in ascolto del Dio vivo, allora non ci mancheranno i mezzi per contagiare il mondo intero.
    Percepire la presenza viva del Cristo, entrare nel colloquio con Dio mediante la Parola: sono indicazioni importantissime per rendere la celebrazione viva e pregata. Ma da sole non bastano. Non è solo questione di percepire una Presenza e una Parola: bisogna entrare in un dramma, il dramma della salvezza. La liturgia è un evento. Le grandi meraviglie compiute da Dio nella storia della salvezza si prolungano nei sacramenti della Chiesa. Nell’evento pasquale, che è la sintesi suprema di tutto l’agire di Dio, tutte le meraviglie del passato sono rese contemporaneamente presenti. E la Pasqua di Cristo è il contenuto di ogni atto liturgico e di ogni sacramento. Nelle nostre celebrazioni ogni evento rivive: tutto si compie ora. La liturgia non si ripiega sul passato: celebra l’oggi della nostra salvezza. È vero che questo “oggi” non ci sarebbe se non ci fosse la magnifica storia di “ieri”; e che ci sentiamo spinti irresistibilmente verso il “domani” che attendiamo. Ma la storia di ieri è resa ora presente in pienezza; e quella di domani è anticipata nel mistero. La liturgia, soprattutto nella Messa, riassume tutte le dimensioni del tempo, tutta la storia della salvezza nelle sue varie fasi. Occorre trasporre tutto in chiave di attualità. Devo sentirmi implicato nell’evento che si celebra perché è qui presente per afferrare la mia vita. Oggi Cristo rinasce nella mia vita, oggi muoio con lui, risorgo con lui, salgo al cielo e siedo alla destra del Padre con lui, oggi scende su di me il suo Spirito…
    Dio stringe oggi la sua alleanza con noi come in passato l’ha stretta con i nostri padri. Tutto quello che si fa e si dice oggi è parola ed evento attuale; si prolunga in noi e deve trovare in noi, ora, qui, una nuova attuazione. Ricordiamo che i sacramenti sono azioni di Cristo, Cristo che agisce e ci salva, qui, oggi.
    Facciamo qualche esempio concreto. Nel culmine dell’Eucaristia si rievoca la cena del Signore: “Nella notte in cui fu tradito, Egli prese il pane …”. Si usano i verbi del passato e sembra che si racconti una storia. E così è, infatti. Ma non è tutto. Mentre è raccontata quella storia si traduce in realtà. È Cristo che, ora, prende il pane nelle sue mani, ripete i gesti della cena e si dona a noi sotto il segno del pane spezzato. Esattamente come quella sera, ormai lontana nel tempo.
    Nella IV domenica di quaresima si legge il vangelo del cieco dalla nascita. Al momento della comunione si canta: “Il Signore unge i miei occhi; ed io vado, mi lavo, ci vedo e credo a Dio”. Cosa significa? Quello che è accaduto al cieco in quel giorno, accade ora a me: gli occhi della mia fede sono illuminati, la mia vita intraprende un nuovo cammino alla ricerca del volto di Dio.
    La Messa non è uno spettacolo più o meno suggestivo: si entra in un dramma, si è afferrati dal mistero di Cristo, si esce dalla celebrazione rinnovati.
    Il segno sacro è un elemento sensibile che esprime e contiene una realtà interiore di grazia: un fatto esterno che vuole arrivare soprattutto al significato e al contenuto delle cose. Dobbiamo esaminarci sulla esecuzione di tali segni (segno di croce, genuflessione, scambio della pace, ecc.). Lo stile di questi gesti sacri dev’essere degno della celebrazione e non fare magra figura messo a confronto con la recita dell’ultimo teatrino ambulante. Si tratta di realtà divine espresse in figura e in gesto umano. Dal nostro gesto deve trasparire l’azione di Cristo che agisce in noi.
    Quando una genuflessione diventa un gesto frettoloso e meccanico, mentre lo sguardo vaga altrove in cerca di un posto a sedere, come potrà essere un “segno” della nostra fede adorante Cristo presente? Se al battesimo la veste bianca non è né veste, né bianca, come pretendiamo che esprima la bellezza radiosa di un’anima che ha rivestito internamente Cristo?
    Quando non c’è coerenza tra ciò che esprimiamo all’esterno con parole o con gesti e ciò che sentiamo e viviamo nell’intimo, siamo bugiardi. C’è il rischio che le bugie più grosse le diciamo proprio a Messa. Sarebbe una tragica farsa.
    L’obiettivo ultimo non è fare dei bei gesti, ma la grazia che trasforma il nostro cuore: anche la presenza di Cristo è ordinata a questo. Ad ogni gesto esterno deve corrispondere una attitudine interiore, un frutto di preghiera e di grazia. Se mi batto il petto, bisogna che esprima nell’intimo tutto il mio pentimento sincero. Se stringo il mio fratello in un abbraccio cordiale, devo sentirmi con lui in comunione d’amore. Se pronuncio formule di preghiera, bisogna che il cuore si accordi con la voce, perché le formule pronunciate con le labbra non sono la preghiera, ma solo mezzi di preghiera. Altro è recitare preghiere, altro è pregare. Se canto, non sarò un semplice esecutore di musiche: pregherò cantando, sintonizzando il grido del mio cuore con quello dei fratelli.
    L’Eucaristia deve essere il cuore delle nostre giornate perché è il centro di ogni attività dello spirito.
    È il centro di tutta la storia della salvezza perché lì si rende presente il passato di questa storia e in qualche modo è anticipato perfino il futuro. È il punto di convergenza di tutte le attività della Chiesa: il suo fulcro, il suo cuore. È il centro della attività spirituale. L’iter terreno di Gesù sfocia sul Calvario e intorno a quel perno gravita tutta la sua vita. Così è per ogni cristiano. Ogni itinerario spirituale deve sboccare nell’Eucaristia.
    La Messa è il nodo di tutte le strade dello spirito. Da questa ricchissima fonte bisogna attingere la vita spirituale.
    L’atto più grande che un uomo possa fare a questo mondo è quello con cui, sotto l’impulso dello Spirito santo, prende la sua vita tutta intera e la presenta a Dio in gesto di offerta e di amore. È il gesto che ci lega più direttamente e più strettamente a Dio.
    Questa offerta a Dio nell’amore ha un intimo rapporto con l’Eucaristia, perché l’Eucaristia rende presente l’offerta che Cristo fa al Padre della sua vita, per salvare noi. Vivere l’Eucaristia è unire il nostro gesto di offerta al suo.
    Celebrando la sua offerta, impariamo ad offrirci anche noi. Celebrare l’Eucaristia senza questa disposizione a mettere la nostra vita nelle mani del Padre è offrire non un sacrificio vivo, ma un sacrificio cadavere, una Eucaristia senza vita.
    “Nell’Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che mediante la sua carne vivificata dallo Spirito santo e vivificante dà la vita agli uomini i quali sono invitati e indotti a offrire assieme a lui se stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create” (Conc. Vat. II, PO n. 5). Chi è capace di vivere il suo sacrificio spirituale in unione con quello di Cristo vive l’Eucaristia.
    Ogni Eucaristia rende presente la suprema offerta che Cristo fa di se stesso al Padre. Egli è sempre stato pienamente disponibile alla volontà del Padre: entrando nel mondo (Eb 10, 5-9) e durante tutta la sua esistenza, facendo della volontà del Padre il suo cibo (Gv  4, 34) e donando la sua vita sul Calvario in un gesto totale d’amore. Ogni Eucaristia ci rende presente, in tutta la sua freschezza ed efficacia, questa adesione e questo amore al Padre: è l’atto supremo di religione che mai sia stato compiuto.
    Ogni altro atto ha valore solo in quanto è collegato ad esso. Ogni offerta di sé a Dio, per aver valore, deve essere agganciata a questa.
    La Messa è l’insieme di due oblazioni: quella di Cristo sull’altare e quella del cristiano che si offre insieme con Cristo sullo stesso altare e prolunga questa offerta in tutta la sua vita. Solo chi crede in Cristo può offrire se stesso a Dio. Credere infatti è “entrare in Lui” (s. Agostino), diventare parte integrante del suo Corpo.
    Nella Messa questo possiamo vederlo significato nell’acqua unita al vino “segno della nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”.
    La Chiesa è un “essere insieme”, è una comunità di persone. Ciò esige che per fare l’Eucaristia ci sia una vera comunità. La celebrazione sarebbe radicalmente falsata se lì ci fosse, anziché una comunità, una accozzaglia di gente. È lì nell’Eucaristia che ogni giorno si costruisce la comunità, è lì che devono essere distrutti diffidenza, incomprensione, antipatie e tutto il resto. È una scuola d’amore. Il segno della pace, per essere autentico, deve essere segno di un amore che non si arrende mai.
    Quindi, da una parte ci vuole la comunità per fare l’Eucaristia e dall’altra è nell’Eucaristia che la comunità si costruisce e si cementa sempre più.
    Ogni comunità cristiana ha queste quattro linee di forza: il modello è la comunità primitiva, quella di Gerusalemme; la sorgente è l’Eucaristia; il centro focale è la presenza di Cristo attorno a cui si stringe; il vincolo che la cementa è l’amore.
    Chi vive l’Eucaristia quotidiana si sente ogni giorno con le spalle al muro e viene “costretto” dall’evidenza dei fatti a riconvertirsi a Dio e ai fratelli. Non può andare all’Eucaristia con un fratello al quale non rivolge la parola o col quale non si sente unito fraternamente e riconciliato. È questione di sincerità e di autenticità.
    Liturgia della parola e liturgia eucaristica sono l’unica mensa della Parola di Dio e del Corpo di Cristo. La Chiesa è una comunità in ascolto, il cristiano è uno che ascolta la parola di Dio e la osserva (Lc 11,28). Ogni giorno il Signore parla e la vita cristiana è una risposta, un sì, ripetuto con gioia. La Parola ascoltata durante la Messa deve essere la lampada che guida e illumina i nostri passi ogni giorno. È noto che la prima vocazione monastica, quella di s. Antonio abate (+356), è nata proprio dall’ascolto della parola di Dio nella celebrazione eucaristica. “Un giorno mentre si recava, com’era sua abitudine, alla celebrazione eucaristica, andava riflettendo sulla ragione che aveva indotto gli apostoli a seguire il Salvatore, dopo aver abbandonato ogni cosa… Meditando su queste cose entrò in chiesa proprio mentre si leggeva il vangelo e sentì che il Signore aveva detto a quel ricco: “Se vuoi essere perfetto, va’ vendi quello che possiedi, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi e avrai un tesoro nei cieli” (Mt 19,21).
    Allora Antonio, come se quelle parole fossero state lette proprio per lui, uscì subito dalla chiesa, diede in dono agli abitanti del paese le proprietà che aveva ereditato dalla sua famiglia…
    Partecipando un’altra volta all’assemblea liturgica, sentì le parole che il Signore dice nel vangelo: “Non vi angustiate per il domani” (Mt 6,34). Non potendo resistere più a lungo, uscì di nuovo e donò anche ciò che gli era rimasto… Egli lavorava con le proprie mani: infatti aveva sentito proclamare: “Chi non vuol lavorare, neppure mangi” (2Ts 3,10). Con una parte del denaro guadagnato comperava il pane per sé, mentre il resto lo donava ai poveri… Era così attento alla lettura che non gli sfuggiva nulla di quanto era scritto, ma conservava nell’animo ogni cosa al punto che la memoria finì per sostituire i libri. Tutti gli abitanti del paese e gli uomini giusti, scorgendo un tale uomo lo chiamavano amico di Dio e alcuni lo amavano come un figlio, altri come un fratello (dalla “Vita di s. Antonio” scritta da s. Atanasio, vescovo).
    Antonio aveva capito che era Cristo che parlava, e parlava a lui, e voleva da lui la risposta quel giorno.
    Voi capite che cosa accadrebbe nelle nostre giornate, se vivessimo così la liturgia della Parola! È il Risorto vivente che è lì, e quelle cose le dice a me! Quelle cose che ha detto, le vuole da me, oggi! Allora la vita si rovescia, si converte. “Dire di sì al Signore che parla è essere salvati” (s. Bernardo).
    Poi c’è la seconda parte della celebrazione: la liturgia eucaristica. Il segno è un banchetto che esprime la comunione con Cristo e con i fratelli. Il rito conviviale è accompagnato da una grande azione di grazie, da cui deriva il nome di tutta la celebrazione: eucaristia.
    “Rendiamo grazie al Signore nostro Dio” non è solo un ringraziare. È anzitutto uno sguardo contemplativo fissato su una persona, Cristo, con tutto quello che ha fatto. È spalancare gli occhi, ammirare e sentirsi il cuore riempito di gioia. Poi è lodare e dire: “Signore, quanto sei grande! Quanto sono mirabili le tue opere! Cosa potevi fare di più per noi?”. È un invito a fare di tutta la vita un canto e dare, nella preghiera, la prevalenza alla lode.
    Ogni cristiano deve essere un contemplativo, cioè uno che sa spalancare lo sguardo sulle cose meravigliose che Dio ha fatto, sa stupirsene e, pieno di gioia, sa cantare. Il credente canta perché ha bisogno di cantare.
    Ha bisogno di cantare perché la lode è al centro della sua preghiera. “Il cantare è l’atteggiamento tipico di chi ama, dell’innamorato: cantare amantis est” (s. Agostino). Si canta e si loda sempre, in ogni circostanza, in ogni luogo e si rende grazie di tutto. Questo atteggiamento ricco e molteplice è riassunto nel termine liturgico “rendere grazie”. Si è scelta una espressione fuori uso per conservare tutta la ricchezza originale che significa molto di più del nostro ringraziare.
    S. Agostino chiama l’Eucaristia “il sacramento della memoria”. Che cos’è questa memoria? È la rievocazione di tutta l’opera della salvezza. Se uno ci chiedesse: “Perché andate a Messa?”, la risposta dovrebbe essere questa: “Per ricordare che Cristo ha donato la vita per noi e la dona in questa Eucaristia…”. La dona al presente. Infatti questa memoria è di tipo particolare. Non è un puro ricordo psicologico; è una memoria che rende presente la cosa ricordandola: è una memoria efficace. Questa stupenda storia di salvezza, nell’atto in cui la ricordiamo, diventa reale. Ricordiamo nuovamente il momento culminante della Messa: “Prese il pane, lo spezzò… Prese il calice…” Sembra che sia solo il racconto di una storia passata. In realtà, mentre la storia viene raccontata, diventa vera, perché è Lui che prende il pane ancora nelle mani, lo spezza e lo dona a noi.
    La vita spirituale è fatta soprattutto di memoria. Non si tratta tanto di capire. Capire è il primo passo. Si tratta di ricordare. Questo ha un peso enorme nella vita spirituale. Questa memoria eucaristica è efficace non solo nel pane e nel vino nei quali produce la presenza di Cristo, ma efficace nelle mie giornate. Bisogna prolungare nella giornata ciò che abbiamo celebrato nella Messa. Quella memoria deve passare dall’ambito della celebrazione a quello della vita.
    Nella Messa offriamo al Padre il Cristo presente e insieme con Lui offriamo anche noi. La Messa è una scuola nella quale si impara ad offrirsi: offrirsi a Dio in chiesa e al fratello nella vita.
    Nella Messa si prega, si intercede per tutti, per la Chiesa e per il mondo. Bisogna che impariamo a pregare sempre così, a dare alla nostra preghiera una dimensione cattolica. “Non trascura nessuno chi prega per tutti” (s. Agostino). Allarghiamo il respiro della nostra preghiera perché non diventi bolsa. Bisogna avere la mente e il cuore aperti alle grandi intenzioni ecclesiali: questo ci aiuta a dare respiro cattolico alla nostra preghiera. La nostra comunità locale non deve diventare un ghetto, ma una scuola di universalità ecclesiale.
    Il momento della comunione è la conclusione di tutta la vicenda eucaristica. L’Eucaristia è una cena: “Beati gli invitati alla cena del Signore”. Fare la comunione non è soltanto accogliere dentro di noi il Signore che ci fa visita.
    Fare la comunione è inserirsi nel mistero che c’è in quel banchetto. In quel banchetto c’è la croce e la risurrezione di Cristo, il Cristo morto e risorto. Fare la comunione significa inserirsi in questo dramma. Ciò è molto impegnativo! Accogliere una visita, dopo tutto, non esige molto: basta fare un po’ di pulizia e mettere un mazzo di fiori sul tavolo. Ma essere inseriti nella Pasqua è un’altra cosa. È la solidarietà totale con Cristo: egli viene in me per ripetere dentro di me e con me quello che ha fatto sul Calvario. Bisogna essere disponibili a morire con Lui per risorgere con Lui. Immergiamo in Lui il nostro morire quotidiano perché diventi vita, Pasqua di risurrezione.
    Nella Messa trova il suo massimo rilievo la tensione escatologica: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione nell’attesa della tua venuta”.
    “Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini” (Conc. Vat. II, SC n. 8). Rinnovare la cena del Signore “nell’attesa della sua venuta” è un’attitudine di vigilanza, di gioiosa aspettativa, di pregustamento delle realtà celesti, di intima comunione con l’assemblea dei santi in cielo, raccolta intorno al Cristo.
    Nella liturgia della festa di tutti i santi rendiamo grazie a Dio dicendo: “Oggi ci dai la gioia di contemplare la città del cielo, la santa Gerusalemme che è nostra madre, dove l’assemblea festosa dei nostri fratelli glorifica in eterno il tuo nome. Verso la patria comune noi, pellegrini sulla terra, affrettiamo nella speranza il nostro cammino…” Questa tensione verso la santa Gerusalemme del cielo è molto decelerata o addirittura volutamente frenata: non vorremmo arrivare mai!
    È urgente ricuperare, al livello concreto della vita, questo valore cristiano. L’attesa della venuta del Signore era vivissima nella prima generazione cristiana.
    La celebrazione della Messa deve diventare una veglia di attesa e di speranza. I due eventi entro cui si muove l’esistenza cristiana sono la risurrezione di Cristo e il suo ritorno alla fine dei tempi (la parusia).
    L’Eucaristia viene a collocarsi su questa linea continua che va dal mistero pasquale di Cristo alla parusia.
    I primi cristiani hanno l’esperienza di una presenza viva del Risorto, nel momento in cui la comunità celebra la Messa. Egli viene nel seno della comunità riunita. Si stringono attorno al Risorto invisibilmente presente, in attesa di contemplarlo a viso scoperto nella gloria del suo avvento.
    Da questa presenza attuale, sperimentata nel mistero, sgorga la gioia (At 2,46).
    Colui che viene nella Chiesa riunita per spezzare il pane è quello stesso che tornerà nella parusia per compiere ogni cosa. Questa presenza misteriosa costituisce un ponte fra le due sponde della Chiesa: quella pellegrina e quella della Patria.
    Per rinnovare lo spirito e il clima della celebrazione dobbiamo rituffarci nel clima della celebrazione primitiva, quella della Chiesa nascente, esuberante di energie, carica di tensione spirituale, stimolata dal ricordo vivo della presenza del Signore. Riusciremo forse a eliminare le nostre stanchezze e a desiderare con lo stesso ardore la venuta del Signore. Sentiremo come loro di essere inseriti in una storia che sbocca nell’eternità e ci lasceremo trascinare dal suo movimento.
    È quello che ci chiede il Signore attraverso un testo del canone ambrosiano: “Ogni volta che farete questo lo farete in memoria di me: predicherete la mia morte, annunzierete la mia risurrezione, attenderete con fiducia il mio ritorno, finché di nuovo verrò a voi dal cielo”.
    L’Eucaristia è il cuore della Chiesa e la pupilla dei suoi occhi. Deve diventare il cuore della vita di ogni fedele e di ogni comunità: tutto lo sforzo ascetico, tutte le attività di apostolato devono confluire lì, e da lì attingere la loro ispirazione e la loro energia conquistatrice.
    Ogni domenica deve vedere radunata intorno all’altare una vera famiglia di figli di Dio, consapevole di costituire “un popolo di sacerdoti”, intelligentemente attiva con l’anima e con il corpo “per attingere il vero spirito cristiano dalla sua prima e indispensabile fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa” (S. Pio X, 22/11/1903).

  • 23 Feb

    SCOPRIRE LA VOLONTA’ DI DIO

    p. Jean Lafrance s.j.

    Questi tre capitoli sono estratti dall’importante opera del padre: Prega il Padre tuo nel segreto.

    a cura dei monaci della Abbazia Nostra Signora della Trinità – Morfasso (PC) Italia

    Prega per scoprire la volontà di Dio su di te
    senza possibili illusioni.
    Poi rimani disponibile e abbandonato
    tra le mani del Padre.

    Hai sentito la chiamata a seguire Gesù e hai accettato consapevolmente il rischio dell’amore, servendolo nella totale povertà e umiltà. Come Paolo vuoi la vera sapienza: « Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso » (1 Cor 2, 2). È normale che tu viva in te una grande lotta tra questo desiderio di amare veramente il Cristo e quello di compiere invece la tua volontà. Solo lo Spirito Santo può purificare il tuo cuore, al punto di disporlo davanti a Dio a compiere la sua volontà.

    Nella tua vita, tutto si riduce – in definitiva – a scoprire questa volontà di Dio, e a compierla: « Non sono coloro che dicono: Signore, Signore, che entreranno nel Regno, ma coloro che fanno la volontà di mio Padre ». In definitiva tu desideri accostarti al Cristo più da vicino nella sua totale povertà, ma non sai con esattezza quale forma particolare di povertà il Cristo voglia da te. Tutto quanto è buono e perfetto in sé, non lo è necessariamente per te. Tu aspetti dunque nella preghiera assidua che Dio ti riveli quello che in te fa ostacolo al dono totale e vero. L’importante non è quello che tu decidi di abbandonare per Dio, ma quello che egli vuole che tu abbandoni per lui.

    È qui che le illusioni possono insinuarsi nelle tue migliori intenzioni. Ti può capitare di pensare che il meglio per te è il più difficile: quello che importa, in realtà, non è il fatto che un distacco o una attività ti ripugni o ti piaccia, ma che esiga maggior amore. Se, dopo aver pregato lungamente, intravedi quest’opera nella pace e nella fiducia, come una volontà di Dio per te, è un segno chiaro che Dio ti chiama a rispondervi generosamente. Sta certo che se preghi nella verità e lasci tempo al tempo – che è un fattore di primaria importanza per una decisione – Dio ti farà vedere quello che si aspetta da te.

    È il momento di metterti di fronte all’opera dello Spirito Santo in te. Guarda semplicemente i doni ricevuti da Dio nelle differenti tappe della tua vita, le chiamate ricevute attraverso gli avvenimenti e le persone. Cerca di scoprire la vocazione che Dio traccia in te e che deve stagliarsi come un crinale sull’orizzonte. Ogni uomo porta nell’anima un mistero, il suo proprio mistero, che è quello del suo nome particolare. Tutta la sua angoscia su questa terra è di individuarlo. Solo il Cristo può rivelare all’uomo il mistero del suo nome, lui che, nel suo cuore di Figlio di Dio, è aperto eternamente all’essere, al cuore del Padre.

    E insieme guarda se sei stato fedele a questa chiamata di Dio. Molto spesso hai utilizzato questi doni per servire le tue vedute personali, anche se di per sé buone. La vocazione che intravedi è un dono di Dio, o una costruzione che dipende da te? Quante illusioni nei tuoi desideri di santità e nelle tue attività al servizio degli altri!

    Attento a non abbandonarti ad analisi psicologiche e ancor meno a considerazioni razionali, ma làsciati interpellare nel cuore del tuo essere. Proprio tu sei rimesso in causa da questa volontà di Dio. Da ciò deriva la necessità di una preghiera intensa e prolungata, per vedere te stesso con lo sguardo dello Spirito Santo. Ripeti a Cristo il tuo desiderio di non essere più che una sola cosa con la volontà di Dio. Solo la preghiera può purificare le tue motivazioni profonde e fare apparire in piena luce le intenzioni del tuo cuore.

    Non ti stupire, allora, se fai l’esperienza della tua grande povertà che ti riduce a essere malleabile e duttile tra le mani di Dio. Sei un po’ di terra nel cavo della mano di Dio e chiedi al soffio dello Spirito di venire a modellarti a immagine del Figlio. È una situazione non comoda, poiché non si tratta più di decidere da te solo di evitare una determinata cosa o di intraprenderne un’altra, ma di lasciarti puramente e semplicemente lavorare da Dio.

    Tu ti abbandoni tra le mani di Dio in una totale indifferenza. È la disponibilità fondamentale quella che assicura la concordanza della tua vita di uomo con il disegno di Dio. In fondo, tu accetti di abbandonare tutto per seguire il Cristo, ma ti rifiuti di decidere da te solo: metti la tua forza nel non volere né un bene né un altro, se non ti muove il solo servizio di Dio nostro Signore (cfr Esercizi Spirituali di S. Ignazio. n. 155).

    Di tali esseri, spossessati di sé, Dio può fare dei santi. Per arrivare a una tale disposizione che è difficile, perché tocca le radici stesse della libertà, è evidente che l’orazione è più necessaria che mai. Soltanto il Cristo può venire ad insegnarti e a darti la forza di offrirti così a Dio nel più grande sacrificio. Lui stesso ti ha aperto la strada con la sua Pasqua. Ripeti spesso la preghiera di abbandono del padre de Foucauld: « Padre mio, mi abbandono a te, fa’ di me quello che vuoi. Qualunque cosa tu faccia di me, ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto ».

    Lascia riposare il tuo cuore nella pace di Dio e vedrai
    apparire la sua volontà chiara e precisa su di te.

    Quando un’acqua è torbida, bisogna solo lasciarla riposare sotto la calda luminosità del sole, perché le impurità si depositino nel fondo e l’acqua pura appaia in superficie. La stessa cosa avviene per la tua vita cristiana, che si purifica a poco a poco, nella preghiera, sotto lo sguardo di Dio. Se sei fedele a vivere sotto la luce dell’Evangelo, le intenzioni profonde del tuo cuore si chiariscono e tu intravedi quello che è di ostacolo all’azione di Dio in te. Nello stesso tempo, lo Spirito Santo inclinerà il tuo cuore verso questa o quella forma di povertà per meglio orientare la tua vita nel senso della volontà di Dio. Imparerai soprattutto ad esser qui, davanti a Dio, per lui solo. Quando lavori, o quando riposi, agisci troppo spesso per un fine, e dimentichi quale meraviglia sia esistere, semplicemente esistere, senza pensare ad altro. La preghiera ti fa esistere davanti a Dio. Essa ti fa raggiungere questo fondo del cuore, più profondo di ogni desiderio, di ogni pensiero, di ogni immagine e di ogni azione. Così, tu sei solo con te, alle origini del tuo essere, là dove la tua anima è uscita dalle mani del Creatore. Tu sei solo con l’Assoluto, solo della solitudine del Solo.

    Ecco, dunque, la differenza che esiste tra questa scelta spirituale compiuta nella luce dello Spirito, e le decisioni morali che tu prendi per cambiare la tua vita sul piano umano. Per esempio, può accadere che tu decida di lottare contro un certo difetto, di darti maggiormente alla preghiera o d’intraprendere un certo atto di ascesi per meglio servire Dio. Non puoi trascurare questo lavoro di perfezionamento se vuoi divenire un uomo libero, ma esso ha i suoi limiti e soprattutto rimane su un piano umano. Per di più, lo puoi fare all’infuori della preghiera, con l’aiuto di qualcuno che ti conosce bene, per esempio. Se chiedi ai tuoi amici che cosa ti rimproverano, capirai quello che bisogna cambiare nella tua vita.

    La scelta spirituale che qui sei invitato a realizzare, si situa sul piano della vita teologale. Si tratta di scoprire la volontà precisa di Dio su di te in un dato momento della tua vita per darle un orientamento. Non puoi dunque fidarti solo dei lumi della tua ragione e delle risorse della tua volontà, ma hai bisogno di una rivelazione superiore dello Spirito, per comprendere i disegni d’amore di Dio a tuo riguardo. La preghiera continua, la contemplazione dell’Evangelo purificano il tuo cuore, invitandoti così ad abbandonare a Dio il fondo del tuo essere.

    In principio vi è la certezza che lo Spirito Santo vuole realizzare in te qualche cosa che non ti è possibile definire anticipatamente; di solito vai alla preghiera con dei problemi precisi, per i quali vuoi delle soluzioni immediate, ottenute con l’analisi o con la decisione. Tu non puoi allora scoprire la volontà di Dio, che esige un’assenza di premesse e l’oblio di quello che sei o di quello che fai. Lascia dunque i tuoi problemi fuori della porta, e apriti a Dio per sottoporti a una presenza attiva dello Spirito che vuole la tua realizzazione. Il tuo essere non sei tu a costruirlo, ma lo ricevi da Dio. Solo così potrai percepire una volontà personale e attuale di Dio: riconoscendo e accettando te stesso.

    L’orazione diventa il luogo del passaggio dello Spirito, e lasci cadere a poco a poco le tue difese e le tue sicurezze. Solo partendo da zero puoi ritrovare il tuo essere profondo e divenire un adulto libero e non un personaggio. L’orazione facilita questa evoluzione, facendoti salire ad un altro livello, che non è quello delle tue preoccupazioni attuali. Allora non vi sono più problemi o dualismi, ma un assumere personalmente e coscientemente la tua vita per darla al Cristo, accettando, senza illusioni, le esigenze dell’amore.

    Per queste ragioni, la volontà di Dio non prende abitualmente delle andature straordinarie o sensazionali. Dio lavora nella trama stessa della tua esistenza; è dunque a livello della tua vita quotidiana che si farà palese la sua volontà. Egli ti chiede soprattutto di accettare in piena lucidità il tuo essere di uomo con i suoi limiti e le sue deficienze, per mezzo delle quali ti purifica.

    Continua a pregare rilevando nella tua vita le chiamate precise e i desideri che lo Spirito ti suggerisce; è sempre per mezzo delle tue aspirazioni profonde che Egli ti parla e ti fa scoprire la volontà di Dio. E poi cerca di tradurre concretamente in quale modo vuoi realizzare questa scelta, se occorre prendendo degli appunti. Può succedere che tu metta il punto finale a questa ricerca riassumendola in una parola dell’Evangelo.

    In ogni caso, se hai scelto secondo Dio, tu proverai in te stesso una grande gioia. La pace e la gioia sono sempre i segni dell’azione di Dio in te, anche quando questa gioia esige da te un sacrificio reale. Un poco alla volta si formerà in te quello spirito di discernimento spirituale che ti farà « sentire » la volontà di Dio in tutti gli avvenimenti della vita.

    Dio non ti abbandona al solo lume della tua ragione
    quando ti chiama a fare una scelta spirituale.
    È nella preghiera che tu vedrai delinearsi la sua volontà.

    Sei qui ormai al centro della vita cristiana, perché tutto si riduce in definitiva, nella tua esistenza di uomo, a scoprire la volontà di Dio e a compierla. Ma se ti è facile discernere questa volontà attraverso i comandamenti, tu dubiti spesso di riuscire a scoprire quello che Dio si aspetta da te, in particolare nella tua situazione attuale. Più progredirai nella vita cristiana autentica e più dovrai fare delle scelte che dipendono unicamente dalla tua coscienza, illuminata dallo Spirito e dalla legge delle Beatitudini, senza poterti riferire né a un codice, né ad un maestro che sembri sapere o detenere la verità. Che si tratti di un impegno politico, di uno stato di vita, di un approfondimento della tua preghiera o di qualche altra decisione che orienti la tua vita, non puoi fare a meno di una scelta onerosa che impegni la tua libertà e la tua fedeltà. Tuttavia, non sarebbe credere in Dio e nella sua Provvidenza il pensarlo capace di abbandonarti a te stesso nelle decisioni della tua vita.

    Se vuoi conoscere la volontà di Dio, la condizione sine qua non è di renderti disponibile, ossia, di fronte ad una scelta da fare, di non voler preferire l’una opzione o l’altra, di abbandonare ogni pregiudizio che impedisca a Dio di farti sapere in quale senso vuole che t’impegni. In una parola, non devi avere alcuna idea in proposito, e devi accettare di entrare nelle vedute di un altro, che sconcertano sempre le tue.

    Questa è certo la disposizione fondamentale per operare una scelta secondo Dio. Ma forse tu ti poni una domanda: come fare a renderti disponibile, se non lo sei? Diciamo così: che devi fermarti, guardarti oggettivamente e interpellare il tuo giudizio critico; questi atteggiamenti si vivono sotto lo sguardo dì Dio, nella preghiera, per scoprire le resistenze alla sua volontà.

    Può accadere che con una tale preghiera Dio ti mostri chiaramente quello che si aspetta da te, ma non è sua abitudine: egli preferisce parlarti con i segni. Non considerare troppo presto le tue buone intenzioni come volontà di Dio. Un mezzo per scoprire questa volontà è analizzare i vari dati e le componenti della scelta, gli argomenti in un senso o nell’altro, come si usa esaminare prima di ogni decisione. Se fai questo sotto lo sguardo di Dio, vedrai le ragioni pro o contro ordinarsi secondo dei criteri spirituali, per esempio seguire il Cristo nella via delle Beatitudini; oppure vedrai apparire i motivi umani o egoistici, poiché il discernimento spirituale si riferisce anche a criteri oggettivi: la sapienza della Croce e delle Beatitudini enunciata da Cristo nell’Evangelo. Da una parte, le ragioni saranno chiare, forti, certe; dall’altra, senza valore, inconsistenti, torbide o dubbie. Dio non sembra avere risposto direttamente alla tua domanda, ma in realtà l’ha fatto, illuminando e guidando la tua intelligenza o il tuo cuore.

    Vi è anche un’altra maniera per scoprire questa volontà: quella d’interrogare la tua affettività profonda. Se sei nella pace duratura, e nella vera gioia, puoi dire che i progetti che accompagnano i tuoi sentimenti interiori sono volontà di Dio perché lo Spirito Santo agisce sempre nella gioia, nella pace e nella dolcezza. Se, al contrario, sei nella tristezza, nello scoraggiamento e nell’irrequietezza, puoi supporre che il progetto concepito è probabilmente ispirato dalla carne o dallo spirito del male.

    In questo campo, ciò che sembra essenziale è la durata e la qualità del desiderio. Non puoi avere nessuna certezza se ti affidi al sentimento di un solo istante. Al contrario, se durante un periodo più o meno lungo, una determinata decisione è sempre accompagnata dalla gioia e il suo contrario dalla tristezza, vi è ragione di credere che sia Dio a mandarti la consolazione dello Spirito e a suggerirti di compiere l’azione corrispondente. Vi è poi l’atto di libertà che ti fa prendere questa decisione per Gesù Cristo. Molto spesso è dopo questa libera opzione che la pace si stabilisce in te. L’esperienza di consolazione o di desolazione che segue la scelta, confermerà la scelta stessa e ti indicherà chiaramente se sei nella volontà di Dio.

    A poco a poco, riuscirai a compiere delle scelte veramente spirituali, interpretando in modo sempre più chiaro i segni di Dio, sia che si tratti di grandi decisioni che impegnano la tua esistenza, o semplicemente delle scelte riguardanti la tua vita quotidiana. D’altronde, questa educazione della tua libertà dovrà proseguire per tutta la vita, e più sarai fedele a rispondere alle sollecitazioni dello Spirito, meglio scoprirai quello che ti viene domandato.

    Per concludere questa meditazione, puoi rileggere nel primo libro di Samuele (3,1-21) la chiamata di Dio a Samuele; capirai come Dio parla agli uomini per indicare loro la sua volontà. Samuele vive nel tempio, è al servizio di Eli e lo aiuta nel culto, ma non è ancora in relazione intima con Jahvè, ossia non ha ancora percepito la parola personale e originale che Dio gli rivolge: « Samuele fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore » (1 Sam 3,7). Tu rassomigli a Samuele finché non hai percepito la volontà personale di Dio su di te. Come il giovanetto, ciò che devi fare tu lo chiedi al gran sacerdote Eli oppure a leggi scritte.

    Ma osserva la pedagogia divina. Jahvè comincia col chiamare tre volte per nome il giovanetto: « Samuele! Samuele! Samuele! ». Si tratta proprio di una chiamata personale, di una volontà precisa che vuol fargli udire. Contempla anche la disponibilità di Samuele, che alla minima chiamata si mette alla ricerca della volontà di Dio. Sei sensibile ai più lievi tocchi dello Spirito, che ti fa segno attraverso avvenimenti apparentemente banali?

    Samuele va a trovare il sommo sacerdote; questi non ha per missione di rivelargli la volontà di Dio, non la conosce, ma lo mette semplicemente in contatto con la parola di Dio. Così nella tua vita, tu interroghi il tuo padre spirituale che è in assiduo ascolto della voce di Dio e gli chiedi di aiutarti a metterti in comunicazione con essa. Solo lo Spirito può parlare al tuo cuore, ma la guida spirituale c’è proprio per aiutarti a verificare l’autenticità della sua chiamata.

    Samuele è pronto ad ascoltare la voce di Dio, poiché si è stabilito in una profonda disponibilità, e vuole ormai una cosa sola, al di là di qualsiasi preferenza: la volontà di Jahvè. Quando sei chiamato a fare una scelta secondo lo Spirito, ripeti spesso nella preghiera la parola del giovane Samuele: « Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta » (1 Sam 3,9). Allora il Signore ti rivelerà i suoi profondi segreti e, come Samuele, « tu non lascerai andare a vuoto una sola delle sue parole » (1 Sam 3,19). Comincerai allora a diventare l’uomo spirituale – di cui parla san Paolo – che penetra i segreti di Dio perché lo Spirito Santo lo ha pervaso.

    * * *

  • 23 Feb

    L’aridità spirituale

    Matta el Meskin


    Alla preghiera si frappongono ostacoli diversi per i princi­pianti e per coloro che hanno acquisito una certa esperienza.

    Quelli per i principianti sono dovuti prevalentemente alla mancanza d’abitudine alla preghiera. Consistono nella disper­sione e nel vagabondaggio del pensiero in cose che continuano a interessarli più di Dio, nell’irregolarità dei tempi dedicati al­la preghiera, nelle lamentele perché non comprendono le pa­role della preghiera, siano quelle dei salmi o di altri libri della Scrittura.

    In questa parte ci limiteremo a considerare gli ostacoli che si frappongono alla preghiera in coloro che vivo­no una vita di preghiera e la praticano con un certo successo. È bene tuttavia notare fin dall’inizio che le nostre preghiere possono spesso essere impedite dall’indebolimento del corpo e dalla perdita di vitalità a causa di uno stato di malattia simile all’anemia, o di un calo di energia nervosa dopo uno sforzo intel­lettuale, una depressione, un digiuno eccessivo, disordini di ti­po fisico, eccesso nei lavori manuali o intellettuali. Su tutto ciò è necessario avere un buon discernimento o ricorrere a un con­sigliere spirituale esperto che sappia scoprire tali cause e porvi immediatamente rimedio per evitare che l’angoscia psicologica della persona e il suo sentimento di colpa non si aggravino e non ceda alla disperazione, mentre lo shock, di fatto, non ha altre cause se non le sue malattie fisiche, nervose o psichiche. In real­tà, il suo stato corrisponde alla situazione nella quale Cristo stesso dice ai suoi discepoli distrutti dalla fatica per le veglie, che dormivano mentre avrebbero dovuto pregare: “Lo Spirito è forte, ma la carne è debole” (Mt 26,41).

    I principali ostacoli alla preghiera nei praticanti esperti si con­centrano in tre importanti esperienze ben note: la prima è l’ari­dità spirituale, la seconda la tiepidezza spirituale e la terza la perdita dello scopo della preghiera. […]

    La differenza tra aridità e tiepidezza spirituale è grande. L’a­ridità spirituale è quella difficoltà che l’uomo incontra durante la preghiera senza che gli impedisca di continuare la preghiera, la lettura o le veglie; tuttavia le priva di ogni consolazione, di ogni sapore e di ogni soddisfazione.
    La tiepidezza spirituale riguarda invece l’atto stesso; la pre­ghiera è interrotta e l’uomo perde ogni capacità di proseguire la propria attività spirituale
    ; la lettura diventa penosa, le veglie impossibili e si resta scoraggiati anche dalle pratiche semplici e abituali.

    Nell’aridità spirituale possiamo pregare con facilità e com­prendere il senso della nostra preghiera, la nostra mente è vigile e i nostri sensi ben desti; riusciamo a studiare la parola e a con­centrarci su ciò che leggiamo; tuttavia, siamo costantemente pri­vati di ogni consolazione interiore.

    Nella tiepidezza spirituale, fin dal momento in cui ci alziamo per pregare o ci sediamo per leggere, la nostra mente è distratta e il nostro cuore assente; la preghiera e l’attività spirituale di­ventano non solo estremamente difficili, ma non provocano in noi alcuna eco.


    L’ARIDITÀ SPIRITUALE


    L’aridità è un’esperien­za che riguarda la natura stessa della preghiera, capace, se noi l’accogliamo lucidamente e volentieri, di portarci a un grado su­periore, quello della preghiera pura che non si fonda sui senti­menti, sulle sensazioni e gli incoraggiamenti.

    L’anima che per la prima volta fa l’esperienza dell’aridità spi­rituale si turba profondamente, soprattutto quando la sua ap­plicazione all’adorazione è assidua, devota e fedele. Sconcertata da quel che le accade, ne cerca la ragione frugando tra i propri errori. In realtà, l’aridità spirituale non implica affatto la perdita di qualcosa del nostro buon rapporto con Dio. E’ una tappa impor­tante e necessaria per educare l’anima e prepararla a una vita spirituale progredita che non sia più tributaria di fattori psicolo­gici o di gratificazioni soggettive.
    È, in un certo senso, un cibo un po’ difficile da digerire, ma di grande utilità. Così, se accettiamo di buon grado, con lucidità e pazienza, di sottometterci a quest’esperienza, se le nostre ani­me non illanguidiscono nell’assenza di consolazioni e incorag­giamenti, bensì pongono tutta la loro speranza nella veridicità delle promesse divine, allora quest’esperienza ci farà accedere alla statura di figli perfetti, degni di quell’amore superiore che “non cerca il suo interesse” (1Cor 13,5), non si preoccupa di ri­cevere, ma si accontenta di dare e dì spendersi.

    Se esaminiamo attentamente quest’esperienza, scopriamo che essa non comporta alcun turbamento e non colpisce il cuore con alcuna miseria. L’aridità attiene all’anima nei suoi sentimenti e nelle sue emozioni senza toccare la pace e la calma interiore; si tratta però di una pace priva di calore emotivo, di una calma senza attrattiva né soddisfazione. Per questo l’esperienza dell’aridità è sentita duramente sol­tanto da coloro la cui anima vezzeggiata è stata abituata alle con­solazioni e agli incoraggiamenti, coloro la cui pietà si fonda sul “ricevere” e che considerano prova di progresso spirituale solo le manifestazioni sensibili.

    Il pericolo di questa tappa è che l’uomo, cominciando a dubi­tare e a immaginare che il suo rapporto con Dio sia interrotto, smetta, alla fine, di pregare; al contrario, quest’esperienza, en­tro i limiti che le sono propri – cioè l’aridità spirituale provocata dalla grazia -, permette all’uomo di continuare la preghiera, perché non lo priva della capacità di pregare e di perseverarvi; lo priva unicamente delle consolazioni secondarie sulle quali egli faceva affidamento.
    Se l’uomo cessa la preghiera con il pretesto dell’aridità spiri­tuale e della perdita delle consolazioni, regredisce spiritualmen­te e si espone senza motivo a una prova nefasta e pericolosa, quella della mormorazione contro Dio. Ci si sbaglia quindi se ci si turba quando si attraversa la tappa dell’aridità; come pure è pericoloso smettere di pregare, con la scusa di non trovarvi più soddisfazione.

    L’aridità è un’esperien­za che riguarda la natura stessa della preghiera, capace, se noi l’accogliamo lucidamente e volentieri, di portarci a un grado su­periore, quello della preghiera pura che non si fonda sui senti­menti, sulle sensazioni e gli incoraggiamenti.

    L’uomo potrà avere la sensazione che la grazia apparentemen­te l’abbandoni, che gli basti l’azione interiore e segreta di tale grazia; s’appoggi allora sull’impulso acquisito nella sua vita tra­scorsa con Dio. Se ne accontenterà per attraversare le prime tap­pe di quest’esperienza, finché la sua anima abbia imparato a fis­sarsi in Dio, senza intermediari né incoraggiamenti. Allo stesso modo, nel corso dell’esperienza, colui che cammi­na su questa via si affidi ai consigli di un padre spirituale e ne segua le indicazioni con grande fedeltà. Esse sono, a questo sta­dio, di importanza fondamentale. Ma forse la raccomandazione più importante e più utile è quella di accettare l’aridità spirituale con umiltà, di accettare di essere trattato come l’ultimo degli uomini, inadatto a ricevere le consolazioni e, anche se si dovesse considerare l’aridità come una correzione, un simile atteggia­mento non sarebbe privo di benefici (in realtà però l’aridità non è una correzione, ma un’educazione).

    A chi attraversa questa tappa non serve a niente fermarsi per analizzare la propria situazione, ricercarne motivi e cause e ten­tare di fare piani per uscirne moltiplicando le veglie, le preghiere e i digiuni; è fatica sprecata e rischia di uscire dal campo della grazia. Per contro, quel che di meglio può fare è accettare l’ari­dità e perseverare, attento e ponderato, nella sua opera spirituale non risparmiando i propri sforzi e la propria fatica per prosegui­re la marcia allo stesso ritmo, come il viaggiatore sulle piste del deserto che la scomparsa dei piaceri della città non distoglie dal suo cammino nelle profondità aride del deserto, fino alla fine.

    L’atteggiamento fondamentale in ogni esperienza spirituale è accettarla come tale senza alcuna riserva. L’aridità spirituale è una prova spirituale proposta come tale, come una contingenza ineliminabile della via stretta. Se accettiamo le prove spirituali in genere, non è perché sia­mo spinti dal desiderio di pervenire alla perfezione: ciò compor­terebbe una certa esaltazione dell’io; ci sottomettiamo piuttosto al piano di Dio per compiere la sua volontà; la nostra sottomis­sione a Dio condiziona la nostra comunione con lui, e questa so­la può condurci alla perfezione.


    1. Rapporto tra aridità e volontà


    Dobbiamo distinguere tra l’essenza dell’anima umana e le fa­coltà e reazioni che sono proprie della sua attività. L’anima nel­la sua essenza è ben altro rispetto ai sentimenti che essa genera o che la influenzano. Così pure, l’immaginazione e i pensieri possono svelare uno stato dell’anima, ma non sono l’anima stessa e non sono rappre­sentativi dell’anima; solo la volontà, il libero arbitrio, manifesta l’anima e la rappresenta; perciò l’uomo non è né responsabile né colpevole del proprio immaginario, né dei suoi pensieri, né dei suoi sentimenti in quanto tali, ma è responsabile di quel che la sua volontà manifesta.

    Nel caso dell’aridità spirituale ci rendiamo conto che si tratta di una perdita provvisoria della capacità dell’anima ad accoglie­re le ineffabili consolazioni e gli incoraggiamenti spirituali che riceveva dalla grazia per mezzo dell’immaginario, del pensiero e del sentimento. Ma l’anima, in quanto tale, non cessa, nel tem­po dell’aridità, di desiderare ardentemente e di aspirare con la sua volontà a ricevere consolazioni e incoraggiamenti. L’aridità spirituale rimane pertanto una prova esteriore alla volontà.

    Questa verità è estremamente importante, perché libera l’uo­mo da una responsabilità fittizia che la sua coscienza tenta d’at­tribuirgli a causa della sospensione di consolazione e di soddi­sfazione interiore nel tempo della prova dell’aridità spirituale.

    Ne deriva che l’adesione dell’anima alla preghiera (rappresen­tata dalla sua volontà) può rimanere intatta nonostante lo stato di aridità, poiché tale stato, fondamentalmente, non intacca la volontà. In altri termini, malgrado la persistenza dell’aridità spirituale, la preghiera può essere perseguita con tutta la propria forza e tutta la propria energia.

    La perseveranza nella preghiera senza il sostegno delle conso­lazioni e degli incoraggiamenti affettivi che provenivano dall’immaginazione, dai sentimenti e dai pensieri, è l’obiettivo principale di questa prova che la grazia dispone sul cammino spirituale dell’uomo. Questi è così condotto a disfarsi dei legami che l’uniscono al sensibile, alle emozioni umane e alle rappre­sentazioni intellettuali e che impediscono all’anima di avere un contatto diretto con Dio. L’anima non può stabilirsi definitiva­mente in Dio finché l’attività affettiva, immaginativa o intellet­tuale può ancora prendersi gioco di lei.

    Nel momento stesso in cui la preghiera si libera di tali lega­mi, supera la soglia della preghiera pura. Più niente può separare da Dio l’uomo che raggiunge tale soglia, perché l’essenza stes­sa dell’anima si sarà allora profondamente stabilita in Dio, sen­za interferenze esteriori. Essa può allora, durante la preghiera, estendere il proprio sguardo su Dio senza ostacoli e senza simu­lazioni esteriori.

    Risulta così evidente che l’aridità spirituale è un’esperienza che la grazia dispone sul cammino dell’anima per aumentarne la capacità di concentrare lo sguardo direttamente su Dio, sospen­dendo tutte le altre visioni parziali, in particolare consolazio­ni, soddisfazioni e incoraggiamenti che disperdono lo sguardo spirituale.

    2. L’aridità, occasione di perniciosa dissipazione del pensiero

    Tra i pericoli dell’aridità, quello dell’allontanamento delle fa­coltà intellettuali e immaginative dalla sorveglianza spirituale non è tra i minori. L’avversario può captarle per precipitarle da tutta la loro altezza e indurle a errare nei pensieri del male e nel­le evocazioni perniciose che, prima, nemmeno si presentavano allo spirito. L’arresto delle consolazioni con cui la grazia nutriva le facoltà dell’anima, quali l’immaginazione, il pensiero e il sen­timento, dà all’avversario l’occasione di proporre loro il suo fu­nesto nutrimento.

    Così, nella fase dell’aridità spirituale, il pensiero dell’uomo rischia di dissiparsi, senza che egli se ne curi, in continue rap­presentazioni malsane, che si succedono fino a portare l’anima al massimo dell’umiliazione. E’ a quel punto che dobbiamo pre­stare la massima attenzione al ruolo della volontà. Finché la vo­lontà non accetta questa dissipazione, non vi si accorda e non la sostiene, finché manifesta davanti a Dio, nella preghiera, il suo rifiuto, la sua tristezza e le sue proteste, la preghiera resta pura senza che la dissipazione del pensiero e dell’immaginazione pos­sa intaccarla.

    Al di là di ogni considerazione, il primo e l’ultimo responsabi­le della purezza della preghiera è la volontà. Il potere della volontà di perseverare nel rifiuto delle rappre­sentazioni e dei pensieri vani e la sua determinazione a prose­guire la lotta, qualunque sia la durata della prova, sono, in defi­nitiva, le sole che possono mettervi fine. Ciò che dobbiamo credere con fiducia totale è il fatto che Dio non ci chiederà mai di render conto del male che ci attraversa il pensiero o l’immaginazione, finché questo male non ha il nostro consenso e la nostra adesione, e a condizione di confermare que­sto rifiuto con la preghiera costante. Se la volontà persiste nella sua protesta senza deporre le armi e senza che l’intenzione abdi­chi, allora ogni tortura che l’avversario infliggerà al pensiero e alla coscienza ci sarà contato, alla fine, come un’offerta pura. Finché la volontà rimane vigilante, vigorosa e alimentata dalla preghiera il pericolo di abituarsi a rappresentazioni e dissipazio­ni perniciose a causa della durata della prova, non è da temere; perché, quando Dio accondiscenderà a stringere tra le sue brac­cia l’anima liberata dal suo egoismo e dalla sua sensibilità emoti­va, la guerra cesserà definitivamente, in un istante. Quanto a sapere perché Dio permette all’avversario di tor­turare così il pensiero e la coscienza dell’uomo con una durez­za che alcuni santi hanno paragonato a quella dell’inferno, la ri­sposta è nella nostra natura corrotta dal peccato e divenuta un bersaglio per il male. Se alla nostra mente non fosse stata data la libertà d’immaginare e di pensare il male, fosse anche per una volta soltanto, l’avversario non avrebbe mai potuto costringerla a farlo. Se quindi Dio sembra lasciarci gustare per un istante l’ama­rezza del potere di Satana, ciò è ben meritato, ma è vero anche che Dio non può abbandonarci e, al momento opportuno, inter­viene e trasforma tutto il male che subiamo in fattore di forza, di salvezza e di gloria. Quando i nostri sentimenti, i nostri pensieri e le nostre rap­presentazioni saranno fusi nel crogiolo dell’aridità spirituale, sa­remo atti a superare infine la soglia della purezza che ci permet­terà di vivere con Dio.

  • 23 Feb

    L’eucaristia ricapitola tutto

    padre Attilio Franco Fabris

    L’eucaristia è la ricapitolazione di tutto. È l’unità di Dio e dell’uomo nel Cristo: del passato, del presente e del futuro; della natura e della storia, dell’accoglienza e del dono, della morte e della vita.

    Unione a Cristo che si dà in nutrimento

    L’eucaristia è il sacramento di Cristo che si dà in nutrimento agli uomini per trasformarli in se stesso e costituire così il suo corpo mistico che è la Chiesa. Il progetto fondamentale di Dio è unire a sé tutti gli uomini nell’amore e far loro condividere la sua stessa vita. Dio ha condiviso la nostra umanità perché noi possiamo condividere la sua divinità. In altre parole, la nostra umanità è finalizzata alla nostra divinizzazione, la creazione è per l’alleanza.

    L’alleanza è infatti la realtà principale della Bibbia con le sue varie tappe da Noè fino a Gesù Cristo, che consacra il calice della nuova ed eterna alleanza. Questa alleanza non è un’unione giuridica ma un’unione d’amore. Ecco perché da un capo all’altro della Bibbia circola il simbolismo del matrimonio. E la tradizione ha sempre unito in modo molto stretto il sacramento del matrimonio al sacramento dell’eucaristia.

    Dio crea l’umanità per sposarla, e la sposa incarnandosi. La sposa nel senso più forte, cioè diventa con l’umanità una sola carne. Dio vuole essere con l’umanità intera una sola carne: questo è il segno ultimo delle cose. Sappiamo che il voto supremo dell’amore matrimoniale è la fusione senza confusione, nella quale ognuno vuole continuare a sussistere solo per lasciarsi consumare dall’altro, diventando – in certo senso – il suo nutrimento, la carne della sua carne.

    Il simbolismo del bacio è molto eloquente: è l’inizio del gesto di mangiare. Si vorrebbe mangiare l’altro e lasciarsi mangiare da lui per essere carne della sua carne. L’uomo e la donna non riescono a realizzare il voto del loro amore perché i loro corpi – strumenti della loro unione – sono nello stesso tempo anche ostacolo all’amore totale. Il loro voto non si compie perché comporta una morte alla natura e alla storia. Bisogna morire a questa natura che ci fa rimanere esterni gli uni agli altri, tanto che anche i momenti di unione più intima non sono la fusione veramente totale e durano solo un istante. Diventare veramente la carne dell’altro, di colui che amo, implica la morte. In questa vita il voto profondo dell’amore non è mai realizzato in pienezza.

    Entrare nell’amore significa entrare nella gioia, ma anche nella sofferenza: è l’inevitabile sofferenza dell’incompiutezza dell’amore. Il voto supremo dell’amore non può essere esaudito sul piano dell’esistenza naturale; la natura dell’uomo vi si oppone.

    Cristo è morto al mondo delle limitazioni corporali senza cessare di essere per l’umanità lo sposo che si dona. Per questo al di là della morte porta a compimento il voto supremo dell’amore. Cristo che muore e risorge si fa lui stesso nutrimento per diventare veramente la carne dell’umanità, molto più radicalmente di quanto possa fare un abbraccio che unisce due corpi solo per un istante. Dio, nell’eucaristia, sposa veramente l’uomo. Alla base del mistero eucaristico c’è questa idea di nutrimento: è assolutamente essenziale. L’eucaristia non è quindi solo un pasto che si prende insieme e in cui ci si unisce gli uni con gli altri. È soprattutto l’unione di ciascuno a Cristo che si offre in nutrimento. E solo di conseguenza Cristo unisce tra loro quanti si comunicano. La realtà più fondamentale dell’eucaristia è quella di una fusione completa tra sposi. Per capire questo bisogna essere convinti che l’incarnazione di Dio non termina con Cristo, ma riguarda l’umanità intera. Fino a quando immagineremo che l’incarnazione sia Dio che si unisce a un uomo chiamato Gesù, non capiremo nulla. Il nucleo essenziale delle cose è che Dio unisce a sé, o sposa, l’umanità tutta intera mediante Cristo. Dio si è fatto uomo perché tutti gli uomini siano divinizzati. L’eucaristia è l’universalizzazione dell’opera di Cristo, la comunicazione al mondo intero dell’opera di Cristo. Elemento originario e fondante della eucaristia non è semplicemente la presenza di Cristo. Cristo non è lì tanto per esserci. È presente per darsi a noi come nutrimento affinché l’unione tra lui e noi sia totale. L’eucaristia non è solamente una presenza, è una unione.

    Presenza reale

    La presenza di Cristo nell’eucaristia è una presenza reale. È addirittura la più reale di tutte le presenze perché realizza la presenza di Cristo nei nostri atti liberi: Gesù disse loro: in verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete la in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i vostri padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno (Gv 6,53-58): è quanto c’è di più reale. Il sacramento eucaristico significa che Cristo si offre in nutrimento per unirci a sé, unendoci gli uni agli altri in un modo che sarebbe per noi impossibile attuare. Questa energia che ci unisce implica ed esige la sua presenza reale. Cristo è presente non come qualcuno che cade dal cielo ma come frutto della trasformazione divinizzante che egli opera in questo mistero centrale della nostra fede: l’eucaristia. Cristo trasforma e divinizza il pane e il vino e attraverso la comunione con essi, diventati il suo corpo e il suo sangue, divinizza l’uomo.

    Sacrificio

    L’eucaristia è il sacramento di un sacrificio. Il sacrificio è l’atto con cui ci si riferisce a Dio (sacrum facere = fare una cosa sacra, riferita a Dio). È quanto c’è di più alto nell’esistenza umana perché ci mette in contatto con Dio. Il sacrificio non è prima di tutto una privazione, ma l’orientamento positivo di tutto il nostro essere verso Dio. E darsi a Dio è l’unico modo di essere veramente se stessi. Dio è amore. L’uomo è pienamente tale se è per Dio.

    Nella storia del mondo, se facciamo eccezione per il caso particolare di Maria, c’è un solo uomo la cui vita tutta intera, in ogni suo atto, è stata un sacrificio: Gesù Cristo. Egli è puro e solo riferimento a Dio, al Padre. Nel suo essere profondo egli è il solo che non abbia mai posto un atto libero per sé, per egoismo; tutti i suoi atti liberi sono stati amore. Nemmeno la più piccola traccia di ripiegamento su se stesso, di volontà di sé, di sguardo su di sé, di movimento di egoismo. Tutto l’essere di Cristo è un essere sacrificale: è un puro e assoluto riferimento al Padre.

    Il sacrificio di Cristo culmina nella sua morte sulla croce. Soltanto la morte può esibire la prova che non si vive per sé. Sappiamo bene che è sempre più o meno per vigliaccheria che noi cerchiamo di sfuggire alla morte, anche a quelle morti parziali che chiamiamo mortificazioni, diminuzione degli agi, la rinuncia a certi privilegi, in una parola a tutto quello che ci strappa al nostro egoismo e alla nostra pigrizia. La vita esiste solo per essere data (Ch. Peguy).

    L’eucaristia è il sacrificio di Cristo, è l’amore che non è altro che amore, che dunque arriva fino alla morte, da cui scaturisce la nuova nascita, la risurrezione. Delle due una: o l’amore è più forte della morte, oppure la morte è più forte dell’amore. Il mistero pasquale significa che l’amore è più forte della morte. E ciò è vero per Cristo ed è vero per noi se siamo uniti a lui come membra al capo. Basta avere il cuore aperto e correttamente orientato per capire che una vita non è autentica se non è una vita sacrificata, cioè un passaggio a Dio. È di questo che l’eucaristia è segno.

    Azione di grazie

    Eucaristia significa azione di grazie. Il senso fondamentale di grazia è gratuità, dono. Il vero dono è gratuito. Il dono supremo è il perdono, cioè il dono perfetto; da qui l’espressione fare grazia o graziare. Rendere grazie significa riconoscere che tutto è grazia: ed ecco la gratitudine. Se tutto è grazia, tutto deve essere ritorno di grazia, rendimento di grazie.

    Nel vangelo Cristo ci mostra la natura intera che deve essere ricevuta dalla mano del Padre, come dono del Padre. Il vangelo ci insegna che dobbiamo vivere l’amore prima di tutto in forma di accoglienza perché tutto è donato. Il mondo ci è donato, è messo nelle nostre mani. Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno (Mt 6,31-32). I pagani sono proprietari delle cose: le acquistano e le possiedono. I cristiani gestiscono le cose: le accolgono dalle mani del Padre. Per questo i pagani sono inquieti e i cristiani sono (o dovrebbero essere) sereni. Il mondo moderno è logorato nella misura in cui la sua fede non è viva, in cui si dimentica che tutto viene da Dio e che, se davvero Dio è nostro Padre, noi abbiamo il dovere di essere calmi e sereni, perché pieni di fiducia in lui.

    Gesù ha verso la natura uno sguardo trasparente, sereno, perfino davanti alla fame e alla morte che sono situazioni limite. Per lui domandare e render grazie si confondono: domanda in forma di azione di grazie, tanta è la sicurezza che il Padre si occupa dei suoi figli, a condizione che essi abbiano la sincera ricerca del regno di Dio: Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta (Mt 6,33).

    Davanti alla situazione limite della fame, Gesù non dice: Padre ti chiedo di moltiplicare i pani nelle mie mani, ma prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che erano seduti (Gv 6,11). Gesù ringrazia prima che i pani siano moltiplicati, tanta è la sua sicurezza di essere esaudito. E davanti all’altra situazione limite che è la morte di Lazzaro, Gesù dice: Padre ti rendo grazie che mi hai ascoltato… E detto questo, gridò a gran voce: Lazzaro, vieni fuori! (Gv 11,41-43). Gesù ringrazia quando Lazzaro è ancora morto nella tomba.

    Bisogna cogliere il legame tra l’eucaristia-azione di grazie e l’eucaristia-nutrimento. Il nutrimento è il nostro rapporto essenziale con la natura. Il pane è il simbolo di tutto ciò che Dio ci dà per vivere. Il pane e il vino sono il nutrimento elementare dei paesi mediterranei e dello stesso paese di Gesù. Sottraendo al mio nutrimento un po’ di pane e alcune gocce di vino, io esprimo che è la natura tutta intera che deve fare ritorno al Padre. L’eucaristia è dunque l’azione di grazie sotto le specie del nutrimento.

    Se tutto è grazia, tutto deve essere azione di grazie! E per esprimere questo tutto non c’è niente di meglio che il pane e il vino che sono i simboli più concreti del lavoro e della vita dell’uomo. Dio dona e noi ridoniamo ciò che ci viene donato. Notate che noi non dobbiamo donare, ma ridonare, perché ciò che abbiamo è già dono. Dare è un atto da proprietari. Noi non siamo proprietari di nulla, siamo solo gestori di beni. La carità senza azione di grazie non sarebbe una vera carità cristiana: sarebbe un atteggiamento da proprietari.

    Il pane e il vino eucaristici sono il ritorno a Dio di tutta questa natura che Dio dà all’uomo perché egli viva. Senza l’eucaristia la nostra vita è falsata, è una vita da padroni. Ma la vita eterna è l’assenza totale di proprietà. Con l’eucaristia la nostra vita è vera, è una vita di riconoscenza, cioè di conoscenza riflessa del vero.

    Sacramento della comunità umana da costruire

    Cristo ci offre un nutrimento per riunirci in comunità fraterna.

    Cristo ha istituito l’eucaristia, segno della nuova alleanza, e nello stesso tempo ha enunciato l’unica clausola di questa nuova alleanza: Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato. La clausola dell’unione a Dio è l’unione fraterna degli uomini tra loro. S. Agostino diceva: Quando mangiamo il corpo di Cristo, incorporiamo in noi l’umanità intera.

    Una comunità non è soltanto una collettività. Esiste solo se ci sono legami reciproci di amore e di amicizia; se ciascuno è più per gli altri che per sé. Chi ci rende uno è Cristo. È la condivisione dello stesso pane che ci ricorda che dobbiamo condividere con gli altri tutto quello che ci è possibile condividere: il denaro, il tempo, la cultura… La condivisione del corpo di Cristo è l’unico pasto che esprime la riconciliazione universale. L’eucaristia ci ricorda, giorno per giorno, che al di fuori della morte e della risurrezione di Cristo non è possibile nessuna fraternità universale.

    L’eucaristia è il sacramento per eccellenza. È il Cristo sacrificato che, in quanto uomo, è tutto teso verso Dio e che, in quanto Dio, è tutto teso verso l’uomo. Cristo è l’abbraccio di questi due slanci.

    L’ostia consacrata è a un tempo il dono dell’uomo a Dio (cioè il sacrificio) e il dono di Dio all’uomo (cioè il sacramento). Alla fine di tutto questo c’è la nostra definitiva divinizzazione, l’oggetto della nostra speranza: la nostra piena e totale libertà nella gioia.

    Gesù ha pregato per noi: Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria (Gv 17,24). E nella prima lettera di Giovanni 3,2 leggiamo: Noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. E tutto questo soltanto Gesù Cristo ce lo può dare.

  • 22 Feb

    EUCARISTIA

    SPIRITUALITA’ DI UN MISTERO

    padre Attilio Franco Fabris

    1. Eucaristia e memoriale

    Il linguaggio liturgico parla dell’Eucaristia come di Mysterium fidei.

    La ragione apparentemente più logica ed istintiva dice che questa definizione è data dal fatto che l’eucaristia trascende le nostre capacità di comprensione e intendimento umane, e di qualsiasi spiegazione di tipo razionale.

    La ragione vera è un’altra:

    l’eucaristia è Mysterium fidei perché esprime e realizza in misura massima tutta l’opera salvifica che Dio ha messo in atto per l’uomo lungo la storia.

    E’, se possiamo usare questo termine, il compendio, il riassunto di tutta la storia di salvezza: dalla creazione, alla  redenzione, alla parusia.

    Infatti, se la catechesi insegna che i principali misteri della  fede sono l’unità e la Trinità di Dio e l’incarnazione del verbo, nell’eucaristia ritroviamo l’accesso più sicuro, la chiave di volta, al mistero dell’incarnazione e di conseguenza allo stesso mistero trinitario.

    Appare evidente che tutti i racconti dell’istituzione eucaristica hanno a cuore di annunciare in ciò che accadde in quella notte del giovedì santo l’esplicitazione del significato del mistero pasquale (passione, morte, risurrezione). In modo particolare questo lo troviamo nel racconto di Luca (cc. 22).

    Gli apostoli stanno discutendo su chi è il più grande tra loro, e questo proprio dopo che Gesù ha spezzato il pane per loro e ha consegnato il calice. Gesù qui imparte una lezione fondamentale di interpretazione dell’eucaristia:

    “Gesù disse loro: i re delle nazioni le dominano e quelli che hanno autorità u di esse sono chiamati benefattori. Per voi però non deve essere così, ma il maggiore di voi sia come il giovane e chi comanda come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi siede a tavola o colui che serve? Non è forse colui che siede a mensa? Eppure io sono in mezzo a voi come uno che serve” (22, 25-27).

    Non c’è qui solo un invito all’umiltà, vi è invece rivelata l’indicazione del motivo che ha portato Gesù ad istituire l’eucaristia, a darci il punto di vista dal quale deve essere letto il mistero dell’Incarnazione e quindi il Mistero della stessa Trinità.

    Le antiche eresie (es. il docetismo e l’arianesimo) trovavano incompatibile il mistero di Dio con l’incarnazione. Dio non può entrare nel mondo e nella storia, sporcarsi in esso le mani, accettare un’autentica dimensione umana, se lo facesse cesserebbe di essere se stesso.

    Quindi si riteneva che l’incarnazione o fosse una specie di “finta” da parte di Dio di essere uomo (docetismo) , oppure che si trattasse solo di una creatura che esercitasse funzioni divine (arianesimo).

    La semplice ragione umana non riusciva e non riesce ad andare più lontano di queste interpretazioni dei misteri della salvezza. La fede qui non è più accoglienza di una rivelazione che mi supera, ma un tentativo di interpretazione del dato di fatto della fede a partire dai miei piccoli schemi mentali e razionali.

    Ora l’eucaristia sovverte questa distorsione di prospettiva offerta dalla sola ragione umana: il Dio di Gesù Cristo afferma la sua trascendenza, non prendendo le distanze le distanze dagli uomini, ma offrendo la sua Alleanza ad un mondo che l’ha rifiutato. Mi rivela un Dio che manda il proprio Figlio nel mondo non per dominarlo ma per servirlo, consumandola sua vita per esso: Dio infatti ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo Unigenito affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Dio infatti non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. (Gv 3,16-17).

    L’eucaristia è gesto di fedeltà di un Dio che si rivela “servo” nei confronti dell’uomo pur di salvarlo

    Ne ricaviamo tre indicazioni:

    a. La fede accettazione di una logica nuova nella mia vita

    La fede cristiana non consiste solo nell’accettazione di verità che ci trascendono provenienti da una rivelazione divina: essa è anzitutto accettazione di una logica nuova.

    Le “informazioni” ricavate dalla rivelazione, se pur necessarie non sono sufficienti: esse rischiano sempre di essere lette secondo una logica umana che non intacca la vita.

    Non sempre si riflette sul fatto che la prima e radicale conversione del cristiano è quella della fede e che la “metanoia” che essa comporta non è riducibile al rinnovamento del giudizio o al massimo di un comportamento di tipo etico etico, ma è prima di tutto un ribaltamento di prospettiva nella lettura e nell’interpretazione del reale.

    b. Il mistero come evento di salvezza che mi coinvolge

    La nozione di “mistero” inteso come “verità superiore ma non contraria alla nostra ragione, che noi crediamo perché Dio l’ha rivelata” è una nozione riduttiva più vicina alla cultura ellenica che a quella biblica.

    Secondo questa accezione da un lato vi è un Dio che non si lascia scoprire, dall’altro un uomo che vorrebbe saperne di più ma non riesce.

    E’ proprio l’eucaristia ad informarci che il mistero prima di essere una verità da indagare è un veneto di salvezza da cui lasciarsi coinvolgere: è rivelazione di un Dio che vuole attrarci a sé per farci entrare in una logica che supera i nostri piccoli schemi razionali, non è un rebus davanti al quale arrendersi, ma la proposta di entrare in un cammino che umanamente apparirebbe impensabile (del tipo “perdere la vita per salvarla”).

    L’eucaristia ci dice che per arrivare alla conoscenza di Dio bisogna partire dalla storia di ciò che egli ha compiuto per la nostra salvezza, e non dal tentativo di far entrare questa storia negli schemi da noi prefabbricati.

    Se si aggancia il mistero alla storia prima che alla dottrina, l’eucaristia si lascia scoprire anche nel suo aspetto più importante, ovvero nel suo essere “memoriale”.

    c. Eucaristia come memoriale che mi avvolge

    Il ricorrere al termine “memoriale” fa risaltare il fatto che la nostra fede si rifà ad una storia prima che ad una dottrina.

    Ma che cosa è “memoria cristiana”?

    Tutte le religioni positive e primitive danno  un notevole peso alla memoria (profeti, insegnamenti, fondatori, gesta, antenati, riti,…). Ma il ruolo da loro attribuito alla memoria non è mai un gesto di vera fedeltà alla storia.

    Si tratta il più delle volte di una memoria di pura conservazione di alcuni valori irrinunciabili.

    In altre parole: o si tratta di una memoria con una funzione alienante come può essere il tentativo di rendere accettabile il presente con il ricordo del passato (l’”età dell’oro”), o ha la funzione di precludere alla storia qualsiasi apertura al futuro perché si ritiene che l’unica via per godere di un oggi e di un domani soddisfacente è quello di regolare l’oggi e il domani sulla base dell’esperienza di ieri.

    Il memoriale cristiano si colloca al di fuori di queste interpretazioni.

    – Non si tratta di un ricordo nostalgico, ma di un’effettiva ripresentazione dell’evento stesso così da coinvolgere nell’evento stesso coloro che ne fanno memoria.

    – Non si tratta di una memoria di un’esperienza umana meritevole di essere ricordata, ma di un incontro tra Dio e l’uomo la cui validità non può essere giudicata puramente a livello esterno.

    – Non è un ritorno al passato per essere imitato, ma per farne un giudizio salvifico del presente al fine di guardare al futuro.

    Tutti i sacramenti cristiani sono un memoriale, ma in modo particolare questo termine si applica all’eucaristia, in quanto essa esplicita l’economia dell’incarnazione e della salvezza più di ogni altro mistero, e pertanto diventa norma a cui il discepolo deve configurarsi per inserirsi nell’ambito della salvezza tracciato da Cristo.

    San Tommaso ricordava questo in modo esemplare.

    Nell’eucaristia facciamo memoria della passione di Cristo: recolitur memoria passionis eius.

    Da essa attingiamo quella grazia che ci giustifica e salva:  mens impletur gratia.

    Ci è dato un sicuro pegno della gloria futura della risurrezione: et futurae gloriae nobis pignus datur.

    Il memoriale non è dato solo al singolo per permettergli di verificare il suo inserimento nella salvezza, ma è prima di tutto un momento costitutivo della stessa comunità di salvezza.

    Comandando di celebrare l’eucaristia in sua memoria, Cristo ha inteso offrire alla sua comunità la migliore occasione per sottoporsi al giudizio salvifico di Dio, ha voluto dotarla del criterio più valido per verificare fino a che punto essa si edifica ed agisce secondo la logica salvifica che Dio ha introdotto nella storia.


    Eucaristia e memoriale


    * L’eucaristia è Mysterium fidei perché esprime e realizza in misura massima tutta l’opera salvifica che Dio ha messo in atto per l’uomo lungo la storia. E’ la chiave più sicura di interpretazione di tutto il mistero Trinitario e dell’Incarnazione.

    Nella meditazione cerco tali riferimenti.

    * In Lc 22, 14-30 Gesù dona una chiave di interpretazione del mistero eucaristico, il quale a sua volta mi pone dal punto di vista divino nella lettura dell’opera della salvezza. Provo a ripercorrere nella meditazione questo testo.

    * L’eucaristia mi immette nella scelta di accogliere una logica nuova nella mia vita. Non mi offre solo “nozioni” nuove su Dio, ma mi domanda di assumerne il cuore. Essa esige pertanto una metanoia della mia vita che non può risolversi in qualche concetto in più su Dio, ma in uno stile nuovo di vita. Come questo va realizzandosi nella mia vita?

    * L’eucaristia domanda al discepolo un coivolgimento in una storia, quella stessa di Dio e di Gesù. Una incarnazione in questo mondo. Cosa significa questo, cosa comporta?

    * L’eucaristia è memoriale nel quale mi è dato di rendermi presente al dono di Cristo al Padre ai fratelli, di incontrami con Lui, a far sì che esso divemnga criterio di giudizio salvifico sulla mia vita.

    Nella mia partecipazione come questo è presente e operante?

  • 21 Feb

    Il compimento

    Al centro della comunità ecclesiale


    Letture bibliche

    Deuteronomio 12,2-9: la legge della centralità del culto ha lo scopo di far cercare il Signore dove lui ha stabilito la sua dimora, per evitare che ognuno faccia secondo il suo arbitrio.

    Apocalisse 5,1-10: nella visione celeste l’immagine speculare della assemblea eucaristica terrena è data dalla liturgia intorno al Libro e all’Agnello; essa è centrale nella economia di tutte queste «rivelazioni».

    Salmo 26: il salmista trova salvezza e luce nel Signore; sua aspirazione è abitare nella casa del Signore, suo desiderio è camminare sulla via di Dio.

    Giovanni 14,1-13: Gesù si propone come via perché tutti i credenti giungano alla meta, cioè al Padre da lui e in lui rivelato; a chi crede Gesù promette di compiere le stesse opere da lui compiute.


    Catechesi

    Ricercare il centro della comunità ecclesiale è individuare il nucleo che aggrega i credenti in Cristo e li qualifica in quanto discepoli di Gesù, il crocifisso risorto.

    Questo centro ecclesiale deve essere visibile e constatabile, perché ad esso debbono riferirsi i singoli cristiani, deve essere anche condivisibile e partecipabile, perché da esso deve essere strutturata la comunità.

    Inoltre esso deve manifestare sensibilmente ciò di cui ogni cristiano vive – la sua fede in Gesù e il suo impegno evangelico nel mondo -, poiché deve potersi fare unità spirituale fra la vita dei singolo e quella della comunità.

    Se è centro, esso deve essere punto di concentrazione di ciò che la comunità è nella sua più profonda originalità, per preservarla dalla dispersione, e nel medesimo tempo deve essere punto di irradiazione verso l’esterno, per evitare che la comunità si chiuda sterilmente in se stessa.

    In questo contro si deve quindi parlare il linguaggio della intimità, affinché la comunità sia casa ospitale, e contemporaneamente il linguaggio della missione, affinché la comunità sia segno per il mondo.

    Bisogna che in questo centro la vita cristiana dei singoli e quella ecclesiale della comunità trovino modelli, stimoli, aiuti per la realizzazione di sé.  Inoltre il linguaggio che vi si parla – sia verbale che gestuale – deve risultare comprensibile a ogni cristiano appena iniziato alla fede, e quindi introdotto nella conoscenza elementare della storia della salvezza e specialmente della vita di Gesù.

    Se l’attività che può costituire il centro della vita di una comunità ecclesiale deve corrispondere alle caratteristiche sopra enumerate esso non può essere che l’eucaristia.

    Non soddisfano le esigenze descritte, né un programma di spiritualità né un forte impegno sociale né un progetto missionario… tutte attività buone e necessarie ma settoriali e spesso possibili solo a cristiani già maturi (e comunque anche tali attività si possono ricondurre, per quanto concerne la loro animazione interiore, all’Eucaristia).

    L’eucaristia è azione collettiva – implicante però responsabilmente ogni individuo – che si propone con modalità visibili, regolarmente reiterabili e largamente partecipabili.  Non è difficile per un cristiano unirsi a un’assemblea, trovare in essa qualcosa di cui fruire personalmente e da condividere con gli altri.

    Più difficile sarà tessere relazioni comunitarie prima e dopo la celebrazione, in modo che anche nella stessa celebrazione – le azioni rituali risultino significative di una comunità vera e non solo esigitive di questa.

    L’eucaristia è azione che esprime la fede cristiana nelle sue formalità più specifiche: ascolto di Dio che parla, adesione a Cristo crocifisso-risorto, disponibilità allo Spirito Santo, riconoscimento del Dio Uno e Trino che opera nella storia per la nostra salvezza, accettazione dell’impegno di essere testimone della salvezza ricevuta.

    L’eucaristia dona a ciascuno di poter esprimere la propria fede, mettendogli a disposizione forme rituali comuni nelle quali si manifesta la fede della Chiesa.

    L’eucaristia è azione riservata ai credenti riuniti per dire parole e compiere gesti che costituiscono la vita più intima dei cristiani: colloquio con Dio che si intrattiene con essi conversando; scambio di doni in Cristo, per il quale ricevono lo Spirito Santo e si offrono a Dio; banchetto durante il quale condividono il pane di vita e il calice di salvezza gustando la pace, dono del Signore… Eppure questa esperienza così interiormente ricca non li ripiega su se stessi ma apre loro gli orizzonti del Regno nel servizio fratello da esercitare quotidianamente e nella missione da svolgere verso gli altri.

    Ripetuta con regolarità, con variazioni di letture bibliche e orazioni, spesso secondo programmi formativi legati a feste o tempi liturgici, la messa offre a tutti e a ciascuno, secondo i livelli di fede e le esigenze personali, molteplici possibilità di crescita spirituale e di edificazione ecclesiale, conducendo a quella realizzazione di sé in Cristo che è compito della Chiesa.

    Alcune conoscenze elementari di fede e opportune esperienze significative sono sufficienti per inserire un fedele in questa azione e renderlo un attivo partecipante, con il desiderio di arricchire la propria vita cristiana. Contro la facile obiezione che la messa riduce la vita cristiana nell’ambito del culto rituale, è necessario ricordare la dottrina del N.T. sul sacerdozio battesimale, comune a tutti i cristiani (richiamata dal Vaticano Il, LG 10): esso qualifica l’esistenza cristiana nel mondo come donazione di sé a Dio, e quindi ai fratelli, per Cristo e nel dono dello Spirito Santo (Rm 12,1-2; 1 Pt 2,5.9-10). Un momento particolarmente intenso dell’esercizio di tale sacerdozio, per prenderne coscienza e per acquistarne capacità, si ha nella celebrazione liturgica.

    Ciò che si fa ritualmente e simbolicamente nell’assemblea abilita a operare con un certo stile nella vita.  Soprattutto educa la comunità a comprendere che essa esiste non per se stessa ma per dono di Dio, non per attuare un programma proprio ma per realizzarsi secondo il progetto di Dio, non per coltivare proprie sicurezze ma per rendersi disponibile a ciò che Dio dice e vuole.

    Si realizza così lo specifico della fede cristiana che è accentramento da sé per incentrare la vita sulla parola di Dio e sulla sua azione santificante, e quindi rendersi disponibile per «le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo» (Ef 2,10).

    Una comunità di Chiesa che pone l’eucaristia al centro delle sue attività, comprende e manifesta di essere:

    – popolo di Dio che esiste nella storia per iniziativa divina, in dipendenza del suo Signore, per la forza dello Spirito Santo;

    – gruppo di credenti che trovano la loro identità specifica in riferimento alla parola che Dio dice sempre nell’assemblea liturgica e al dono di salvezza che Dio di nuovo propone in ogni eucaristia;

    – comunità sacerdotale che dà alla sua vita quotidiana il senso di culto gradito a Dio, e comunità profetica che annuncia agli altri l’amore di Dio continuamente sperimentato.


    Preghiera

    Ti nascondi, o Dio, per farti trovare da chi ha occhi puri e cuore generoso: fa’ che la nostra comunità sappia cercarti in quei segni dove ancora il tuo Cristo parla ed agisce distribuendo salvezza e pace. Per Cristo nostro Signore.

  • 20 Feb

    IL COMPIMENTO

    13. La celebrazione dell’eucaristia


    I concelebranti dell’Eucaristia

    La messa è la più alta azione della nostra vita.  La messa è la più alta azione del mondo. E’ sempre un avvenimento insondabile.  E di questo avvenimento noi siamo gli attori. Infatti, l’eucaristia è una “concelebrazione”: un “celebrare insieme”.

    Tutti i cristiani presenti sono dei concelebranti, in virtù del loro battesimo e della loro confermazione.

    Il prete, l’unico “sacerdote”, è Gesù Cristo. Il sacrificio, l’unico Sacrificio, è quello del Calvario.

    La messa ne è il memoriale, ossia il “richiamo”, ma nei due significati del termine.

    Si richiama un avvenimento del passato e, in questo senso, è un ricordo; ma si richiama anche un soldato sotto le armi, un attore in scena, e allora abbiamo una presenza, una nuova presenza.  L’eucaristia è ricordo e presenza del Calvario.

    Il prete ordinato è investito della grazia e della missione di presiedere e di consacrare l’eucaristia, in virtù del sacramento dell’ordine che ha ricevuto; è segno, sacramento del Cristo-capo.

    Cristo, quindi, offre se stesso e noi con lui; il prete offre Cristo e offre se stesso e l’assemblea con Cristo.  Ma anche il fedele, senza consacrare il pane e il vino, offre Cristo e offre se stesso con lui.

    I battezzati non sono separati dal prete; non sono separati da Gesù Cristo.  Concelebrano con Cristo; concelebrano col prete; concelebrano fra di loro.  Per questo il prete parla al plurale: “Preghiamo……… In alto i nostri cuori”, “Rendiamo grazie”, “Anche noi, tuoi servi (ossia i preti), e il tuo popolo santo con noi, ti presentiamo questa offerta…… ecc.

    E’ Cristo che, rappresentato da noi (vescovi e preti) offre in noi, poiché è la sua parola che consacra il sacrificio da noi offerto…

    Quaggiù tu vedi la sua immagine (nel celebrante dell’altare).  In cielo vedrai il sommo sacerdote eterno e perpetuo di cui su questa terra vedevi le immagini in Pietro, Paolo, Giacomo, Giovanni.. (sant’Ambrogio)

    Con Cristo e con il prete, tutto il popolo “sacerdotale” è attore del dramma della messa, celebrante della santa “liturgia”.

    Il termine “liturgia” (dal greco leitos, “pubblico”, “popolare”, ed ergon, “opera”) significa “opera pubblica”, “azione del popolo”.  “Il nuovo testamento l’adopera in significati diversi, ma sempre in rapporto col servizio cultuale compiuto dalla comunità” (Louis Vereecke).

    La liturgia, quindi, non è una faccenda clericale, ma appartiene a tutta la comunità cristiana.  “Colui che presiede non è il proprietario dell’eucaristia ma celebra per un’assemblea, con essa, ed essa con lui, in comunione con la chiesa universale”.

    Dobbiamo ammetterlo: il prete era, necessariamente, “proprietario dell’eucaristia” quando la celebrava voltando le spalle al popolo, in fondo a un coro, in latino, costringendo così la grande maggioranza dell’assemblea a fare qualche altra cosa o ad annoiarsi.

    Certo, un prete si comporta da “proprietario dell’eucaristia” quando impone all’assemblea delle preghiere o dei gesti arbitrari.  Questo si chiama abuso di potere, perché defrauda i battezzati del loro diritto di concelebrare con lui e in unione con tutta la chiesa.

    Ma ugualmente priva l’assemblea del suo diritto a comprendere, a vivere e a partecipare, chi si limita giuridicamente (e pigramente) ai testi del messale con una comunità che non è portata a “entrarvi”.  Il prete si comporta da “proprietario dell’eucaristia” tutte le volte che non la “dà” ai battezzati concreti che ha davanti.

    E’ proprio questo tipo di prete che genera la noia, quella noia che fu stigmatizzata da Claudel, la noia che svuota le chiese perché è antireligiosa. “Nulla di più antitetico alla religione che la noia.  La religione può nutrirsi di sofferenze, di tristezza, mai di noia”.

    Una ragazza diciassettenne esprime il suo disinteresse: “Non mi sento affatto a mio agio, non mi trovo assolutamente coinvolta nella messa … Non sopporto tutte quelle preghiere ripetute senza che nessuno vi presti attenzione: credo, gloria, in alto i nostri cuori, ecc……”

    E’ la grazia del battesimo a gridare la fame di celebrare veramente, di celebrare personalmente l’eucaristia che costituisce la vita stessa di questo popolo sacerdotale.

    C’è una sola eucaristia, e questa è attestata dalla continuità apostolica.  Celebrata nel I secolo, o nel XII o al giorno d’oggi o fra dieci secoli, l’eucaristia è la medesima, quella dei Cristo morto e risorto.  La spiritualità cristiana non ha altro scopo che quello d’aiutarci a diventare uomini eucaristici.  In ogni cosa, ci dice l’apostolo, fate eucaristia.  Condividendo il pane e il vino dell’eucaristia, diventiamo uomini di ringraziamento, di comunione.  L’eucaristia è il sacramento dei fratello.  Quando ti sei appena comunicato e trovi in strada tuo fratello, questo tuo fratello, diceva Giovanni Crisostomo, è il tuo Dio.  Il mondo è il dono di Dio; come potremmo appropriarcelo? (O. Clément)

    Appunto questa volontà dello Spirito santo di rendere alla chiesa ciò che è della chiesa, ha ispirato al concilio la riforma.

    Affermano i padri del Vaticano II: “La chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma, comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano istruiti nella parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo l’ostia immacolata, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui imparino a offrire se stessi, e di giorno in giorno, per mezzo di Cristo mediatore siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (SC 48: E VI, 84).

    Operazione riuscita?  Sì e no.


    “La Messa di sempre”

    Nella chiesa delle origini, dunque, l’eucaristia era celebrata durante un autentico pasto, “la Cena del Signore”, coi fedeli che erano fraternamente seduti attorno agli apostoli.  La si chiamava “la frazione del pane”, in memoria del gesto caratteristico di Gesù: sulla montagna della moltiplicazione dei pani, durante la Cena, a Emmaus…

    Il pasto comune forniva loro l’occasione di rinnovare il memoriale del Signore. Si pensi all’insistenza con cui i vangeli si richiamano a un banchetto.  Così gli apostoli si sono sentiti obbligati a conservare nella misura del possibile il contesto d’un pasto, come il Signore aveva fatto istituendo l’Eucaristia.

    Come si svolgeva questa Cena del Signore?  Non ne abbiamo il rituale esatto.  Ma, attraverso i vangeli e gli atti, ne conosciamo gli elementi principali: insegnamento degli apostoli, preghiera eucaristica, frazione del pane, spartizione del pane e del vino consacrati, salmi d’azione di grazie, il tutto durante un pasto fraterno.  Se eccettuiamo il pasto festivo, ognuno può facilmente riconoscervi i tempi forti della messa di domenica scorsa “La messa di sempre” è tutta qui.

    Si seguiva il rito pasquale ebraico, come certamente fece il Signore alla Cena?  No. Era troppo complicato per potere essere ripreso ogni giorno e anche solo ogni settimana.  E poi, esso era riservato strettamente alla festa di pasqua.  Ma presso gli ebrei c’era l’usanza di un altro pasto rituale, “il pasto del sabato”, una semplificazione di quello pasquale, che si prestava alla celebrazione eucaristica. I vangeli sembrano insinuare che nella tradizione primitiva la Cena dei Signore seguisse questo canovaccio.

    Il banchetto cominciava con un antipasto, preso in piccoli gruppi, in piedi, come in un preambolo d’incontro, d’accoglienza e d’attesa dei ritardatari.  Poi ognuno benediva una coppa di vino: “Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, re eterno, che hai creato il frutto della vite!”.  E’ la prima coppa di cui parla s. Luca (22,17), che non è ancora la coppa consacrata. Poi si lavavano le mani dicendo una preghiera, e cominciava il pasto propriamente detto: ciascuno prendeva il proprio posto, mentre non erano più ammessi i ritardatari.

    Veniva portato al presidente del pane.  Il presidente lo benediva (“Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, re del mondo, che fai uscire il pane dalla terra!”), lo spezzava e lo distribuiva ai commensali, ricordando Cristo che aveva aggiunto “Questo è il mio corpo”.

    Alla fine del pasto, come ricordano le nostre preghiere eucaristiche, si riempiva la coppa per la terza volta.  Era la “coppa di benedizione”.  Al vino si mescolava una buona metà d’acqua, e il presidente iniziava la grande preghiera:

    – Rendiamo grazie al Signore nostro Dio.

    – Benedetto sia il nome del Signore ora e sempre.

    Dopo un breve dialogo, il presidente continuava da solo la preghiera eucaristica.  A questo punto bisognerebbe porre la coppa consacrata di Luca (22,20).

    “La frazione del pane all’inizio del pasto e la coppa di benedizione alla fine appartengono entrambe al rituale del banchetto sia per la pasqua che per il sabato.  Tuttavia questa forma della celebrazione eucaristica non poté durare molto.  Dobbiamo osservare che né Matteo né Marco insistono sul “dopo il pasto” dei racconti di Luca e di Paolo.  Sembrerebbe che nelle comunità in cui questi due evangelisti lavoravano, le due consacrazioni non fossero più separate da un pasto.  Esse erano accoppiate e poste entrambe o prima o dopo il pasto, secondo le testimonianze che abbiamo, sembra che questi due modi di comportarsi fossero allora in vigore. Le benedizioni sul pane e sul calice furono fuse in una sola preghiera solenne d’azione di grazie, nata dalla formula inizialmente usata sul solo calice.  Così le consacrazioni furono compiute con una sola benedizione” (Jungmann).Evidentemente, nelle comunità palestinesi la lingua usata era l’aramaico; altrove, nelle chiese paoline e a Roma, dove la maggioranza era costituita da immigranti venuti dall’oriente, il greco.  La Cena del Signore, infatti, era celebrata nella lingua di tutti, nella lingua del popolo, in quella dei poveri.  E il popolo cristiano, anche a Roma, parlava greco e non latino.

    Verso l’anno 150 a Roma s. Giustino ci lascia la prima “corrispondenza” della celebrazione eucaristica.  Giustino è un laico, professore di filosofia, un credente che spingerà la sua testimonianza fino al martirio.  In un’opera, che scrive per quelli che non condividono con lui la fede cristiana, soprattutto per gli imperatori, la sua Prima apologia, capitoli 65,66 e 67, ci riporta una duplice descrizione della messa del suo tempo come veniva celebrata a Roma e nei paesi mediterranei orientali e occidentali attraverso i quali questo cristiano d’élite aveva molto viaggiato.  Ecco queste due descrizioni che “sovrapponiamo” in una sola, per amore di semplicità di svolgimento:

    “Nel giorno detto del sole, convengono tutti nello stesso luogo, sia quelli della città sia quelli della campagna.  E, finché il tempo lo permette, si leggono le memorie degli apostoli, oppure le scritture dei profeti, poi quando il lettore ha cessato, chi presiede parla ammonendo ed esortando a imitare sì belli esempi, quindi ci alziamo in piedi e facciamo preghiere ad alta voce, per noi, per i nuovi battezzati e per tutti gli altri cristiani che sono sparsi nel mondo Finite le preghiere ci salutiamo scambievolmente con un bacio. Quindi a colui che presiede ai fratelli si portano del pane e un calice d’acqua e di vino ed egli, dopo averlo preso, innalza lode e gloria al Padre comune, nel nome del Figlio e dello Spirito santo, e lo ringrazia a lungo per averci fatti degni di questi suoi doni.  E quando egli ha terminato le preghiere del ringraziamento, tutto il popolo presente acclama dicendo: ‘Amen’.  Amen in lingua ebraica significa ‘Così sia’.  Poi quando colui che presiede ha fatto il ringraziamento e tutto il popolo ha acclamato, quelli che noi chiamiamo diaconi danno a ciascuno dei presenti una porzione del pane e del vino e dell’acqua, su cui è stato celebrato il ringraziamento, e ne portano agli assenti”.

    E questo cibo si chiama fra noi eucaristia.  Noi infatti non prendiamo questo come un pane e una bevanda comune; noi crediamo che quell’alimento, consacrato per virtù delle parole di preghiera, istituite da lui, è corpo e sangue di quell’incarnato Gesù del quale il sangue e le carni nostre si nutrono per assimilazione. Gli apostoli, nelle memorie da loro stese, che si chiamano evangeli, insegnarono che era stato dato questo comandamento: che cioè Gesù preso del pane e rese grazie disse: “Fate questo in memoria di me: Questo è il mio corpo, e similmente preso il calice e rese grazie disse: Questo è il mio sangue e ne distribuì ad essi soli.. I ricchi, che ne abbiano volontà, danno a proprio piacimento quello che vogliono, e quanto così viene raccolto, si depone davanti a chi presiede. Egli soccorre orfani, vedove, chi per malattia o altra causa è bisognoso, chi è in prigione e gli ospiti che vengono da altri paesi; insomma prendiamo a cuore quanti si trovano in necessità.  Ci raduniamo tutti insieme nel giorno del sole, perché è il primo giorno, nel quale Dio, mutando la tenebra e la materia, creò il mondo, e anche perché Gesù Cristo nostro salvatore, nello stesso giorno, risorse da morte”.

    Attraverso questa testimonianza che è, questa sì!, due volte millenaria, possiamo facilmente cogliere i seguenti punti:

    L’eucaristia è celebrata in greco, lingua nella quale Giustino scrive la sua corrispondenza.  Essa inizia con la liturgia della parola: proclamazione delle scritture, in lettura continuata, tratte dall’antico e dal nuovo testamento; omelia del vescovo; preghiera universale per la chiesa di tutto il mondo; infine g che segna il passaggio dalla parola all’eucaristia propriamente detta.

    Segue la liturgia eucaristica.  Il gruppo è numeroso; non ci si siede più a tavola; in piedi, si sta attorno (circumstantes) a un altare dal quale presiedono il vescovo e il suo presbiterio.  Abbiamo l’offertorio del pane e del vino rosso misto ad acqua, la preghiera eucaristica lungamente improvvisata dal vescovo a partire da qualche linea di forza (lode alla Trinità, racconto dell’istituzione eucaristica, invocazione dello Spirito santo o epiclesi), e il potente ‘Amen’ dell’assemblea; infine la frazione del pane e la comunione di tutti, sotto le due specie (il pane dato nelle mani, il vino bevuto dal calice).  La colletta per i poveri chiude la messa per far calare nella vita quotidiana la “spartizione fraterna”: è questa un’usanza apostolica!

    Il più antico canovaccio di preghiera eucaristica che abbiamo non è quello del “Canone romano” della messa di s. Pio V, ma quello de La tradizione apostolica di sant’Ippolito, del secolo III; che è stata da poco riscoperta e rimessa in uso dal papa Paolo VI (la preghiera II col suo mirabile prefazio).  Prete romano, Ippolito la scrive in greco, perché la chiesa di Roma prega ancora in greco, la lingua del popolo cristiano romano … di ieri.  Ippolito polemizza perfino col papa, perché quest’ultimo fa virare la liturgia verso il latino per seguire il popolo nella evoluzione anche linguistica.  Un “integrista”, questo Ippolito, che dimostrerà il suo vero amore a Cristo col martirio!

    Nella seconda metà del secolo III, dunque, la liturgia romana passa senza troppe scosse dal greco al latino, lingua sempre più universalmente parlata dal popolo.

    Nel IV secolo s’introducono nella messa l’Alleluia dell’evangelo e il Padre nostro.

    Nel V secolo appaiono le tre “orazioni”, o “collette” che ora chiamiamo “orazione d’apertura”, “orazione sulle offerte” e “orazione dopo la comunione”.  Il Kyrie eleison (tratto, per amore dell’unità, dalla liturgia orientale) sottolinea alcune preghiere litaniche all’inizio della celebrazione, e ciò purtroppo a detrimento della preghiera universale che cadrà ben presto nel dimenticatoio.  Il bacio di pace che suggellava questa preghiera universale è portato verso la comunione.  Le messe di piccoli gruppi sono solo un lontano ricordo; siamo passati alle celebrazioni di massa che è necessario animare.  Si organizza così una processione d’offertorio, si solennizzano i movimenti della folla con canti di processione: canto d’entrata, canto d’offertorio, canto di comunione; e nasce il graduale (gradus = gradino).

    Nel VI secolo s. Gregorio Magno arricchisce la celebrazione delle feste con l’introduzione del Gloria in excelsis Deo (“Gloria a Dio nel più alto dei cieli”).  Privilegia e completa una preghiera eucaristica che sostituirà quella de La tradizione apostolicacanone romano”. che l’occidente conoscerà, e solo questo, per quattordici secoli: è la nostra preghiera eucaristica. Da quell’epoca viene solennizzato il prefazio col Sanctus . e altre, molto numerose nella liturgia della Gallia e di Spagna, diventando ben presto “il canone” (canone = regola), “il

    Sfortunatamente, in questo trambusto unificatore, si è perduto di vista lo Spirito santo: il canone romano non contiene nessuna epiclesi (l’invocazione dello Spirito per consacrare il pane e il vino).  Ciò ci verrà rinfacciato, e con ragione, dalla tradizione orientale.

    Nei secoli VII-VIII ecco le luci non più per sola utilità, ma anche come decorazione, e le grandi incensazioni, i paramentilavanda delle mani e l’Agnus Dei; il Credo di Nicea-Costantinopoli sostituisce il simbolo degli apostoli.  In compenso, per dare spazio ai melismi del Sanctus, il “canone “, fino a quel tempo proclamato ad alta voce e anche cantato in gran parte, si attenua nel sottovoce per poi inabissarsi nel silenzio d’un semplice movimento di labbra; e così l’assemblea non saprà nemmeno su che cosa dovrà dire il proprio amen!

    Nel IX secolo la mentalità mistica e simbolistica del medioevo si scatena variando i colori liturgici.

    Nei secoli X-XII la messa è progressivamente appesantita da preghiere che il prete recita a bassa voce: mentre si veste in sacrestia, quindi ai piedi dell’altare, prima del vangelo, durante l’offertorio, prima della comunione, e alle abluzioni e dopo la messa.  Il messale di s. Pio V ne fisserà l’abbondante lista.

    Il XII e il XIII secolo vedono nascere l’Orate fratres, l’elevazione dell’ostia consacrata.  Non ci si comunicava quasi più, ma si voleva vedere l’ostia; una credenza superstiziosa vi legava la certezza di non morire per quel giorno o per quella settimana.

    Nel secolo XIV l’elevazione del calice seguirà quella dell’ostia, e “l’ultimo vangelo”, il prologo di s. Giovanni, fermerà paradossalmente il popolo in chiesa, quando era già stato congedato con l’Ite missa est. Il prete lo recitava, mentre si svestiva, ma siccome gli si attribuiva un potere d’esorcismo, i fedeli ne vollero la recita all’altare.  E s. Pio V lo fece obbligatorio.

    Il domenicano s. Pio V fu papa dal 1566 al 1572.  Sarebbe stato ai nostri giorni un grande realizzatore del Vaticano II, poiché consacrò il suo pontificato a mettere la chiesa al passo col concilio di Trento (15451563).  Di qui fra le altre riforme, quella liturgica promulgata nel 1568 e 1570, imponendo un breviario e un messale uniformi per tutte le chiese occidentali, che non beneficiavano d’una liturgia propria da duecento anni. La sua scelta cadde sul rito romano-franco, perché tale rito era, di fatto, il più diffuso grazie ai francescani.

    Pertanto, i grandi riti orientali (siriaco, caldeo, bizantino, armeno, copto e abissino) erano lasciati alle loro tradizioni.  Questi cristiani, cattolici al pari di noi, continuarono e continuano tuttora a celebrare, in lingue e rituali differenti, “la messa di sempre”.

    In occidente, gli antichi riti (lionese, ambrosiano, mozarabico, carmelitano, domenicano, certosino) conservarono e conservano tuttora il loro volto particolare.  Lo stesso s. Pio V continuò a usare personalmente il rito domenicano e probabilmente non celebrò mai “la messa di s. Pio V”. La riforma di Pio V ebbe un grande risultato: la fine dell’anarchia liturgica.

    Sfortunatamente la partecipazione concreta del popolo al sacrificio diminuì sempre di più, perché si mantenne il latino, la cui comprensione era riservata ai chierici e all’elite.

    Pio XII, nel 1956, ne rimodellò il cuore nella sua liturgia rinnovata del triduo pasquale.

    E poi venne il Vaticano II.


    La riforma conciliare


    Con la costituzione apostolica del 3 aprile 1969, Paolo VI ordinava, per il 30 novembre dello stesso anno, l’entrata in vigore del “messale conciliare” nel testo latino dell’edizione tipica.  Spettava alle conferenze episcopali tradurlo in lingua volgare e determinare la data in cui tale messale tradotto sarebbe entrato in vigore in ogni regione linguistica.  In obbedienza a questa Istruzione e in virtù di questo mandato apostolico, l’episcopato italiano ad esempio, rese obbligatori i testi del nuovo messale a partire dalla Pentecoste del 1973.

    Il concilio aveva precisato due linee di forza della riforma, che dovevano essere perseguite: semplificazione e restaurazione.

    Il movimento spontaneo del fervore e dell’arte (e l’arte è una forma di fervore) porta ad aggiungere, fino all’esagerazione, una cosa bella, ora, un’altra domani, una perla qui, un diamante là, in uno splendore sempre crescente… In questo modo le nostre pure cattedrali romaniche o gotiche del XIII secolo hanno visto le loro consorelle meno antiche sovraccaricarsi col rinascimento fino a esplodere nell’esuberanza del barocco.

    Allo stesso modo si è potuto paragonare la nostra liturgia eucaristica, dalle forme semplici e belle, a una splendida statua che i secoli hanno ornato di vesti preziose, di tuniche multicolori, di veli e di trine, di finissimi ricami, al punto da non sapere più che cosa nascondessero tutte queste aggiunte. La prima preoccupazione, quindi, del concilio fu quella di sfrondare:

    Ma il testo conciliare continua:

    “alcuni elementi, invece, che col tempo andarono ingiustamente perduti, siano riportati alla primitiva tradizione dei padri, nella misura che sembreranno opportuni o necessari”(ivi).

    Così decide che si riprendano la proclamazione continua delle scritture, l’omelia anche nelle messe durante la settimana, la preghiera universale o “preghiera dei fedeli”, la lingua del paese, la concelebrazione, l’invito a comunicarsidue specie.

    La celebrazione dell’Eucaristia

    La Liturgia dell’Eucaristia si svolge secondo una struttura fondamentale che, attraverso i secoli, si è conservata fino a noi. Essa si articola in due grandi momenti, che formano un’unità originaria:

    -la convocazione, la Liturgia della Parola, con le letture, l’omelia e la preghiera universale;

    -la Liturgia Eucaristica, con la presentazione del pane e del vino, l’azione di grazie consacratoria e la comunione.

    Liturgia della Parola e Liturgia Eucaristica costituiscono insieme “un solo atto di culto” (SC 56); la mensa preparata per noi nell’eucaristia è infatti ad un tempo quella della Parola di Dio e del Corpo e Sangue del Signore (cfr. DV 21).

    Non si è forse svolta in questo modo la cena pasquale di Gesù risorto con i suoi discepoli? Lungo il cammino spiegò loro le Scritture, poi, messosi a tavola con loro, “prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” (Lc 24,13-35).

    Catechismo della Chiesa Cattolica, 1346-1347

    ***

    L’indole sacra e organica della comunità sacerdotale viene attuata per mezzo dei sacramenti e delle virtù. I fedeli, incorporati nella Chiesa col battesimo, sono destinati al culto della religione cristiana dal carattere, ed essendo rigenerati quali figli di Dio, sono tenuti a professare pubblicamente la fede ricevuta da Dio mediante la Chiesa. Col sacramento della confermazione vengono vincolati più perfettamente alla Chiesa, sono arricchiti di una speciale forza dallo Spirito  Santo, e in questo modo sono più strettamente obbligati a diffondere e a difendere con la parola e con l’opera la fede come veri testimoni di Cristo. Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la Vittima divina e se stessi con Essa; così tutti, sia con l’oblazione che con la santa comunione, compiono la propria parte nell’azione liturgica, non però ugualmente, ma chi in un modo chi in un altro. Cibandosi poi del corpo di Cristo nella santa comunione, mostrano concretamente l’unità del Popolo di Dio, che da questo augustissimo sacramento è adeguatamente espressa e mirabilmente effettuata. Lumen Gentium, 11

    ***

    Come definisco la mia partecipazione alla liturgia eucaristica: è “attiva, consapevole, pia” (cfr SC 48)? Cosa potrei fare per migliorare la mia partecipazione?

    L’eucarestia è azione di tutto il popolo di Dio che è sacerdotale in virtù del battesimo e della confermazione, non è un’esperienza di fede individualista e intimistica. Durante l’eucaristia sento di far parte di un popolo, di un’assemblea? Mi sento unito agli altri? Cosa potrei fare a livello personale e comunitario per migliorare questo aspetto? Cosa proporre?

    La liturgia è esperienza di fede che si colloca all’interno della vita. Deve dialogare con la vita per essere vera e fruttuosa. Cosa fare per migliorare questo aspetto? Cosa proporre?

  • 19 Feb

    IL COMPIMENTO

    12. Finché venga il regno

    Il banchetto nuziale pone termine agli incontri fra fidanzata, non per annullarli, ma per completarli.  Fra gli sposi, infatti, tale banchetto non finirà più: inaugura la loro comunione per sempre.

    Così la cena di Gesù coi dodici (con noi, perché “i dodici” sono la totalità del popolo di Dio) dà compimento a tutti i banchetti di comunione con Dio, quelli del passato e quelli del futuro:

    – quelli del passato lontano delle antiche alleanze il cui culmine l’abbiamo sul Sinai: “Contemplarono Dio, mangiarono e bevettero

    – quelli del passato prossimo, quando “Gesù accolse i peccatori e mangiò con loro”, spezzò il pane “coi suoi discepoli”, o “colmò di beni gli affamati”;

    – quelli del futuro, le innumerevoli “frazioni del pane” della chiesa cristiana fino al banchetto eterno: “Fate questo in memoria di me.  Finché venga il regno” (Lc 22,18-19).

    E fino a quel momento, per tutto questo tempo, Gesù ripete ai suoi: “io sarò con voi, sino alla fine dei tempi(Mt 28,20).

    Senza la presenza reale del risorto al centro delle nostre eucaristie, le nostre messe non potrebbero essere “comunione”, ma solo un sogno sentimentale e vuoto; non potrebbero essere “memoriale”, ossia presenza reale dell’avvenimento pasquale, con tutte le alleanze che l’hanno preparato fin dalla creazione ma semplice e nostalgico ricordo.

    Le nostre messe sono comunione con Dio e con gli altri, perché sono presenza reale di Gesù Cristo.

    Ma quale presenza reale?

    Cristo risorto è presente a tutto il mondo, perché il suo corpo glorificato non è più condizionato dallo spazio e dal tempo: egli è ovunque, opera ovunque, “illumina ogni uomo”, anche chi non ne è cosciente.

    Si istruiscano i fedeli perché conseguano una più profonda comprensione del mistero eucaristico, anche riguardo ai principali modi con cui il Signore stesso è presente nella sua chiesa nelle celebrazioni liturgiche.  E’ infatti sempre presente nell’assemblea dei fedeli riuniti nel suo nome.  E’ presente pure nella sua parola, perché parla lui stesso, mentre nella chiesa vengono lette le sacre scritture. Nel sacrificio eucaristico, poi, è presente sia nella persona del ministro, perché colui che ora offre per mezzo dei ministero dei sacerdoti, è il medesimo che allora s’offrì sulla croce; sia, e soprattutto, sotto le specie (apparenze) eucaristiche.

    In quel sacramento, infatti, in modo unico, è presente il Cristo totale e intero, Dio e uomo, sostanzialmente e ininterrottamente.  Tale presenza di Cristo sotto la specie si dice reale, non per esclusione, quasi che le altre non siano reali, ma per antonomasia. (EM 9: E V 11, 1309).

    Nei sacramenti abbiamo più che una presenza: abbiamo un incontro, consapevole da una parte e dall’altra, mediante una parola onnipotente, un gesto divinizzante: è Cristo che battezza, conferma, assolve, ordina, unisce, mediante il ministero della chiesaTuttavia non è personalmente presente nell’acqua, nell’olio, ma solo mediante la sua azione spirituale: si serve dell’acqua, dell’olio, ecc.

    Nell’eucaristia, invece, Cristo è presente realmente, personalmente, corporalmente, e non solo mediante la sua opera spirituale: “Questo è il mio corpo.  Questo è il mio sangue”.  Il termine “è” della Parola taglia come una spada affilata.

    A chi vorrebbe vedervi solo un paragone, una metafora, come quando Gesù aveva detto “Io sono la vera vite”, dovremmo rispondere con lo stesso Maestro nella sinagoga di Cafarnao (Gv 6,51 ss):

    Io sono il pane vivo disceso dal cielo.  Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno, e il pane che io darò è la mia carne… – Come può costui darci la sua carne da mangiare? – In verità, in verità vi dico: se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo… Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna.  Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda… Chi mangia questo pane vivrà in eterno.

    Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?”

    Gli ascoltatori hanno ben capito che questo pane è la carne di Gesù.  Delusi e stomacati, se ne vanno via in massa; gli stessi discepoli “sono scandalizzati”.  Gesù li potrebbe trattenere dicendo: “Ma insomma, capitemi bene: è un modo di dire, un genere letterario, un simbolo”.  No, non dice nulla per trattenerli.  Loro hanno compreso bene: Gesù accentua il senso realistico che ripugna loro.  Non vogliono credere?  Che se ne vadano allora.  La verità rimane: “Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue”.  Presenza reale.  L’affermazione di Cristo non lascia adito a dubbi.

    Gesù non dice nulla per spiegare la sua affermazione, per dire cioè il modo con cui è presente.

    Veramente, realmente, sostanzialmentepresente, dichiara il concilio di Trento.  Tre termini che hanno qui il medesimo significato e si rafforzano reciprocamente in una ripetuta affermazione.

    Quando il concilio parla di sostanza e di transustanziazione, non usa il termine  “sostanza” nel senso che gli dava Aristotele e ripreso dalla scolastica del secolo XIII, ma l’usa nel senso tradizionale della teologia.  Fortunatamente, dobbiamo dire, perché il linguaggio d’Aristotele è cosa da iniziati e non ha più corso fra gli uomini d’oggi.  Comunque, non può essere applicato a un corpo glorioso.

    Sfortunatamente, però, la teologia postridentina ha un po’ dimenticato che il corpo realmente presente nell’eucaristia è il corpo del Risorto.

    Nella teologia del XII secolo, in quella del concilio di Trento, come nelle lingue nazionali dal secolo XIV al XX secolo, “sostanza” significa ciò che c’è d’essenziale in una cosa o in un’idea, la realtà profonda d’un essere al di là delle apparenze. Diciamo, ad esempio: “Che cosa ha affermato, in sostanza, l’oratore?”, “Serviteci un Pasto sostanzioso… “

    Ebbene, nell’eucaristia la sostanza del pane e del vino è “convertita” nel corpo glorioso di Gesù Cristo.

    –  Gli elementi fisico-chimici (quanto chiamiamo le “apparenze”, i “fenomeni”, oppure, con un termine obsoleto, le “specie”) non mutano.  Un’analisi fatta in laboratorio mostrerebbe che il pane e il vino, dopo la consacrazione, appartengono come prima, materialmente parlando, all’universo fisico-chimico della biologia vegetale. E ‘falso pertanto affermare: Cristo ha “sostituito” il pane e il vino, come se un corpo glorioso potesse “prendere il posto” di cellule biologiche!  Il concilio di Trento ha rifiutato il termine “sostituzione” ma ha affermato: “la sostanza del pane e del vino è “convertita” nella sostanza del corpo e dei sangue del Signore”: lo sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete… lo sono il pane vivo, disceso dal cielo.  Se uno mangia di questo pane vivrà ‘n eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo… in verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne dei figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita.  Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.  Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.  Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.  Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me.  Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono.  Chi mangia questo pane vivrà in eterno. (Gv 6,35-58)

    La sostanza, ossia la realtà profonda ed essenziale d’un essere, ciò che è per voi realmente.  Questa persona, per esempio, non è per te un certo peso tradotto in chilogrammi di materia albuminoide, ma tua moglie, o tuo marito, o tuo figlio, e niente altro.  Un giornale, per te e per me, è veramente, realmente, sostanzialmente l’insieme delle informazione del giorno, e niente altro; per il bottegaio è veramente, realmente e sostanzialmente un pezzo di carta per avvolgere la sua merce, e niente altro; per le termiti d’Africa è veramente, realmente e sostanzialmente un cibo prelibato, e niente altro.  La sostanza è quanto un essere rappresenta per noi: ciò che vi cerchiamo e vi troviamo.

    Ebbene, per i cristiani, il pane e il vino consacrati sono veramente, realmente e sostanzialmente Gesù risorto, perché Gesù stesso l’ha voluto, appunto lui vi cerchiamo e vi troviamo, niente altro.  Mediante il dono del suo amore e la potenza sacramentale della sua Parola, la realtà profonda del pane e del vino è “convertita” in una realtà d’un altro mondo, quello della risurrezione: lo stesso Cristo glorioso.

    Lasciamo stare i miracoli, raccontati nel medioevo, d’ostie sanguinanti o di Bambin Gesù visti nelle mani del prete.  Altro non furono che delle “apparenze” per rinfocolare la pietà.  Poiché il bambin Gesù non esiste più, è diventato adulto; e il suo corpo non sanguina più, nemmeno nell’ostia: è glorioso.

    L’eucaristia è stata istituita per essere mangiata, ci richiama il concilio di Trento. E’ volere di Gesù Cristo che il pane e il vino siano consacrati per essere cibo e bevanda.  Non possiamo disgiungere il “Questo è il mio corpo” dal “Prendete e mangiate tutti!”.

    La tradizione dei primi secoli, come quella ancora viva dell’oriente cristiano, non conoscono la riserva del sacramento dopo la messa se non per il viatico dei morenti e per la comunione dei malati, e non per un culto o una comunione al di fuori della messa.

    Tuttavia, questa permanenza dell’eucaristia è un mistero significativo:

    1)    Esso ci ricorda che l’avvenimento pasquale non è solamente un fatto del passato, ma l’avvenimento permanente della vita celeste di Cristo, risorto e glorificato nell’atto supremo della sua morte d’amore.

    2)    Ci ricorda che la nostra messa del mattino o della domenica ha coinvolto anche noi, in maniera permanente, nella sua morte d’amore

    Un tabernacolo abbandonato, quindi, non è necessariamente un tabernacolo davanti al quale nessuno è inginocchiamo in adorazione, ma piuttosto quello d’una comunità cristiana che non ha nessun membro impegnato, in base alla comunione che ha fatto, in un’opera concreta d’unità e di dono di sé.

    Dovremmo allora parlare d’eucaristia “invalida”, poiché lo scopo del Signore in questo sacramento non è di “convertire” del pane e del vino, ma di “convertire” i nostri cuori e le nostre comunità in modo da essere noi stessi, personalmente e come gruppo cristiano, “il corpo di Cristo”.

    Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri?  Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli.  Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi.  Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue.  Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista.  Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate le giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova. (Is 1,12-17)

    Il vero problema è appunto qui.  Non si tratta affatto di sapere se e per quanto tempo, Cristo rimane sacramentalmente presente nel “cuore” di chi s’è comunicato…

    “Quando l’eucaristia è stata consumata, la presenza del Signore non viene a mancare, ma si traspone.  Il sacramento ha terminato la sua funzione, Cristo è dato alla chiesa, il pane non deve essere più mangiato e può cessare d’essere il mezzo di presenza del Signore.  Non c’è ragione per rendere un culto d’adorazione a un’eucarestia che prolungherebbe ancora per un po’ la sua esistenza nel corpo di chi s’è comunicato.  Questo corpo non diventa né ciborio né tabernacolo, ma è ormai esso stesso consacrato nello Spirito santo e diventa a sua volta, assunto nel suo Signore, sacramento della presenza pasquale di Cristo nel mondo. L’eucaristia trasforma sempre maggiormente la chiesa in ciò che già è mediante la fede e il battesimo: la sposa di Cristo, il corpo di Cristo nel mondo”‘(F.X. Durrwell).


    “La certezza bimillenaria”

    Prima di chiudere questo capitolo, vogliamo ascoltare la testimonianza data, nel suo ritiro in Vaticano (1970) davanti al papa e alla curia romana, dal padre Jacques Loew, per qualche tempo scaricatore di porto, passato dall’ateismo alla fede cristiana, e poi prete, domenicano, fondatore della Missione saint-Pierre-saint-Paul e della Scuola della fede a Friburgo: “Vi dicevo stamattina che, quando ero ancora un non credente, ero stato alla Valsainte.  Avevo domandato ai certosini, se volevano accogliermi per qualche giorno di riflessione.  Desideravo veramente sapere se Dio esistesse o no.  Orbene, alla Valsainte mi sono trovato come messo alle strette col mistero dell’eucaristia, al quale io non pensavo per nulla.  E se oggi sono in mezzo a voi, è ben a causa di esso.  Il padre incaricato degli ospiti m’aveva accolto bene.  Mi aveva ascoltato.  Mi aspettavo che mi facesse tutto un discorso apologetico ed ero preparato a questo.  Mi dicevo: “Vai dai preti, ti racconteranno tutto un catechismo”.  Ma lui m’aveva ascoltato e m’aveva semplicemente detto: “Va bene, è sulla buona strada, continui”.  Mi aveva mostrato la cappella: “Se vuole andarci, ci vada pure”.  Quando un ufficio cominciava, io mi mettevo in ginocchio, perché pensavo che fosse il contegno corretto: ma quegli uffici di certosini non finivano mai e, stanco d’essere in ginocchio, alla fine mi sedevo.  Crac!  Era il momento dell’elevazione e tutti si mettevano in ginocchio.  Andavo proprio fuori tempo!

    Era la settimana santa.  Un mattino, durante l’ufficio, a un certo momento vedo i monaci lasciare i loro stalli e venire a schierarsi attorno all’altare dove celebrava il padre abate, poi vedo i fratelli uscire da dietro le grate del coro e venire ugualmente a mettersi attorno all’altare; e infine gli ospiti in ritiro scendere da una scala a chiocciola e andare anche loro a prendere posto in quel medesimo cerchio attorno all’altare.  E io mi trovai solo in un angolo, lontano da tutti, al momento in cui la santa comunione veniva distribuita: era la messa del giovedì santo.  Tutto solo, nella tribuna! E là veramente ho sentito che o quegli uomini, monaci, frati, ospiti in ritiro, erano pazzi – e andavano a inghiottire non so quale pastiglia oppure veramente ero io il cieco che non capiva di che cosa si trattasse.  Ora, vedevo quei certosini, notavo la loro calma, il loro equilibrio, scoprivo uomini capaci di vivere una vita intera nel silenzio e nella solitudine, non potevo dirmi che erano pazzi.  Ero ben obbligato a pensare, anche inconsciamente, che davvero vi era là un non-so-che il quale mi superava, una Presenza santa al di là del visibile.

    Ciò è stato il punto di partenza: non credevo ancora in Dio, ma ormai mi mettevo a cercarlo con la certezza che l’invisibile poteva esistere.  Più tardi Dio si è rivelato a me come una certezza; ma Gesù Cristo non era una leggenda?  Un giorno ho potuto capire che se Dio era Dio, al di là di tutti i nostri limiti, era capace d’amare il mondo fino a dargli il suo Figlio: allora ho creduto al Signore Gesù.

    Ma si poneva ancora una questione: ero stato battezzato cattolico, ma educato vagamente nel protestantesimo; sarei stato cattolico o protestante?  Decisi di frequentare la Cena protestante per vedere com’era, ma ogni volta che domandavo ad amici protestanti o a pastori di spiegarmi che cosa avviene alla Cena, ognuno mi dava una risposta personale: un ricordo,… una memoria,… un pasto fraterno… Ero solo e non vedevo nessun prete (avevo lasciato la Valsainte dopo otto giorni); ma quando leggevo nel vangelo: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”, mi ritrovavo alla Valsainte alla tribuna, solo nell’angolo sinistro, di fronte a tutti quei monaci che, dal tempo di Gesù fino a oggi, ripetevano: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”, e ricevevano con adorazione il corpo di Cristo.

    E se alla fine, con la grazia di Dio e da essa certamente sospinto, ho scelto il cattolicesimo; se, dopo sei mesi di riflessione, sono andato da un sacerdote dicendogli: “Voglio essere cattolico”, è a causa di questo tesoro unico dell’eucaristia e perché solo la chiesa mi sembrava essere fedele al “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”.  Ciò è stato più forte di tutte le mie difficoltà, perché essendo senza fede, educato in una famiglia socialista, capite bene che la chiesa era un boccone grosso da trangugiare con tutte le idee false che si possono avere nella testa: c’era Galileo, c’erano i papi del rinascimento e tante altre cose.  Ma tutto questo non pesava nulla, in conclusione, di fronte alla fedeltà della chiesa cattolica alla parola: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”.  Che niente venga a diluire o a svuotare la certezza bimillenaria di questo tesoro che sostiene e riassume la nostra fede!”.

    La chiesa cattolica non solo ha sempre insegnato, ma anche vissuto la fede nella presenza del corpo e dei sangue di Cristo nell’eucarestia, adorando sempre con culto latreutico, che compete solo a Dio, un così grande sacramento.  Di questo culto s. Agostino scrive: “In questa carne (il Signore) ha qui camminato e questa stessa carne ci ha dato da mangiare per la salvezza; e nessuno mangia quella carne senza averla prima adorata… sicché non pecchiamo adorandola, ma anzi pecchiamo, se non l’adoriaino”. Non solo durante l’offerta dei sacrificio e l’attuazione del sacramento, ma anche dopo, mentre l’eucaristia è conservata nelle chiese e negli oratori, Cristo è veramente I”‘Emmanuel”, cioè il “Dio con noi”.  Poiché giorno e notte è in mezzo a noi, abita con noi pieno di grazia e verità; restaura i costumi, alimenta le virtù, consola gli afflitti, fortifica i deboli, e sollecita alla sua imitazione tutti quelli che si accostano a lui, affinché col suo esempio imparino a essere miti e umili di cuore, e a cercare non le cose proprie ma quelle di Dio.  Chiunque perciò si rivolge all’augusto sacramento eucaristico con particolare devozione e si sforza d’amare con slancio e generosità Cristo che ci ama infinitamente, sperimenta e comprende a fondo, non senza godimento dell’animo e frutto, quanto sia preziosa la vita nascosta con Cristo in Dio e quanto valga stare a colloquio con Cristo, di cui non c’è niente più efficace a percorrere le vie della santità (Paolo VI)

    Finché venga il tuo regno

    Il modo della presenza di Cristo sotto le specie eucaristiche è unico. Esso pone l’Eucaristia al di sopra di tutti i sacramenti e ne fa quasi il “coronamento della vita spirituale e il fine al quale tendono tutti i sacramenti” (s. Tommaso d’A.) nel Santissimo Sacramento dell’Eucaristia è “contenuto veramente, realmente, sostanzialmente il Corpo e il Sangue di nostro Signore Gesù Cristo, con l’anima e la divinità e, quindi, il Cristo tutto intero” (Conc. Trid.) “Tale presenza si dice “reale” non per esclusione, quasi che le altre non siano “reali”, ma per antonomasia, perché è sistanziale, e in forza di essa Cristo, Uomo-Dio, tutto intero si fa presente” (Paolo VI).

    E’ per la conversione del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo Sangue che Cristo diviene presente in questo sacramento. I Padri della Chiesa hanno sempre espresso con fermezza la fede della Chiesa nell’efficacia della Parola di Cristo e dell’azione dello Spirito Santo per operare questa conversione. San Giovanni Crisostomo, ad esempio afferma: “Non è l’uomo che fa diventare le cose offerte Corpo e Sangue del Signore, ma è Cristo stesso, che è stato crocifisso per noi. Il sacerdote, figura di Cristo, pronunzia quelle parole, ma la loro virtù e la grazia sono di Dio. Questo è il mio Corpo, dice. Questa Parola trasforma le cose offerte”.

    E sant’Ambrogio, parlando della conversione eucaristica, dice: “Non si tratta dell’elemento formato da natura, ma della sostanza prodotta dalla formula della consacrazione, ed è maggiore l’efficacia della consacrazione di quella della natura, perché, per l’effetto della consacrazione, la stessa natura viene trasformata… La parola di Cristo che poté creare dal nulla ciò che non esisteva, non può trasformare in una sostanza diversa ciò che esiste? Non è minore impresa dare una nuova natura alle cose che trasformarla”.

    E’ oltremodo conveniente che Cristo abbia voluto rimanere presente alla sua Chiesa in questa forma davvero unica. Poiché stava per lasciare i suoi sotto il suo aspetto visibile, ha voluto che noi avessimo il memoriale dell’amore con il quale ci ha amati “sino alla fine” (Gv 13,1), fino al dono della propria vita. Nella sua presenza eucaristica, infatti, egli rimane misteriosamente in mezzo a noi come colui che ci ha amati e che ha dato se stesso per noi (cfr Gal 2,20), e vi rimane sotto i segni che esprimono e comunicano questo amore.

    “Che in questo sacramento sia presente il vero Corpo e il vero Sangue di Cristo “non si può apprendere coi sensi – dice san Tommaso – ma con la sola fede, la quale si appoggia sull’autorità di Dio”. Per questo commentando il passo di san Luca 22,19: “Questo è il mio Corpo che viene dato per voi”, san Cirillo dice: “Non mettere in dubbio se questo sia vero, ma piuttosto accetta con fede le parole del Salvatore: perché essendo egli la verità non mentisce”. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1374-1381 (passim)

    La Cena di Gesù con i Dodici è il compimento di tutti i banchetti di comunione con Dio: sia passati che futuri.

    Sino a che la Chiesa camminerà sulle strade del mondo non verrà meno la parola di Gesù: “Io sarò con voi sino alla fine dei tempi” (Mt 28,20).

    Questa sua presenza è nella Chiesa viva reale nel sacramento dell’Eucaristia.

    Cfr     Mt 28,20

    Lc 22,18-20

    ***

    Nell’eucarestia è “veramente, realmente, sostanzialmente” presente il Corpo e il Sangue di Gesù Risorto. Quel pane e quel vino per l’azione dello Spirito santo sono convertiti, trasformati nella loro sostanza: sono Corpo e Sangue del Signore. E’ Gesù che ha voluto questo.

    ***

    L’eucaristia è stata istituita non anzitutto per essere adorata, ma per essere da noi mangiata, consumata. Non possiamo distinguere il “Questo è il mio Corpo” dal “Prendete e mangiatene tutti”.

    E questo mi rimanda al fatto che Cristo vuole entrare nel profondo della mia esistenza per trasformarmi in lui. Sono dalla potenza dello Spirito “cristificato”.

    ***

    La presenza del Cristo nelle specie eucaristiche non è momentanea, essa permane come permane la sua offerta al Padre e a noi. L’eucaristia presente nel tabernacolo mi richiama all’adorazione, alla lode e al ringraziamento, al fare memoria del sacrificio di Cristo, alla preghiera perché la mia vita si trasformi in un dono continuo, costante ai miei fratelli e al Padre.

    Il tabernacolo abbandonato è anzitutto una comunità incapace di vivere l’eucarestia nella carità di ogni giorno.

  • 18 Feb

    IL COMPIMENTO


    11. “Allora ho detto: eccomi”

    Gesù e i suoi apostoli hanno fatto una cena pasquale “classica”?  Nessun evangelista afferma che hanno mangiato l’agnello rituale.  E sappiamo da Giovanni 18,28 che, per l’insieme del popolo, l’immolazione degli agnelli avrebbe avuto luogo, nel tempio, nel pomeriggio del 14 di nisan il venerdì – nell’ora della agonia e della morte in croce di Gesù, il vero agnello pasquale.

    Nulla di straordinario che ci sia stata un’anticipazione del rito. I manoscritti di Qumrán ci rivelano che il calendario legale non era adottato universalmente.  Alcune comunità praticavano delle anticipazioni ufficiose. Forse come a Qumrán e in altre “chiese ebraiche” dell’epoca, Gesù anticipò di un giorno il suo pasto pasquale.  E di ciò nessun discepolo ebbe a meravigliarsi. Gesù aveva i suoi buoni motivi.

    Gesù sembra essere stato molto vicino a un movimento di risveglio religioso assai importante in quel tempo, i battezzatori.  Battezzato di sua volontà da Giovanni Battista, egli stesso ha battezzato in massa attraverso il ministero dei suoi discepoli (Gv 3,22-30; 4,1-2), prima di fare del battesimo il grande rito di aggregazione alla sua chiesa.

    Tali battezzatori si segnalavano per il loro rifiuto di cibarsi di carni sacrificali.

    Come potevano allora praticare il pasto pasquale?  Ciò nonostante erano fra gli ebrei i più vivi e i più spirituali.  Soprattutto dopo l’esilio, si era diffusa l’usanza di “sacrifici di pienezza”, cioè di “piena comunione con Dio e tra i partecipanti”, sacrifici in cui la lode aveva un posto maggiore dello stomaco.

    I responsabili del tempio li tolleravano perché erano molto in voga negli strati popolari.  Questi “pasti eucaristici” – venivano chiamati proprio così – erano pasti cultuali in cui si lodava Dio con salmi di ringraziamento, in cui si implorava e si attendeva la redenzione di Israele, condividendo soprattutto il pane e il vino.

    Ad ogni modo, i racconti evangelici non sono dei reportages, ma una rivelazione teologica.  Dell’evento conservano perciò solo ciò che è nuovo, ciò che è vissuto nell’eucaristia cristiana della loro comunità.  Se non ricordano l’agnello pasquale, non si può trarre la conclusione che non faceva parte del menu, ma che non aveva più alcuna importanza.

    Consacrando il pane e il vino, Cristo elimina ogni traccia di sacrificio animale.

    Morendo sulla croce nell’ora delle immolazioni del tempio, egli alza verso il Padre e sul mondo il corpo donato e il sangue versato dell’unico vero agnello “pasquale”: colui che “passa” effettivamente e “fa passare” verso Dio.

    Egli è sulla tavola, sulla croce, come la perfetta realizzazione di tutti i sacrifici di espiazione, di redenzione, di implorazione, di comunione e di lode tentati attraverso i secoli dagli ebrei e dai pagani. Il suo unico sacrificio pone fine, nel regime dell’amore che inaugura, all’inganno delle sostituzioni.- non si ha più il diritto di vagare altrove alla ricerca della vittima.

    “Poiché è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri.  Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Ebr 10,4ss).

    Perché “un corpo”? Per essere sacrificato?  No. Ma “un corpo, per fare, o Dio, la tua volontà”.

    Dopo avere detto prima “non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato”, cose tutte che vengono offerte secondo la legge, soggiunge: “Ecco, io vengo a fare la tua volontà”.  Con ciò stesso egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo.  Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta dei corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre. (Ebr 10,8-10)

    E’ lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla” (Gv 6,63), ha affermato Gesù, parlando proprio dell’eucaristia.  E con ciò voleva dire: “La mia carne per la vita del mondo non è innanzitutto la materialità della mia morte sulla croce; è lo spirito, cioè l’amore che mi porta a offrirmi liberamente alla morte”. Tale amore fu quello di tutta la sua vita.

    In primo luogo la sua incarnazione: “Io vengo per fare, o Padre, la tua volontà”.  “Entrando nel mondo”.

    Poi, attraverso tutta la sua vita, questo “sì” al Padre non si smentisce mai, non esita, non viene mai meno.  La sua vita “non fu “sì” e “no”, ma in lui c’è stato il “sì” “ (2Cor 1,19).  “Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11,26): ecco tutta la sua esistenza… “Io faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Gv 8,29).  “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato” (4,34).

    Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.  Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra d’ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre. (Fil 2,6-11)

    Fino alla morte, e la morte di croce… Perché l’amore resta uguale a se stesso, sia nelle circostanze tragiche, come nel quotidiano con i suoi lavori monotoni e comuni.

    Allo stesso modo, per Gesù, davanti alla tortura.  La morte atroce del crocifisso sarà il sì di ogni giorno: “Non la mia volontà, ma la tua

    Il sacrificio di Cristo, pertanto, non può essere dell’ordine rituale, ma di quello della carità.  Di conseguenza, il sacrificio eucaristico non è dell’ordine rituale ma di quello della carità; nemmeno la comunione eucaristica è dell’ordine rituale, ma è dell’ordine della carità.  Non si tratta di compiere degli atti cultuali, né per lui né per noi.  Siamo di fronte a una trasformazione profonda, interiore, di tutto il nostro essere.  Si tratta d’offrire se stessi con Cristo, in Cristo e per Cristo al Padre nello Spirito santo.

    E’ questo il sacrificio che penetra i cieli!  Con la medesima “elevazione”, il Figlio sale sulla croce e poi ascende nella risurrezione di gloria.  Dio, appunto perché gradisce il suo sacrificio, l’accoglie “alla sua destra” e lo fa Signore del mondo.

    Solo la risurrezione fa della morte di Cristo un “sacrificio” e solo attraverso la risurrezione il Padre manifesta di gradire l’offerta, dimostra che essa “passa”, che è accolta nella piena comunione di Dio.

    L’offerta, così accettata, è “santificata”, “sacrificata”, pienamente “divinizzata”, nel senso che Gesù-Uomo entra nella sua piena potenza di Figlio di Dio (Rm 1,4) e ci trascina dietro a lui.  (Cfr  Is 53,10-12)

    Tutta la portata e l’ampiezza, tutto il movimento unico dei sacrificio di Cristo sono contenuti in un inno cristiano primitivo che ci viene tramandato da s. Paolo in Fil 2,5-11: la spogliazione dell’incarnazione, l’obbedienza del servo per sempre, l’obbedienza fino alla croce.  Per questo Dio l’ha innalzato.

    Nel culto ebraico, il rito della grande espiazione doveva essere ripetuto ogni anno:

    Doni e sacrifici non possono rendere perfetti.  Cristo, invece, _venuto come sommo sacerdote di beni futuri… non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario (= presso il Padre), procurandoci così una redenzione eterna” (Eb 9,9-12).

    Così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti…” (v. 28);

    siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre”(10,10).

    Nessuna messa, quindi, rinnoverà questo sacrificio o vi aggiungerà qualcosa.  La messa ci rende presente l’unico sacrificio di Cristo.

    Il sacrificio di Cristo è, pertanto, chiaramente posto nel passato: non abbiamo un’immolazione rinnovata di Cristo per il fatto ch’egli è ridotto sotto apparenze insignificanti, o che lo si mangia e lo si beve, o che il pane è separato dal vino come il corpo dal sangue.  “Una volta per sempre” vuoi dire appunto una volta per sempre! E tuttavia, l’unico sacrificio è realmente presente alla messa, non solamente “rappresentato” sotto il simbolo del pane (corpo dato) e del vino (sangue versato), ma presente, o, se si preferisce, “ri-presente” nel senso di “presente nuovamente”.

    E necessario, infatti, che sia presente.  La salvezza del mondo è nella morte di Gesù, la risurrezione degli uomini è nel suo corpo.

    Ma presente in che modo?

    Sappiamo che la morte fissa eternamente ciascuno nella disposizione in cui essa lo coglie.  Cristo muore nel momento culminante del dono d’amore al Padre e ai fratelli, e quindi è risorto, glorificato per sempre in siffatto stato.  Non esiste altro Cristo che Gesù al culmine della sua vita, della sua morte, del suo amore.  Gesù è glorificato al culmine del suo sacrificio.

    Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. (Eb 9,24)

    A ogni messa (“Questo è il mio corpo… il mio sangue”) è quindi presente realmente sull’altare nello stato in cui si trova per sempre: accolto e glorificato al culmine dei suo sacrificio. E questo “il sacrificio della messa”…

    Ma a che serve?

    E’ chiaro che, se Cristo è perfetto nel suo amore e nel suo sacrificio, la chiesa non lo è affatto!  Come un masso informe, essa deve essere squadrata a colpi di mazza, lavorata a colpi di scalpello, per diventare conforme al modello divino.

    Gesù, invitandoci a mangiare il suo corpo dato, a bere il suo sangue versato, ci coinvolge nel suo sacrificio.  Ci invita a fare una sola cosa con lui (mangiare!) per entrare con lui nel sacrificio ch’egli stesso fa della propria vita al Padre e ai fratelli: vivere come lui, morire con lui, a fuoco lento forse, ma realmente, concretamente, ventiquattr’ore su ventiquattro.

    Con che cosa mi presenterò al Signore, mi prostrerò al Dio altissimo?  Mi presenterò a lui con olocausti, con vitelli d’un anno?  Gradirà il Signore le migliaia di montoni e torrenti d’olio a miriadi?  Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per il mio peccato? Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio. (Mi 6,6-8)

    Questo il senso delle sue parole troppo dimenticate: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua”.  Dobbiamo, allora, accettare la parte che Gesù c’invita ad assumere nella sua stessa missione, accettare la sua rinuncia suprema, il suo amore insomma, e la sua gloria.  Non possiamo assolutamente cercare altrove la vittima!

    Bere allo stesso calice, segno del destino comune, simbolizza appunto questo: destino comune fra i partecipanti, ma prima di tutto destino comune con colui di cui si beve il sangue, Cristo, “obbediente al Padre fino alla morte e alla morte di croce”.

    Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini… anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione d’un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo… Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio s’è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua mirabile luce” (1 Pt 2,4-9).

    Se rimaniamo soli, staccati da Gesù, tutti i nostri “sacrifici”, materiali o spirituali, risultano vani, in quanto non c’è che un solo sacrificio per sempre; perché solo nella vita obbediente di Cristo e nella sua morte glorificante, nel suo corpo in una parola, s’opera la salvezza per tutti.  Per questo, come dice s. Pietro, “stringiamoci a lui”, con le nostre mani piene, per così dire, dei nostri “sacrifici spirituali”, in modo da gettarli nel suo sacrificio, dato che egli per primo, con la messa, s’avvicina a noi nello stato glorificato del suo sacrificio.

    Altrimenti egli rimane solo, inutile, poiché il suo sacrificio “una volta per tutte” non può essere “ripresentato” se non per accogliere il nostro.

    Tocca a noi essere questo “sacrificio spirituale”, ossia d’amore, come fu la vita di Gesù, nel compimento della volontà di Dio.  E ancora, dobbiamo “vivere non più per noi stessi”, dobbiamo essere noi stessi “in Cristo un’offerta vivente”, ogni giorno della nostra vita, come chiedono le preghiere eucaristiche:

    “Perché non viviamo più per noi stessi, ma per lui che è morto e risorto per noi, hai mandato, o Padre, lo Spirito santo, primo dono ai credenti, a perfezionate la sua opera nel mondo e compiere ogni santificazione”

    Ecco perché, Signore, “ti offriamo il suo corpo e il suo sangue, sacrificio a te gradito, per la salvezza del mondo.  Guarda con amore, o Dio, la vittima che tu stesso hai preparato per la tua chiesa; e a tutti coloro che mangeranno di quest’unico pane e berranno a quest’unico calice concedi che, riuniti in un solo corpo dallo Spirito santo, diventino offerta viva in Cristo, a lode della tua gloria”.

    “ALLORA HO DETTO: ECCOMI!”

    Nel Nuovo Testamento il memoriale riceve un significato nuovo. Quando la Chiesa celebra  l’Eucaristia, fa memoria della Pasqua di Cristo, e questa diviene presente: il sacrificio che Cristo ha offerto una volta per tutte sulla croce rimane sempre attuale (cfr. Ebr 7,25-27): “Ogni volta che il sacrificio della croce, «col quale Cristo, nostro agnello pasquale è immolato», viene celebrato sull’altare, si effettua l’opera della nostra redenzione” (LG 3).

    In quanto memoriale della pasqua di Cristo, l’Eucaristia è anche un sacrificio. Il carattere sacrificale dell’eucaristia si manifesta nelle parole stesse dell’istituzione: “Questo è il mio Corpo che è dato per voi” e “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi” (Lc 22,19-20). Nell’Eucaristia Cristo dona  lo stesso corpo che ha consegnato per noi sulla croce, lo stesso sangue che egli ha “versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt 26,28).

    L’Eucaristia è dunque un sacrificio perché ri-presenta (rende presente) il sacrificio della croce, perché ne è il memoriale e perché ne applica il frutto:

    Il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell’eucaristia sono un unico sacrificio. “Si tratta infatti di una sola e identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi”. “In questo divino sacrificio, che si compie nella Messa, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo che si offrì una sola volta in modo cruento sull’altare della croce” (Conc. Trid.)

    L’Eucaristia è anche il sacrificio della Chiesa. La Chiesa, che è il Corpo di Cristo, partecipa all’offerta del suo Capo. Con lui, essa stessa viene offerta tutta intera. Essa si unisce alla sua intercessione presso il Padre a favore di tutti gli uomini. Nell’Eucaristia il sacrificio di Cristo diviene pure il sacrificio  delle membra del suo Corpo. La vita dei fedeli, la loro lode, la loro sofferenza, la loro preghiera, il loro lavoro, sono uniti a quelli di Cristo e alla sua offerta totale, e in questo modo acquistano un valore nuovo. Il sacrificio di Cristo presente sull’altare offre a tutte le generazioni di cristiani la possibilità di essere uniti alla sua offerta.

    Catechismo della Chiesa Cattolica, 1364-1368

    ***

    La nostra partecipazione al Corpo e al Sangue del Signore Gesù Cristo non tende altro che a trasformarci in quello che riceviamo, a farci rivestire in tutto, nel corpo e nello spirito, da colui nel quale siamo morti, siamo stati sepolti e siamo risorti. S. Gregorio Magno, Disc. XIII

    ***

    Come io, con le braccia distese sulla croce e col corpo spogliato, spontaneamente ofrii me stesso al Padre per i tuoi peccati, cosicché nulla rimase di me che non fosse offerto in sacrificio per placare Dio, così tu pure devi offrirmi volentieri te stesso, come un’ostia pura e santa, ed ogni potere e affetto del tuo cuore, quanto più intimamente puoi. Che altro io ti chiedo? Se non che ti consegni interamente a me? Qualunque cosa tu mi offra, fuori di te, non la curo, perché non ti chiedo i tuoi doni, ma il tuo cuore. Imitazione di Cristo, IV,8.1

    ***

    Morendo sulla croce nell’ora delle immolazioni dei sacrifici nel tempio, Gesù sulla croce alza verso il Padre e sul mondo il suo Corpo donato e il suo Sangue versato, “unico vero agnello pasquale”. Colui che “passa” effettivamente e “fa passare” a Dio.

    Cfr       Ebr 10,4-10

    ***

    Tutta la vita di Cristo, dall’Incarnazione alla morte fu un “sì” incondizionato al Padre. Un rendimento di grazie, un’«eucaristia»

    Cfr       2Cor 1,19

    Mt 11,26

    Gv 4,34; 8,29;…

    Fil 2,6-11

    ***

    Il sacrificio di Cristo pertanto non si colloca ad un livello rituale, ma nell’ordine della carità. Di conseguenza il sacrificio eucaristico non è nell’ordine rituale ma nell’ordine della carità. Non si tratta dunque da parte nostra di compiere puri atti cultuali, né per lui né per noi. Siamo invece posti di fronte ad una trasformazione profonda, interiore di tutto il nostro essere invitato a divenire un’offerta in Cristo, per Cristo, con Cristo al Padre nello Spirito santo.

    Cfr       Mich 6,6-8

    ***

    Tocca a noi essere questo “sacrificio spirituale”, ossia d’amore, come fu la vita di Gesù, nel compimento della volontà di Dio. E ancora, dobbiamo “vivere non più per noi stessi”, dobbiamo essere noi stessi “in Cristo un’offerta vivente”, ogni giorno della nostra vita, come chiedono le preghiere eucaristiche: “Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito perché possiamo ottenere il premio eterno”

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