• 12 Mar

    DALLA  SANTITÀ  DESIDERATA
    ALLA  POVERTÀ  OFFERTA

    Sergio Stevan

    Nella Novo Millennio Ineunte, Giovanni Paolo II ha esortato la Chiesa, in tutte le sue componenti, a prendere il largo” nel cammino di santificazione. Resta vero il fatto che il cammino di ognuno è unico e irripetibile, e che le vie della santificazione personale sono diverse. Tuttavia a ognuno è chiesto di affrontare queste vie nella verità di un cammino graduale, che conosce le sue tappe e le accetta con pace: tappe che aiutano ad aprirsi a una disponibilità sempre più profonda attraverso l’opera dello Spirito in noi.
Ci lasciamo condurre, nella nostra riflessione, anzitutto dal cammino di vita di Pietro, così come emerge dalle pagine della Scrittura; e poi da un testo di padre Michel Rondet s.j., apparso diversi anni fa su una rivista francese. Il senso del nostro itinerario è così sintetizzato dall’autore: «Se si volesse descrivere con una formula il percorso globale della crescita spirituale, si potrebbe dire che essa va sempre dalla santità desiderata alla povertà offerta».

    Cominciando dalla Galilea. Il desiderio di essere santi

    L’inizio del nostro cammino nasce dall’invito che troviamo nella Scrittura: «Siate santi perché io il Signore, Dio vostro, sono santo»; «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». La vocazione alla santità, dono che ognuno di noi ha ricevuto, è la meta di ogni credente: appartenere radicalmente, in una sempre più intima conformazione, al Signore.
Ci sembra improrogabile la richiesta di Giovanni Paolo II: «È ora di riproporre a tutti con convinzione questa “misura alta” della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione».

    Chi parte nutre, in genere, l’entusiasmo di sentirsi pronto a qualunque sacrificio, disposto ad affrontare qualunque impresa. Ed è giusto che sia così. È l’ora dell’innamoramento, del desiderio infuocato che spinge ad affrontare il cammino, anche senza avere certezze sul come il Signore voglia condurvi.
«Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono».

    Ci aiuta in questo senso l’esperienza di Pietro che, pieno di fiducia nella Parola, non ha esitato neppure un minuto a prendere il largo e a buttare le reti per la pesca, nonostante la fatica di aver lavorato tutta la notte e la frustrazione di non aver pescato nulla.
Pietro incontra la parola di Gesù, ne sperimenta tutta la potenza avvolto dal suo fulgore. In forza di questa esperienza, il pescatore di Galilea è pronto a lasciare tutto per seguire Gesù e assomigliare un po’ a lui. E né affetti, né lavoro, né prospettive lo trattengono da questo slancio generoso: lo Spirito del Signore è capace di farci superare delle tappe che noi mai avremmo pensato di poter superare.
«Se la nostra fede non ha trasportato le montagne, ci ha fatto però vivere delle scelte generose. Qualcosa della novità evangelica si è manifestata in noi. Una primavera di grazia e libertà ci ha fatto credere che potremo procedere senza tener conto della fatica e della polvere dei cammini, dell’incertezza di vie sconosciute, di orizzonti avvolti nella nebbia».

    Agli inizi della chiamata troviamo tutto l’entusiasmo di chi ha bene in mente dove arrivare e cosa fare, anche perché il Signore indica la sua meta a chi vuole sinceramente seguirlo. In questa “stagione della vita“, si ha l’impressione che la chiarezza nell’ideale da perseguire sia la garanzia della riuscita in cui la buona volontà e la grazia di Dio saranno gli strumenti infallibili della realizzazione dell’ideale:  Se Dio mi vuole così (e io so bene come Dio mi vuole!), Egli saprà anche rendermi tale. .. e io, che so con certezza a quale ideale sono chiamato a tendere, non mi potrò sbagliare.
Non che tutto il cammino che si ha davanti sia perfettamente chiaro in ogni suo passo, naturalmente. È chiara la meta. È nitido l’ideale, limpido il valore in gioco: quello di diventare discepoli dell’unico vero Maestro. Sarebbe come vedere da lontano una cima da scalare, ma sconosciuto il sentiero che si dovrà percorrere. Tuttavia non c’è incertezza che trattenga chi è spinto dal desiderio della sequela: sia come sia, il percorso sarà coraggiosamente compiuto e la vetta felicemente raggiunta.

    Prendiamo l’esempio del giovane Francesco d’Assisi: da poco incamminatosi sulla via del Vangelo, gli capita di leggere il passo in cui Gesù invia i suoi discepoli a predicare, spogli di ogni sicurezza materiale, nutriti solo di povertà radicale. Affascinato, conquistato da questa prospettiva, che sente risuonare nel profondo di sé, può esclamare «con l’anima inebriata d’ineffabile letizia: “Questo io desidero, questo è ciò che io bramo di fare con tutto il cuore!”». 
Infatti, senza pensare ad altro che alla meta, senza altro considerare che i passi del Maestro, «si toglie immediatamente i calzari dai piedi, lascia il bastone, getta con disprezzo la borsa e il denaro e, contento d’una sola tunica, butta via anche la cintura, prendendo per cingolo una fune». Francesco desidera essere tutto di Cristo. La paura e la prospettata durezza del cammino non trovano posto in lui dove mettere le radici.

    Salire a Gerusalemme. La scoperta della realtà

    La vicenda di Pietro prosegue e passa attraverso quel sano realismo che lo denuda di ogni idealismo senza radici e di ogni illusione di perfezione: egli arriva a constatare che, in lui, ci sono fragilità e debolezze insospettate. E magari difficilmente superabili.
«Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Siccome avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno, anche Pietro si sedette in mezzo a loro. Vedutolo seduto presso la fiamma, una serva fissandolo disse: ”Anche questi era con lui”. Ma egli negò dicendo: “Donna, non lo conosco!”. Poco dopo un altro lo vide e disse: ”Anche tu sei di loro!”. Ma Pietro rispose: “No, non lo sono!”. Passata circa un’ora, un altro insisteva: “In verità, anche questo era con lui; è anche lui un Galileo”. Ma Pietro disse: “O uomo, non so quello che dici”. E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltato si, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. E, uscito, pianse amaramente».

    Pietro non si ritrova più nel sogno e nell’entusiasmo degli inizi.
Le sue tre risposte sono una graduale resa alla propria dolorosa sconfitta e alla consapevolezza della crisi profonda che attraversa la sua identità.
«Non lo conosco!»: non è questi il Gesù che ha scelto di seguire, non lo avrebbe seguito se avesse saputo che a questo sarebbe arrivato.
«Non lo sono!»: se Gesù non è colui che ha scelto di seguire, Pietro non è più se stesso, e la sua identità non è più ormai quella di prima. Anche l’ideale che ha coltivato in precedenza, di essere simile al Maestro, non lascia traccia in lui. Pietro non è più l’uomo di prima, né il suo ideale corrisponde più a quello di prima.
«Non so quello che dici», perché, non sapendo più chi sia, egli non può in verità mettersi in relazione con gli altri.
Pietro si ritrova a non essere quell’uomo che pensava di essere. In effetti non lo sarà mai.
In fondo l’ambiguità è in ogni uomo ed è vero che «noi facciamo il male che non vorremmo e non facciamo il bene che vorremmo».

    La tentazione a questo punto subentra insidiosa: tornare indietro. Pensare, con una certa amarezza e scoraggiamento, che si è andati in cerca di cose superiori alle proprie forze. «Abbiamo sognato, ci siamo sbagliati, dobbiamo riconoscerlo umilmente, non guardare più le vette che non sono alla nostra portata ed accontentarci di gestire al meglio le nostre debolezze e le nostre fragilità, ormai ben conosciute!». Eravamo convinti di camminare per salire le alte vette della santità e ci accorgiamo di essere ancora fermi, di non essere ancora partiti.
«Spesso Dio avrà permesso che il peccato ci apra gli occhi: un’infedeltà più forte, un ripiegamento egoista sono venuti a rompere l’immagine troppo positiva che noi ci eravamo costruiti di noi stessi». 
Il nostro castello interiore, sontuosamente costruito sul nostro ideale di sequela, segretamente convinto di impeccabilità, crolla e va in rovina sotto i colpi devastanti dell’ormai evidente debolezza.
E non si tratta dell’esperienza di un momento soltanto.

    Pietro aveva già dovuto fare i conti con la sua reale distanza dall’ideale evangelico quando, nei pressi di Cesarea di Filippo, aveva dovuto sentirsi rivolgere da Gesù quella tremenda ingiunzione: «Lungi da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Si può, dunque essere in cammino per le vie del Regno e nel cuore appartenere ancora al mondo. Forse che generosità ed entusiasmo non siano sufficienti a «rinascere dall’alto?».

    L’aver ricevuto lo spirito del Risorto non metterà Pietro al riparo da ricadute dolorose a causa dei suoi limiti: anche dopo la Passione di Gesù e la sua glorificazione rimane timoroso e in soggezione davanti a una parte della Chiesa di Gerusalemme, lasciandosene condizionare fino al punto da scordare la vita dell’autentico Vangelo. Non è forse il solito Pietro? Sempre di nuovo costretto a fare i conti con la sua umanità claudicante e non pienamente trasfigurata dallo Spirito.

    Ritornare in Galilea. La seconda chiamata

    Eppure Gesù Risorto si era trovato davanti un Pietro completamente rinnovato.
«Talvolta ci sembra che Dio ci attenda nelle nostre sofferenze e nei nostri fallimenti. In realtà molto spesso sono questi i soli mezzi che gli lasciamo per proporsi a noi, le sole fessure nella muraglia costruita intorno al nostro essere, l’unica possibilità che gli diamo, dopo il crollo dei nostri progetti e programmi, di condurci a ritrovare noi stessi di fronte al desiderio di essere pienamente e di vivere intensamente».

    La misericordia di Dio attendeva Pietro nella casa del sommo sacerdote dove – dopo un pianto amaro – il pescatore sa accogliere con umiltà la rivelazione della sua infedeltà; la tenerezza di Dio gli apre degli orizzonti più grandi e più belli del suo iniziale entusiasmo e dei suoi stessi sogni.

    «Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci le mie pecorelle”. Gli disse per la terza volta: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene”. Gli rispose Gesù: “Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi“. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”». Nell’espressione di Pietro: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene», è nascosta tutta la grande scoperta della sua vita interiore: non sarà mai il perfetto discepolo, che forse aveva sognato di diventare, ma potrà per grazia di Dio diventare quel povero che non ha da offrire a Dio che le sue mani vuote.
Come Teresa di Lisieux: «Alla sera di questa vita, comparirò davanti a te a mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie opere». A questo punto si tocca nella nostra vita che veramente «nulla è impossibile a Dio».

    Quando Pietro accetta la sua povertà e riscopre un nuovo volto di Dio, avviene nella sua vita una sorta di seconda chiamata: non per nulla Gesù lo chiama con il nome di un tempo (Simone, non Pietro). Come a dire: oggi si ricomincia, si torna in Galilea, a quella prima pesca straordinaria, al termine della quale mi sei venuto dietro; si torna al nome che avevi allora, e che io stesso poi ti avrei cambiato. Ora che ti sei conosciuto per quel che sei, e non per quel che vorresti essere, puoi davvero cominciare a seguirmi.
«Seconda chiamata: chiamata a scoprire la tenerezza e la gratuità dell’ amore di Dio per quei peccatori che siamo noi. Chiamata ad accogliere la potenza dello Spirito che trionfa nella nostra debolezza, che non è soltanto quella del credente esiliato in un mondo ostile, ma anche quella del peccatore che scopre in se stesso fragilità e consenso dinanzi alla tentazione».

    Ed ora che Pietro non può dire più nulla e non si azzarda, alla luce della sua povera storia, a promettere qualcosa al Signore, questi lo riconferma nella sua missione e gli rivolge ancora una volta l’invito: «Seguimi».
Pietro, con umiltà, riparte dalla consapevolezza che la santità non consiste nello sforzo teso a essere quel discepolo che aveva sognato di diventare fin dagli inizi, bensì nel lasciarsi condurre, ormai, da un Altro.

    «È nella scoperta e nell’umile accettazione del suo essere peccatore che troverà la forza di diventare per i suoi fratelli la “pietra” su cui la loro fede potrà appoggiarsi». La tensione a misurare da sé la propria giustizia o il livello del proprio peccato conduce l’anima a raggomitolarsi su se stessa. La grazia spinge invece ad accettare con serenità e libertà la propria condizione di limite e di innegabile distanza dall’ideale un tempo coltivato: il povero, che si offre a Dio nella lucida e serena consapevolezza della propria povertà, manifesta il dinamismo dello Spirito del Risorto.

    Così dice Teresa del Bambino Gesù a questo proposito: «All’inizio della mia vita spirituale, verso l’età dai tredici ai quattordici anni, mi chiedevo ciò che più tardi avrei avuto da acquistare perché credevo che mi fosse impossibile capire meglio la perfezione; ho riconosciuto ben presto che, più si va avanti su quel cammino, più ci crediamo lontani dalla meta, così ora mi rassegno a vedermi sempre imperfetta, e trovo in ciò la mia gioia». E, tra i padri del deserto, il grande Matoes era solito dire: «Quanto più l’uomo si avvicina a Dio, tanto più si vede peccatore… Quand’ ero giovane, dicevo fra me: “Forse faccio qualcosa di buono. Ma ora che sono invecchiato, vedo che non ho in me nessuna opera buona”». Anche Francesco d’Assisi è condotto dallo Spirito del Signore per le vie durissime dell’accettazione della sua povertà: «Anch’io per lungo tempo non ho capito. Mi son dibattuto nel buio come un povero uccello nella pania. Ma il Signore ha avuto pietà di me e mi ha rivelato che la più alta attività dell’uomo e la sua maturità consistono anziché nella ricerca di un ideale, per quanto nobile e santo, nell’accettare con gioia la realtà, tutta la realtà. L’uomo che vagheggia il suo ideale, rimane chiuso in se stesso. Egli non comunica veramente con gli altri, né prende conoscenza dell’universo. Gli mancano il silenzio, la profondità e la pace. La profondità dell’uomo non è altro che la sua disposizione ad accogliere il mondo. […] Penso che è difficile accettare la realtà. In verità, nessuno l’accetta in blocco. Noi aspiriamo sempre ad aggiungere, in qualche modo, una spanna alla nostra statura. È questo il fine di quasi tutte le nostre azioni. Anche quando si crede di operare per il Regno di Dio, non cerchiamo che di farci più grandi, fino al giorno in cui, sconfitti, non ci rimane che questa sola smisurata realtà: Dio esiste. Allora scopriamo che Lui solo è Onnipotente, che Lui solo è santo, che Lui solo è buono. L’uomo che accetta questa realtà e se ne compiace, trova in cuor suo la serenità. Dio esiste, ed è tutto». La tua cella, la tua vita più ordinaria, feriale, nelle sue ripetitività e consuetudini più radicate, nelle relazioni più scontate, nelle azioni e nei compiti più normali. La tua cella: il tuo cuore, la tua identità profonda così come è, non come vorresti che fosse, non come ti intestardisci a sognarla o a pretenderla. Così come è, come gradualmente, con meraviglia e con amarezza, lo scopri di giorno in giorno.

    Proposta di un itinerario spirituale

    Come, concretamente, passare dalla santità desiderata alla povertà offerta? Tre passi potrebbero aiutarci a vivere questo itinerario spirituale.

    Dio ci aspetta nell’oggi

    C’è una forte tentazione nella vita di ognuno: quella di rifuggire dalla quotidianità per attendere l’eccezionale.
«Attendiamo l’eccezionale per convertirci e talvolta ce la prendiamo con Dio per il fatto che non ce ne offre nella nostra vita, persuasi che altrove o domani saremo diversi. È oggi che Dio ci aspetta, che Egli si presenta alle nostre esistenze, con una presenza umile e discreta che dobbiamo imparare a riconoscere». Se abbiamo il coraggio di rileggere la nostra vita ci accorgiamo che Dio lo abbiamo incontrato o ritrovato proprio là dove non ce lo aspettavamo affatto. È stato così anche per i Santi che «hanno riconosciuto le loro debolezze e fragilità ma più ancora Dio presente sul loro cammino e questo quotidiano che pareva loro banale ha assunto una dimensione nuova». Di Antonio, il padre dei Padri del deserto, gli antichi dicevano che «aveva gli occhi degli angeli, attraverso cui si vede Dio e si coglie la sua luce»,  ma è proprio nella quotidianità più ordinaria che il Signore chiede di essere cercato. «Va’, rimani nella tua cella, e la tua cella ti insegnerà ogni cosa», diceva un altro padre del deserto.

    Incontrare il Dio assente

    La nostra preghiera conosce prima o poi la notte, l’impotenza. «Dio non lo si incontra veramente se non attraverso la sua assenza».  Anche Gesù ha fatto, nella sua vita terrena, questa esperienza e noi che vogliamo essere suoi discepoli, cioè coloro che ripercorrono le sue tracce, non possiamo certo evitarla.
Su un graffito ritrovato sul muro di una cantina di Colonia, dove erano rimasti nascosti alcuni ebrei durante l’ultima guerra mondiale, si leggeva: «Credo nel Sole, anche quando non splende, credo nell’ Amore, anche quando non lo sento, credo in Dio, anche quando tace».
Anche nella notte ci è chiesto di camminare: aggrappandoci alla Croce di Gesù, che diventa la nostra forza, fonte di luce e consolazione nella notte.
Dobbiamo augurarci continuamente ciò che l’inno ambrosiano, il Christe cunctorum, fa cantare: «Siano i giorni lieti e calme le notti». È un invito ad avere una fiducia grande nel Signore perché custodisca i nostri cuori nella sua pace, preservandoci dal male, dalla paura, dalla tentazione. I giorni e le notti del nostro spirito devono essere vissuti con la certezza del salmista: «Tuo è il giorno, Tua è la notte». È Lui il Signore di ogni istante e di ogni avvenimento della nostra vita.

    Siamo forse capaci di gestire molte cose, di avere in mano molte situazioni, ma nella preghiera tutto questo è impossibile. Nella preghiera occorre solo riconoscere che tutto viene da Dio.
«Se vogliamo essere fedeli alla chiamata evangelica a perseverare nella preghiera, a fare delle nostre esistenze una supplica incessante, una lode ed un’azione di grazie continue, scopriamo presto che dobbiamo rimetterci totalmente allo Spirito che, solo, può pregare in noi la preghiera di Gesù ben al di là di ciò che noi possiamo dire o fare». Accade così che lo Spirito del Signore ci fa sperimentare la verità di queste parole: «I periodi di aridità non sono infruttuosi, perché in quei momenti la preghiera tende a essere meno egoista, più incentrata in Dio. Stiamo imparando, come diceva Teresa d’Avila, a cercare il Dio della consolazione, e non le consolazioni di Dio. […] L’aridità purifica la nostra fede e il nostro amore, anzi scopriamo, perseverando nella preghiera, che l’aridità è la condizione migliore per consentire al Signore di trasformarci, di modellarci secondo il modello di Gesù».

    Non conta più ciò che sento, conta anzitutto ciò che credo. Conta prima di tutto Colui a cui mi affido. Il Signore c’è; la mia fede è il luogo dell’incontro con Lui. La mia fede, non il mio sentire: la mia donazione a Lui, scelta e riscelta, non la mia sensibilità immediata.
Chiederò con umiltà e determinazione che la mia sensibilità sia gradualmente modellata dalla fede, e non viceversa: abitare nel buio attendendo la luce e scrutandone le tracce che mi tengano desto.

    La Chiesa ha il nostro volto

    Un terzo passo nella linea di questo cammino di spirituale spogliazione è quello dell’accettazione del volto contraddittorio della Chiesa: «Anche la vita ecclesiale è  per noi un cammino di autentica povertà. Anche là, il reale ci spoglia dei nostri sogni per aprirci al Cristo presente dove due o tre sono riuniti nel suo nome». Partiti con il desiderio di amare e servire la Chiesa quale corpo di Cristo risorto, il volto della Chiesa ci si è via via rivelato nei suoi caratteri di «inestricabile mescolanza di santità e peccato». La gioia di cercare Dio nelle membra della Chiesa ha lasciato il posto all’amarezza della constatazione della sua distanza dallo splendore delle nostre attese a suo riguardo. Ma «da parte nostra non si tratta di giudicare circa le debolezze e le infedeltà della Chiesa: noi amiamo il suo volto povero perché Dio nella sua misericordia e tenerezza, l’ama come ama il nostro». Accettare il mistero della Chiesa santa e peccatrice.

    Lasciare che lo Spirito conformi il nostro cuore insicuro a quello di Dio, volontà d’amore che non ci rinnega mai. «Dio non partecipa i nostri timori, né la nostra fierezza, né la nostra impazienza. Egli sa aspettare come Dio solo sa aspettare. Come sa farlo soltanto un padre infinitamente buono. Egli è longanime e misericordioso. Nutre sempre qualche speranza, fino alla fine. Poco gli importa che mucchi di rifiuti invadano il suo campo e che non sia bello a vedersi, se poi, alla fine gli sarà dato di raccogliere, più grano che zizzania… Dio sa di poter trasformare col tempo della sua misericordia, il cuore stesso degli uomini».

    Offre la sua povertà anche chi accetta umilmente di dover portare con pace il peso di qualche durezza ecclesiale, di qualche limite oggettivo, anche di qualche peccato e scandalo, confidando nella pazienza attiva e trasformante del Padre, che tutto accoglie per tutto trasfigurare e rinnovare… a suo tempo.

    Conclusione

    «Siamo venuti a dire, con l’umiltà di chi si sa peccatore e poca cosa, ma con la fede di chi si lascia guidare dalla mano di Dio, che la santità non è cosa per privilegiati, che il Signore chiama tutti, che da tutti si attende Amore: da tutti, dovunque si trovino; da tutti, di ogni condizione, professione o mestiere. Perciò la vita normale, ordinaria, poco appariscente, può essere mezzo di santità […] tutte le strade della terra possono essere occasione di un incontro con Cristo». Non c’è vero cammino nello Spirito al di fuori dell’ordinarietà, dello “scandalo della banalità”, come l’ha definita qualcuno.

    D’altra parte i Padri ammonivano che dove c’è ricerca della novità, non c’è spazio per il progresso spirituale.
Cercare Dio nel profondo dell’ordinario, lasciandosi spogliare di tutto ciò che non è desiderio di Dio, secondo l’espressione di san Giovanni della Croce.
«Bisogna semplicemente spogliarci di tutto. Far piazza pulita. Accettare la nostra povertà. Rinunciare a tutto ciò che pesa, perfino al peso dei nostri peccati. Non vedere altro che la gloria del Signore e lasciarcene irradiare. Ci basta che Dio esista». Così liberati da ogni peso e preoccupazione, il nostro cuore aspira a una santità che coincida con il volere di Dio.
Il Signore ci conceda di lasciarci condurre con serenità e fortezza per le vie nascoste di questa spogliazione.

  • 06 Mar

    UN “SI’” DIFFICILE DA PRONUNCIARE

    di p. Attilio Franco Fabris


    Non sempre l’uomo riesce a pronunciare il “sì” al Dio della vita, al Dio che ci vuole aprire dinanzi il cammino della vita, facendoci uscire dalla stagnazione della schiavitù al nostro peccato.

    In questo senso l’esito del nostro cammino, della nostra crescita non è dato per scontato. Dio infatti è estremamente rispettoso della libertà da lui donata all’uomo.

    Per dire ciò la Scrittura usa, come già detto, l’immagine simbolica della scelta del cammino da compiere nella propria vita: del bivio. Vediamo così la strada che si  biforca, per Adamo e Eva, per Israele, per Gesù (cf  Mc 8,33; Lc 22,40.46), per la Chiesa (cf Ebr 10,32-39), per ciascuno di noi. E’ l’ora della scelta, della decisione.

    Due strade opposte si aprono davanti all’uomo: Dice il Signore: Ecco io vi metto davanti la via della vita e la via della morte (Ger 21,8).

    Con il peccato originale l’uomo ha subito scelto una via diversa da quella di Dio. Tutto il suo cammino potrà essere immaginato come uno “sforzo di ritornare a Dio” .

    Subito l’uomo  si è fermato a contemplare le creature: buone da mangiare e seducenti da vedere (Gn 3,6).

    Ma in questa sua scelta ha trovato solo frutti amari di sofferenza e di morte  (Gn 3,16-19).

    Da quel momento l’uomo vivrà la sua esperienza umana come desiderio insaziabile e frustrato. Apatico e deluso dirà: Tutto è vanità (Ql 1,1).

    Egli è stato colpito nella sua libertà, situazione che in lui provoca una sofferta lotta interiore. La ragione stessa è ottenebrata e il discernimento ormai reso difficile.

    Il dono della libertà che Dio fa viene usato negativamente; non è più una libertà “per” la vita, ma una falsa libertà per sottrarci “dalla” vita e dalle sue esigenze: ed è questa la realtà del peccato.

    Il peccato si presenta come rifiuto, ostacolo, inciampo nel cammino verso Dio: “Il mio popolo mi ha dimenticato; essi offrono incenso ad un idolo vano. Così hanno inciampato nelle loro strade, nei sentieri di una volta, per camminare su viottoli, per una strada non appianata” (Ger 18,15-16)

    Essa è piena di spine (Pr 15,19), tortuosa (Pr 21,8), piena d’ostacoli (Sir 32,20), oscura (Pr 4,19).

    Dio conosce il cuore dell’uomo, la sua debolezza. Sa che il suo rifiuto, l’infedeltà è sempre possibile, donando all’uomo la libertà egli ha corso questo rischio: Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via (Es 32,8); Non vollero camminare per le vie del Signore (Is 42,24).

    Eccolo allora continuare a dare il suo ammonimento, il richiamo all’obbedienza alla sua parola di vita: “Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dei e a servirli, io vi dichiaro oggi che certo perirete, che non avrete vita lunga nel paese di cui state per entrare in possesso passando il Giordano… scegli dunque la tua vita” (Dt 30,17-19).

    Ruolo della Sapienza è quello di porsi ai crocicchi delle strade per invitare ed esortare l’uomo a prendere la strada giusta, quella della vita: “La Sapienza forse non chiama e la prudenza non fa udir la voce? In cima alle alture, lungo la via, nei crocicchi delle strade essa si è posta, presso le porte, all’ingresso della città, sulle soglie degli usci essa esclama: A voi uomini io mi rivolgo, ai figli dell’uomo è diretta la mia voce” (Pr 8,1-4).

    Il cammino del ritorno a Dio, ed è il cammino dell’esodo, del deserto,  è difficile. E’ il tempo della prova che permette a JHWH di sondare il cuore del suo popolo e correggerlo. Mosè per incoraggiare a perseverare Israele invita a ricordare il cammino fatto: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi… Osserva i comandi del Signore tuo Dio camminando nelle sue vie e temendolo” (Dt 8,2.6).

    La paura, la comodità, la pigrizia, la frustrazione e la ricerca di immediate sicurezze agiscono da freno, rendono estremamente faticoso, se non impossibile, il porsi o il perseverare nel cammino. Se ciò accade il cammino non si attua o si arresta.

    Ma non solo, anzi… si indietreggia, ci si fissa, si regredisce. Israele scegliendo vie diverse dal comandamento di Dio, sarà dato in mano ai nemici, andrà in esilio, vedrà svanire tutte le sue attese: “Ritornerà al paese di Egitto, Assur sarà il loro re, perché non hanno voluto convertirsi” (Os 11,5).

    E’ questa l’esperienza che la Scrittura tante volte riferisce parlando delle scelte che Israele compie lungo la sua storia.

    Anche dopo aver visto e toccato con mano come JHWH voglia la sua vita, la sua liberazione, come Dio lo voglia far “uscire”… Israele si trova subito a fare i conti con la sua debolezza e poca fede. La tentazione di fermarsi, di tornare indietro è forte: “Allora tutta la comunità alzò la voce e diede in alte grida, il popolo pianse tutta quella notte. Tutti gli israeliti mormoravano contro Mosé e contro Aronne e tutta la comunità disse loro: Oh! Fossimo morti nel paese d’Egitto o fossimo morti in questo deserto! E perché il Signore ci conduce in quel paese per cadere di spada… Non sarebbe meglio per noi tornare in Egitto?” (Nm 14,1-4).

    Il non percorrere le vie di Dio attira sull’uomo il castigo, è un castigo in certo qual senso voluto: sarà anzitutto un ulteriore pellegrinare lungamente (per quarant’anni…) nel deserto.

    E se non ci si converte sarà quel “girare in tondo” (cf Dt 2,1), senza meta, degli stolti che rifiutano obbedienza alla legge di Dio. La inevitabile conseguenza è la vacuità dell’esistenza, l’esperienza già presente di morte. Nessuno degli Israeliti che uscirono dall’Egitto poté entrare nella terra di Caanan. Lo stesso Mosè la vedrà solo di lontano.

    In Cristo una nuova via

    La venuta di Cristo apre la nuova via, quella definitiva, si tratta dell’esodo  che effettivamente conduce al riposo di Dio. Gesù, nuovo Mosè del nuovo Israele è la guida, il trascinatore. egli chiama a seguirlo. Dirà ai suoi: “Io sono la via, la verità e la vita”).

    Ma anche qui la  proposta del cammino non è facile. Le esigenze che egli pone sono le esigenze di Dio.

    L’invito  di Gesù rivolto a Pietro di affrontare l’inusitato cammino sulle acque tempestose del lago è icona della difficile sequela. Pietro risponde subito con entusiasmo, ma successivamente la paura lo blocca, la sua attenzione è rivolta verso se stesso, nel non perdere la propria vita, non ha più gli occhi fissi sullo sguardo rassicurante del Risorto che quelle acque tempestose ha già attraversato trionfalmente. Pietro fa allora l’esperienza negativa dell’affondare: “Pietro scendendo dalla barca si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma per la violenza del vento s’impaurì e cominciò ad affondare…” ( Mt 14,29s).

    Ugualmente le esigenze radicali poste da Gesù per chi desidera camminare dietro lui scoraggiano e disorientano l’entusiasmo del giovane ricco. La sicurezza delle sue ricchezze gli impedisce di agire con libertà, il distacco che solo gli consentirebbe di crescere nell’amore. Lo vediamo allora, chinare il capo, rinunciare a camminare sulle orme del Maestro buono, a rinunciare a crescere. Egli sarà preda della tristezza: “Gesù gli disse: Una sola cosa ti manca: vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi. Ma egli, udite queste parole, divenne assai triste, perché era molto ricco” (Lc 18,22-23).

    E ancora: mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: Ti seguirò dovunque tu vada. Gesù gli rispose: Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. A un altro disse: Seguimi. E costui rispose: Signore concedimi di andare a seppellire prima mio padre. Gesù li rispose: lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio. Un altro disse: Ti seguirò Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa. Ma Gesù gli rispose: Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro e adatto per il regno di Dio. (Lc 9,57-62). Qui ci viene sottolineata anzitutto l’urgenza della sequela, un’urgenza totalizzante che non permette sguardi all’indietro. Il discepolo con Gesù è completamente proiettato in avanti verso il regno.

    Ma gli apostoli al momento della passione non seguiranno Gesù sulla via del Calvario: essi dormiranno per la tristezza. Gesù sarà solo ad incamminarsi verso la sua passione e morte.

    “Inciampare”, “girare in tondo”, “affondare”, “volgersi indietro”, “cadere nella tristezza”:  immagini e situazioni che descrivono plasticamente le conseguenze dell’uomo che rifiuta di camminare e crescere.

    Al discepolo è richiesta la fiducia nel cammino, un cammino già tracciatoci da Gesù: egli non si deve volgere indietro come Sara o come Israele nel deserto.

    Egli nella fede si rende disponibile, come Maria, a pronunciare il suo “sì” al Dio della vita nella speranza di partecipare alla comunione di vita con lui:

    Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza” (Sal 16,11); “Le vie della sapienza sono deliziose e tutti i suoi sentieri conducono alla pace… Cmminerai sicuro per la tua strada e il tuo piede non inciamperà” (Pr 3,17.23). Guidami sulla via della vita (Sal 139,4).

    SCHEDA DI LAVORO

    * E’ difficile dire sempre di sì a Dio che mi vuol mettere continuamente in cammino. Infatti questo significa accettare di cambiare, modificare, in una sola parola significa “convertirsi”:

    – che cosa avverto in me come ostacolo/i maggiore/i nel dire di sì a Dio che mi vuole          smuovere dalle mie situazioni di morte e schiavitù? Li elenco mettendoli in ordine di          importanza.

    – in che modo e in quali ambiti concreti essi si rivelano come ostacoli?

    * La mia vita è posta sulle orme di Cristo o avverto che essa è ancora un girare a vuoto, in tondo, un correre, ma senza una meta?

    * A cosa mi sento invitato per poter rispondere positivamente alla chiamata di Dio a mettermi continuamente in cammino??

    – che cosa occorre che scelga o privilegi?

    – che cosa occorre che lasci o modifichi?

    UNA LETTURA

    Trovai il senso della vita

    Non so chi – o che cosa – pose la domanda. Non so quando sia stata posta. Non ricordo quando sia stata posta. Non ricordo che cosa risposi. Ma una volta risposi di a qualcuno o a qualcosa. A quel momento risale la certezza che l’esistenza abbia un senso e che dunque la mia vita, nella sottomissione, abbia un fine. Da quel momento ho saputo che cos’è “non volgersi indietro”, “non preoccuparsi del domani”. Guidato nel labirinto della vita dal filo di Arianna della risposta, ebbi un tempo ed un luogo in cui seppi che la vita porta ad un trionfo che è rovina e a una rovina che è trionfo, che il prezzo per la dedizione della propria vita sarebbe stato il biasimo e che la sola elevazione possibile per l’uomo si trovava nella profondità dell’umiliarsi. Poi la parola coraggio perdette il suo senso perché nulla mi poteva essere tolto. Più oltre, sulla via imparai, passo per passo, parola per parola, che dietro ogni detto dell’eroe dei Vangeli sta un essere umano e la esperienza di un uomo. Anche dietro la preghiera che il calice gli fosse distolto e dietro la promessa di vuotarlo. Anche dietro ogni parola detta sulla croce.

    Dag Hammarskjold, Linea della vita, Milano 1966, p. 142

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  • 06 Mar

    Voglio un posto ai piedi di Gesù

    il testamento di Shahbaz Bhatti: Ministro pachistano per le minoranze religiose ucciso il 2 marzo 2011 in odio alla fede


    “Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.

    Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.

    Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: «No, io voglio servire Gesù da uomo comune».

    Questa devozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora — in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan — Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire.

    Credo che i cristiani del mondo che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005 abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, finché avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.

    Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo. Più leggo il Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario. Nostro Signore ha detto: «Vieni con me, prendi la tua croce e seguimi».  I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro. Per cui cerco sempre d’essere d’aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati. Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani qualunque sia la loro religione vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarLo senza provare vergogna”.

  • 03 Mar

    L’uomo: viator e peregrinus

    di p. Attilio Franco Fabris

    Il poeta G. Gibran, nel suo libro più famoso intitolato, Il Profeta scrive: Noi gli erranti sempre alla ricerca della strada più solitaria, mai iniziamo un giorno là dove ne abbiamo terminato un altro, ed ogni levare di sole non ci trova là dove abbiamo ammirato la luce del vespro. Anche quando la terra dorme viaggiamo”.

    L’uomo è presentato come un pellegrino , un pellegrino del tempo. Un tempo inarrestabile, che scorre senza che possa essere afferrato mai, l’uomo non ne è il padrone.

    Ma è proprio questa “drammaticità” del tempo che scorre che colloca l’uomo sempre in posizione nuova nei confronti del suo passato e del suo futuro. E’ il tempo che permette un cammino, un progresso, una crescita, una progettualità.

    Il camminare perciò è stato assunto nelle diverse culture come una simbolica primaria per esprimere lo scorrere del tempo e della vita. Basti pensare a tutta la simbologia legata al viaggio, al pellegrinaggio, alla salita, alla traversata… Bene perciò il filosofo G. Marcel definisce l’uomo come viator, viaggiatore.

    L’uomo dunque immagina, simbolizza se stesso, come un essere in cammino. Ma verso dove? Quale significato dare all’ineffarrabile scorrere del tempo e della vita? Si tratta di darvi un significato.

    Certamente si vuol camminare verso la pienezza della vita e della gioia. Tutto l’uomo è teso a questa meta anche se sullo sfondo si delinea l’orizzonte del fiume Lete con la barca di Caronte pronta a far transitare, per l’ultimo viaggio!, l’anima nel luogo dell’oblio dato dal non tempo.

    Ma dentro di sé la nostalgia del desiderio di vita e di gioia permane, non si può soffocare: “esule o pellegrino, in fuga o in marcia, l’uomo è spinto da una nostalgia struggente. Un disagio lo rende inquieto; un dolore lo porta a tornare alla sua vera casa. In nessun luogo trova la patria stabile del suo desiderio. Per questo è essenzialmente un camminatore” (S. Fausti).

    Il cammino della vita e della storia suggerisce il progredire, il crescere. Dunque il cammino presuppone la durata nel tempo, la pazienza, l’accettazione dell’inevitabile fatica e del rischio, il ravvivare in noi la consapevolezza del cammino stesso e della meta da raggiungere, onde evitare il rischio di percorrere la strada in modo distratto, superficiale e in fin dei conti insensato e inconsapevole.

    Senza durata non vi è vita né storia, non vi è crescita. E l’uomo non si trova già bell’e fatto all’inizio, quando esce dal grembo della madre, esso si costruisce giorno per giorno, epoca per epoca: occorre una vita per costruire l’uomo e … non basta!

    L’esistenza dell’uomo (e come individuo e come società)  ha bisogno perciò della storia. Solo l’uomo è capace di storia (Heidegger parlerà di geschicthe: storia vivente).

    Ma questo dato di fatto forse ovvio per noi non bisogna darlo poi per scontato: esso è il frutto, possiamo affermarlo a pieno diritto, di una rivelazione.

    Se guardiamo alle civiltà arcaiche (all’antica Grecia per esempio o anche alle filosofie orientali) restiamo colpiti dal fatto che il tempo è svuotato in un certo senso di rilevanza. In esse è viva l’angoscia della vita che sfugge sia a livello di individuo come di cosmo… occorre sfuggirvi ad ogni costo. Lo strumento è la visione mitica di un tempo ciclico,  ovvero di un eterno ritorno e incessabile ripetersi delle cose: e questo rende possibile il recupero di tutto ciò che sembra vada irrimediabilmente perduto. Forse il viaggio di Ulisse ne è l’emblema più significativo.

    Ovvio che per far questo sia indispensabile sganciarsi dal valore della continuità degli eventi quotidiani; essi assumono significato solo alla luce di un proiettarsi al di là di essi, in un tempo mitico che solo è reale.

    Sulla stessa linea, ma con motivazioni diverse, le filosofie dei secoli passati, tralasciando l’insegnamento biblico, posero l’accento e l’attenzione sugli aspetti immutabili dell’uomo: ovvero sulla sua essenza, sulla sua natura, sulla sua anima. La sua storicità passava in second’ordine. Non interessava più di tanto perché ciò che è più vero e più importante è ciò che è al di là del tempo, ciò che è eterno.

    Per la storia rimaneva uno sguardo di commiserazione e rassegnazione: una povera valle di lacrime dalla quale occorre sfuggire al più presto.

    La filosofia esistenzialista porterà al centro proprio l’uomo, in questo figlia del rinascimento e dell’illuminismo, nel suo collocarsi nel mondo e nella storia. L’esistenza appare come un “cammino”, un “compito da assolvere”. Si è compreso, reagendo alla visione precedente che guardava alla’essenza e all’eterno, che l’esistenza umana è esistenza temporale, che non si realizza in un solo momento, ma in una continua successione di tempi, strettamente vincolati tra loro. Ed è così che si approda ad una visione di uomo “adulto”, trasformato dalla storia che vive ma altresì capace di trasformare la storia stessa.

    In questa linea nuove correnti filosofiche accentueranno che ormai l’unico protagonista della storia è l’uomo e solo lui. (Si pensi al marxismo, alle correnti storicistiche, ad autori esistenzialisti come J.P. Sartre). Per essi: “L’uomo sarà in seguito, e sarà quale si sarà fatto… l’uomo non è altro che ciò che si fa”.

    Uno sguardo alla nostra cultura rivela un ulteriore accostamento alla storia.

    L’uomo di oggi ha scelto di rinunciare alla storia per ripiegarsi sull’istante. Il momento attuale va vissuto con la massima intensità (di piacere) possibile. La nostra cultura vede la ricerca affannosa, angosciata di una moltiplicazione di istanti, che vorrebbero tentare di riempire il vuoto lasciato da una mancata progettualità, e da una mancanza “di memoria” per il proprio passato. Disancorato dal passato e dal futuro l’uomo di oggi si ritrova sospeso sull’istante, ma sospeso sul vuoto. E nessuno è più perso di colui che non sa dove andare.

    Ma la rivelazione biblica si parla di un Dio personale e creatore, che intesse un dialogo con l’uomo. Un Dio che ha dato un inizio alla storia e al quale questa appartiene. Con la rivelazione nasce il concetto di storia come luogo teologico, in cui si intesse un rapporto, una storia di alleanza che apre la storia continuamente al futuro di Dio, impedendo al credente di ricadere sia in una visione ciclica della storia stessa, come nel suo svuotamento di significato.

    La nostra società umana e ciascuno di noi si colloca in un punto preciso del tempo, con una tensione aperta a diverse possibilità.

    Ci vediamo situati in una tensione tra un passato già realizzato e un futuro sempre aperto.

    Siamo certi che è possibile intervenire nel divenire storico attraverso le nostre decisioni, il nostro lavoro e la nostra testimoniaza fattiva di credenti.

    Siamo altresì consapevoli che il nostro cammino deve essere assunto come compito da svolgere responsabilmente sia verso se stessi ma anche verso gli altri. Non è indifferenti che io porti o no a compimento il mio viaggio: esso non sarà compiuto da nessun altro. Esso è rimarrà unico.

    Per ciascuno il presente è l’aspetto predominante, l’unico realmente posseduto. Un presente però che si estende sia nelle radici del passato come nella progettualità del futuro. Il passato è passato in quanto rimane nel presente come “memoria”, fondamento del mio attuale esistere. Il futuro appare futuro perché già ora, nel presente è anticipato come appello, compito, progetto di crescita. L’uomo è soggetto di speranza.

    Si tratta dunque di un presente teso dinamicamente tra passato e futuro. Se ciò non fosse sarebbe ridotto ad un semplice istante sospeso nel vuoto, nel nulla.

    Con queste considerazioni vogliamo prendere coscienza che di fronte alla vita, a questo nuovo millennio che ci si apre dinanzi, non possiamo assumere atteggiamenti errati.

    Essi potrebbero essere sintetizzati così:

    –          il fatalismo e la rassegnazione: è una forte tentazione in questa fase storica di passaggio in cui ci  sembra  spesso di brancolare del buio.

    –          L’alibi: il cercare giustificazioni per non assumersi la resposabilità del proprio e altrui cammino

    –          Il ripiegamento sull’istante privo di “memoria” e di “speranza”, e di progettualità.

  • 03 Mar

    MISTERO PASQUALE CAMMINO DI CRESCITA

    di p. Attilio Franco Fabris


    La destinazione del nostro pellegrinaggio nella fede ha un unico scopo: renderci sempre più conformi a Cristo sino a giungere alla piena maturità e vita: Ci ha predestinati – ricorda san Paolo – ad essere conformi all’immagine del Figlio suo (Rm 8,29).

    Si tratta di una conformità che è progressiva trasfigurazione, in un lento divenire e crescere (“Lui deve crescere e io diminuire”, “Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me”) e questo attraverso l’indispensabile azione vivificante dello Spirito. Accogliendo in noi l’azione dello Spirito ci inseriamo nel mistero di Cristo che è mistero pasquale di morte e resurrezione.

    Questa divina conformazione fa sì che noi possiamo rinascere ad una vita nuova nello Spirito, come Gesù dice a Nicodemo nel vangelo di Giovanni.

    Si tratta per usare il linguaggio dei mistici di una “divina rinascita” (cfr. Paolo della Croce parla di “morte mistica” e “divina natività”). E’ una rinascita che trasforma l’uomo peccatore in “uomo nuovo”, ovvero spirituale, cristianizzati. Scrive san Paolo: “Dovete rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera”.  Questo testo vuole affermare che l’uomo deve rivestirsi della sua vera immagine, quella originaria, e ciò è possibile in Cristo nuovo Adamo.

    E ancora: “Dovete camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Afferma la Gaudium ed Spes: “Colui che segue Cristo, uomo perfetto nel mistero redentivo della sua passione, morte e resurrezione si fa lui pure più uomo”.

    Ma non  ci può essere entrata nel riposo di Dio, nel Regno, nella gloria se non passando per la via stretta indicataci da Gesù, che è il suo mistero pasquale di morte e resurrezione. E’ il percorso da lui tracciato nella sua Pasqua, nel suo esodo da questo mondo al Padre: “Gesù camminava verso Gerusalemme” (Lc 13,22).

    Ci è dato perciò l’itinerario e il passaggio obbligato: “Chi mi vuol  seguire prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”.

    LA SEQUELA DELLA CROCE

    Non siamo soli a percorrere la strada, davanti a noi c’è Gesù; il nostro compito è la sequela: “Gesù camminava davanti ai suoi discepoli” (Mc 10,32).

    Il prendere la croce dietro a Gesù è condizione per la sequela cristiana.

    Se ci domandiamo in cosa consiste la sequela, la croce, che ci porta a rinascere alla vita di uomini nuovi, la risposta che troviamo nei vangeli è molto chiara: la sequela, la croce, è il dono di noi stessi fatto a Dio e al nostro fratello sino alla fine (cfr. Gv 13,1)

    L’uomo adulto in Cristo, l’autentico discepolo, si riconosce dalla capacità di amore e di dono di sé: “Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.

    Cammino seguendo Gesù quando mi pongo nella stessa disponibilità di Gesù a fare della mia vita un sacrificio a Dio e al prossimo, quando mi pongo nell’atteggiamento del “servo”, dell’”ultimo”, del “piccolo”.

    E’ convinzione cristiana che ogni amore umano che non è dono di sé e non è seguito almeno implicitamente dal segno e dal sangue della croce, non è che una caricatura dell’amore” (A. Feuillet)

    Il nostro cammino per essere autenticamente cristiano deve procedere perciò dalla conformazione, dall’intima partecipazione, al mistero pasquale di Gesù: “Camminate nella carità nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi” (Ef 5,2).

    Con ciò si vuole dire che la nostra crescita cristiana si misura sulla disponibilità ad accogliere in noi la “stoltezza della croce”.

    Sembra assurdo che la vita, la nostra crescita, debba passare attraverso la morte per divenire autentica ed eterna. Ma il mistero pasquale si è rivelato come legge imprescindibile di vita e di crescita “Se il chicco di frumento caduto a terra, non muore, resta solo. Ma se muore porta frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,24-25).

    E ancora: al discepolo è necessario anzitutto il  morire nel momento in cui egli riconosce il suo peccato, la sua via larga lontana da Dio, la sua pretesa  d’imboccare la strada dell’orgoglio e dell’autosufficienza.

    La ricerca, l’amore per la vita comporta l’accettare paradossalmente che essa passi attraverso la morte, la sua perdita, il suo dono: e si tratta di un distacco doloroso.

    Un bene maggiore si trova rinunciando ad uno minore, senza per altro che questo venga perso, anzi… verrà ritrovato centuplicato.

    L’itinerario del discepolo passa dunque obbligatoriamente dal Calvario e dalla tomba ormai vuota: sono i due termini pasquali, i due momenti di un unico mistero che si apre ad un orizzonte infinito di vita.

    Il  movimento pasquale di morte-risurrezione ritma la più umile esistenza cristiana (e probabilmente ogni esistenza)… Arrivano per ciascuno momenti in cui tutto sembra perduto e svanito nel nulla senza ragione, tutto appare come tenebra e assurdo. Proprio in questi momenti all’uomo si apre la possibilità di una pasqua, di un passaggio che attraversi la valle tenebrosa, la palude di morte che sembra tutto inghiottire.  Questa possibilità si ancora alla fede in Gesù risorto. Allora la disperazione per una perdita totale viene trasformata dalla speranza; noi ci lasciamo afferrare da quella mano sempre tesa verso di noi nella notte che invita con dolcezza e forza: “Alzati e cammina”(Mt 9,5).

    Comprendiamo che questo gesto comporta una rottura battesimale, allora la pace, la forza, il rinnovamento pasquale ci pervadono. Le lacrime di amarezza diventano lacrime di gratitudine.

    Solo la fede nel Risorto è in grado di annunciare l’evangelo all’uomo spesso incapace di leggere il passaggio pasquale come parola, occasione, kairòs, di salvezza e di vita.

    Il passaggio della croce se accolto positivamente ed oblativamente apre a nuovi spiragli di vita, a ulteriori orizzonti ricchi di inattese vitalità e creatività. Per il discepolo “il mondo non è più una prigione, ma un passaggio oscuro, passaggio attraverso il quale passare, passaggio da decifrare in uno scritto più ampio, e in questo scritto tutto ha un senso, ciascuno è importante, ciascuno è necessario. Uno scritto che noi scriviamo insieme a Dio” (O. Clement).

    IL BATTESIMO


    Il battesimo ci ha inseriti nel vortice vivificante del mistero pasquale. Siamo stati immersi nella morte di Cristo per risorgere con lui alla vita nuova. Rimane a noi il ravvivare tale dono di Dio.

    Questa dimensione battesimale deve avvolgere, permeare, indirizzare, dare senso a tutto il nostro essere, operare e pensare. Deve essere dimensione costitutiva del nostro cammino di battezzati. Ne dobbiamo fare memoria ogni giorno.

    Questo significa ricominciare ogni giorno, un cammino mai concluso qui su questa terra; proteso a quel passaggio battesimale definitivo che è la nostra morte che nel Risorto viene trasformata in porta di accesso alla vita vera.

    Vivendo già questo passaggio nella quotidianità e sperimentando l’amarezza del calice amaro di “Thanatos”, ci è dato tuttavia di pregustare in certo qual modo la gloria della resurrezione. I “cieli e la terra nuovi” si profilano già  soffusi all’orizzonte.

    E’ un cammino che non compiamo da soli: siamo membra vive di un unico corpo che cammina e cresce, la Chiesa pellegrinante verso il Regno. Nella Chiesa il discepolo trova la testimonianza, la forza, l’aiuto sacramentale per attuare nella vita il suo passaggio pasquale. Nella misura in cui ciascuno lo compie fa sì che tutto il corpo mistico progredisca nel suo itinerario di fede.

    Non è indifferente allora che io accetti o meno l’invito a camminare verso la conformità a Cristo. La mia conformazione mi rinsalda, mi unisce, non solo a Cristo ma anche, nella comunione dello spirito, con tutte le altre membra del suo corpo.


    SCHEDA DI LAVORO

    1. Il mio cammino di sequela di Gesù passa inevitabilmente per la croce:

    – quali croci sono stato chiamato ad attraversare (e/o attraverso)? Le nomino.

    2. La croce di Gesù è totale dono sacrificale di sé al Padre e ai fratelli:

    – che significato concreto do a questa espressione teologica?

    – cerco di vivere questo atteggiamento nella mia vita?

    – se sì, come si manifesta? Dove si concretizza?

    – Mi accorgo forse di non riuscire a viverlo fino in fondo:

    – in quali situazioni concrete? Le nomino.

    – che atteggiamenti concreti mi trovo allora a vivere alternativamente? Li descrivo.

    3. Raggiungo il più profondo di me stesso, là dove aspiro a camminare con Dio seguendo Gesù suo Figlio:

    – a cosa mi sento invitato per poter attuare questa ispirazione?

    – che cosa occorre che io scelga o privilegi concretamente per rispondere a questo invito?

    – che cosa sento di dover lasciare o di dover modificare nella mia vita per rispondere a tale invito?

    LETTURA

    Ogni chiamata di Cristo conduce alla morte

    La croce non è disagio e duro destino, ma il dolore che colpisce solo a causa del nostro attaccamento a Gesù Cristo. La croce non è un dolore casuale, ma è necessario. La croce non è il dolore insito nella nostra normale esistenza, ma dolore che dipende dal fatto di essere cristiani. La croce, in genere, non è solo essenzialmente dolore, ma soffrire ed essere respinti; e anche qui nel vero senso di essere respinti per Gesù Cristo, non per un qualche altro comportamento o un’altra fede. Una cristianità che non prendeva più sul serio l’impegno di seguire Gesù, che aveva fatto del vangelo solo una consolazione a buon prezzo, e per la quale, del resto, la vita naturale e quella cristiana coincidevano senza alcuna differenza, doveva vedere nella croce il disagio quotidiano, la difficoltà e l’angoscia della nostra vita naturale. Si era dimenticata che la croce significa sempre allo stesso tempo essere respinti, che l’onta del dolore è parte della croce. Una cristianità che non sa distinguere vita civile da vita cristiana, non può più comprendere il segno essenziale del dolore della croce, cioè l’essere nel dolore espulsi, abbandonati dagli uomini, come il salmista lamenta senza fine. Croce significa soffrire con Cristo, passione di Cristo. Solo chi è legato a Cristo, come accade per chi lo segue, si trova sul serio sotto la croce. “… Prenda la sua croce”: essa è già pronta, sin dall’inizio, basta prenderla. Perché nessuno pensi di doversi cercare da sé una croce, Gesù dice che per ognuno è pronta la sua croce, quella a lui destinata e commisurata da Dio. Ognuno porti la misura di dolore e di abiezione a lui destinata. La misura è diversa per ognuno… Ma è sempre quell’unica croce. Viene imposta a ogni cristiano. Il primo dolore per amore di Cristo che ognuno deve sperimentare è la chiamata che ci invita ad uscire dai legami di questo mondo. E’ la morte del vecchio Adamo nell’incontro con Gesù Cristo. Chi si incammina con Gesù si dà alla morte di Gesù, pone la sua vita nella morte; è così sin dall’inizio; la croce non è la terribile fine di una felice vita religiosa, ma sta all’inizio della comunione con Gesù Cristo… La chiamata a seguire Gesù, il battesimo nel nome di Gesù, è morte e vita. La chiamata di Cristo, il battesimo, pone il cristiano nella lotta quotidiana contro il peccato e il diavolo. Perciò ogni giorno, con la tentazione a cui il discepolo è esposto per via della carne e del mondo, reca al discepolo nuovi dolori in Gesù Cristo. Le ferite che vengono inferte, e le cicatrici che restano al cristiano dopo il combattimento sono segni viventi della partecipazione alla croce di Gesù.

    Dietrich Bonhoffer, Sequela, Brescia 1971, pp. 69-72

  • 28 Feb

    II

    IL DIO DELLA VITA

    di p. Attilio Franco Fabris


    La Scrittura apre davanti a noi le sue pagine parlandoci di un Dio vivente che chiama alla vita tutte le cose, che progetta l’uomo affinché possa  condividere la sua stessa vita. Dice il Salmo 36: “E’ in te la sorgente della vita”.

    Da un capo all’altro la Scrittura è pervasa da un senso profondo della vita in tutte le sue forme.

    E l’uomo preso da stupore per la scoperta della vita in se stesso e in tutto ciò che lo circonda, consapevole che esso da un momento all’altro può essere ripreso, persegue e chiede a Dio questo dono con una speranza instancabile: “Stavo bene e pensavo: «Non corro alcun pericolo». Tu sei stato buono con me, mi hai reso stabile come una montagna, ma quando mi hai nascosto il tuo sguardo, la paura mi ha preso. A te, Signore, ho gridato, a te ho chiesto pietà: «Se muoio e finisco nella tomba che vantaggio ne avrai? I morti non possono lodarti, non proclamano la tua fedeltà. Ascoltami, Signore, abbi pietà, Signore, vieni in mio aiuto” (Sal 30,7-11).

    NELL’ANTICO TESTAMENTO

    La vita compare nelle ultime tappe della creazione, come suo coronamento. Nel quinto giorno nascono “i grandi cetacei, gli esseri viventi che guizzano e pullulano nelle acque” (Gn 1,21) e gli uccelli. A sua volta la terra produce altri esseri viventi (1,24). Infine Elohim crea, a sua immagine, il più perfetto dei viventi: l’uomo.

    E, per assicurare a questa vita nascente la continuità e la crescita, Dio le fa’ dono della sua benedizione: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (1,22.28).

    Dunque la prima parola di Elohim per l’uomo, è una parola di benedizione per la vita, per la sua crescita, per il suo sviluppo e incremento.

    La crescita è la legge della vita. Essa si deve moltiplicare. Ma l’uomo non deve far solo quest’opera di “moltiplicazione”, egli è chiamato bensì anche ad una ulteriore opera di “crescita” nella sua responsabilità: egli deve avere dominio sul mondo, ovvero governarlo dome luogotenente del Dio Creatore (Gn 1,22.28.;9,7).

    L’uomo, per vivere correttamente questa sua vocazione, avrà sempre coscienza che la sua vita, la sua crescita non trova origine in lui stesso, ma nel Dio della vita: “Cresce forse il papiro fuori della palude e si sviluppa forse il giunco senz’acqua?” (Gb 8,11).

    O speranza di Israele, Signore, quanti ti abbandonano resteranno confusi; quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato te, la fonte di acqua viva, il Signore” (Gr 17,13)

    E’ la benedizione del Creatore infatti che assicura il principio della vita, il suo permanere e il suo crescere.

    Sant’Ireneo vescovo di Lione nel IV secolo, dirà  che nel creare l’uomo, Dio lo fece bambino perché potesse crescere: gloria Dei homo vivens.

    Rileggendo sotto questa angolatura la storia della salvezza risulta evidente come JHWH abbia avuto un progetto fondamentale disatteso per l’umanità intera: che essa non solo crescesse nel numero ma anche nella sua fedeltà e nel suo amore.

    L’umanità disobbedendo a questo progetto ha fatto entrare la forza del male nella sua storia: un male che porta con sé la morte, l’assenza della vita: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!”(Gn 3,19).

    Ma Dio è fedele. Da quel momento la sua azione sarà un continuo riproporre all’uomo il ritorno a lui, con la conseguente uscita da ogni situazione di morte, affinché l’uomo possa ritrovare e risperimentare  il dono della vita vincendo la gravitazione negativa dell’abisso della morte.

    Ripercorrendo le pagine della Scrittura appare evidente di come JHWH abbia perseguito fedelmente questo progetto fondamentale: “Quando Israele era giovinetto io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio… Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano… Ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Os 11,1-4).

    Così la storia dell’Alleanza, l’offerta della vita che si concretizza nel dono della Thorà (=Legge), tra Dio e il suo popolo è contrassegnata dagli interventi di Dio al fine di farlo crescere nella libertà e nella responsabilità. Questi interventi si manifestano nella sconfitta delle forze statiche della morte che rischiano di far naufragare il piano della salvezza: “Ponete nella vostra mente tutte le parole che io oggi uso come testimonianza contro di voi. Le prescriverete ai vostri figli, perché cerchino di eseguire tutte le parole di questa legge. Essa infatti non è una parola senza valore per voi; anzi è la vostra vita; per questa parola passerete lunghi giorni sulla terra di cui state per prendere possesso passando il Giordano” (Dt 32,46s)

    Ecco così che ad Abramo Dio rivolge l’invito ad uscire dalla sua terra, dalla staticità dell’adorazione di idoli falsi e morti, ad incamminarsi. Gli viene proposto un cammino, un itinerario con una meta.

    La vita si rivela un compito da portare a termine: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo Padre, verso il paese che io ti indicherò” (Gn 12,1).

    Israele schiavo in Egitto fa’ esperienza di un Dio che irrompe improvviso nella rassegnazione della sua situazione di schiavitù come liberatore, che lo strappa da una situazione di morte letta come perdita di speranza, ripiegamento su di sé.

    Israele fa’ esperienza di questa uscita e di un lungo cammino, faticoso e sofferto ma necessario alla sua crescita affinché egli possa imparare a rispondere all’Alleanza del suo Dio: “Dio guidò il popolo per la strada del deserto verso il Mar Rosso… Il Signore marciava alla loro testa” (Es 13,18s).

    Anche la predicazione dei profeti si situa sempre in questa direzione: Dio vuole dare la vita al suo popolo, e tramite lui all’umanità intera. Ad es. Ezechiele di fronte alla tremenda catastrofe del 586, la distruzione di Israele e la deportazione a Babilonia, annuncia al popolo che ormai si crede morto, abbandonato che JHWH ridonerà la vita: “Ecco io apro i vostri sepolcri e vi resuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese di Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi resusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio! Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò” (37,12-14).

    E come non ricordare il grande e tenerissimo racconto nuziale di Ez. 16? JHWH raccoglie con premura materna quella bambina, che raffigura Israele, appena nata, abbandonata nei campi, sporca di sangue e a cui non era ancora stato tagliato il funicolo ombelicale. Era destinata irrimediabilmente alla morte. Ma JHWH la prende con sé, la alleva con cura, la fa’ crescere affinché divenga sua sposa: “Passai vicino a te e ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue e ti dissi: Vivi nel tuo sangue e cresci come l’erba del campo. Crescesti e ti facesti grande e giungesti al fiore della giovinezza” (16,6s).

    NEL NUOVO TESTAMENTO

    Il dono della vita all’umanità raggiunge il suo vertice e la sua completezza nel dono del Verbo della vita: “In lui era la vita”(Gv 1,4a).

    Il dono della vita non è più perciò mediato dalla Legge ma è offerto nella sua pienezza nell’incarnazione del Verbo: “Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo”(Gv 1,17).

    La vita che ci viene donata nel Verbo allarga la sua dimensione sull’eternità di Dio, è molto più del solo esistere biologico: diviene tensione ad una pienezza alla comunione con l’origine stessa di ogni vita: è questa la “grazia” di cui parla Giovanni: la promessa di una vita eterna in comunione con Dio.

    Nell’Incarnazione il Verbo eterno assume la vita umana in tutta la sua realtà, diviene soggetto alle leggi della condizione umana: è in primo tempo un bambino che nasce da donna, che cresce in forza e sapienza (Cfr. Lc 2,40.52). E questo sta ad indicare il collocarsi di Gesù in modo reale sul cammino di crescita di ogni uomo. Si tratta di un dinamismo di crescita non semplicemente umana ma bensì di fedeltà ed obbedienza alla volontà del Padre.

    La vita di Gesù e la missione con cui essa si identifica, in modo particolare in Luca, sono descritte come un itinerario, un cammino, una crescita, una salita verso un compimento: Gerusalemme.

    Anche la realtà del Regno, della Chiesa suo sacramento, è presentata in termini dinamici di crescita vitale: il vangelo parla di granellino di senape, di lievito, gli Atti parlano di accrescimento progressivo del numero dei credenti (cfr 2,41) e di crescita della Parola: “Intanto la Parola di Dio cresceva e si diffondeva” (12,24).

    Inserito per il battesimo in Cristo e nella Chiesa anche il singolo discepolo è chiamato a crescere nella maturazione della sua vita cristiana.

    Egli deve crescere nella fede (cfr. 2Cor 10,15); nella conoscenza di Dio, fruttificando in ogni opera buona e crescendo nella carità (cfr. Col 1,10).

    E’ Dio che opera anzitutto questa crescita (cfr. 1Cor 3,6-9), ed è lo Spirito “che è Signore e dà la vita” che fa progredire verso Cristo, il capo del corpo. Dunque la crescita per il cristiano ha una meta ben precisa l’aderire sempre più a Cristo, e farlo crescere in sé conformandosi sempre più a Lui: “Quelli che da sempre ha conosciuto (il Padre) li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29).

    In tal modo sia il corpo mistico di Cristo sia il singolo credente, vengono edificati con Cristo e verso Cristo.

    In Cristo ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,21s)

    La forza dinamica di questa crescita è la carità. Il testo fondamentale lo ritroviamo nella lettera ai cristiani di Efeso: “E’ lui che ha stabilito alcuni… al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto nella misura in cui conviene alla piena maturità di Cristo… Vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità” (4,11-16).

    Abbiamo dunque una meta e uno strumento per raggiungerla: arrivare alla statura di uomo perfetto (Cristo) nella forza dinamica dell’amore.

    Allora deduciamo che: vocazione primaria fondamentale dell’uomo, del cristiano che ha la conoscenza, è il saper riconoscere la vita come dono offerto da un Altro, Dio, un dono che diviene compito, che richiede un cammino verso una meta ben precisa. Si tratta di dire di sì alla vita.

    In Paolo questo sì alla vita si trasforma addirittura in un “correre verso la meta”: “Fratelli io non ritengo di essere giunto ancora alla meta. Questo soltanto io so. Dimentico del passato e proteso verso il futuro corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù” (Fil 3,13-14).

    Tale corsa anche per l’autore della Lettera agli Ebrei non è opzionale, ma un imperativo per ogni discepolo: “Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (12,1-2).

    SCHEDA DI LAVORO

    1.                 Mi guardo attorno. Tutto ciò che vedo è vivo, è pregno di vita. Riconosco in ogni cosa la presenza e l’azione dello Spirito di vita.

    2.                 Mi fermo, prendendo coscienza del mio esistere. Sono vivo. Questa vita mi è stata donata, non mi appartiene. Essa è un dono del Padre che mi ha chiamato all’esistenza dall’eternità.

    3.                 Vi sono, o vi sono state, situazioni in cui ho sperimentato situazioni di morte, di non senso, di ripiegamento, di sfiducia. Momenti in cui la speranza ha lasciato il posto alla disperazione. Ma ho altrettanto sentito che la spinta alla vita spingeva in avanti, ad una non resa. Lì ho sperimentato come il Dio della vita mi accompagna e mi sostiene.

    4.                 La vita cristiana è una crescita verso la piena conformazione a Cristo. Quando un cristiana non avverte più il desiderio, una spinta, ad un perfezionamento, ad una sempre maggiore fedeltà alla Parola di Dio, è segno che in lui il dono della fede rischia di spegnersi o è già spento. Posso dire che in me la fede è viva?

    LETTURA


    NON FERMARTI: CONTINUA A CAMMINARE

    E Mosè scrisse riguardo alle loro tappe e alle loro soste a causa della parola del Signore (Nm 33,2). Egli scrisse dunque cose: “A causa della parola del Signore”, affinché, leggendole, noi vediamo quante tappe, quante soste ci attendono nel viaggio verso il regno, e ci prepariamo a questa strada; affinché, alla vista del cammino che dobbiamo fare, non lasciamo consumare nella debolezza e nell’inazione la durata della nostra vita, e non ci attardiamo nelle vanità di questo mondo, prendendo piacere a ogni diletto della vista o dell’udito, o ancora del tatto, dell’odorato e del gusto: affinché i giorni non se fuggano così, affinché il tempo non scorra senza che noi ci affrettiamo a coprire la distanza del viaggio da fare, affinché non veniamo meno per via e non subiamo la sorte di coloro che non poterono arrivare al termine e “le cui membra sono cadute nel deserto” (Ebr 3,17). Noi siamo in viaggio, noi siamo venuti in questo mondo solo per passare di virtù in virtù, e non restare sulla terra per amore degli oggetti terrestri, come chi dicesse: “Distruggerò i miei granai, e ne costruirò di più grandi… e dirò all’anima mia: Anima mia, tu hai molti beni riposti nel granaio per molti anni… mangia, bevi e rallegrati” (Lc 12,18s). Ah! Che il Signore non ci dica come a lui: “Insensato, questa notte stessa ti sarà rapita l’anima”. Egli non ha detto: “Questo giorno”, ma “questa notte”: quest’uomo è colpito la notte, come lo furono i primogeniti d’Egitto” perché ha amato il mondo e condiviso la vita “dei principi di questo mondo delle tenebre” (Ef 6,14). Ora questo mondo è chiamato tenebre e notte a causa di coloro che vivono nell’ignoranza e non ricevono la luce della verità. Costoro non partono da Ramesse e non vanno a Succot.

    Origene, Omelia 27 sui Numeri, 2-3

  • 27 Feb

    1. IL CAMMINO DI DIO E DELL’UOMO

    p. Attilio Franco Fabris

    L’uomo “biblico” è un nomade. Nella sua esistenza i concetti di strada, via, sentiero, cammino hanno un valore fondamentale. Con tutta naturalezza egli si serve di questo vocabolario per parlare della sua esperienza umana, morale e religiosa: “Beato il popolo che cammina alla luce del tuo volto”(Sal 89,16);  “Siano diritte le mie vie nel custodire i tuoi precetti”(Sal 119,5).

    All’epoca del giudaismo la dottrina delle “due vie” riassume la condotta che gli uomini possono scegliere. Esistono infatti due modi di comportarsi, due diversi cammini: uno buono e l’altro cattivo: “La strada dei giusti è come la luce dell’alba, che aumenta lo splendore fino al meriggio. La strada degli empi è come l’oscurità: non sanno dove saranno spinti a cadere” (Pr 4,18s).

    La via della virtù  è dunque strada diritta e perfetta (cfr. 1Sam 12,23) e consiste nel praticare la giustizia, nel praticare la verità, nel ricercare la pace. Tutti gli scritti sapienziali proclamano che questa è la via della vita; essa assicura lunghezza e prosperità di esistenza: “Per l’uomo assennato la strada della vita è verso l’alto; per salvarlo dagli inferi che sono in basso” (Pr 15,24).

    La via cattiva invece è tortuosa, è quella scelta dagli insensati, dai peccatori, dai malvagi. Essa porta alla perdizione: “La via degli empi andrà in rovina” (Sal 1,6), e alla morte: “Nella strada della giustizia è la vita, il sentiero dei perversi conduce alla morte” (Pr 12,28).

    Tra queste due vie l’uomo è libero di scegliere ed ha la responsabilità della sua scelta: “Vedi io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore tuo Dio ti benedica nel paese che tu stai per entrare a prendere in possesso. Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrati davanti ad altri dei e a servirli, io vi dichiaro oggi che certo perirete, che non avrete vita lunga nel paese di cui state per entrare in possesso passando il Giordano… Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità” (Dt 30,15-20).

    Anche Gesù segnala l’angustia del sentiero che conduce alla vita, e l’esiguo numero di coloro che l’imboccano; mentre la maggioranza segue la via larga che conduce alla morte: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano” (Mt 7,13s).

    LE VIE DI DIO

    Abramo si è messo in cammino all’appello di Dio: “Il Signore disse ad Abram: Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre verso il paese che io ti indicherò” (Gn 12,1).

    Con questa chiamata fatta al padre dei credenti incomincia un grande cammino, durante il quale l’atteggiamento più importante da parte dell’uomo sarà il riconoscere le strade di Dio e seguirle.

    Queste “vie” a volte appaiono sconcertanti: “Le mie vie non sono le vostre vie” (Is 55,8) dice il Signore che però assicura il loro esito di pienezza di vita.

    Di questo cammino l’esodo è l’esempio privilegiato. Durante questo tempo Israele sperimentò che cosa significa “camminare con il suo Dio” (Mi 6,8) ed entrare nella sua alleanza.

    Dio stesso si mette alla testa del suo popolo per aprirgli la strada verso la vita e la libertà, e la sua presenza è nube di giorno e fuoco di notte (cfr Es 13,21).

    Il mare simbolo di morte, dell’abisso del caos, non può arrestare il cammino di Dio liberatore:  “Sul mare fu la tua via, il tuo sentiero sulle acque innumerevoli” (Sal 77,20), cosicché Israele può  sfuggire al giogo di morte degli egiziani ed essere liberato.

    Poi c’è la marcia nel deserto: “Dio quando uscivi davanti al tuo popolo quando camminavi per il deserto”(Sal 68,8). Dio vi combatte per il suo popolo e lo sostiene come un uomo sostiene il proprio figlio; gli procura il necessario sostentamento e veglia perché nulla gli manchi.

    Ma Dio interviene pure per punire Israele delle sue mancanze di fede. Il cammino con Dio in effetti è difficile. Il cammino del deserto è cammino di prova. Perciò la via di Dio è divenuta lunga e sinuosa. “Per quarant’anni…”.

    Ma essa non manca di giungere a compimento: Dio conduce il suo popolo al riposo, alla terra dove scorre “latte e miele”.

    Viene rivelato con ciò come sempre “i sentieri di JHWH sono amore e verità” (Sal 25,10).

    Il ricordo del cammino dell’esodo sarà ravvivato ogni anno a Pasqua e nella Festa delle Capanne. I pellegrinaggi a Gerusalemme contribuiscono a fissare la nozione di “via sacra” che porta a contemplare il volto di Dio.

    LA THORAH

    Giunto alla terra promessa Israele deve nondimeno continuare a camminare nelle vie del Signore (cfr. Sal 128,1). Nel dono della Legge Dio ha rivelato al suo popolo “tutta la via della conoscenza”. Occorre che egli “cammini nella legge del Signore(Sal 119) per mantenersi nella sua alleanza ed avanzare verso la luce, la pace e la vita.

    La dimenticanza e la disobbedienza al dono della legge porta Israele alla catastrofe. Egli dovrà essere condotto in esilio, su una strada che va esattamente a ritroso dell’esodo.

    Ma i profeti ricordano al popolo deportato che Dio è fedele e non si arrende di fronte al peccato; la sua alleanza non può venir meno, bisogna perciò “preparare nel deserto una strada per JHWH” (Is 40,3) perché Israele torni nuovamente salvato e liberato alla terra promessa ai padri.

    CRISTO VIA VIVENTE

    Il ritorno dall’esilio è ancora soltanto una immagine della realtà definitiva.

    Questa è annunziata dal Battista con gli stessi termini di Isaia: “Preparate la via del Signore”.

    Gesù inaugura un nuovo esodo che porta effettivamente al riposo di Dio (cfr Ebr 4,8s). Egli chiama gli uomini a seguirlo: “Seguitemi…” (Mt 4,19).

    La trasfigurazione illumina per un istante la strada di Gesù e del discepolo, prima di iniziare il cammino tortuoso e doloroso della passione. L’ingresso nella gloria non può avvenire se non per la via della croce:: “Se qualcuno vuol venire dietro a me prenda la sua croce…”(Lc 9,23s).

    Luca contempla Gesù che si pone risolutamente in cammino verso Gerusalemme, ascesa al cui termine è il suo sacrificio.

    E’ un sacrificio che ci apre una nuova strada: mediante il sangue di Cristo noi abbiamo ormai accesso al vero santuario; attraverso la sua carne Gesù ha inaugurato per noi una via nuova e vivente: “Avendo dunque, o fratelli, la confidenza di entrare nel santuario, nel sangue di Gesù, via che egli ha inaugurata per noi nuova e vivente attraverso il velo, cioè la sua carne” (Ebr 10,19s).

    Negli Atti degli Apostoli il cristianesimo nascente è chiamato “la via”. Di fatto i discepoli hanno coscienza di aver trovato la vera strada che fino allora non era manifesta, che essa non è più la Legge ma Cristo stesso: “Io sono la via”( Gv 14,6). In lui avviene la vera pasqua e il vero esodo.

    In lui dobbiamo camminare: “Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l’avete ricevuto” (Col 2,6).


    LA VITA E’ UNA CORSA

    Se l’esistenza umana spesso è paragonata al cammino, essa si trasforma addirittura in una corsa quando si vuole esprimere un’obbedienza pressante o una missione urgente: “Non ritengo la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù” (At 20,24).

    Ma correre può stare ad indicare anche  la gioia di una vita giusta e fedele ai sentieri di Dio: “Io corro sulla via dei tuoi comandamenti perché tu mi hai dilatato il cuore” (Sal 119,32). “A coloro che sperano nel Signore spuntano delle ali come aquile: corrono e non sono stanchi” (Is 40,31).

    Trasferito nel linguaggio del Cantico dei Cantici questa tensione di tutta l’esistenza al servizio del Signore diventa la frenesia della sposa rapita di gioia alla voce dello sposo: “Trascinami dietro di te, corriamo” (Ct 1,4).

    E questo ci rimanda significativamente alla corsa di Pietro e Giovanni al sepolcro del Signore il mattino di Pasqua (cfr. Gv 20,4).

    In Paolo l’esistenza cristiana questa corsa diventa una gara sportiva che esige sacrifici e rinunce per riportare la vittoria: “Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto, essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. Io dunque corro, ma non come chi è senza meta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato” (1Cor 9,24-27).

    La vita del cristiano è un protendersi verso i beni futuri sperati nella fede: “Dimentico della via percorsa, proiettato con tutto il mio essere in avanti, io corro diritto verso la meta per riportare il premio della celeste chiamata di Dio in Cristo Gesù” (Fil 3,12).

    Quale gioia per il credente poter dire come Paolo al termine del suo cammino: Ho combattuto sino alla fine la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede (2 Tm 4,7).

    SCHEDA DI LAVORO

    1. Mi sono poste dinanzi in ogni istante due vie: la via della vita e la via della morte.

    –          come intendo queste due espressioni applicate alla mia vita?

    2. Nella mia vita mi sono capitate (o mi stanno capitando) occasioni significative in cui mi sono trovato ( o mi trovo) ad un bivio:

    – quali? Le nomino.

    – ne scelgo una: come ho vissuto ( o come vivo) il trovarmi a decidere?

    – cosa ho scelto? Mi sembra di aver aderito ( e di aderire) alla via della vita? Se sì perché?

    3. Ad Abramo è stato chiesto di uscire dalla sua patria e di mettersi in cammino, ai discepoli Gesù domanda di lasciare tutto per seguirlo:

    – Dio mi mette in cammino: se sì in che modo?

    – che cosa sento di aver sinora lasciato?

    –          che realtà sento  che mi tengono ancora legato e fermo?

    –          Che cosa il Signore mi chiede di  abbandonare per potermi mettere in cammino (cose, relazioni, affetti, luoghi…)?

    UNA LETTURA

    La strada: due possibilità di conoscenza

    Durante i miei corsi di meditazione, per far prendere coscienza che oltre alla conoscenza razionale ce ne sono anche altre, sono solito proiettare una diapositiva che rappresenta una strada, e faccia quindi sperimentare, una dopo l’altra, le due specie di conoscenza anzitutto lasciando contemplare a lungo l’immagine, e pi comincio a far rivivere il primo tipo di conoscenza dicendo: Con l’intelletto io posso conoscere la strada come realtà esteriore. Quindi continuo in modo da avere l’approvazione degli ascoltatori: la strada è terra battuta con sopra della ghiaia. Essa è immobile, a differenza degli animali o delle piante non si muove al vento. In se stessa è anche senza rumori. Ha sempre la stessa forma; nona giunge più nessuna curva alle già esistenti. E’ passiva, non agisce. Durante le mie considerazioni sul suo conto, essa mi sta di fronte, separata da me. C’è però, un altro modo con cui io posso conoscere la strada e parlare di essa. Faccio quindi delle affermazioni quasi contrarie alle precedenti ricorrendo sempre a dei verbi di azione, la strada viene da una parte e va in un’altra direzione. Si apre, si snoda, si allunga, si perde, finisce. Mi invita, mi attira, mi promette qualcosa, mi prospetta una meta, mi porta, mi conduce. Mi dischiude il paesaggio, mi esorta alla fiducia, mi impedisce di perdermi. Se è ripida mi stimola; se è comoda mi invita alla distensione. La strada mi può salvare, liberare (la via della fuga). Osserviamo: soltanto ora la strada ci si dà a conoscere nella sua vera natura, nella sua pienezza. E’ qualcosa di più di terra battuta. Devo lasciarla operare in me. Prima ne ero rimasto lontano, distaccato, ora sono in contatto con essa. E’ in questa fase che iniziano gli sviluppi. Incontrandosi con me, la strada si esprime nella sua vera natura, mi parla, mi rimette in movimento, mi chiama in causa. Non è più soltanto fuori, ma anche in me; io non sono più solo in me, ma ho dilatato il mio interno fino ad essa. Io la interiorizzo… Una volta che nell’incontro ne ho compreso la vera essenza, posso usarla come immagine. Ecco che parlo di “strada della vita”. Ora non è più questione di terra o di ghiaia, ma di qualcosa di più profondo, nascosto nella sua vera natura. E’ strano, ma evidentemente questo qualcosa esiste.Ecco perché Cristo può anche affermare: “Io sono la via”…

    Karl Tilmann, Guida alla meditazione, Brescia 1982, pp.37-38


  • 26 Feb

    11 annotazione pratiche per il servizio liturgico del lettore

    1. Il leggere le letture durante l’Eucarestia è un’azione sacra; più precisamente si tratta di un “ministero” (=servizio) liturgico vero e proprio sempre esistito e stimato nella tradizione liturgica della Chiesa Cattolica e Orientale.  Si tratta del servizio fondamentale del proclamare la stessa Parola di Dio e non un parola qualsiasi!

    2. Al lettore si esige una vita di fede autentica e una condotta morale adeguata al servizio pubblico che egli ricopre nell’assemblea eucaristica (chi vive in una situazione moralmente contraddittoria della fede cattolica non può svolgere questo servizio.

    3. Svolgi questo servizio come un gesto concreto di amore e di umile servizio per la comunità cristiana; come un dono e un’occasione per vivere la tua appartenenza a Cristo e alla comunità cristiana. Non compiere questo gesto per ostentazione o per far bella mostra di te.

    4. Il primo scopo che devi aver chiaro quando leggi è che gli ascoltatori che hai dinanzi devono sentire e capire ciò che viene letto!

    5. Per raggiungere questo obiettivo è indispensabile che tu abbia a prepararti bene prima di svolgere il tuo compito: non improvvisare mai la lettura! (Meglio ancora se possedendo un messalino festivo tu possa già molto prima della celebrazione preparare la lettura)

    6. Cerca anzitutto tu di capire bene quel che dovrai leggere: è una regola basilare. Se non capisci quel che leggi non lo potrai proclamare correttamente e con frutto all’assemblea.

    7. Quando è il tuo turno esci dai banchi, ai piedi dell’altare, prima di salire all’ambone (=luogo da cui si proclama la Parola) fai con calma un inchino (evita genuflessioni o segni di croce). Fai attenzione a che il microfono sia all’altezza della tua bocca.

    8. la dignità e solennità della proclamazione della Parola richiede che la lettura sia fatta dal Lezionario (il libro liturgico che contiene le letture) e non dal foglietto che hai sui banchi.

    9. Altra regola essenziale! NON AVER FRETTA! Di terminare la lettura. Faresti un pessimo servizio. Sii puntiglioso nel rispettare la punteggiatura e la spaziatura. Ma soprattutto ascolta, assimila e gusta tu per primo ogni parola che pronunci! Usa una voce chiara, forte: non mangiare le parole e le finali.

    10. Già durante la tua preparazione cerca il tono più adatto alla lettura che dovrai proclamare: altro è un racconto, altro un testo sapienziale, altro un testo profetico e così via… fai però attenzione a non scadere mai nella teatralità.

    11. al termine della lettura ritorna davanti all’altare che rappresenta Cristo, fai l’inchino e torna con calma e non di corsa al tuo posto


    Dall’Introduzione al Messale Romano n. 66

    Il lettore è istituito per proclamare le letture della sacra Scrittura, eccetto il vangelo; può anche proporre le intenzioni della preghiera universale e, in mancanza del salmista, recitare il salmo interlezionale.

    Il lettore nella celebrazione eucaristica ha un suo ufficio proprio, che deve esercitare lui stesso, anche se sono presenti ministri di ordine superiore.

    Perché i fedeli maturino nel loro  cuore, ascoltando le letture divine, un soave e vivo amore della sacra Scrittura, è necessario che i lettori incaricati di tale ufficio, anche se non ne hanno ricevuta l’istituzione, siano veramente idonei e preparati con impegno.

  • 26 Feb

    Alcune considerazioni pratiche

    sulle nostre Celebrazioni Eucaristiche

    di p. Attilio Franco Fabris

    Un dono e un’occasione di incontro non solo un… precetto


    La Chiesa invita a riscoprire la centralità dell’Eucaristia domenicale ad ogni discepolo del Signore Gesù. Non sei chiamato a vivere la tua partecipazione alla Eucaristia domenicale anzitutto come un dovere (ma è anche questo!), un “qualcosa da dare a Dio”. Lui non ha bisogno di nulla: quello che ci chiede è solo per noi. Chiamandoti a partecipare alla messa domenicale è Lui che ti chiama per donarti ciò che ha di più prezioso: la sua Parola e la Carne e il Sangue del Figlio suo. Allora tu ,cristiano, vivi la Messa come un suo dono, un appuntamento immancabile e prezioso con Colui che è la speranza della tua vita.

    Ricorda che rimane tuttora valido il comandamento di “Santificare le feste” e che perciò sussiste il “precetto” (ovvero del dovere morale sotto pena di peccato grave) della partecipazione alla santa Messa domenicale e nelle feste di precetto: gli unici validi motivi per cui è possibile esserne esonerati sono per malattia, anzianità, assistenza ad ammalati gravi o bambini piccoli, o altri impedimenti gravi o improvvisi. Tutti gli altri motivi per il cristiano non sono validi! Cosa vi può essere di più importante dell’incontro con Dio e dell’ascolto della sua Parola e del mangiare e bere il Corpo e Sangue di Gesù?

    Soprattutto se sei genitore non scordarti dell’impegno solenne assunto, nel giorno del battesimo dei tuoi figli, dinanzi a Dio e alla Chiesa di educarli nella fede. Che senso avrebbe “costringere” i figli alla prima comunione, alla cresima, se tu per primo non vivi quello che chiedi loro di fare? Sarebbe stato più onesto ed educativo non avanzare la richiesta dei sacramenti per i figli se i genitori non li vivono.

    Di conseguenza a ciascuno di noi la fedeltà e serietà nel vivere, anche a costo di sacrificio, questo incontro settimanale col Signore e la comunità. Non vi può essere vita cristiana senza eucaristia: sarebbe come voler vivere senza mangiare né bere!  Il pretenderlo è vivere in una grande illusione spirituale; significherebbe pretendere di andare a Dio e vivere di lui a prescindere dalle strade che Lui stesso ha predisposto per incontrarlo.


    Sei figlio nella casa del Padre tuo, non un servo che se ne deve stare lontano…

    La celebrazione eucaristica è un banchetto a cui si mangia alla stessa mensa: come una grande famiglia. Sentiti in una grande famiglia! Se io vengo invitato a casa vostra, voi sicuramente mi inviterete ad entrare, a venire in salotto e non a starmene impacciato sulla porta. Se lo facessi pensereste: Questo qui non vede l’ora di andarsene, non gli interessa nulla di noi, e interpretereste il gesto come indelicato se non addirittura maleducato. Vedi allora che non ha significato per il cristiano rimanere in fondo alla Chiesa, vicino alle porte, o nascosti dietro le colonne. Il messaggio implicito che in questo caso viene lanciato da costoro è: “di quel che accade sull’altare non è affar mio, ma del prete. Io non c’entro!” Ricorda: Alla messa sei attore e non spettatore!

    Questo atteggiamento non è neppure testimonianza per chi magari sporadicamente partecipa alla messa. Vedere dei cristiani così distaccati, lontani da quel che dovrebbe essere la ragione del loro esser lì diviene motivo in più per dire: “questi qui sono qui per un dovere, e non vedono l’ora di andarsene perché allora ci dovrei venire?”.

    Allora un piccolo impegno: non aver paura di venire davanti, ai primi posti. Senti questo come un privilegio del tuo essere figlio nella casa del Padre, non un servo che se ne sta il più lontano possibile dal padrone. Se vedi banchi vuoti all’inizio della messa, abbi la gentilezza di venire avanti e magari di invitare altri a fare lo stesso. Ti sentirai partecipe della messa e non uno spettatore lontano e disinteressato.


    Renditi disponibile: esercita il diritto-dovere di svolgere il tuo ruolo


    Nella celebrazione eucaristica sono tanti i servizi che puoi svolgere per rendere più bella, partecipata e dignitosa la liturgia.

    C’è il servizio del lettore che proclama dall’ambone la Parola di Dio. Ritorneremo con calma su questo fondamentale servizio che deve essere svolto con competenza e dignità.

    C’è il servizio del ministro dell’altare  che non è delegato solo ai bambini anzi nella chiesa è un ministero ufficiale di per sé svolto da adulti che si chiama “accolitato”, c’è poi il servizio della raccolta delle offerte, dell’animazione del canto, della guida liturgica, ecc….

    Ci auguriamo che al più presto tante persone si rendano disponibili secondo quanto si sentono in grado di poter offrire al fine di sentirsi tutti “attori” nella grande azione liturgica che è l’assemblea eucaristica domenicale.

    Lo Spirito suscita tanti doni in vista del servizio alla Chiesa: quale il tuo dono? Li stai mettendo a disposizione, o per pigrizia o altro li tieni per te? Abbi il coraggio di dire la tua disponibilità. La comunità sarà ben lieta di vedere i suoi membri attivi e capaci di collaborare perché il culto del Signore sia bello. Perché allora  non vai dal tuo parroco per chiedergli: “Cosa potrei fare per rendermi utile all’animazione della nostra liturgia domenicale?”.


    Prega con tutto il tuo essere: tutto è dono di Dio!


    Capita purtroppo e spesso di vedere assemblee eucaristiche, spente, monotone, stanche, annoiate, disinteressate. Tra i motivi non solo a volte l’incapacità di animare da parte del celebrante ma anche la scarsa volontà di partecipazione attiva da parte dei presenti.

    Abbiamo il dono della voce: usiamola per lodare il Signore e dire la nostra gioia nell’essere nella casa del Signore, e con i fratelli cantare a lui. Fai lo sforzo di prendere il libro dei canti che ti trovi davanti, di aprirlo al numero indicato e di… cantare. Non si tratta di sbraitare sguaiatamente volendo apparire e farsi sentire, ma di partecipare e fare bene la tua parte: canta come puoi e riesci, ma canta. Non stare lì, muto, assente, con lo sguardo perso nel vuoto: l’impressione è quella di una persona che non sa bene cosa è lì a fare. Perché alle feste del paese si canta tutti a squarciagola e in chiesa si sta zitti? Qualcosa allora non va!

    Così pure partecipa con la voce alle risposte dell’assemblea alla preghiera liturgica. Un’assemblea che canta e risponde è assemblea viva, in cui è bello sentirsi inseriti, in cui è bello celebrare il giorno della resurrezione del Signore. Diviene testimonianza bella del nostro vivere la fede davanti al mondo. Una liturgia bella è stimolo a chi è lontano dalla fede e non partecipa a entrare a farvi parte. Altrimenti anche a causa nostra allontaniamo gli altri con la nostra negligenza.

    Facciamo allora il piccolo ma importante proposito di partecipare attivamente alla preghiera liturgica con il canto, avendo sotto gli occhi il testo che trovi sul libro apposito, e con le risposte proprie dell’assemblea. Darai la tua bella testimonianza del sentirti membro vivo e attivo, non amorfo e staccato da tutto e da tutti.


    Accogli sulle tue mani il tesoro preziosissimo del Corpo di Cristo


    Il momento in cui ti accosti a ricevere l’Eucarestia è il più importante. Quel pane non è più pane ma il Corpo vero e santissimo del Signore Gesù. Accostati all’immenso dono della comunione con grande adorazione e rispetto, evita nel modo più assoluto ogni superficialità e trasandatezza. La Chiesa raccomanda che il gesto del ricevere tra le mani il Corpo di Cristo sia fatto con grande consapevolezza e amore. Mentre sei in fila preparati nella preghiera, giunto davanti al sacerdote poni la mano destra sotto la sinistra, alle parole. “Il Corpo di Cristo” rispondi con grande fede dicendo: “Amen!”. Accogli nel palmo della mano sinistra le sacre specie con grande attenzione a non lasciar cadere nessun frammento. Ponendoti a lato del sacerdote con le dita della mano destra raccogli la particolare dalla sinistra e comunicati. Evita  di mettere davanti al prete le due mani parallele e stese, oppure di presentare le dita  a mò di… pinza volendo afferrare la particola, di avere guanti o altro tra le mani. Così pure comunicati da fermo e non camminando.

    Hai tra le mani l’immensa preziosità del Corpo di Cristo offerto per te, non profanare il dono preziosissimo che ti è dato! Anche con il gesto esprimi la tua preghiera e la tua fede, non solo con le parole.


    Dall’inizio alla fine


    L’Eucaristia domenicale ha degli orari ben precisi: non inizia né prima né dopo. Anche qui purtroppo vi sono coloro che, quasi per pessima abitudine arrivano con cinque o dieci minuti di ritardo a celebrazione iniziata, magari a lettura del vangelo conclusa. E’  da notare che in questo caso la partecipazione non è valida in quanto si è “saltata” la prima parte essenziale della Messa che è quella della liturgia della Parola. Anche qui occorre che la nostra coscienza abbia un po’  più di attenzione e finezza spirituale.

    Arrivare tardi è segno di poca attenzione e rispetto verso il Signore, al quale viene dato solo“qualcosa” e non tutto. Questo alla lunga provoca un ottundimento letale della mia coscienza di fede. Se tratto consapevolmente le cose di Dio senza rispetto meglio allora che coerentemente tralasci di farle!

    Inoltre il mio arrivare in ritardo è fattore di distrazione per gli altri, è impedimento ad entrare in un sano clima di preghiera nella liturgia.

    La medesima cosa vale per il termine della celebrazione: non si esce dalla casa del Signore e dalla comunità prima del congedo del sacerdote. Farlo significa mettere prima le mie cose che quelle di Dio. Aspetta dunque la benedizione finale e il congedo : è il tuo essere mandato nel mondo come missionario.

    Buona cosa, anzi ottima e doverosa, sarebbe riuscire a fermarti qualche minuto a tu per tu col Signore al fine di ringraziarlo e dialogare con lui nella preghiera.

    Fai allora il buon proposito di arrivare puntuale, anzi con qualche minuto di anticipo, in modo da prepararti bene all’incontro col Signore. Evita la trasandatezza e la superficialità nelle cose del Signore che sono le più vere e le più sante.


    Un po’ di galateo… da chiesa


    Fa attenzione prima di entrare in Chiesa di spegnere il cellulare, onde evitare che all’improvviso l’assemblea  (e il celebrante!) sia distratta dal trillo di qualche telefonino. Sei qui per ascoltare Colui che nella tua vita è la presenza più determinante: il Signore! Tutto il resto passa in secondo piano.

    Evita, se devi spostare qualche sedia, di trascinarla o di fare rumore inutile: aiuta i tuoi fratelli a conservare il clima di silenzio e di  preghiera.

    Così pure cerca di evitare di parlare con altri: conserva il silenzio nella casa di Dio permettendo così anche agli altri di vivere la loro preghiera nel raccoglimento.

    La medesima cosa riguarda l’accensione di lumini durante la Messa: evita questo gesto inopportuno. La preghiera liturgica è la cosa più importante, stai vivendo il memoriale della passione, morte e resurrezione del Signore. Le tue devozioni ai santi e alla Vergine Maria, lasciale per la fine della messa.  L’accensione del lume può essere certo un gesto di ringraziamento, di supplica e di lode ma fallo nel tempo giusto.

    Pessima cosa partecipare all’Eucaristia con la bocca intenta a masticare gomma, capita purtroppo anche questo: inutile richiamare che nell’incontro con Dio questo atteggiamento è a dir poco maleducato e di pessimo gusto. Non lo farei mai davanti ad una persona di riguardo, come mai lo faccio così spavaldamente nella casa di Dio?

    Facciamo sì che il nostro comportamento sia di stimolo alla preghiera e al raccoglimento: non facciamo della casa del Signore una piazza, o un luogo qualsiasi: è luogo santissimo in cui ci poniamo con ancor più consapevolezza alla presenza del Signore.


    Il valore dell’elemosina


    La chiesa è composta anche dal lavoro di persone concrete che devono vivere e di strutture che occorre mantenere efficienti in modo che il servizio religioso venga offerto con dignità, bellezza. Intervengono anche diverse spese fisse come la luce, il riscaldamento… Comprendi allora che l’offerta che viene raccolta durante l’Eucaristia è in vista anche di questo oltre che ad essere devoluta a chi necessita di aiuto o in vista di qualche altra iniziativa particolare. Concretamente conosci il costo della vita e del mantenere in piedi ed efficienti le strutture che anche tu utilizzi

    Il tuo contributo lo devi offrire con generosità, secondo le tue possibilità ma senza spilorceria, a volte diamo meno del valore di una tazzina di caffé!  Sii allora generoso nel donare ciò che necessita al mantenimento della casa del Signore. Anche da questo semplice e concretissimo gesto manifesti la tua collaborazione e il tuo inserimento nella realtà ecclesiale di cui devi sentirti responsabile.

  • 25 Feb

    LA FAME DEL POVERO,

    IL FOLLE AMORE DI CRISTO

    Dio nutre il suo popolo durante tutta la marcia nel deserto. E’ la lezione della storia.  Una lezione fonte di speranza.

    “Allora essi mormorarono contro Dio dicendo: « Potrà forse Dio preparare una mensa nel deserto?”.

    Ecco, egli percosse la rupe e ne scaturì acqua, e strariparono torrenti.

    «Potrà forse dare anche pane preparare carne al suo popolo? ».…

    Dio comandò alle nubi dall’alto e aprì le porte del cielo; fece piovere su di essi la manna per cibo e diede loro pane del cielo.

    L’uomo mangiò il pane degli angeli, Dio diede loro cibo in abbondanza.  Scatenò nel cielo il vento d’oriente, fece spirare l’australe con potenza.

    Su di essi fece piovere la carne come polvere, e gli uccelli come sabbia del mare; caddero in mezzo ai loro accampamenti, tutto intorno alle loro tende.

    Mangiarono e furono ben sazi, li soddisfece nel loro desiderio “

    (Sal 77,19-20.23-29).

    Per l’uomo la fame è sempre una prova; per Dio è un’occasione per dimostrarsi misericordioso.

    Se la fame infatti, causa di rivolta, dev’essere combattuta come un male, deve anche disporre l’uomo all’intervento di Dio. E’ la sua ambiguità.

    Ecco perché Dio da una parte dà da mangiare all’affamato, ma dall’altra non ama i ben pasciuti.

    Perciò fa nascere e rinascere continuamente in noi la fame.

    Fame della parola

    Il popolo di Dio ha conosciuto un’avventura straordinaria, ore gloriose: l’uscita dall’Egitto, l’alleanza, la manna nel deserto, l’entrata nella terra promessa.  Per Israele è la gioia, l’esultanza, ma anche la dimenticanza, la stabilità, l’organizzazione. E’ la ricchezza, la vita degli affari.  E tanto peggio per gli altri, per i poveri soprattutto che vengono maltrattati, disprezzati, sfruttati.

    Ma Dio continua a vegliare.

    Farà sorgere dei profeti dal pugno di ferro, dalla parola tagliente. Moltiplicherà le prove… Dovrà essere ridotto alla più nera miseria, prima che se ne renda conto e che il suo cuore sia disposto finalmente all’intervento del Signore.

    Finalmente il popolo si scuote e piange al ricordo del grano perduto, dei vigneti e delle ficaie distrutte (Os 12,11.14).

    Nuovamente Dio lo sedurrà riconducendolo nel deserto (Os 2,16).

    Nuovamente il popolo conoscerà la fame « non fame di pane, né sete di acqua, ma di udire la parola di lahvè » (Am 8,11).  Questo significa aver fame e sete di Dio:

    Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio!

    L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente; quando verrò e vedrò il volto di Dio? (Sal 41,2-3).

    Questa fame e questa sete saranno vive soprattutto nei poveri, i trascurati, i deboli, gli individui costretti a curvare la schiena sotto il destino o la prepotenza della ricchezza, i distrutti dal dolore, i prigionieri (cfr. Is 61,2).

    Al contrario gli individui ben pasciuti, i grassoni non conoscono i morsi lancinanti della fame.  Sono troppo ricchi, troppo soddisfatti: non è possibile far presa nella loro vita.  Per i poveri invece Dio è la speranza, che non sarà mai delusa:

    Il Signore è il mio pastore,

    non manco di nulla;

    su pascoli erbosi mi fa riposare,

    ad acque tranquille mi conduce.

    Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino,

    per amore del suo nome.

    Davanti a me tu prepari una mensa,

    sotto gli occhi dei miei nemici;

    cospargi di olio il mio capo.

    Il mio calice trabocca (Sal 22,1-3.5).

    Come si vede Dio non disprezza l’uomo disprezzato, né disdegna la povertà del povero: al contrario:

    I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano: « Viva il loro cuore per sempre! » (Sal 21,27).

    Proprio per i poveri JHWH preparerà:

    un convito di carni grasse, un convito di vini speciali, di gustosi grassi, di vini raffinati (Is 25,6).

    Per partecipare a questo festino c’è una sola condizione: la fame, la sete, la disperazione.  Niente altro.  Perché il festino è gratuito:

    Orsù, tutti voi assetati venite all’acqua;

    anche se non avete denaro venite lo stesso.  Comprate del grano e mangiate, senza denaro, e, senza pagare, acquistate vino e latte (Is 55,1).

    In realtà «Dio sazia di beni gli affamati, e rimanda a mani vuote i ricchi» (Lc 1,53).

    Tutto ciò avrà la sua più esplicita verifica nell’Eucaristia: che non è per i soddisfatti, ma per i poveri, gli storpi, gli zoppi, la plebaglia che Cristo invita al banchetto di nozze.  Egli è venuto per loro, è il messia dei poveri (Lc 1,53), per soddisfare la loro fame e la loro sete (Lc 6,21), per disporre il loro cuore alla parola di Dio (Mt 4,4), alla speranza, alla sua stessa vita, in comunione col Padre (Gv 4,32ss).

    Naturalmente un po’ alla volta. Perché anzitutto bisogna nutrire il corpo, far nascere il desiderio: soltanto allora i cuori saranno disponibili.  E Gesù fa proprio così nel vangelo: non brucia le tappe.  Altrimenti uno finirebbe coll’accettare passivamente la cosa, cadendo in una forma di alienazione che finirebbe coll’opporsi a Cristo.

    Pane per le folle

    Cristo ha pietà delle folle affamate.  Sempre la stessa carica di umanità.

    «Vedendo le folle ne ebbe pietà, perché erano stanche e abbattute come pecore senza pastore» (Mt 9,36; cf Mc 6,34).

    E un po’ più avanti:

    «Ho pietà di questa folla, perché da tre giorni sono con me e n:)n hanno da mangiare» (Mt 15,32; cf Mc 8,1-3).

    Gesù sente pietà delle folle. In Cristo si tratta di una forza amorosa profonda, si direbbe istintiva, che nasce dall’intimo del cuore, e si traduce in interventi operativi che rendono possibile all’uomo l’uscire dalla propria miseria e gli fanno raggiungere pienamente quella libertà di cui aveva bisogno.  Per Cristo la pietà è sempre un amore attivo ed efficace.

    Di fronte alla folla è mosso da due motivi: anzitutto perché è una folla stanca e sfiduciata, disorientata e sperduta; e poi perché è una folla affamata e assetata. Si tratta cioè di una folla che cerca disperatamente un cibo materiale e un senso alla propria vita.

    La fame degli uomini si manifesta su questi due piani: la parola e il pane, e Gesù risponde ad entrambi.

    Nel racconto della prima moltiplicazione dei pani nel deserto

    (cf Mt 14,13-21; Mc 6,30-34; Lc 9,10-17; Gv 6,1-15),

    di fronte ad una folla numerosa ma disorganizzata, quasi pecore senza pastore, il primo atteggiamento di Gesù è di istruirla.  Di questo hanno bisogno: bisogno di parola, una parola che diventi nutrimento e permetta ad un popolo di prendere coscienza della propria realtà.

    Questa parola rivela il significato della vita e crea valori, questa parola dà unità: è una parola creatrice di un popolo.  Finora esisteva una folla che si ritrovava senza ordine, senza guide e senza un capo.

    Ora diventa possibile nutrire questa folla immensa bene ordinata con «cinque pani e due pesci».  Gesù alza gli occhi al cielo e pronuncia la benedizione. I pani vengono spezzati e distribuiti dai discepoli.

    «Tutti ne mangiarono e furono saziati, ed essi raccolsero gli avanzi»: dodici canestri o sette sporte colme di pani e di pesci.  La folla era di quattro o cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.

    Tutte queste precisazioni sono importanti.  Se da una parte esse mostrano all’evidenza che ci muoviamo in un clima di miracolo, dall’altra parte dimostrano l’incidenza della parola sulla folla, l’azione dei discepoli, la chiara volontà del Signore di costituire un popolo.

    Soprattutto, con il valore simbolico di cui sono cariche, aprono le prospettive su un’altra realtà: quale sarà poi ampiamente sviluppata nella letteratura patristica.

    La parola è nutrimento. Essa è indispensabile. Dispone i cuori allo Spirito, all’azione del Signore: preparandoli a ricevere un cibo veramente nutriente.  Questo cibo è stato infatti preparato per gli affamati.  E tuttavia, in modo ancora più decisivo, si tratta di un cibo inesauribile: di un cibo cioè che è stato preparato non per gli invitati di un solo giorno.  Esso è destinato anche a coloro che verranno in seguito, come pure agli estranei.

    Qui cogliamo il simbolo degli avanzi, le sette sporte o i dodici canestri di pane.  Perché raccogliere questi avanzi se non perché anche altri hanno fame, perché anche altri devono approfittare di questa moltiplicazione?  La cosa è importante.  La parola del Signore ha bisogno di espandersi. Il pane del Signore dev’essere condiviso fraternamente con tutti.  La tavola del Signore non è riservata, ma preparata per tutti.  L’allusione contenuta nel racconto della moltiplicazione non lascia dubbi.  Ritroveremo questo gesto nell’ultima Cena.  E’ il gesto fondamentale di ogni Eucaristia (“per voi e per tutti”).

    La marmaglia alla tavola del Signore


    Ciò che abbiamo detto ci permette di capire due cose molto importanti, sottolineate del resto dallo stesso Signore, nel vangelo: gli invitati alle nozze; la chiamata dei poveri.

    Il Signore invita tutti al banchetto.  Alcuni rifiutano: non hanno tempo, sono troppo occupati.  Gli affari urgono. L’invito li infastidisce.

    Ci sono cose più urgenti e più importanti.  E poi non sentono nessun bisogno di quel pranzo.

    Ce ne sono però degli altri che non hanno ricevuto nessun invito; e che sono convinti che ciò dipenda dal fatto che non ne sono degni. I banchetti non fanno per loro: non hanno titoli per cose simili: e in ogni caso si sentirebbero a disagio.  Ecco, proprio costoro il Signore manda a cercare: proprio la marmaglia.

    « Presto, va’ per le piazze e per le vie della città e conduci qua poveri, storpi, ciechi e zoppi… Va’ per le strade e lungo le siepi e costringili a venire, affinché la mia casa sia piena » (Mc 14,21-23).

    La lezione è importante.  Non dovremo dimenticarla!  L’Eucaristia acquista significato solamente per l’affamato, perché solamente lui è capace di accogliere l’invito del Signore.

    L’Eucaristia non dev’essere confinata nelle chiese per un popolo d’élite, ma dev’essere accessibile al povero.

    E siccome ci sono dei limiti a prima vista invalicabili, essa deve soprattutto presentarsi come un gesto d’amore, come un atteggiamento umano per l’immenso numero di coloro che, per capire il gesto del Signore nella sua creazione o nella sua Eucaristia, hanno bisogno di verificare, di toccare direttamente, di risentire nel loro cuore, attraverso la testimonianza di coloro che si proclamano cristiani e che celebrano il Signore, la verità del gesto compiuto.  Perché, dopo tutto, la verità di Cristo passa attraverso l’autenticità della compartecipazione alla vita.

    E’ necessario che l’Eucaristia sia anzitutto il sacramento della fraternità: la verifica quotidiana, incarnata nelle situazioni più banali della realtà umana, dell’amore di Cristo per tutti noi, così come viene celebrato nell’azione liturgica.

    Del resto, il richiamo al povero è un preciso appello alla fede e alla comunione.  Sappiamo benissimo che Cristo fa tutt’uno con l’affamato, il disgraziato, il prigioniero… Cristo si identifica nel povero, e perciò nel povero si fa presente e noi lo raggiungiamo:

    Poiché avevo fame e mi deste da mangiare.

    Avevo sete e mi deste da bere.

    Ero pellegrino e mi ospitaste, nudo e mi rivestiste,

    infermo e mi visitaste

    carcerato e veniste a trovarmi (Mt 25,35-36).

    Pane per lo straniero

    La seconda moltiplicazione dei pani (Mt 15,32-39) assomiglia moltissimo alla prima.  Certamente dipendono entrambi da un’unica tradizione, diversificatasi poi secondo gli ambienti o i testimoni che l’hanno riferita.  Ma non è qui il punto, bensì nel valore e nel significato di alcune differenze.  Come ad esempio l’occasione che provoca la pietà di Gesù.  Mentre nel primo racconto si trattava di una folla di poveracci, qui si parla di una folla che segue Gesù da tre giorni e che non ha da mangiare. E’ una folla sfinita dal cammino e attanagliata dalla fame, che non potrà più andar avanti senza venir meno dallo sfinimento.  Gesù ne ha pietà e decide di sfamarla con pane e pesce.

    Marco inserisce un altro particolare interessante: « Alcuni di loro vengono da lontano » (Mc 8,3).

    Ora sono sfiniti: non puoi non intervenire. In una prospettiva neotestamentaria è un preciso richiamo ai pagani, a coloro che sono lontani e ai quali bisogna portare la buona novella; a coloro che non fanno ancora parte del gregge e che non hanno sentito la parola.  Del resto si tenga presente che Marco scrive il suo racconto in ambiente pagano.

    Per quanto riguarda il rapporto del racconto con l’Eucaristia, è interessante notare un piccolo dettaglio lessicale. Mentre durante la prima moltiplicazione Gesù pronuncia la benedizione sul pane (eulogein), qui rende grazie (eucharistein). Come si vede, sono esattamente i due termini usati poi nel racconto dell’istituzione dell’Eucaristia.  Al momento della Cena, in Matteo e Marco Gesù pronuncia la benedizione (eulogein) sul pane; mentre in Luca e Paolo rende grazie (eucharistein).

    Notiamo poi che questo intervento del Signore in favore dei poveri s’iscrive in un contesto pasquale (cfr. Gv 6,4).  Preannuncia quindi un’altra cosa.  E Gesù ne approfitta per mettere in chiaro di essere venuto per tutti: ebrei e pagani.  Così comincia a preparare gli spiriti ad accogliere la prodigiosa novità, il cibo immortale, fonte di vita eterna, il pane di Dio, che viene dal cielo e dà la vita al mondo (Gv 6,33).

    E’ facile capire la reazione della folla: « Signore, dacci questo pane per sempre ». Allora, fra lo sbalordimento generale, Gesù dichiara:

    « lo sono il pane di vita.  Chi viene a me non avrà più fame, e chi crede in me non avrà più sete » (Gv 6,35).

    Naturalmente si tratta della fede in Cristo: ma, del resto, solamente questa fede è capace di ricevere e far proprio l’incredibile dono del Signore:

    lo sono il pane di vita.

    I padri vostri hanno mangiato nel deserto la manna e sono morti;

    questo è il pane disceso dal cielo affinché lo si mangi e così non si muoia mai più. lo sono il pane vivo, disceso dal cielo.

    Chi mangerà di questo pane vivrà in eterno.  E il pane che io darò,

    è la mia carne per la vita del mondo.

    Se ciò scandalizza, poco importa:

    In verità, in verità, vi dico:

    Se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo e non ne berrete il sangue, non avrete la vita in voi.

    Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna.

    E io lo risusciterò nell’ultimo giorno.

    Perché la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda.

    Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui (Gv 6,48-56).

    Ecco, qui trova la sua collocazione l’Eucaristia: al termine della più straordinaria avventura vissuta da Dio col suo popolo, un’avventura che trova in Cristo la sua perfetta e totale espressione; al termine inoltre del cammino di Cristo nella condizione carnale e temporale, durante la quale ha sperimentato tutto il peso del peccato dell’uomo, tutta la sua sofferenza e miseria, tutta la sua sete di speranza e di vita.

    In questo momento essa assume tutto il suo significato: essa è un gesto d’amore che s’iscrive per sempre nella vita degli uomini, attraverso la materialità del pane e dei vino, in forza del quale Cristo sarà per sempre presente in mezzo ai suoi come viatico nel cammino.  In un contesto pasquale che Giovanni ha cura di sottolineare

    «Prima della festa di Pasqua, Gesù sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine » (Gv 13,1):

    cioè fino all’espressione massima dell’amore.  L’Eucaristia s’iscrive appunto in questa logica dell’amore che trova la sua autentica verità nelle forme estreme della donazione, che porta Cristo a donarsi totalmente agli uomini con la sua morte in croce come espressione somma ed ultima dell’amore salvifico.  Un amore in forza del quale non la morte ma la vita ha l’ultima parola.  Una vita sanzionata dalla risurrezione di Cristo.


    LA FAME DEL POVERO, IL FOLLE AMORE DI CRISTO


    * Per l’uomo la fame è sempre una prova: per Dio un’occasione per dimostrare la sua misericordia. E’ la situazione critica in cui l’uomo versa nel suo pellegrinare nella vita. Dio cerca di far nascere sempre in te la fame. Cfr:  Sal 77

    * Questa fame e questa sete sono vive nei poveri, in coloro che sanno di non poter appoggiarsi unicamente su se stessi, in coloro che sono provati dal dolore. Al contrario i “ben pasciuti” non conoscono la fame. Sono ricchi e soddisfatti: non è possibile far presa sulla loro vita. Cfr: Sal 22; 2127; Is 25,5ss; Is 55, 1; Lc 1,53

    * Gesù sente compassione per le folle affamate e stanche che lo seguono. Una folla che cerca un cibo materiale e un senso alla propria vita. Gesù risponde ad entrambi queste necessità dell’uomo Cfr: Mt 9,36; Mc 6,34; Mt 15,32; Mc 8,1-3

    * Le folle che seguono Gesù sono composte di poveri, peccatori, prostitute, lontani . Sono costoro che maggiormente aprono il cuore, nella loro necessità, alla parola di speranza che esce dalla bocca di Cristo. L’eucaristia non è per un’elite, ma per un popolo di poveri. Cfr:  Mc 14,21-23

    * A tutti Gesù si presenta come il “pane di vita” capace di soddisfare ogni fame Cfr:  Gv 6,48-56

    * Tutto questo in un contesto di amore, che si fa dono, capacità di compassione. E’ questo l’ambito “pasquale” dell’eucaristia: un dono che può iscriversi solo in una logica di amore Cfr: Gv 13,1

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