• 08 Apr

    DEL VENIR MENO DELLA FEDE NELLA NOSTRA SOCIETA’

    E’ un momento storico che vede una fede difficile da vivere, una fede che viene scossa continuamente.

    Convinzioni semplici e familiari sono messe ormai apertamente in discussione: la società è ormai un cantiere febbrile. Non ci si riconosce più. E’ una prova dolorosa, un momento critico, che per chi sa leggere in profondità, diviene occasione per un autentica esperienza spirituale.

    L’illusione che il cristiano possa installarsi comodamente nella sua fede sta per essere smascherata. E questo cammino è maestro di purificazione.

    Sì, si parla della prova della fede, ma la vera prova non è quella prevista, programmata, letta sui libri. Quella vera  giunge all’improvviso, spietata. E’ quella che toglie la terra sotto i piedi.

    La mistica parla di purificazione, notte, come di quel momento in cui l’uomo è gettato a terra, il naso nella polvere con una preghiera ormai impraticabile, in un’angoscia senza fondo.

    La prova della fede nella cultura moderna

    Possiamo chiederci se oggi, molti cristiani non siano condotti per queste acque oscure. A volte nell’incapacità di scorgervi un’occasione di crescita spirituale.

    E’ un dato di fatto che il cristianesimo nel nostro occidente è andato incontro ad una usura culturale.

    Questo è un fattore di crisi culturale che si interseca con l’altro più individuale: la purificazione come fase  critica conosciuta nella dottrina spirituale.

    Una purificazione dall’illusione religiosa

    La prova della fede è una purificazione. Di che cosa?

    Fondamentalmente dell’illusione religiosa stessa: la sua funzione essenziale è quella di farmi passare dal mio Dio al Dio della rivelazione. E’ il momento della morte di quel Dio specchio che mi restituisce l’immagine ideale di me e /o delle mia paure.

    Nel momento della prova lo specchio s’infrange (sette anni di guai!): si è frantumata l’illusione. Cosa resta?

    Non resta più niente: il mio precedente cammino spirituale appare in tutta la sua fragilità, inconsistenza (pur nella sua necessità del portarmi fino a quel punto).

    Mi ritrovo sbattuto a terra, cieco, come Paolo folgorato sulla via di Damasco.

    La reazione illusoria è di credere che la purificazione si superi a sforzi di volontà: basta rimettersi più vigorosamente sulla giusta strada. Quello che il lavoro di purificazione mette giustamente in causa è questa pretesa di gestire secondo noi stessi, a nostro modo e sotto il nostro controllo, quel grande, profondo, irresistibile distacco al quale si deve pur arrivare da ciò che noi avevamo fatto di Dio.

    Quando la fede non dispone più di un linguaggio

    Dove va a finire questo passaggio  attraverso il fuoco della purificazione?

    Ci si aspetterebbe che esso venisse a rinverdire e riscaldare tutto il precedente linguaggio della fede. Ma il suo aspetto più temibile è che essa passi dentro tutto questo linguaggio distruggendolo: il linguaggio “cristiano” appare inabitabile.

    Da cosa dipende ciò?

    Dal fatto effettivo che la purificazione viene ad iscriversi in una cultura che fa apparire desueto, impraticabile, impossibile ciò che si riferisce al cristiano: scienza, politica, economia, filosofia, storia, etnologia, psicanalisi hanno questo effetto.

    Chi attraversa la purificazione viene a trovarsi assolutamente senza appoggio dalla parte della fede manifesta; e ciò può venire a confondersi, per la coscienza, con la scomparsa di ogni fede. E’ il buio totale dell’anima.

    Chi è nella prova vede una certa qual decomposizione del proprio cristianesimo: ed è questione di verità, perché pretendere diversamente sarebbe mentire, fare “come se…” sarebbe recitare, generosamente certo e con tutta la buona volontà, il personaggio che era il loro sul teatro della fede. Ma è venuto il vento a strappare tutti gli scenari, tutti i costumi e a lasciarli spogli sulla pubblica piazza.

    Credenti che si sentono del tutto soli

    Sarebbe necessario per chi attraversa la prova trovare un punto di riferimento e di dialogo.

    Capita piuttosto che l’ambiente cristiano sia pronto a lasciare che questa gente si allontani, quando addirittura non la spinga fuori. Basta infatti presupporre che “noi siamo cristiani”, facendo funzionare alla bene meglio il buon vecchio linguaggio perché gli altri siano esclusi. C’è la tentazione da parte nostra di accusare o di scusare, evitando così un autentico ascolto.

    Il fuoco della purificazione è anche la solitudine.

    Nella notte del Sabato santo

    Il primo effetto del “passare il fuoco” è senza dubbio quello di ricondurre duramente l’uomo che credeva di credere alla condizione umana. Tutte le sicurezze che non poggiavano su nulla crollano.

    Non è una crisi religiosa passeggera che lascia tutto il resto intatto, come quando si cambia l’impiego. La prova sta molto più alla radice, alla base dell’essere umano. La Parola coinvolge la totalità dell’uomo, non solo una parte. Non può esistere zona di ripiegamento, una zona franca in cui rifugiarsi per mettersi al sicuro.

    Una via di passaggio è indispensabile perché ne va della  propria salvezza.

    “Voglio aprire una porta. Questo voglio. Questo desidero. Invoco. Grido. Piango. Desidero.” (P. Neruda).

    E’ vivere con Cristo la spiritualità del grande silenzio del Sabato santo: “Rovina del Tempio, Sabato della de-creazione: è in sospeso la nascita dell’uomo. E’ solo se la croce ha questa forza (di distruzione, di morte), che l’altro versante, la vita, potrà essere l’amore senza misura e non la cosa pia alla quale sono tanto attaccati i cristiani” (Bellet)

    E’ facile cadere nel nulla: è importante cadere ai piedi del crocifisso disceso negli inferi, identificarsi col Cristo agonizzante: Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? Padre nelle tue mani rimetto la mia anima!

    La posta in gioco è la genesi dell’uomo

    E’ un immenso lavoro sotterraneo, nascosto, una gestazione lenta opera della grazia. Per il momento non si ha da vivere che giorni grigi, uno dopo l’altro.

    Tutto è ridotto all’essenziale: all’avere il coraggio della verità, al non affermare di più di quel che non si possa e neppure di meno, lasciare davanti a sé le cose che non si comprendono più, aver cura degli altri, farsi prossimo. Non schiacciare gli altri sotto il peso delle nostre infelicità, non cadere nel lamento, nel risentimento, nell’asprezza.

    Un Vangelo in presa diretta, che va all’essenziale

    La fase della purificazione permette che si apra dolosamente un luogo in cui il Vangelo si ponga a contatto con la vita. Gesù, nei confronti della pratica religiosa sterile e asettica è stato quanto mai duro: ha spinto i suoi uditori fuori dal recinto religioso  del tempio rassicurante: “Pagate la decima della mente e del comino e dimenticate l’essenziale: la giustizia, la misericordia”.

    Chi è nella prova non è lontano dalla fede, è vicino alla sua essenziale e vitale posta in gioco. Avviene infatti una semplificazione estrema del messaggio evangelico: forse potrebbe apparire un impoverimento rispetto a tutto il contenuto di dottrina, costumi, riti… Ma ciò è necessario per ritrovare il nocciolo: che non è fatto di rigidezza e chiarezza che si attenderebbe, può darsi anzi che sia semplicissimo, balbuziente, parziale, momentaneo.

    Allora lungi da ridurre la Paola a quel che noi ne diciamo, si resta in ascolto, disposti a che avvenga in noi il cammino che non più noi costruiamo.

    Questo rapporto è l’essenziale: perdiamo ad un tempo la nostra bella “soggettività” individuale, chiusa in se stessa e in quel che crede e il bell’ordine oggettivo sempre completo, immobile e in verità disponibile al nostro controllo.

    Il luogo della fede non è più la soggettività o l’oggettività (così complici): ma è la relazione stessa, la fede come tale. E’ vuoto e ricerca nello stesso tempo.

    La lunga pazienza delle gestazioni

    Che occorre fare? Aderire alle cose cristiane così come sono, riprendere il linguaggio comune e abituale, ritornare alle pratiche, ritornare all’ambiente cristiano?

    Tanti lo faranno, tanti altri no. Per questi la morte della cultura cristiana è in essi: si sono resi conto che il rianimare un cadavere non è affatto il risveglio della resurrezione.

    Sarà indispensabile per loro imparare la pazienza: forse fino ad accettare di non vedere nella loro vita mortale prender forma questo stile di pensiero, di pratica di poetica e di comunità, che è il loro voto più profondo.

    Spesso agli altri cristiani questa pazienza manca: si vuole una soluzione immediata, scordando che la gestazione, la nascita non si fanno per decreto, non basta nemmeno obbedire.

    Attenzione! Per quel che sa di prova e crocifissione, si può essere tentati di respingere questa esperienza, in cui la fede è come bruciata al fuoco di una esigenza implacabile di verità, senza che si sia padroni di quel che ne uscirà. Si può respingerla in sé, respingerla negli altri… E sarebbe, naturalmente in nome della fede, per mantenerla, difenderla, confortarla presso i deboli, farla parlare alto e forte. Ma la rigidezza di questa fede così sicura di se stessa, la sua intolleranza, la sua durezza verso coloro che sono nella prova del fuoco, danno da pensare alla segreta paura che l’abita. Credo di vedere o capire, qui o là, una sicurezza di questa specie; temo che prepari solo duri risvegli; nel frattempo pratica con vivacità l’ingiustizia verso coloro che dovrebbe aiutare, poiché la fede senza amore è una fede morta.

  • 04 Apr

    Emergenza educativa e tracce di percorsi educativi

    Dal DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

    Conferenza Episcopale Italiana

    61a ASSEMBLEA GENERALE

    Roma, 24 -28 maggio 2010

    Corroborati dallo Spirito, in continuità con il cammino indicato dal Concilio Vaticano II, e in particolare con gli orientamenti pastorali del decennio appena concluso, avete scelto di assumere l’educazione quale tema portante per i prossimi dieci anni.

    Tale orizzonte temporale è  proporzionato alla radicalità e all’ampiezza della domanda educativa.  E mi sembra necessario  andare fino alle radici profonde di questa emergenza per trovare anche le risposte adeguate a questa sfida.

    Io ne vedo soprattutto due.

    Una radice essenziale consiste -mi sembra -in un falso concetto di autonomia dell’uomo: l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo.

    In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo  dall’altro, l’”io” diventa se stesso solo dal “tu” e dal “voi”, è creato per il dialogo, per la  comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il “tu” e con il “noi” apre l’”io” a se stesso. Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia all’educazione: così non viene dato quanto noi siamo debitori di dare agli altri, cioè questo “tu” e “noi” nel quale si apre l’”io” a se stesso.

    Quindi un primo punto mi sembra questo: superare questa falsa idea di autonomia dell’uomo, come un “io” completo in se stesso, mentre diventa  “io” anche nell’incontro collettivo con il “tu” e con il “noi”.

    L’altra radice dell’emergenza educativa io la vedo nello scetticismo e nel relativismo o, con parole più semplici e chiare, nell’esclusione delle due fonti che orientano il cammino umano.

    La prima fonte dovrebbe essere la natura seconda la Rivelazione.

    Ma la natura viene considerata oggi come una cosa puramente meccanica, quindi che non contiene in sé alcun imperativo morale, alcun orientamento valoriale: è una cosa puramente meccanica, e quindi non viene alcun orientamento dall’essere stesso.

    La Rivelazione viene considerata o come un momento dello sviluppo storico, quindi relativo come tutto lo sviluppo storico e culturale, o -si dice -forse c’è rivelazione, ma non comprende contenuti, solo motivazioni.

    E se tacciono queste due fonti, la natura e la Rivelazione, anche la terza fonte, la storia, non parla più, perché anche la storia diventa solo un agglomerato di decisioni culturali, occasionali, arbitrarie, che non valgono per il presente e per il futuro.

    Fondamentale è quindi ritrovare un concetto vero della natura come creazione di Dio che parla a noi; il Creatore, tramite il libro della creazione, parla a noi e ci mostra i valori veri.

    E poi così anche ritrovare la Rivelazione: riconoscere che il libro della creazione, nel quale Dio ci dà gli orientamenti fondamentali, è decifrato nella Rivelazione, è applicato e fatto proprio nella storia culturale e religiosa, non senza errori, ma in una maniera sostanzialmente valida, sempre di nuovo da sviluppare e da purificare.

    Così, in questo “concerto” – per così dire – tra creazione decifrata nella Rivelazione, concretizzata nella storia culturale che sempre va avanti e nella quale noi ritroviamo sempre più il linguaggio di Dio, si aprono anche le indicazioni per un’educazione che non è imposizione, ma realmente apertura dell’”io” al “tu”, al “noi” e al “Tu” di Dio.

    Quindi le difficoltà sono grandi: ritrovare le fonti, il linguaggio delle fonti, ma, pur  consapevoli del peso di queste difficoltà, non possiamo cedere alla sfiducia e alla rassegnazione.  Educare non è mai stato facile, ma non dobbiamo arrenderci: verremmo meno al mandato che il  Signore stesso ci ha affidato, chiamandoci a pascere con amore il suo gregge.

    Risvegliamo piuttosto nelle nostre comunità quella passione educativa, che è una passione dell’”io” per il “tu”, per il “noi”, per Dio, e che non si risolve in una didattica, in un insieme di tecniche e nemmeno nella trasmissione di principi aridi.

    Educare è formare le nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una memoria significativa che non è solo occasionale, ma accresciuta dal linguaggio di Dio che troviamo nella natura e nella Rivelazione, di un patrimonio interiore condiviso, della vera sapienza che, mentre riconosce il fine trascendente della vita, orienta il pensiero, gli affetti e il giudizio.

    I giovani portano una sete nel loro cuore, e questa sete è una domanda di significato e di rapporti umani autentici, che aiutino a non sentirsi soli davanti alle sfide della vita. È desiderio di un futuro, reso meno incerto da una compagnia sicura e affidabile, che si accosta a ciascuno con delicatezza e rispetto, proponendo valori saldi a partire dai quali crescere verso traguardi alti, ma raggiungibili.

    La nostra risposta è l’annuncio del Dio amico dell’uomo, che in Gesù si è fatto prossimo a ciascuno. La trasmissione della fede è parte irrinunciabile della formazione integrale della persona, perché in Gesù Cristo si realizza il progetto di una vita riuscita: come insegna il Concilio Vaticano II, “chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo”  (Gaudium et spes, 41).

    L’incontro personale con Gesù è la chiave per intuire la rilevanza di Dio nell’esistenza quotidiana, il segreto per spenderla nella carità fraterna, la condizione per rialzarsi  sempre dalle cadute e muoversi a costante conversione.

    Il compito educativo, che avete assunto come prioritario, valorizza segni e tradizioni, di  cui l’Italia è così ricca. Necessita di luoghi credibili: anzitutto la famiglia, con il suo ruolo peculiare e irrinunciabile; la scuola, orizzonte comune al di là delle opzioni ideologiche; la parrocchia, “fontana del villaggio”, luogo ed esperienza che inizia alla fede nel tessuto delle relazioni quotidiane.

    In ognuno di questi ambiti resta decisiva la qualità della testimonianza, via privilegiata della missione ecclesiale. L’accoglienza della proposta cristiana passa, infatti, attraverso relazioni di vicinanza, lealtà e fiducia. In un tempo nel quale la grande tradizione del passato rischia di rimanere lettera morta, siamo chiamati ad affiancarci a ciascuno con disponibilità sempre nuova, accompagnandolo nel cammino di scoperta e assimilazione personale della verità. E facendo questo anche noi possiamo riscoprire in modo nuovo le realtà  fondamentali.

    La volontà di promuovere una rinnovata stagione di evangelizzazione non nasconde le  ferite da cui la comunità ecclesiale è segnata, per la debolezza e il peccato di alcuni suoi membri.  Questa umile e dolorosa ammissione non deve, però, far dimenticare il servizio gratuito e appassionato di tanti credenti, a partire dai sacerdoti. L’anno speciale a loro dedicato ha voluto costituire un’opportunità per promuoverne il rinnovamento interiore, quale condizione per un più  incisivo impegno evangelico e ministeriale. Nel contempo, ci aiuta anche a riconoscere la testimonianza di santità di quanti – sull’esempio del Curato d’Ars – si spendono senza riserve per educare alla speranza, alla fede e alla carità. In questa luce, ciò che è motivo di scandalo,  deve tradursi per noi in richiamo a un “profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, ma anche la necessità della giustizia”  (Benedetto XVI, Intervista ai giornalisti durante il volo verso il Portogallo, 11 maggio 2010).

    Cari Fratelli, vi incoraggio a percorrere senza esitazioni la strada dell’impegno educativo. Lo Spirito Santo vi aiuti a non perdere mai la fiducia nei giovani, vi spinga ad andare loro incontro, vi porti a frequentarne gli ambienti di vita, compreso quello costituito dalle nuove tecnologie di comunicazione, che ormai permeano la cultura in ogni sua espressione. Non si tratta di adeguare il Vangelo al mondo, ma di attingere dal Vangelo quella perenne novità, che consente in ogni tempo di trovare le forme adatte per annunciare la Parola che non passa, fecondando e servendo l’umana esistenza. Torniamo, dunque, a proporre ai giovani la misura alta e trascendente della vita, intesa come vocazione: chiamati alla vita consacrata, al sacerdozio, al  matrimonio, sappiano rispondere con generosità all’appello del Signore, perché solo così  potranno cogliere ciò che è essenziale per ciascuno.

    La frontiera educativa costituisce il luogo per un’ampia convergenza di intenti: la formazione delle nuove generazioni non può, infatti, che stare a cuore a tutti gli uomini di buona volontà, interpellando la capacità della società intera di assicurare riferimenti affidabili per lo sviluppo armonico delle persone.  Anche in Italia la presente stagione è marcata da un’incertezza sui valori, evidente nella fatica di tanti adulti a tener fede agli impegni assunti: ciò è indice di una crisi culturale e spirituale, altrettanto seria di quella economica. Sarebbe illusorio – questo vorrei sottolinearlo – pensare di contrastare l’una, ignorando l’altra.  Per questa ragione, mentre rinnovo l’appello ai responsabili della cosa pubblica e agli imprenditori a fare quanto è nelle loro possibilità per  attutire gli effetti della crisi occupazionale, esorto tutti a riflettere sui presupposti di una vita buona e significativa, che fondano quell’autorevolezza che sola educa e ritorna alle vere fonti dei valori. Alla Chiesa, infatti, sta a cuore il bene comune, che ci impegna a condividere risorse economiche e intellettuali, morali e spirituali, imparando ad affrontare insieme, in un contesto di reciprocità, i problemi e le sfide del Paese.

  • 03 Apr

    LA DECISIONE DI METTERSI IN CAMMINO:

    LA CONVERSIONE

    Se nel mio cuore desidero incontrare Dio devo mettermi nella disponibilità a lasciare, a cambiare ciò che ingombra, appesantisce, ostacola: in una parola a convertirmi.

    Conversione è processo lento, discreto, faticoso che ha luogo lungo il nostro cammino verso Dio, scoperto sempre più come realtà trascendente.

    Conversione dunque è cammino, condizione abituale: non può essere ridotto ad un momento singolo e limitato nel tempo. “Disse un anziano: C’è una voce che grida all’uomo fino al suo ultimo respiro: Oggi convertiti!” (Detti).

    Si tratta di conservare nel cammino la spinta alla fedeltà e alla costanza, superando le facili tentazioni dell’arrestarsi nella comodità di una determinata situazione, o in quella che gli antichi definivano come aurea mediocritas.

    (Nella teologia si parla di una duplice conversione:

    una prima è data dal proposito di dedicarsi al servizio di Dio

    una seconda è data dal donarsi interamente incamminandosi nella via della santità.

    Molti si fermano solo alla prima)

    Perché è difficile convertirsi? Perché è facile subito riternersi nella categoria dei giusti che non più necessitano di conversione? Quali sono le componenti della conversione?

    Conversione e trascendenza

    Impegnati come siamo a divenire sempre più esperti sulle cose di Dio, va a finire che ci abituiamo ad esse: non siamo più capaci di meravigliarci per ciò che Dio compie in noi e attorno a noi.

    Facciamo l’abitudine alla sua Parola di modo che essa non ci provoca più. Non sentiamo perciò il bisogno di cambiare.

    Abbiamo ridotto Dio a nostra misura, in modo che Egli non possa avanzare più di tante pretese.

    La vera conversione smantella questa presunzione. Il cammino di chi si converte inizia con la scoperta che Dio è al di là delle cose, è più grande dei nostri progetti e ideali. E’ radicalmente diverso dalle immagini che ci siamo fatti di lui. Egli ci trascende infinitamente: “Le mie vie non sono le vostre vie, i miei pensieri non sono i vostri pensieri” (Is).

    Quando si percepisce realmente Dio come il Totalmente Altro questo di conseguenza modifica il nostro cammino, l’idea di noi stessi, del nostro rapporto con Dio. Di fronte a questo Dio trascendente si scopre che l’unica risposta vera è la trascendenza di sé stessi e del proprio mondo. Ossia la conversione: un processo di trasformazione della propria storia.

    “Appena credetti che c’era un Dio, compresi che non potevo fare altrimenti che vivere solo per lui: Dio è così grande, c’è una tale differenza tra Dio e tutto ciò che non è lui” (Ch de Foucauld)

    “Tutto io reputo una perdita…”

    La trascendenza divina illumina la vacuità e inconsistenza e i propri dei del passato:

    criteri di azione,

    gerarchie di valori

    interpretazione della realtà

    attaccamenti

    ….

    Tutto può funzionare nella nostra vita come idolo!

    Quanto più entriamo in contatto con il vero Dio, tanto più diventiamo sensibili a tutto ciò che da lui in qualche modo ci allontana ( è questa l’esperienza di tutti i santi: più entravano nel mistero più avevano coscienza del proprio peccato e del bisogno di conversione)

    Non si tratta qui di perfezionismo morale, Né di sforzi di volontà. E’ conseguenza logica dell’esperienza di Dio nella propria vita.

    Quando Dio si rivela tutto il resto perde valore o assume un valore nuovo.

    E’ l’esperienza travolgente di Saulo: “Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura…” (Fil 3,7-8).

    C’è un momento del nostro cammino in cui “le cose di prima” devono sembrarci spazzatura: se questo non avviene corriamo il rischio di non convertirci mai, e di non rinascere a nuova vera vita.

    Perché le cose di prima devono essere considerate “spazzatura”? “A motivo di Gesù Cristo” risponde Paolo.

    A questo motivo fondamentale potremmo aggiungerne un altro più terra: perché una falsa impostazione del proprio cammino alla fine risulta frustrante anche nei riguardi della gratificazione dei nostri bisogni.

    Quando si vive in funzione dei propri bisogni scatta inevitabilmente un conflitto, la gratificazione di certi bisogni è un pozzo senza fondo: non sazia la fame anzi l’aumenta.

    Continuando a vivere in questa direzione ci si fa del male, si vive in modo sconclusionato: è importante arrivare a questa constatazione.

    Quando ci si sente traditi da ciò che sembrava prometterci felicità, si perde il gusto per quanto prima attraeva irresistibilmente, si comincia a provare nausea e disprezzo per le vecchie abitudini: le cose di prima diventano spazzatura; un tempo desiderate ora sono considerate nullità. “La trasformazione non è solo un sentimento morale di colpa, ma la consapevolezza del nostro desiderio insaziabile, di quel desiderio che è in noi come un vuoto che diviene richiamo, come l’incavo di una pienezza sconosciuta” (O. Clement).

    Conversione è sentire ormai impellente il bisogno di sbarazzarsi di una falsa struttura di impostazione del proprio cammino.

    La provocazione del Trascendente e l’esperienza fallimentare di un certo stile di vita hanno creato una esigenza profonda di cambiamento. “Il pentimento – la metanoia – nel suo senso più forte deve essere portato alle radici di tutte le facoltà mentali, volitive ed affettive, fino al centro dell’essere intero: corpo e anima. Si tratta di una seconda nascita” (P. Evdokimov)

    E’ una fase certamente negativa, ma d’altra parte il cammino di conversione non è una cura di bellezza spirituale, un leifting, non è un riaggiustamento alla bene meglio, ma è trasformazione, rinascita che comporta inevitabilmente una morte: “distrugge una vita e ne produce un’altra… noi lasciamo la tunica di pelle per rivestire un mantello regale” (N. Cabasilas)

  • 01 Apr

    «BEATA TE CHE HAI CREDUTO ALLA PAROLA »

    Maria, la piena di fede


    La lettura della lettera vivente che è Maria aiuta a scoprire anche qual è lo « stile » di Dio.  Ella è l’esempio vivente del modo di agire di Dio nella storia della salvezza. «Non c’è nulla – scriveva Tertulliano – che sconcerti tanto la mente umana, quanto la semplicità delle opere divine che si vedono in azione, paragonata alla magnificenza degli effetti che in esse si ottengono… Meschina incredulità umana, che nega a Dio le sue proprietà, che sono semplicità e potenza!» Egli alludeva alla grandiosità degli effetti del battesimo e alla semplicità dei mezzi e dei segni esterni, che si riducono a un poco di acqua e ad alcune parole. Al contrario – notava egli – di ciò che avviene nelle imprese umane e idolatriche, dove più grande è il risultato che si vuole ottenere e l’impressione che si vuole fare, più deve essere grande l’apparato, la messa in scena e la spesa.

    Cosi è stato di Maria e della venuta nel mondo del Salvatore: Maria è l’esempio di questa sproporzione divina tra ciò che si vede all’estemo e ciò che avviene dentro.  Che cos’era Maria all’esterno, nel suo villaggio?  Niente di appariscente.  Probabilmente, per i suoi parenti e compaesani, ella era semplicemente «la Maria», una fanciulla modesta, tanto a modo ma niente di eccezionale.  Bisogna ricordarsi a ogni istante di questa verità per non correre il rischio di volatizzare la figura di Maria, proiettandola – come hanno fatto spesso l’iconografia e la pietà popolari – in una dimensione eterea e disincarnata, proprio lei che è la madre del Verbo incarnato!  Bisogna tenere sempre presenti, parlando di lei, le due caratteristiche dello stile di Dio che sono, abbiamo visto, semplicità e magnificenza.  In Maria, la magnificenza della grazia e della vocazione, convive con la più assoluta semplicità e concretezza.

    « Eccomi, sono la serva dei Signore… »

    Quando Maria giunse da Elisabetta, questa l’accolse con grande gioia e, «piena di Spirito Santo», esclamò: Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore (Lc 1, 45).  L’evangelista san Luca si serve dell’episodio della Visitazione come di un mezzo per portare alla luce ciò che si era compiuto nel segreto di Nazaret e che solo nel dialogo con un’ínterlocutrice poteva essere manifestato e assumere un carattere oggettivo e pubblico.

    La cosa grande che è avvenuta a Nazaret, dopo il saluto dell’angelo, è che Maria «ha creduto» ed è diventata cosi «Madre del Signore».  Non c’è dubbio che questo aver creduto si riferisce alla risposta di Maria all’angelo: Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto (Lc 1,38).  Con queste poche e semplici parole si è consumato il più grande e decisivo atto di fede nella storia del mondo.  Questa parola di Maria rappresenta « il vertice di ogni comportamento religioso davanti a Dio, poiché essa esprime, nella maniera più elevata, la passiva disponibilità unita all’attiva prontezza, il vuoto più profondo che si accompagna alla più grande pienezza». Con questa sua risposta – scrive Origene – è come se Maria dicesse a Dio: « Eccomi, sono una tavoletta da scrivere: lo Scrittore scriva ciò che vuole, faccia di me ciò che vuole il Signore di tutto ». Egli paragona Maria alla tavoletta cerata che si usava, al suo tempo, per scrivere.  Maria, diremmo noi oggi, si offre a Dio come una pagina bianca, sulla quale egli può scrivere tutto ciò che vuole.

    Anche Maria pose una domanda all’angelo: Come è possibile?  Non conosco uomo (Lc 1, 34), ma con uno spirito ben diverso da Zaccaria.  Ella non chiede una spiegazione per capire, ma per sapere come eseguire la volontà di Dio.  Chiede come dovrà comportarsi, che cosa dovrà fare, visto che ancora non conosce uomo.  In tal modo ci mostra che, in certi casi, non è lecito voler capire a tutti i costi la volontà di Dio, o il perché di certe situazioni apparentemente assurde, ma che è lecito invece chiedere a Dio la luce e l’aiuto per compiere tale volontà.

    Il « fiat » di Maria resta dunque pieno e incondizionato.  Viene spontaneo mettere a confronto questo « fiat » pronunziato da Maria, con il « fiat » che risuona in altri momenti cruciali della storia della salvezza: con il « fiat » di Dio, all’inizio della creazione, e il « fiat » di Gesù nella redenzione.  Tutti e tre esprimono un atto di volontà, una decisione.  Il primo, cioè « Fiat lux! » è il « sì» divino di un Dio: divino nella natura, divino nella persona che lo pronuncia; il secondo, il « fiat » di Gesù nel Getsemani, è l’atto umano di un Dio: umano perché pronunciato secondo la volontà umana, divino perché tale volontà appartiene alla persona del Verbo; il « fiat » di Maria è il « sì » umano di una creatura umana.  In esso tutto prende valore dalla grazia.  Prima del «Sì» decisivo di Cristo, tutto quello che c’è di consenso umano all’opera della redenzione è espresso da questo « fiat » di Maria. «In un istante che non tramonta mai più e che resta valido per tutta l’eternità, la parola di Maria fu la parola dell’umanità e il suo “sì”, l’amen di tutta la creazione al “sì” di Dio» (K.  Rahner).  In lei è come se Dio interpellasse di nuovo la libertà creata, offrendole una possibilità di riscatto. E’ questo il senso profondo del parallelismo: Eva-Maria, caro ai Padri e a tutta la tradizione. « Eva, quand’era ancora vergine, accolse la parola del serpente e partorì disobbedienza e morte.  Maria, invece, la Vergine, accogliendo con fede e gioia il lieto annuncio recato dall’angelo Gabriele, rispose: Si faccia di me secondo la tua parola» «Ciò che Eva aveva legato con la sua incredulità, Maria l’ha sciolto con la sua fede».

    Dalle parole di Elisabetta: «Beata colei che ha creduto», si vede come già nel Vangelo, la maternità divina di Maria non è intesa soltanto come maternità fisica, ma molto più come maternità spirituale, fondata sulla fede.  Su ciò si basa sant’Agostino quando scrive: « La Vergine Maria partorì credendo, quel che aveva concepito credendo… Dopo che l’angelo ebbe parlato, ella, piena di fede (fide piena), concependo Cristo prima nel cuore che nel grembo, rispose: Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola».  Alla pienezza di grazia da parte di Dio, corrisponde la pienezza della fede da parte di Maria; al « gratia plena », il «fide plena ».

    Sola con Dio

    A prima vista, quello di Maria fu un atto di fede facile e perfino scontato.  Diventare madre di un re che avrebbe regnato in eterno sulla casa di Giacobbe, madre del Messia!  Non era quello che ogni fanciulla ebrea sognava di essere?  Ma questo è un modo di ragionare assai umano e canale.

    La vera fede non è mai un privilegio o un onore, ma è sempre un po’ un morire, e così fu soprattutto la fede di Maria in questo momento.  Anzitutto, Dio non inganna mai, non strappa mai alle creature dei consensi surrettiziamente, nascondendo loro le conseguenze, ciò cui andranno incontro.  Lo vediamo in tutte le grandi chiamate di Dio.  A Geremia preannuncía: Ti muoveranno guerra (Ger 1, 19) e di Saulo, dice ad Anania: Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome (At 9, 16).  Solo con Maria, per una missione come la sua, avrebbe agito diversamente?  Nella luce dello Spirito Santo, che accompagna la chiamata di Dio, ella ha certamente intravisto che anche il suo cammino non sarebbe stato diverso da quello di tutti gli altri chiamati.  Del resto, Simeone, ben presto, darà espressione a questo presentimento, quando le dirà che una spada le avrebbe trapassato l’anima.

    Ma già sul piano semplicemente umano, Maria viene a trovarsi in una totale solitudine.  A chi può spiegare ciò che è avvenuto in lei?  Chi la crederà quando dirà che il bimbo che porta nel grembo è «opera dello Spirito Santo»?  Questa cosa non è avvenuta mai prima di lei e non avverrà mai dopo di lei.  Maria conosceva certamente ciò che era scritto nel libro della legge e cioè che se la fanciulla, al momento delle nozze, non fosse stata trovata in stato di verginità, doveva essere fatta uscire all’ingresso della casa del padre e lapidata dalla gente del villaggio (cf Dt 22, 20 s).

    Noi parliamo volentieri oggigiorno del rischio della fede, intendendo, in genere, con ciò ‘ il rischio intellettuale; ma per Maria si trattò di un rischio realel Carlo Carretto, nel suo libretto sulla Madonna, narra come giunse a scoprire la fede di Maria.  Quando viveva nel deserto, aveva saputo da alcuni suoi amici Tuareg che una ragazza dell’accampamento era stata promessa sposa a un giovane, ma che non era andata ad abitare con lui, essendo troppo giovane.  Aveva collegato questo fatto con quello che Luca dice di Maria.  Perciò ripassando, dopo due anni, in quello stesso accampamento, chiese notizie della ragazza. Notò un certo imbarazzo tra i suoi interlocutori e più tardi uno di loro, avvicinandosi con grande segretezza, fece un segno: passò una mano sulla gola con il gesto caratteristico degli arabi quando vogliono dire: «E stata sgozzata».  Si era scoperta incinta prima del matrimonio e l’onore della famiglia esigeva quella fine.  Allora ripensò a Maria, agli sguardi impietosi della gente di Nazaret, agli ammiccamentí, capi la solitudine di Maria, e quella notte stessa la scelse come compagna di viaggio e maestra della sua fede.

    Se credere è «inoltrarsi per quella strada dove tutti i cartelli indicatori dicono: «Indietro, indietro! »; se è come « venirsi a trovare in mare aperto, là dove ci sono settanta stadi di profondità sotto di te»; se credere è «compiere un atto tale che per esso uno si viene a trovare completamente gettato in braccio all’Assoluto » (sono tutte irnmagini del filosofo Kierkegaard), allora non c’è dubbio che Maria è stata la credente per eccellenza, di cui non ci potrà essere mai l’eguale.  Ella si è venuta a trovare davvero gettata completamente in braccio all’Assoluto.  Ella è l’unica ad aver creduto « in situazione di contemporaneità », cioè mentre la cosa accadeva, prima di ogni conferma e di ogni convalida da parte degli eventi e della storia.  Ha creduto in totale solitudine.  Gesù disse a Tommaso: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno! (Gv 20, 29): Maria è la prima di coloro che hanno creduto senza aver ancora visto.

    Maria, d’altra parte, ha creduto subito, all’istante; non ha esitato, non ha sospeso il giudizio.  Al contrario, ha impegnato subito tutta se stessa.  Ha creduto che avrebbe concepito un figlio per opera dello Spirito Santo.  Non ha detto tra sé: «Bene, ora stiamo a vedere cosa succederà; il tempo dirà se questa strana promessa è vera e se viene da Dio»; non ha detto tra sé: «Se son rose fioriranno… ». Questo è ciò che ogni persona avrebbe detto, se avesse dato ascolto al buon senso e alla ragione.  Maria no; Maria credette.  Ché se non avesse creduto, il Verbo non si sarebbe fatto carne in lei ed ella, di lì a poco, non sarebbe stata al terzo mese, né Elisabetta avrebbe salutato in lei «la Madre del Signore».

    Di Abramo, in una situazione simile, quando anche a lui fu promesso un figlio benché in tarda età, la Scrittura dice, quasi con aria di trionfo e di stupore: Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia (Gn 15, 6). Maria ebbe fede in Dio e ciò le fu accreditato come giustizia.

    San Paolo dice che Dio ama chi dona con gioia (2 Cor 9, 7) e Maria ha detto a Dio il suo «sì» con gioia.  Il verbo con cui Maria esprime il suo consenso, e che è tradotto con «fiat» o con « si faccia», nell’originale, è all’ottativo (génoito); esso non esprime una semplice rassegnata accettazione, ma vivo desiderio.  Come se dicesse: «Desidero anch’io, con tutto il mio essere, quello che Dio desidera; si compia presto ciò che egli vuole».  Davvero, come diceva sant’Agostino, prima ancora che nel suo corpo ella concepì Cristo nel suo cuore.

    Ma Maria non disse «fiat» che è parola latina; non disse neppure « génoito » che è parola greca.  Che cosa disse allora?  Qual è la parola che, nella lingua parlata da Maria, corrisponde più da vicino a questa espressione?  Cosa diceva un ebreo quando voleva dire « così sia »? Diceva «amen! » Se è lecito cercare di risalire, con pia riflessione, all’’ipsissima vox, alla parola esatta uscita dalla bocca di Maria – o almeno alla parola che c’era, a questo punto, nella fonte giudaica usata da Luca -, questa deve essere stata proprio la parola « amen ». Amen – parola ebraica, la cui radice significa solidità, certezza – era usata nella liturgia come risposta di fede alla parola di Dio.  Ogni volta che, al termine di certi Salmi, nella Volgata si legge « fiat, fiat » (nella versione dei Settanta: génoito, génoito), l’originale ebraico, conosciuto da Maria, porta: Amen, amen! Con I’« amen » si riconosce quel che è stato detto come parola ferma, stabile, valida e vincolante.  La sua traduzione esatta quando è risposta alla parola di Dio, è questa: «Così è e così sia!».  Indica fede e obbedienza insieme; riconosce che quel che Dio dice è vero e vi si sottomette.

    In questo senso lo troviamo sulla bocca stessa di Gesù: « Sì, amen, Padre, perché così è piaciuto a te … » (cf Mt 11, 26).  Egli anzi è l’Amen personificato: Così parla l’Amen… (Ap 3, 14) ed è per mezzo di lui che ogni altro « amen » pronunciato sulla terra sale ormai a Dio (cf 2 Cor 1, 20).  Come il « fiat » di Maria precorre quello di Gesù nel Getsemani, così il suo « amen » precorre quello del Figlio.  Anche Maria è un « amen » personificato a Dio.

    Un sì nuziale

    La bellezza dell’atto di fede di Maria sta nel fatto che esso è il « si » nuziale della sposa allo sposo, pronunciato in totale libertà.  Maria è il segno e la primizia di quelle nozze tra Dio e il suo popolo, che i profeti avevano preannunciato dicendo: E avverrà in quel giorno… A lei si applicano perciò le parole del profeta: Ti farò mia sposa per sempreTi fidanzerò con me nella fedeltà (Os 2, 21 s).  La fede è l’anello nuziale di queste nozze e ad essa corrisponde, da parte di Dio, la fedeltà.

    Il « sì» di Maria non è un atto solo umano, ma anche divino, perché suscitato, nelle profondità dell’anirna di Maria, dallo Spirito Santo stesso.  Di Gesù è scritto che «con uno Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio» (cf Eb 9, 14).  Anche Maria offrì se stessa a Dio nello Spirito Santo, cioè mossa da lui.  Lo Spirito Santo che le è promesso dafl’angelo, con le parole: Lo Spirito Santo scenderà su di te…. non le è promesso solo per concepire Cristo nel suo corpo, ma anche per concepirlo, per  fede, nel suo cuore.  Se ella è stata « ricolmata di grazia», lo è stata anzitutto per questo: per poter accogliere con fede il messaggio che stava per ricevere.  Se senza lo Spirito Santo non possiamo neppure dire: Gesù è il Signore! (cf 1 Cor 12, 3), che pensare di questo « fiat » di Maria dal quale dipendeva, in un certo senso, il farsi uomo del Verbo e l’esistenza stessa del Signore?  Così si compiono sempre le grandi obbedienze, a partire da quella di Cristo: Dio infonde, mediante lo Spirito Santo, nel cuore della creatura, la carità, e la carità spinge la creatura a fare ciò che Dio vuole.  La carità diventa legge, la legge dello Spirito, Dio non impone la sua volontà, ma dona la carità. È stato detto a ragione che l’amore « a nullo amato amar perdona» (Dante Ahghieri), cioè non permette, a chi è amato, di non riamare a sua volta.  Questo spiega l’arrendersi di Maria; ella si sente amata da Dio ed è questo amore che la spinge a darsi a Dio con tutto il suo essere.  Un’esperienza simile troviamo nella vita di santa Teresa del Bambin Gesù, nel momento di offrirsi a Dio per sempre: « Fu – scrive – un bacio d’amore: mi sentivo amata e dicevo: Ti amo, mi do a te per sempre».

    Eppure il « fiat » di Maria fu un atto libero, anzi il primo atto di vera libertà che ci sia stato nella storia del mondo, poiché vera libertà non è quella di fare o non fare il bene, ma quella di fare liberamente il bene; libertà di obbedire liberamente, non libertà di obbedire o non obbedire a Dio. «Non ci fu forse una libera volontà in Cristo e non fu essa tanto più libera quanto meno poteva servire al peccato?».

    Mossa da Spirito Santo, parlò Maria e disse « si» a Dio.  Per questo, anche il suo «si» è un atto divino e umano insieme; umano per natura, divino per grazia. La fede di Maria è dunque un atto d’amore e di docilità, libero anche se suscitato da Dio, misterioso come misterioso è ogni volta l’incontro tra la grazia e la libertà.

    È questa la vera grandezza personale di Maria, la sua beatitudine confermata da Cristo stesso.  Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte (Lc 11, 27), dice una donna nel Vangelo.  La donna proclama Maria beata perché ha portato Gesù; Ehsabetta la proclama invece beata perché ha creduto (pisteúsasa). La donna proclama beato il portare Gesù nel grembo, Gesù proclama beato il portarlo nel cuore: Beati piuttosto – risponde – coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano.  Gesù aiuta, in tal modo, quella donna e tutti noi, a capire dove risiede la vera grandezza di sua Madre.  Chi è infatti che «custodiva» le parole di Dio più di Maria, della quale è detto due volte, dalla stessa Scrittura, che «custodiva tutte le parole nel suo cuore»? (cf Lc 2, 19.51).

    Non dovremmo però concludere il nostro sguardo alla fede di Maria con l’impressione che Maria abbia creduto una volta e poi basta nella sua vita; che ci sia stato un solo grande atto di fede nella vita della Madonna.  Ci sfuggirebbe così l’essenziale.  Le opere di Dio seguono una logica molto diversa da quella che noi siamo soliti immaginare.  Non si impiantano stabilmente in un soggetto libero e sottoposto al divenire e alla fede, in modo meccanico, una volta per sempre, con una promessa iniziale, dopo la quale tutto diventa semplice e chiaro.  Quello che era chiaro in un istante all’inizio, perché lo Spirito lo rendeva tale, può non esserlo più in seguito; la fede può essere messa alla prova dal dubbio; non dal dubbio su Dio, ma su di sé: «Avrò capito bene?  Non avrò frainteso?  E se mi fossi ingannata?  E se non fosse stato Dio a parlare? ». La misteriosità dell’agire di Dio resta tale e prima di rassegnarci a vivere nel mistero, quanta agonia bisogna passare!

    Quante volte, in seguito afl’Annunciazione, Maria sarà stata martirizzata dall’apparente contrasto della sua situazione con tutto ciò che era scritto e conosciuto, circa la volontà di Dio, nell’Antico Testamento e circa la figura stessa del Messia!  Quante volte dovette essere Giuseppe – proprio lui! – a rassicurarla e tranquillizzarla, dicendole che non aveva peccato, che non c’era colpa in lei, che era innocente e non si era ingannata; a ripeterle, insomma, quello che lui stesso aveva appreso dall’angelo in sogno: « Non temere… quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1, 20).

    Il Concilio Vaticano Il ci ha fatto un grande dono, affermando che anche Maria ha camminato nella fede, anzi che ha «progredito» nella fede, cioè è cresciuta e si è perfezionata in essa.  Camminare nella fede, per Maria, come vediamo, in piccolo, in certe anime che Dio chiama per vie speciali, comporta questo martirio della coscienza di non avere altra difesa contro l’evidenza, che la parola di Dio una volta ascoltata dentro e in seguito risuscitata solo dall’esterno, tramite intermediari umani.  Giuseppe svolse con Maria, in certi momenti, un ruolo simile a quello che deve svolgere, in questi casi, il direttore di coscienza, o semplicemente un buon papà spirituale, che è quello di custodire e ripetere, a ogni crisi, la certezza donatagli un tempo da Dio, credendo e sperando, anche lui, contro ogni evidenza.

    Se Gesù fu tentato, sarebbe veramente strano che Maria che gli è stata così vicina in tutto – non lo sia stata.  La fede, dice san Pietro, si prova nel crogiolo (cf 1 Pt 1 7) e l’Apocalisse dice che « il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire » e che «si avventò contro la donna che aveva partorito» (cf Ap 12, 4.13). E’ vero che qui la donna che viene assalita dal drago direttamente indica la Chiesa.  Ma come potrebbe Maria dirsi ancora « figura della Chiesa», se non avesse sperimentato in alcun modo, lei per prima, questo aspetto così rilevante nella vita della Chiesa che è la lotta e la tentazione da parte del Maligno?  Anche Maria, come Cristo, è stata «provata in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4, 15).  Escluso solo il peccato!

    II

    Nella scia di Maria

    Come la scia di un bel vascello va allargandosi fino a sparire e a perdersi all’orizzonte, ma comincia con una punta, che è la punta stessa del vascello, così è dell’immensa scia dei credenti che formano la Chiesa.  Essa comincia con una punta e questa punta è la fede di Maria, il suo « fiat ». In tutte le altre cose nella preghiera, nella sofferenza, nell’umiltà, nella stessa carità la punta o l’inizio non può essere che Gesù Cristo, che è la primizia e il capo da cui tutto il corpo si sviluppa.  Quando si risale il grande fiume della preghiera che scorre nella Chiesa, chi troviamo, giunti alle sue sorgenti?  Troviamo Gesù che prega, Gesù che affida ai discepoli la sua preghiera con il «Padre nostro ». Non così quando si risale l’altro grande fiume che è la fede.  Prima ancora della fede degli apostoli, ci fu la fede di Maria.

    Per il solo fatto di credere, noi ci troviamo dunque nella scia di Maria e vogliamo ora approfondire cosa significa seguire davvero la sua scia.  Nel leggere ciò che riguarda la Madonna nella Bibbia, la Chiesa ha seguito, fin dal tempo dei Padri, un criterio che si può esprimere cosi: «Maria, vel Ecdesia, vel anima», Maria, ossia la Chiesa, ossia l’anima.  Il senso è che quello che nella Scrittura si dice specialmente di Maria, va inteso universalmente della Chiesa e ciò che si dice universalmente della Chiesa va inteso singolarmente per ogni anima credente.  Attenendoci anche noi a questo principio, vediamo ora ciò che la fede di Maria ha da dire prima alla Chiesa nel suo insieme e poi a ciascuno di noi, cioè a ogni singola anima.  Come abbiamo fatto anche per la grazia, mettiamo in luce prima le implicazioni ecclesiali o teologiche della fede di Maria e poi quelle personali o ascetiche.  In questo modo, la vita della Madonna non serve solo ad accrescere la nostra privata devozione, ma anche la nostra comprensione profonda della Parola di Dio e dei problemi della Chiesa e questo deve fare accettare con gioia anche la difficoltà che si può incontrare in questa prima applicazione.

    Anzitutto Maria ci parla dell’importanza della fede.  Non c’è suono, né musica là dove non c’è un orecchio capace di ascoltare, per quanto risuonino nell’aria melodie e accordi sublimi. Non c’è grazia, o almeno la grazia non può operare, se non trova la fede ad accoglierla.  Come la pioggia non può far germogliare nulla finché non trova una terra che l’accoglie, così la grazia se non trova la fede. E’ per la fede che noi siamo « sensibili » alla grazia.  La fede è la base di tutto; è la prima e la più «buona » delle opere da compiere.  Opera di Dio è questa, dice Gesù: che crediate (cf Gv 6, 29).  La fede è così importante perché è l’unica che mantiene alla grazia la sua gratuità.  Non cerca di invertire le parti, facendo di Dio un debitore e dell’uomo un creditore.  Per questo essa è tanto cara a Dio che fa dipendere dalla fede praticamente tutto, nei suoi rapporti con l’uomo.

    Grazia e fede: sono posti, in tal modo, i due pilastri della salvezza; sono dati afl’uomo i due piedi per camminare o le due ali per volare.  Non si tratta però di due cose parallele, quasi che da Dio venisse la grazia e da noi la fede, e la salvezza dipendesse così, in parti eguali, da Dio e da noi, dalla grazia e dalla libertà.  Guai se uno pensasse: la grazia dipende da Dio, ma la fede dipende da me; insieme, io e Dio facciamo la salvezza!  Avremmo fatto di nuovo, di Dio, un debitore, uno che dipende in qualche modo da noi, e che deve condividere con noi il merito e la gloria.  San Paolo toglie ogni dubbio quando dice: Per grazia siete salvi mediante la fede e ciò (cioè il credere, o, più globalmente, l’essere salvi per grazia mediante la fede, che è la stessa cosa) non viene da voi ma è dono di Dio perché nessuno possa vantarsene (Ef 2, 8 s).  Anche in Maria, abbiamo visto, l’atto di fede fu suscitato dalla grazia dello Spirito Santo.

    L’accento è sul fatto di credere, più che sulle cose credute.  Ma la fede di Maria è anche quanto mai oggettiva, comunitaria.  Ella crede al Dio dei Padri, al Dio del suo popolo. Riconosce nel Dio che le si rivela, il Dio delle promesse, il Dio di Abramo e della sua discendenza.  Ella si inserisce umanamente nella schiera dei credenti, diventa la prima credente della nuova alleanza, come Abramo era stato il primo credente dell’antica alleanza.  Il Magnificat è tutto pieno di questa fede basata sulle Scritture e di riferimenti alla storia del suo popolo.  Il Dio di Maria è un Dio dai tratti squisitamente biblici: Signore, Potente, Santo, Salvatore.  Maria non avrebbe creduto all’angelo, se le avesse rivelato un Dio diverso, che ella non avesse potuto riconoscere come il Dio del suo popolo Israele.  Anche esternamente, Maria si adegua a questa fede.  Si assoggetta infatti a tutte le prescrizioni della legge; fa circoncidere il Bambino, lo presenta al tempio, si sottopone lei stessa al rito della purificazione, sale a Gerusalemme per la Pasqua.

    Ora tutto questo è per noi di grande insegnamento.  Anche la fede, come la grazia, è andata soggetta, lungo i secoli, a un fenomeno di analisi e di frantumazione, per cui si hanno ínnumerevoli specie e sottospecie di fede. I fratelli protestanti, per esempio, valorizzano di più quel primo aspetto, soggettivo e personale, della fede. « Fede – scrive Lutero – è una fiducia viva e audace nella grazia di Dio»; è una «ferma fiducia».   In alcune correnti del protestantesimo, come nel Pietismo, dove questa tendenza è portata all’estremo, i dogmi e le cosiddette verità di fede non hanno quasi alcuna rilevanza.  L’atteggiamento interiore, personale, verso Dio è la cosa più importante e quasi esclusiva.

    Nella tradizione cattolica e ortodossa ha avuto invece, fin dall’antichità, un’importanza grandissima il problema della retta fede o dell’ortodossia.  Il problema delle cose da credere prese, ben presto, il sopravvento sull’aspetto soggettivo e personale del credere, cioè sull’atto di fede. I trattati dei Padri, intitolati « Sulla fede» (De fide) non accennano nemmeno alla fede come atto soggettivo, come fiducia e abbandono, ma si preoccupano di stabilire quali sono le verità da credere in comunione con tutta la Chiesa, in polemica contro gli eretici.  In seguito alla Riforma, in reazione all’accentuazione unilaterale della fede-fiducia, questa tendenza si è accentuata nella Chiesa cattolica.  Credere significa principalmente aderire al credo della Chiesa.  San Paolo diceva che « con il cuore si crede e con la bocca si fa la professione di fede» (cf Rm 1 0, 1 0): la «professione» della retta fede ha preso spesso il sopravvento sul «credere con il cuore».

    Maria ci spinge a ritrovare, anche in questo campo, «l’intero» che è tanto più ricco e più bello di ogni singola parte.  Non basta avere una fede solo soggettiva, una fede che sia un abbandonarsi a Dio nell’intimo della propria coscienza.  È tanto facile, per questa strada, rimpicciolire Dio alla propria misura.  Questo avviene quando ci si fa una propria idea di Dio, basata su una propria interpretazione personale della Bibbia, o sull’interpretazione del proprio ristretto gruppo, e poi si aderisce ad essa con tutte le forze, magari anche con fanatismo, senza accorgersi che ormai si sta credendo in se stessi più che in Dio e che tutta quella incrollabile fiducia in Dio, altro non è che una incrollabile fiducia in se stessi.

    Non basta però neppure una fede solo oggettiva e dommatica, se questa non realizza l’intimo, personale contatto, da io a tu, con Dio.  Essa diventa facilmente una fede morta, un credere per interposta persona o per interposta istituzione, che crolla non appena entra in crisi, per qualsiasi ragione, il proprio rapporto con l’istituzione che è la Chiesa. È facile, in questo modo, che un cristiano arrivi alla fine della vita, senza aver mai fatto un atto di fede libero e personale, che è l’unico che giustifichi il nome di « credente ».

    Bisogna dunque credere personalmente, ma nella Chiesa; credere nella Chiesa, ma personalmente.  La fede dommatíca della Chiesa non mortifica l’atto personale e la spontaneità del credere, ma anzi lo preserva e permette di conoscere e abbracciare un Dio irnmensamente più grande di quello della mia povera esperienza.  Nessuna creatura infatti è capace di abbracciare, con il suo atto di fede, tutto quello che, di Dio, si può conoscere.

    La fede della Chiesa è come il grande angolare che permette di cogliere e fotografare, di un panorama, una porzione molto più vasta del semplice obiettivo; Nell’unirmi alla fede della Chiesa, io faccio mia la fede di tutti quelli che mi hanno preceduto: degli apostoli, dei martiri, dei dottori. I Santi, non potendo portare con sé in cielo la fede – dove essa non serve più -, l’hanno lasciata in eredità alla Chiesa.

    C’è una potenza incredibile racchiusa in quelle parole: «lo credo in Dio Padre Onnipotente… ». Il mio piccolo «io», unito e fuso con quello grande di tutto il corpo mistico di Cristo, passato e presente, forma un grido più potente del fragore del mare che fa tremare dalle fondamenta il regno delle tenebre.

    Crediamo anche noi!

    Passiamo ora a considerare le implicazioni personali e ascetiche che scaturiscono dalla fede di Maria.  Sant’Agostino, dopo aver affermato, nel testo citato sopra, che Maria «piena di fede, partorì credendo quel che aveva concepito credendo», trae da questo un’applicazione pratica dicendo: «Maria credette e in lei quel che credette si avverò.  Crediamo anche noi, perché quel che si avverò in lei possa giovare anche a noi».

    Crediamo anche noi!  La contemplazione della fede di Maria ci spinge a rinnovare anzitutto il nostro personale atto di fede e di abbandono in Dio.

    Noi siamo l’edificio di Dio, il tempio di Dio.  L’impresa della nostra santificazione è come la « costruzione di un edificio spirituale» (1 Pt 2, 5); noi veniamo «edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito » (Ef 2, 22). Ma chi costruirebbe un edificio su un terreno, se questo terreno non gli è stato prima liberamente ceduto e se non gli appartiene?  Sappiamo che un palazzo costruito, in queste condizioni, diventa automaticamente del proprietario del terreno, non di chi l’ha costruito.  Dio non può costruire in noi il suo tempio, non ci può costruire come edificio santo, se prima noi non gli abbiamo liberamente ceduto la proprietà del «terreno» e questo avviene quando diamo a Dio la nostra libertà, con un atto di fede e di consenso, con un «sì» pieno e totale.

    Il terreno infatti è proprio la nostra libertà, un terreno che dovrà essere prima aperto, rivoltato, scavato… Di qui l’importanza decisiva di dire a Dio, una volta nella vita, un «si faccia, fiat », come quello di Maria.  Quando questo avviene, esso è un atto avvolto nel mistero perché coinvolge insieme grazia e libertà; è una specie di concepimento.

    La creatura non può farlo da sola; Dio perciò l’aiuta senza toglierle la sua libertà.

    Che si deve dunque fare?  E semplice: dopo averci pregato, perché non sia una cosa superficiale, dire a Dio con le parole stesse di Maria: « Eccomi, sono il servo, o la serva, del Signore: si faccia di me secondo la tua parola! ». Dico amen, sì, mio Dio, a tutto il tuo progetto, ti cedo me stesso!

    Ho ricordato all’inizío i tre grandi « fiat » che si incontrano nella storia della salvezza: quello di Dio nella Creazione, quello di Maria nell’lncarnazione e quello di Gesù nel Mistero pasquale. C’è un quarto « fiat » nella storia della salvezza che sarà pronunciato ogni giorno, fino alla fine del mondo, ed è il « fiat » della Chiesa e dei credenti che, nel «Padre nostro», dicono a Dio: « Fiat voluntas tua: sia fatta la tua volontà! ». Dicendo questo « fiat », noi ci uniamo, seguendo Maria, al grande « fiat » di Cristo che nel Getsemani disse al Padre le stesse parole: «Si faccia la tua volontà » (cf Lc 22, 42).

    Dobbiamo però ricordarci che Maria disse il suo « fiat » all’ottativo, con desiderio e gioia.  Quante volte noi ripetiamo quelle parole in uno stato d’anirno di mal celata rassegnazione, come chi, chinando la testa, dice a denti stretti: « Se proprio non si può farne a meno, ebbene si faccia la tua volontà! ». Maria ci insegna a dirlo diversamente.  Sapendo che la volontà di Dio a nostro riguardo è infinitamente più bella e più ricca di promesse, di ogni nostro progetto; sapendo che Dio è amore infinito e che nutre per noi «progetti di pace e non di afflizione» (cf Ger 29, 1 1), noi diciamo, pieni di desiderio e quasi con impazienza, come Maria: « Si compia presto su di me, o Dio, la tua volontà di amore e di pace! ».

    Con ciò si realizza il senso della vita umana e la sua più grande dignità.  Dire « si », «amen », a Dio non umilia la dignità dell’uomo, come pensa talvolta l’uomo d’oggi, ma la esalta.  Del resto, qual è l’alternativa a questo « amen » detto a Dio?  Proprio il pensiero contemporaneo che ha fatto dell’analisi dell’esistenza il suo oggetto primario, ha dimostrato chiaramente che dire « amen » bisogna e se non si dice a Dio che è amore, lo si deve dire a qualcos’altro che è solo fredda e paralizzante necessità: al destino, al fato.  L’alternativa filosofica alla fede è il fatalismo.  Il più noto filosofo di questo secolo, dopo aver messo in luce, in una fase del suo pensiero, che l’unica possibilità assolutamente propria, incondizionata e insormontabile che resta all’uomo è la morte e che la sua stessa esistenza altro non è che un « vivere-per-la-morte», assegna all’uomo, come unico mezzo per rendere autentica la propria esistenza, quello di accettare il suo destino.  La libertà dell’uomo consiste qui nel fare di necessità virtù: nello scegliere e nell’accettare come propria, la situazione di fatto in cui si è gettati e nel rimanerle fedeli.  Il destino dell’uomo è fissato dalla storia e dalla comunità cui egli appartiene e non potrà essere che quello di ripetere ciò che è già stato.  L’uomo raggiunge la sua completezza nell’amore del fato (amor fati), accettando, e anzi amando ciò che è accaduto e che inevitabilmente accadrà.  Questo è un ritorno a quella specie di «mistica del consenso» a cui era giunto, con Cleante, la religiosità pagana prima di Cristo; con essa ci si abbandona, senza riserve, al fato e alla necessità di tutte le cose.  Questa non è la voce di un filosofo isolato; tutto il pensiero esistenzialista ateo, o comunque che si colloca fuori della prospettiva cristiana come per esempio quello di Jaspers e di Sartre – approda a questo ideale terribile dell’amore del fato.  La libertà che si voleva salvaguardare è diventata pura accettazione della necessità.  Si è realizzata in pieno la parola di Gesù: «Chi vuol salvare ‘ la propria vita la perderà» (cf Mc 8, 35); chi vuol salvare la propria libertà, la perderà.

    L’uomo, dicevo, non può vivere e realizzarsi senza dire « amen » « sì » a qualcuno e a qualcosa.  Ma come è diverso e opprimente questo « amen » pagano, rispetto all’«amen » cristiano, detto a uno che ti ha creato, che non è fredda e cieca necessità, ma amore.  Come è diverso l’abbandono al fato, dall’abbandono al Padre espresso in questa preghiera di Ch. de Foucauld: «Padre mio mi abbandono a te.  Fa’ di me ciò che ti piace.  Qualunque cosa tu faccia di me, ti ringrazio.  Sono pronto a tutto, accetto tutto, perché la tua volontà si compia in me e in tutte le tue creature.  Non desidero altro, mio Dio.  Rimetto la mia anima nelle tue mani.  Te la dono, mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo.  Ed è per me un’esigenza d’amore il donarrni e il rimettermi nelle tue mani senza misura, con una confidenza infinita, perché tu sei il Padre Mio».

    “ Il mio giusto vivrà di fede »

    Tutti devono e possono imitare Maria nella sua fede, ma in modo particolare deve farlo il sacerdote e chiunque è chiamato, in qualche modo, a trasmettere ad altri la fede e la Parola. «E mio giusto – dice Dio – vivrà di fede» (cf Abacuc 2, 4; Rm 1, 17): questo vale, a un titolo speciale, per il sacerdote: Il mio sacerdote – dice Dio – vivrà di fede.  Egli è l’uomo della fede. Il peso specifico di un sacerdote è dato dalla sua fede.  Egli inciderà nelle anime nella misura della sua fede.  Il compito del sacerdote o del pastore in mezzo al popolo, non è solo quello di distributore di sacramenti e di servizi, ma anche quello di suscitatore e testimone della fede.  Egli sarà veramente uno che guida, che trascina, nella misura con cui crederà e avrà ceduto la sua libertà a Dio, come Maria.

    Il grande essenziale segno, ciò che i fedeli colgono immediatamente in un sacerdote e in un pastore, è se «ci crede»: se crede in ciò che dice e in ciò che celebra.  Chi dal sacerdote cerca anzitutto Dio, se ne accorge subito; chi non cerca da lui Dio, può essere facilmente tratto in inganno e indurre in inganno lo stesso sacerdote, facendolo sentire importante, brillante, al passo coi tempi, mentre, in realtà, è anche lui, come si diceva nel capitolo precedente, un uomo «vuoto».  Perfino il non credente che si accosta al sacerdote in uno spirito di ricerca, capisce subito la differenza.  Quello che lo provocherà e che potrà metterlo salutarmente in crisi, non sono in genere le più dotte discussioni della fede, ma la semplice fede.  La fede è contagiosa.  Come non si contrae contagio, sentendo solo parlare di un virus o studiandolo, ma venendone a contatto, così è con la fede.

    La forza di un servitore di Dio è proporzionata alla forza della sua fede.  A volte si soffre e magari ci si lamenta in preghiera con Dio, perché la gente abbandona la Chiesa, non lascia il peccato, perché parliamo parliamo, e non succede niente.  Un giorno gli apostoli tentarono di cacciare il demonio da un povero ragazzo ma senza riuscirvi.  Dopo che Gesù ebbe cacciato, lui, lo spirito cattivo dal ragazzo, si accostarono a Gesù in disparte e gli chiesero: Perché noi non Abbiamo potuto scacci . arlo?  E Gesù rispose: Per la vostra poca fede (Mt 17, 19-20).  Ogni volta che, dinanzi a un insuccesso pastorale o a un’anima che si allontanava da me senza essere riuscito ad aiutarla, ho sentito affiorare in me quella domanda degli apostoli: « Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo? », ho sentito rispondermi anch’io nell’intimo:«Per la tua poca fede! ». E ho taciuto.

    Il mondo, abbiamo detto, è solcato, come il mare, dalla scia di un bel vascello, che è la scia di fede aperta da Maria.  Entriamo in questa scia.  Crediamo anche noi perché quel che si avverò in lei si avveri anche in noi.  Invochiamo la Madonna con il dolce titolo di Virgo fidefis: Vergine credente, prega per noi!

  • 31 Mar

    Amerai Dio con tutto il tuo cuore

    L’affettività nell’esperienza spirituale

    L’amore è un dinamismo umano che non si può in alcun modo forzare; nessuno può amare per costrizione né esterna né tantomemo interna. Eppure, sembra contraddittorio, l’amore è il primo comandamento. Il cammino spirituale non può reggersi sul volontarismo o sull’idealismo: è necessario che vi sia coinvolto anche il cuore. E’ questo che dà energia ed entusiasmo e mette le ali ai piedi.

    Amerai il Signore Dio tuo

    Se la Parola ci chiede questo accettiamo una verità su noi stessi: la nostra vocazione, la nostra realizzazione più vera è amare. E’ condizione per fare esperienza vera di Dio: è lui che può essere amato totalmente.

    Chi davvero ama ha sempre davanti agli occhi il viso della persona amata, e l’abbraccia interamente con infinito diletto; egli dal desiderio non trova requie nemmeno nel sonno, ma si intrattiene anche allora col suo amore. Così si avvera nei corpi e negli spiriti… Se il viso di una persona amata ci cambia interamente e ci rende tutti allegri e luminosi sgombrando ogni tristezza; che cosa non farà il viso del Signore, quando nascostamente viene a far visita in un’anima purificata e monda?… Quando il cuore esulta, il volto fiorisce” (Giovanni Climaco, Sc. Par., 30,2)

    Però non ogni affetto ci fa crescere nella nostra capacità di amare, lo stesso amore per Dio spesso non è totalmente autentico. Questo ci pone in una situazione particolare: quello di essere apprendisti, dobbiamo imparare ad amare il Signore, superando l’illusione sentimentale.

    Tu mi hai sedotto Signore e io mi sono lasciato sedurre

    Primo passo: imparo la libertà di lasciarmi amare.

    Dio certamente ci ama, ma non tutti si sentono amati da lui. Come fare? E’ importante non aver paura dell’amore. Non è raro trovare persone che hanno paura, per diversi motivi, di lasciarsi coinvolgere in un’esperienza  affettiva: si mantengono allora distaccati, freddi… Queste barriere, se non sono guarite, possono intralciare il mio rapporto con Dio. Dobbiamo capire che la maturità non sta solo nella capacità di sapersi fare dono, ma consiste anche nel lasciarsi coinvolgere in relazioni intense, in una parola nel lasciarsi amare.

    Nello stesso tempo se vogliamo lasciarci amare occorre essere liberi dalla preoccupazione di essere amati. Ciò equivarrebbe a coltivare un bisogno egoistico sempre più esigente. Passerò dunque dalla ricerca di essere amato alla scelta di amare in modo adulto e il più possibile disinteressato. Questo cuore libero rende disponibili ad accorgersi del fatto di essere amati. Dio ci ama, e ci rende amanti, ci spinge ad amare a modo suo. Amando scopriamo quanto Dio ci ama. Abbiamo amato un fratello ci troviamo amati dal Padre: quando amo lì Dio è presente (Ubi caritas et amor ibi Deus est).

    Si impara ad amare Dio quando mi libero dalla pretesa di decidere io di amarlo e scopro che invece è Lui a prendere sempre l’iniziativa. “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi…Noi amiamo perché Lui ci ha amati per primo” (1Gv 4,10.19). Il nostro desiderio di amarlo è la risposta (cf Geremia, Israele, Paolo, gli apostoli…)

    Certo Dio non seduce alla maniera umana: non incanta né illude. Invece mette alla prova, domanda rinunce, propone una croce…E’ un innamorato che domanda tutto: un Dio geloso. Amati e attratti da Dio ci comprende che per Lui si può lasciare tutto il resto. Non per disprezzo o nausea, ma perché degno di essere amato sopra ogni altra cosa.

    Con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima

    Questo amore domanda la totalità della mia risposta.

    La natura umana non può esprimere la sovrabbondanza dell’amore divino. Perciò come suo simbolo si prende ciò che c’è di più violento nelle passioni che agiscono in noi, voglio dire la passione d’amore, affinché impariamo così che chi fissa lo sguardo sulla bellezza della natura divina, deve esserne tanto innamorato quanto lo è il corpo di ciò che è ad esso affine, tramutando la passione in libera gioia, di modo che la nostra anima arda “eroticamente” in noi della sola fiamma dello Spirito” (Gregorio Niss., Omelia sul Cantico, 1)

    Cosa comporta questo?

    Una relazione centrale

    L’innamorato di Dio pone questa relazione al centro della sua vita. Da questa tutto parte e tutto ad essa fa riferimento. L’innamorato trova in questo la sua propria unificazione: niente lo può separare dall’amore di Dio (cf Rm 8,38). Questa unificazione comporta un certo sforzo dell’uomo: nessuno che voglia porre Dio al centro della vita è dispensato dalla fatica quotidiana di una certa disciplina spirituale (cf l’ascesi)

    Una relazione unica

    Posso amare tante persone, ma posso innamrorarmi di una sola. Unicità della relazione significa familiarità e intimità con Dio. Questa relazione avrà bisogno dei suoi spazi di solitudine: come esigenza per coltivarla profondamente.

    Da questo spazio di intimità può irradiare di conseguenza una consapevolezza della presenza di Dio lungo tutto l’arco del tempo: per cui anche il nostro essere indaffarati in mille cose non fa disperdere il nostro cuore.

    E’ indispensabile divenire capaci di solitudine.

    Una relazione fedele

    Il Dio fedele che irrompe nella mia storia non mi può provocare una risposta “ad tempus”. Se prende tutto, esige pure la totalità del mio tempo. C’è relazione tra la perpetuità e la profondità. Il nostro amore non può essere un imprestarsi a Dio ma un consegnarsi totalmente. L’adulto è colui che è capace di relazioni stabili.

    Quando si resta nell’amore di Dio, la mia fedeltà non è solo questione di resistere alle tentazioni o di evitare i pericoli (magari continuando a desiderare il frutto proibito). Fedeltà nell’amore significa crescita in questo amore.  Vi è crescita quando nella relazione con Dio vi sono coinvolti tutti i miei dinamismi: la mente coglie la verità, la volontà la sceglie, il cuore l’ama. Dio come credibile-esigente-attraente.

    Non basta il “colpo di fulmine” per innamorarsi di Dio. Si tratta di un cammino lungo, spesso né facile né spontaneo, fatto di coraggio nel liberarsi dei propri idoli e dei propri timori, di volontà di scegliere Dio sempre e in ogni situazione, di disponibilità a sacrificagli ciò che abbiamo di più caro. E non significa che sia un amore sperimentato sempre come entusiasmo e possesso definitivo.

    E’ un amore soggetto a tanti alti e bassi, all’incertezza, al buio, alla debolezza, a volte al rimpianto di altri vecchi amori. Come comportarci in queste situazioni?

    Si tratta di essere molto sinceri con se stessi: riconoscere la propria fragilità non per deprimersi, ma per scoprire a noi stessi ciò che ci impedisce di lasciarci amare da Dio.

    A volte si tratterà di avanzare nella speranza, nel desiderio, nella nostalgia di un amore che abbiamo appena intravisto senza possederlo ancora, nel dolore di avere preferito tante volte altri amori. Innammorarsi è anche questo.

  • 20 Mar

    Il potere del Dio crocifisso

    di O. Clément

    il vero potere è quello del Dio crocifisso:
    un potere che vuole l’alterità dell’altro
    fino a lasciarsi uccidere
    per offrirgli la risurrezione.
    Perciò il potere assoluto
    s’identifica con l’assoluto del dono di sé
    ,
    con il sacrificio che comunica la vita agli uomini e fonda la loro libertà.

    RISCHI E PROMESSE DEL PLURALISMO

    Il dato di fatto del pluralismo

    Il pluralismo ereditato dal passato si è accresciuto considerevolmente nella nostra epoca a causa di grandi migrazioni economiche e politiche: si pensi al massiccio arrivo in Europa occidentale di musulmani, arabi del Maghreb, turchi, pakistani, di ebrei nordafricani (dopo quelli dell’Europa orientale) in Francia, e ancora in Europa occidentale di ortodossi russi, greci, romeni, serbi, antiocheni.

    D’altro canto, con la globalizzazione non solo economica ma anche culturale, proprio nel momento in cui la tecnica e lo stile di vita occidentali si stanno diffondendo nel pianeta, le religioni orientali (soprattutto il buddhismo) invadono l’Europa.

    Nel contempo, la lunga lotta dei “lumi” contro il clericalismo provoca un fenomeno generale di secolarizzazione (la Russia è più secolarizzata della Francia!) con una scomparsa delle “cristianità” tradizionali, sia per lenta dissoluzione (sul modello anglosassone, scandinavo, dell’Europa del nord – e ora dell’est -), sia per scissione interna (sul modello dell’Europa cattolica: Francia, Spagna, Italia…). Da cui la giustapposizione, che assume diverse forme, di cristiani più o meno impegnati e di agnostici, talvolta atei, talaltra indifferenti, altre volte anticlericali.

    Alcuni dati storici

    Mille anni di guerre di religione, i massacri degli ebrei (dall’inizio della prima crociata, ai pogrom russi, fino alla shoah), lo scontro incessante con l’Islam, mostrano con quale violenza l’Europa abbia rifiutato il pluralismo. Eppure questa istanza ha continuato a riaffiorare, anche se in modi molto diversi. Dapprima nel pluralismo non egualitario degli imperi più o meno multinazionali: coesistenza forzata e precaria nell’Impero ottomano [la dhimma, i millet] (l), giustapposizione difficile nell’Impero russo, pluralismo spesso più tollerato nell’Impero asburgico: con alcuni miracoli, sia nell’Islam quando esso non si sentiva minacciato e permetteva larghi scambi con i dhimmi – così nel Medio Oriente degli Omayyadi, e in seguito nell’ Andalusia medievale -, sia nell’ area subcarpatica, dai paesi romeni alla Bielorussia, con la corrispondente diffusione del neo-esicasmo e del neo-chassidismo, sia ancora in Austria e in Russia quando in esse si diffuse lo spirito di libera ricerca, alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX: penso alla brillante cultura ebraica di Vienna, al ricorso dei filosofi religiosi russi alla spiritualità ebraica…

    D’altra parte, in Europa occidentale, con l’avvento dell’illuminismo, dopo la rivoluzione inglese e la rivoluzione francese, il pluralismo è stato legalizzato, le chiese hanno fatto a poco a poco 1’apprendistato della libertà, gli ebrei sono stati via via liberati da ogni statuto particolare. Nella nostra epoca i musulmani sono accolti, credenti e non credenti sono cittadini allo stesso titolo. Al crocevia di tutte queste correnti la Romania ha fatto anch’ essa, alla fine del XIX secolo e poi nella prima metà del XX, una certa esperienza di pluralismo: è sorprendente come gli ortodossi e i greco-cattolici abbiano largamente collaborato alla ritrovata coscienza nazionale e alla riunificazione del paese.

    Eppure, nel nostro secolo, il pluralismo rischia di essere compromesso in società che, mentre diventano urbane e industriali, conoscono nel contempo un certo vuoto spirituale a causa della trasformazione del patriottismo in nazionalismo, dato che la religione viene ridotta a una dimensione della cultura nazionale: da ciò deriva la scissione dell’Irlanda, il mito della giudeo-massoneria, i movimenti antisemiti in Francia, Germania, Austria e Russia, il blocco del religioso e del nazionale nelle rinascenti nazioni “ortodosse”… Le ideologie totalitarie, nazismo e stalinismo, hanno utilizzato, e per la prima volta esasperato, un antigiudaismo popolare sempre latente, mentre nel contempo squalificavano la razionalità moderna mettendola al servizio dei loro miti. Oggi, con il loro crollo e la vittoria delle concezioni democratiche, dei “diritti dell’uomo”, il pluralismo sembra avere la meglio, ma deve essere rifondato nell’inconscio collettivo. In questo consiste, forse, il nostro ruolo.

    [1] Dhimma (“protezione”) è il termine arabo con cui si indica il patto vigente tra la umma (comunità mondiale) islamica e gli appartenenti alle ahl al-Kitab (genti del Libro), vale a dire ebrei e cristiani. Con tale patto i dhimmi (cittadini protetti) ottenevano, in cambio del pagamento di un’imposta, l’autorizzazione alla residenza e la tolleranza della propria religione, anche se restava loro interdetta ogni forma di proselitismo. I millet sono invece le vere e proprie ripartizioni etniche in “nazioni” dei cittadini dell’Impero ottomano. Con la loro creazione le comunità non musulmane videro aumentare la propria autonomia, ma restarono comunità di inferiore dignità sociale rispetto alla umma islamica [N.d. T.].

    I rischi del pluralismo

    Ne vorrei sottolineare tre:

    a) le crisi d’identità;
    b) il “comunitarismo” come dissoluzione del corpo sociale;
    c) lo sviluppo dell‘indifferenza e del sincretismo.

    a) Non bisogna nascondere che il pluralismo urta la sensibilità popolare, spesso anche quella di certi teologi e responsabili di chiesa che idealizzano la società della cristianità e conservano la nostalgia di un appoggio dello stato. È particolarmente evidente per i paesi segnati dalla tradizione ortodossa, e per gli slavi occidentali segnati dalla tradizione cattolica, dalla Polonia alla Croazia. In tutti questi paesi il pluralismo appare come una delle espressioni della storia occidentale, artificialmente importata in società che non condividono un medesimo retroterra storico. È quanto ha spiegato il patriarca di Mosca Alessio II quando la recente legge sulle associazioni religiose è stata fortemente criticata in occidente: “Noi non abbiamo la stessa storia degli Stati Uniti”. Generalmente, in queste chiese dell’Europa centrale e orientale (cui la Romania, paese-crocevia, paese-frontiera, appartiene solo parzialmente), la globalizzazione, che è in fondo quella delle mentalità e dei costumi, scatena forti reazioni identitarie. Alla conferenza panortodossa che si è tenuta a Tessalonica nel maggio del 1998, cinque chiese – russa, ucraina, serba, bulgara e, naturalmente, quella georgiana, per la quale questo è già avvenuto – hanno espresso più o meno chiaramente l’intenzione di abbandonare il Consiglio ecumenico delle chiese, perché esso veicolerebbe tutto un pluralismo di contenuti moderni riguardanti tanto l’inculturazione della fede quanto le rivendicazioni delle minoranze sessuali (2). Tutto questo fa il gioco dell’estrema destra, ancora legata al vecchio mito della giudeo-massoneria, nato d’altronde nella Francia del XIX secolo.

    Il rigetto dell’altro, con la crescita del nazionalismo nei Balcani, può sfociare in guerre che assumono una coloratura religiosa, se non addirittura in fenomeni di “pulizia etnica”, dalla Turchia degli anni ‘20 alla Jugoslavia degli anni ‘90

    Anche nelle società dell’Europa occidentale l’altro è sovente sentito come il nemico. Diventa facilmente un capro espiatorio quando imperversa la disoccupazione. La memoria collettiva è lungi dall’essersi purificata da ogni antisemitismo e da ogni timore dell’Islam.

    b) Proprio in queste società dell’Europa occidentale, uno dei principali rischi del pluralismo è la dissoluzione del corpo sociale attraverso il fenomeno del “comunitarismo”. Si tratta della formazione di comunità religiose o etnico-religiose chiuse, con le loro scuole e le loro regole di diritto civile riguardanti soprattutto il matrimonio e lo statuto della famiglia. A questo si aggiunge spesso la concentrazione in un dato luogo geografico e la formazione di qualcosa di simile ai ghetti. Si tratta sovente – ma non sempre – di minoranze sfruttate che solo in questo quadro trovano conforto e solidarietà.

    I paesi anglosassoni accettano più facilmente questa situazione, mentre i paesi latini, specie la Francia, vi guardano con diffidenza perché il loro ideale resta l’integrazione. L’Islam, proprio perché non separa la realtà religiosa dalla realtà civile, tende spontaneamente al comunitarismo, ma anche certi movimenti ebraici, come quello di Lubavich, manifestano una tendenza analoga.

    Allora i valori comuni alla società non si possono più trasmettere, le reazioni prima difensive, poi aggressive, della popolazione maggioritaria si accentuano, a volte in modo molto maldestro (in Francia, il fatto del velo portato da alcune liceali musulmane).

    A questo si aggiunge il legame persistente di tali “comunità-ghetto” con paesi stranieri: Pakistan in Inghilterra, Turchia in Germania, Algeria in Francia (con tutto il drammatico peso che ne consegue), per non parlare del legame ambiguo di certi movimenti giovanili ebraici con lo stato d’Israele. La moltiplicazione delle antenne paraboliche mostra che sovente i membri di queste “comunità” hanno un radicamento culturale completamente diverso da quello che offre loro, nel bene o nel male, il paese nel quale si trovano a vivere.

    c) Le chiese, infine, temono che il pluralismo, nel contesto di una società secolarizzata, finisca per favorire lo sviluppo dell’indifferenza e del sincretismo.

    Le nostre società, è noto, sono tormentate da un desiderio di spiritualità – “spiritualità laica”, dicono anche alcuni -. Il pluralismo permette una specie di spiritualità “à la carte”, in cui ciascuno sceglie a caso incontri, letture, affinità. Gli attuali progressi del buddhismo in Europa occidentale (e del “tradizionalismo” alla Guénon (3) in Romania) non sono che aspetti di questa situazione. Essi ricordano la formazione del movimento dei quaccheri nell’Inghilterra di fine XVII secolo: dopo tanti scontri tra confessioni cristiane, il ricorso pacificante al silenzio e alla “luce interiore”. Oggi i cristiani parlano molto di amore ma o non ne danno mai l’esempio, o lo confondono con l’umanitarismo. E, in ogni caso, sembra che essi ignorino l’interiorità. Il buddhismo, invece, si presenta come una sapienza senza dogmi, come un metodo per raggiungere la pacificazione interiore e l’altruismo. Proprio esso, e altri apporti di provenienza asiatica (la “meditazione trascendentale”, per esempio) possono offrire una sorta di realizzazione inattesa al narcisismo occidentale.

    Più in generale, il pluralismo permette a molti di pensare che una cosa valga l’altra (e dunque, in un certo senso, che nulla abbia valore). La libertà responsabile, come ha sottolineato, dopo Dostoevskj, Nikolaj Berdjaev, è difficile da portare. Allora ci si butta nella religiosità fusionale delle sette e nell’ adorazione dei guru, questo surrogato di paternità in una società senza padri.

    Tutto sommato, questa situazione spaventa le chiese e accresce in molti la nostalgia di un buon potere: il potere del papa per i cattolici, il potere di uno stato sacralizzato per gli ortodossi, il potere interiorizzato del puritanesimo e del fondamentalismo per i movimenti” evangelici”…

    [2] Cf. il resoconto in SOP 229 (1998), p. 5.

    [3] René Guénon (1886-1955), pensatore e studioso delle religioni. Il suo pensiero costituisce uno sforzo per tornare alla tradizione primordiale, sacra, fuori del tempo, e al di là delle religioni tradizionali nelle quali Guénon individua delle deviazioni. Le religioni orientali, però, secondo quest’autore, hanno mantenuto il loro attaccamento ai principi metafisici universali e possono aiutarci a ritrovarli [N .d. T.].


    Le promesse del pluralismo

    Il pluralismo ci porta ad approfondire l’evangelo, a scoprire il pieno significato della relazione, a sviluppare il paradigma di una civiltà planetaria e nel contempo plurale.

    a) Rileggiamo l’evangelo. Gesù appare come un’ esistenza fraterna e filiale nel grande soffio di vita che noi chiamiamo Spirito santo. Egli testimonia di un Dio che è in Cristo stesso comunione e fonte di ogni comunione. È questo modo di essere, questa esistenza personale in comunione il suo apporto al cuore del mondo, ed egli ce ne fa dono in germe trionfando, con la sua risurrezione, sulle forze della separazione e del nulla. Egli rifiuta ogni contrapposizione fissa tra iniziati ed esclusi, tra buoni e cattivi. Sostituisce, al fondo di noi stessi, l’angoscia della morte con la gioia della risurrezione, in modo che non abbiamo più bisogno di nemici per farne i capri espiatori delle nostre paure, e che dobbiamo, paradossalmente, “amare i nostri nemici”.

    Perciò l’evangelo pone la persona e la comunione tra le persone al di sopra di ogni sistema, di ogni idea, anche del bene. Gli ideologi invece – e soprattutto forse gli ideologi delle religioni vogliono imporre il bene con la forza, al limite con la morte. Gesù irradia, con il rispetto e con l’amore, la pienezza della vita. “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27). Gesù va dritto al cuore, alla persona, svela il volto al di là della maschera, la maschera del partigiano nello “zelota”, del collaboratore nel pubblicano, dell’eretico nel samaritano, dell’impurità nella donna adultera o nella samaritana che ha avuto cinque mariti e vive con un uomo che non è suo marito. Nella forza dello Spirito, l’uomo intuisce da quel momento in Cristo che gli altri esistono. Si rifiuta di strumentalizzarli, di etichettarli: “Non giudicate e non sarete giudicati” (Lc 6,37).

    b) Se l’essere in quanto tale è relazionale, se la verità s’inscrive, da persona a persona, in una relazione, dal momento che, dice Paolo, bisogna “fare la verità nella carità” (Ef 4,15), essa non può essere né posseduta, né diventare un mezzo per trasformare l’altro in oggetto che si possiede. Gli ideologi che pretendono di possedere la verità hanno giustificato e giustificano tutti i massacri. E questo fu anche il peccato, l’enorme peccato, delle sedicenti società cristiane.

    Per noi, cristiani che rileggono l’evangelo, il pluralismo non può consistere solo nel fatto di sopportare l’esistenza dell’altro, ma nel comprendere e amare ciò che costituisce il senso di quell’esistenza. La vera relazione non deve cercare la simmetria: “Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete?” (Lc 6,32), chiede Gesù.

    Io sono responsabile dell’ altro“, ha scritto un grande filosofo ebreo, Emmanuel Lévinas, “senza attendermi la reciprocità, dovesse anche costarmi la vita“. La reciprocità non è affar mio, ma dell’altro.

    I padri greci, riflettendo sull’ evangelo e sulle grandi intuizioni paoline, e i filosofi religiosi ortodossi della prima metà del nostro secolo, riflettendo anche sulla nozione dell’Adam qadmon nella mistica ebraica, hanno affermato che esiste un Uomo unico, nel senso più realista, in una moltitudine di persone.

    Dobbiamo cercare di vivere questa stupefacente visione. Sappiamo che lo Spirito è ovunque al lavoro e che il Verbo, come dicevano i primi apologisti, visita, ispira, sotto molti nomi, tutte le culture, tutte le religioni. La Sapienza divina è presente nelle tradizioni dell’Estremo oriente che mettono l’accento sulle teofanie cosmiche e l’interiorità del Sé. La Sapienza divina è presente nella rivelazione della Torà, parzialmente ripresa dal Corano, nella Legge che condanna l’idolatria e l’omicidio e sottrae l’uomo alle sue pulsioni contraddittorie. La Sapienza divina è presente nella volontà di coscienza critica e di libertà dell’illuminismo moderno, specie quando tali volontà si realizzano nella capacità di dialogare e di formulare ipotesi, nell’esplorazione instancabile della materia, del cosmo, della psyché. Come cristiani abbiamo bisogno di tutte queste dimensioni del mistero, e, certo, nutriamo la speranza di poter aiutare gli uomini dell’interiorità ad aprire gli occhi per vedere l’altro nella sua assoluta realtà; nutriamo la speranza di poter aiutare gli uomini della trascendenza e della Legge a comprendere, fin dentro la loro stessa sofferenza, la kenosi di Dio; nutriamo la speranza di poter aiutare gli uomini dell’umanesimo a comprendere che al confine dell’umano – dove forse ci troviamo – non vi è più che la scelta tra il nulla e l’uomo “microcosmo e mikrotheos“, per citare, con Nikolaj Berdjaev, Gregorio di Nissa. A condizione di lasciarci aiutare da tutti costoro a essere più pienamente, più lucidamente noi stessi.

    Che i cristiani si facciano garanti della fede degli altri, garanti anche della libertà di coloro che tentano semplicemente di essere umani! Che siano i custodi dell’uomo aperto, in una cultura aperta!

    Forse, nell’immediato, la condizione fondamentale per il pluralismo, in Europa, è la rinuncia da parte delle chiese a usare il potere dello stato e a lasciarsi usare da esso. Le categorie del potere non sono categorie cristiane. Un cristianesimo post-ideologico non ha nulla a che vedere con esse. La funzione dello stato, per riprendere un detto di Soloviev, non è quella di trasformare la società in paradiso, ma di evitare che essa divenga un inferno. Lo stato di diritto trova il suo significato e il suo raggio d’azione nel ridurre il più possibile la violenza, assicurando la libertà di associazione e la libertà di coscienza, e anche nel vegliare sulla trasmissione di un’etica i cui valori siano largamente biblici, e forse anche coranici (la laicità di questo punto di vista potrebbe essere, in Europa, la chance dell’lslam!).

    c) Il ruolo delle chiese, nell’elaborazione di una civiltà pluralista, è senza dubbio quello di convocare lo spirituale al cuore di tutte le forme di esistenza, come un fermento, un appello, un’ispirazione creatrice; evocarlo, proporlo, senza mai nulla imporre poiché “bisogna rendere a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che è di Cesare”. Cosi si approfondirà il pluralismo, fino a quella che un grande filosofo francese contemporaneo, Paul Ricoeur, di tradizione protestante, ha chiamato “una tolleranza senza scetticismo.

    Una professione di fede trionfalistica e gridata ai quattro venti ha un qualcosa d’impudico. Una fede maturata attraverso la lunga, gioiosa, dolorosa esperienza di una vita si esprime anzitutto nel silenzio. O a mezza voce, o nello humour, nel paradosso, nella poesia. “Una lingua dolce spezza le ossa” (Pr 25,15) dice il sapiente. E permette di testimoniare senza ferire. Scrive Michel Serres: “Dio è il nostro pudore, e noi dobbiamo proteggerlo … Ciò che egli ha d’infinito, è la sua fragilità. Perciò può essere protetto solo in ciò che vi è di più nascosto in noi”. L’incontro con le grandi religioni, nello spirito di ricerca e di dialogo di un umanesimo aperto, permetterà forse l’avvento di un nuovo paradigma per una civiltà planetaria e nel contempo plurale.

    Per concludere vorrei citare monsignor Pierre Claverie, vescovo di Orano assassinato da alcuni integralisti: “Sono giunto alla convinzione che l’umanità è solo plurale e che quando pretendiamo… di possedere la verità, cadiamo nel totalitarismo e nella discriminazione… Si può accedere (alla verità) solo con un lungo cammino … raccogliendo qua e là nelle altre culture, negli altri tipi d’umanità ciò che anche gli altri hanno acquisito, hanno cercato nel loro particolare cammino verso la verità… Dio non lo si possiede, così come non si possiede la verità, e io ho bisogno della verità degli altri” (4). Proprio questa è la rivelazione ultima: Dio è “Mistero e Amore”, “Vita” e “Luce della Vita” .

    [4] “Humanité plurielle”, in Le Monde, 4-5 agosto 1996.


    IL POTERE E LA FEDE:
    LA PERSONA NELLA SOCIETÀ

    Cercherò ora di parlare della relazione tra il potere e la fede. Dapprima mi chiederò cosa significhino queste due parole. Poi insisterò sull’apporto originale del cristianesimo. Infine, porrò la domanda su come, anche oggi, un cristiano possa tentare di esercitare e la critica e la pratica del potere.

    Quale potere, e quale fede?

    Ogni uomo, per il fatto stesso della sua esistenza, detiene un potere, è potere. Ogni uomo si afferma di fronte al nulla e di fronte all’ altro. In virtù del suo essere stesso, egli esercita un’azione sul suo ambiente e sul mondo.

    Il racconto simbolico delle origini, nella Genesi, sottolinea questo potere: “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, … e domini…” (Gen 1,26). “Dio creò l’uomo a sua immagine … maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: … riempite la terra, soggiogatela e dominate…” (Gen 1,27 – 2 8). Il vocabolario della sovranità non dev’essere interpretato qui nella prospettiva della nostra caduta, cioè di una violenza distruttrice, ma in una prospettiva “eucaristica , di trasfigurazione. In quel dono di un potere creatore risiede la somiglianza originaria dell’uomo con Dio. Una forza buona, vivificante, gli viene offerta. La paternità-maternità che assicura al bambino gli apprendimenti indispensabili – e innanzi tutto quello del linguaggio -, tra l’ascesi e la tenerezza, la distanza e la vicinanza; il potere nella società, per assicurare un minimo d’ordine e di pace, che permetterà la trasmissione di una cultura, di una memoria, e dunque la volontà di un avvenire comune; la conoscenza e la creatività come tensione alla bellezza e alla spiritualizzazione del mondo… tutto questo è potere, sovranità dell’essere, come il libero slancio di un cavallo o la forte stabilità di un albero. Con in più, nell’uomo, la coscienza e il linguaggio, il linguaggio come apertura della coscienza, capacità di fare del mondo un’offerta e una condivisione, un dialogo degli uomini tra di loro e con Dio.

    Ma sappiamo bene che c’è anche, come qualcosa che misteriosamente precede le nostre scelte, il mistero del male. C’è il peccato come distruzione originale e permanente del rapporto ancora più originale d’amore con Dio. Allora sopraggiunge l’orgoglio di possedere se stessi, e la potenza buona dell’essere è parzialmente vampirizzata dalla sete di dominio e di oppressione dell’altro. Separato da Dio, dunque votato alla morte, l’uomo cerca di dimenticare la sua precarietà esercitando il dominio. Egli ha bisogno di schiavi per credersi dio, cioè immortale, lui che è schiavo della morte. Nel De civitate Dei Agostino ha sviluppato questa dialettica tra l’impotenza segreta e la violenza ostentata.

    Bisogno di schiavi, bisogno dunque di nemici. René Girard ha mostrato come, nella maggior parte delle società, la violenza, che mina quando addirittura non impedisce la vita comune, sia respinta alle frontiere, esorcizzata con la messa a morte del capro espiatorio. L’uomo proietta la sua angoscia sull’ altro e lo uccide per uccidere la propria angoscia.

    Il potere, originariamente di vita, diventa così potere di morte. Fino a oggi, fino alla “monarchia atomica” del presidente della repubblica francese, la stessa definizione di potere è proprio di questo tipo: la capacità di dare la morte. Una sorta di sacralità circonda quindi il potere. “Anche un semplice agente di polizia suscita sentimenti diversi rispetto a un normale uomo in giacca” – o in jeans -, notava Nikolaj Berdjaev. E per lui l’esercizio del potere decaduto, potere di violenza e di dominio, è legato a una specie d’ipnosi nelle masse…

    Nel mondo precristiano, la divinizzazione del potere si realizzava apertamente. Si pensi all’ apoteosi dell’imperatore romano, dichiarato Divus e Pontifex maximus. Il potere che si divinizza e vuole farsi adorare è idolatrico: è la denuncia costante della Bibbia, da Nabucodonosor alla bestia dell’ Apocalisse, che allude al culto di Cesare e della dea Roma. Idolatria alla quale la modernità si è riaffacciata a partire dalla concezione hegeliana, comunemente diffusa, della manifestazione dello spirito assoluto nella storia come divenire collettivo, manifestazione che si è pienamente incarnata nei totalitarismi del nostro secolo.

    Ora, per il Nuovo Testamento e per san Paolo in particolare, le potenze demoniache sono invisibilmente ma molto realmente presenti sullo sfondo della storia. I “dominatori di questo mondo” (1Cor 2,8) non sono soltanto i sovrani terreni ma quegli angeli ambigui o chiaramente decaduti che fanno del potere idolatrico una vera possessione.

    Ormai abbiamo in mano gli anelli della catena:
    – la vertigine della morte e il potere di dare la morte;
    – il bisogno di schiavi e di nemici;
    – l’esercizio sulle masse di una sorta d’ipnosi e di possessione magica con un potere i cui stessi detentori sono dei posseduti (l’ultimo anello si ricollega al primo).

    E tutto questo si mescola con la potenza buona dell’essere, catturandone e deviandone l’energia senza però giungere a sopprimerla, perché l’uomo resta a immagine di Dio ed è proprio il dinamismo dell’immagine che, deviato, suscita il desiderio di auto-deificazione, di auto-idolatria. Il potere è così nel contempo il riflesso dell’ assoluto e la sua caricatura, la sua usurpazione demoniaca.

    Una simile deformazione coesiste con una deformazione simmetrica della fede. Nelle società arcaiche, comprese, fino ai rivolgimenti contemporanei, l’India e la Cina, la fede, gravitante sull’interiorità impersonale, cementa culture che vogliono restare immobili, che si fissano in gerarchie e caste, e fanno sentire inferiori o addirittura espellono i devianti. La storia non è arricchita, ma è negata, ridotta a un processo di degradazione dove sarebbero possibili solo delle “restaurazioni” sempre più problematiche. L’interiorità buddhista in particolare è una voragine nella quale culture intere sono state inghiottite…

    Completamente diversa è la rivelazione biblica, semitica, del Dio personale, che alimenta, sino a oggi, il dinamismo della storia universale. Nella misura in cui ignora – oppure dimentica – la distinzione tra regno di Dio e regno di Cesare, essa scatena, attraverso la fede, una violenza conquistatrice: sia per assicurare la “terra promessa” al “popolo eletto”, sia per imporre la verità agli infedeli. Islam e cristianità si sono affrontati in preda alla stessa confusione. La violenza dell’occidente, o della Russia, ha troppo sovente appoggiato la missione cristiana.

    La secolarizzazione della fede in ideologia nazionalista, nel XX secolo, esaspera ancora di più questa violenza distruttrice. Giacché la fede, quando degenera in semplice appartenenza, quando si lega al desiderio di semplificazione per questo stesso fatto non è più altro che fanatismo. Per questo oggi così spesso la si teme: la cristianità ha lasciato il ricordo dell’Inquisizione, le ideologie totalitarie quello dei campi di sterminio, il risveglio dell’Islam non avviene senza aggressività, il sionismo di destra si mostra ciecamente conquistatore, i nazionalismi religiosi, specie nel mondo ortodosso, sono i più temibili.

    La rivoluzione di Cristo

    La fede della quale vorrei ora parlare è la fede evangelica, la fede propriamente cristiana. Adesione personale a una presenza personale velata-svelata: quella del Dio misterioso, inaccessibile, che si rivela, si dona, si rende partecipabile in Gesù Cristo, senza perdere per questo il suo mistero. L’insegnamento evangelico, distinguendo il regno di Dio e il regno di Cesare, apre lo spazio della libertà dello spirito, della libertà della persona. Il regno di Cesare è insieme desacralizzato, delimitato e orientato. Legittimo nel suo ordine, è illegittimo quando pretende di farsi adorare, quando si presenta come una realtà totalizzante, pseudo-divina. Quanto al regno di Dio, “esso non è di questo mondo”, non si manifesta secondo le modalità di questo mondo, secondo il suo potere di morte. Tuttavia misteriosamente, sacramentalmente, trasformando i cuori (cioè, nel linguaggio biblico, le intelligenze), esso feconda il mondo in quanto creazione di Dio, mentre lo contesta e lo mina in quanto rete d’illusioni, di menzogne e di seduzioni.

    Nella prospettiva evangelica, il vero potere è quello del Dio crocifisso: un potere che vuole l’alterità dell’ altro fino a lasciarsi uccidere per offrirgli la risurrezione. Perciò il potere assoluto – quello di Dio, del Pantokrator -, s’identifica con l’assoluto del dono di sé, con il sacrificio che comunica la vita agli uomini e fonda la loro libertà. Il Dio incarnato è “colui che dona la propria vita per i suoi amici” e prega per i suoi carnefici.

    Il potere di Dio significa il potere dell’ amore. Per “follia d’amore”, colui che è la Vita in pienezza diventa per noi la vita al cuore della morte. “Ho il potere di offrirla (la mia vita) e il potere di riprenderla di nuovo” (Gv 10,18), dice Gesù. Di questo paradosso divino che trascende le antinomie della creazione decaduta, quella della vita e della morte, della consegna di sé e dell’ affermazione di sé, di questo paradosso che è il paradosso stesso dell’ amore, così debole nella sua sovranità, così sovrano nella sua debolezza, noi troviamo un’espressione mirabile, fortemente messa in risalto, in Paolo: “È piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione … perché… ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini … Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (1Cor 1,21-28).

    La kenosi, lo svuotamento volontario del Dio incarnato, rivela la vita stessa della Trinità. Quando Giovanni, nel prologo del suo evangelo, ci parla del Verbo pròs tòn Theon, rivolto verso il Padre, ci mostra un Dio che si apre, un Dio nel quale l’Uno non esiste senza l’Altro, nel sacrificio gioioso di ciascuno perché l’altro esista. Un Dio che si apre, un Dio che si dona: il fatto che il potere di Dio sia quello dell’ amore implica una limitazione volontaria che Dio s’impone per dare all’uomo (e all’angelo) uno spazio per la sua libertà. O piuttosto, è in questa limitazione che risiede l’autentica onnipotenza, che si esprime il mistero di Dio come dono di sé, umiltà, rispetto dell’altro fino alla croce: “L’Agnello è immolato fin dalla fondazione del mondo” (cf. Ap 5,6; 13,8).

    Per questo il mistero della debolezza di Dio è quello della sua autentica onnipotenza: mistero messo in luce con la vita, la passione e la croce di Gesù, mistero nascosto nell’ essenza profonda della chiesa, nell’ esistenza crocifissa dei santi.

    Nel corso degli attacchi che dovette subire, Gesù fu sicuramente tentato nella sua piena umanità, assunta nel contesto di un popolo e di un’ epoca ossessionati da un messianismo combattivo, di prendere di persona il potere per le vie della violenza. Fu l’ultima seduzione che egli respinse nel deserto. In Galilea, era circondato da un potente movimento popolare che voleva “venire a prenderlo per farlo re” (Gv 6,15). Fu allora che decise di concentrarsi sul “piccolo gregge” dei suoi discepoli, e di andare a portare la lotta al cuore stesso del potere: a Gerusalemme, sede del potere religioso ebraico, che si serviva di Dio per asservire l’uomo, e sede del potere politico romano, che asserviva l’uomo per farsi Dio. Allora ci furono la croce, la risurrezione, la pentecoste, l’effondersi della grazia come forza semplicemente buona, vivificante, al di là delle ambivalenze del mondo decaduto in cui non c’è mai vita senza morte, amore senza odio, forza senza violenza…

    In Cristo, sotto l’influsso dello Spirito, siamo chiamati a partecipare a questa forza, a questo potere sacrificale e salvifico. “A quanti l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12). Il “se tu puoi qualcosa” del padre disperato provoca la risposta: “Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,22-23). Né l’uomo senza Dio, né Dio senza l’uomo: in Cristo non vi è separazione né confusione tra di loro. Per questo al “senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5) di Cristo corrisponde il grido di giubilo di Paolo: “Tutto posso in colui (Cristo) che mi dà la forza” (Fil4,13). E ancora, leggiamo nell’ evangelo: “Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò” (Gv 14,13). “Se avrete fede pari a un granellino di senapa … niente vi sarà impossibile” (M t 17,2 o).

    Alla dialettica tra l’impotenza e la violenza subentra la dialettica tra la debolezza e la forza: in Cristo, l’uomo ritrova la sua vocazione di creatore creato, teso alla manifestazione del regno già segretamente presente. “La mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza” (2Cor 12,9).

    L’uomo che s’identifica al crocifisso, riceve la forza del risorto: “lo mi compiaccio negli oltraggi, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). Nella tradizione degli anawim, e più in particolare di Amos, di Geremia, di molti salmi, i “miti”, i “poveri”, gli “umili” dell’Antico Testamento sono chiamati “beati” nelle Beatitudini, perché fanno posto a Dio in se stessi, perché offrono uno spazio allo Spirito santo. Per questo Maria, nel suo cantico di lode, celebra gli “umili”, quelli che si sono svuotati per Dio, aperti a Dio, e che egli ha potuto innalzare proprio mentre rovescia i “potenti” dai loro troni, troppo appesantiti e troppo pieni di sé, troppo ricchi, nei quali egli non può trovare spazio.

    Il potere di Cristo, potere della fede e dell’umiltà, si esprime come servizio. Il testo decisivo, su questo punto, è quello di Lc 22,25-27: «Egli disse: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande fra voi diventi come il più piccolo, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve”».

    Il potere “che serve” diventa, nel senso etimologico della parola, autorità; auctoritas viene dal verbo augere che significa far maturare, far crescere. Cercare di sottomettersi a ogni vita per farla crescere in pienezza.

    La vittoria di Cristo sulla morte trasforma al fondo del nostro essere l’angoscia in gratitudine. I padri della chiesa, specie i padri ascetici, rivelano che le due “passioni-madre” sono l’avidità e l’orgoglio, queste risorse del potere decaduto, e più in profondità ancora, “la paura nascosta della morte”. Ma se siamo veramente risuscitati nel Risorto, se la morte è già alle nostre spalle, sepolta nelle acque del battesimo, allora non abbiamo più bisogno né di schiavi né di nemici per proiettare su di loro la nostra angoscia e il nostro desiderio di essere Dio: Dio, noi lo siamo umilmente in Cristo, siamo cioè capaci di amare.

    Perciò ci viene manifestata tutta l’importanza del comando evangelico di amare i nostri nemici: Ma a voi che ascoltate io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano…

    Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’ Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro (Lc 6,27.35-36).

    Si tratta di spezzare il circolo infernale dell’aggressione e della vendetta che, a sua volta, provoca una nuova aggressione più violenta, e via di seguito. Gesù non si è accontentato di assumere questo atteggiamento: egli ci ha resi capaci di farlo nostro grazie alla sua croce, alla sua risurrezione e al dono dello Spirito. Mediante la grazia della croce infatti, anche il fallimento, anche la morte possono far nascere il regno.

    Esercitare il potere della fede?

    Oggi i cristiani sono ovunque minoritari e non possono pretendere di guidare la società. L’ideale – raramente realizzato nella storia – del “santo principe”, del “re cristiano” che monopolizzava il sacerdozio regale del popolo di Dio, che accettava la chiesa come limite interiore e ispirazione del suo potere, infine e soprattutto, se ce ne fosse stato bisogno, che “donava la vita per i suoi amici”, questo ideale appartiene a una simbologia che ha esaurito il suo compito. O piuttosto deve essere interiorizzato, assunto da ogni cristiano, la cui vocazione è quella di essere “re, sacerdote e profeta” (cf. lPt 2,9). lo cercherò d’individuare qui tre itinerari di servizio e d’impegno.

    Comunicando al corpo “donato” da Gesù, al suo sangue “versato”, i cristiani devono mettersi in sintonia con le sue esigenze e il suo esempio profetico. Ormai il rifiuto del dominio diventa un segno distintivo della loro appartenenza a Cristo. È al cuore del pasto eucaristico che Luca pone la discussione tra i discepoli per sapere “chi è il più grande” (cf. Lc 22,24-27). Infatti il pasto eucaristico ha proprio lo scopo di suscitare tra i discepoli una nuova prassi, opposta a questo gioco d’ambizioni. Non è la grandezza quello che Gesù rifiuta, qualsiasi masochismo sarebbe di troppo. Ma: “Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo” (Mt 20,26). La vera grandezza non è nel dominare, ma nel servire.

    La comunità eucaristica deve testimoniare – tentare di testimoniare -, in tutti gli ambiti questo spirito di servizio e questo rifiuto del dominio diventando, nella nostra epoca, in Europa occidentale, a misura d’uomo e permettendo una vera convivialità.

    Questo implica uno stile particolare delle relazioni interne in seno all’istituzione ecclesiale. I poteri conferiti a certe funzioni ministeriali sono altrettante ri-proposizioni del potere di Cristo, che è il potere dell’ amore. “Pascete il gregge di Dio che vi è affidato… non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge” (1Pt 5,1-3). In seno alla comunione prende così forma una paternità sacrificale e liberatrice, capace di orientare risolutamente senza umiliare, ma con l’intento di far crescere diffondendo lo Spirito, facendo circolare la vita. Un segno per il mondo, un modello altro: “Per voi, non è così”. Fondata sull’offerta, la comunità eucaristica dovrebbe conoscere la vanità del possesso, l’alienazione del desiderio attraverso l’avere, attraverso la moltiplicazione dei bisogni.

    Chi ci darà delle comunità nelle quali nel distacco (che si traduce concretamente nel rifiuto della corsa ai beni e al prestigio, nella semplicità e nella frugalità dell’esistenza) s’irradia la gioia dell’incontro, incontro di Dio e – cosa che ne è il segno e la posta in gioco incontro dei fratelli? … Questa gioia sarà, per tutti quelli che sono ingannati dalle fallaci promesse di una società fondata sulla modalità dell’ avere, un interrogativo su se stessi e sulla verità del loro desiderio, l’appello a una metanoia – una conversione – liberatrice (1).

    Uno stile simile esige da ciascuno un’ascesi insieme di distacco e di simpatia, il che suppone la presenza, non ai margini ma al cuore stesso della chiesa, di gente che rinuncia, di monaci che, con la loro povertà e umiltà volontarie, lascino spazio alla forza buona della grazia e assicurino ai credenti quei padri o quelle madri spirituali che testimoniano della paternità materna di Dio e ne trasmettono il Soffio. I cristiani che rinunciano anticipano il “mondo a rovescio” delle Beatitudini.

    È importante che ogni comunità cristiana – una parrocchia, un movimento, un monastero – sia un luogo di condivisione discreta ma efficace a favore dei più abbandonati, credenti o non credenti poco importa, nell’ ambito della città, del quartiere, della relazione stabilita con un certo settore particolarmente provato dei paesi dell’est o del terzo mondo.

    In Russia, oggi, le iniziative sono numerose in questo campo. È certamente più difficile per le nostre piccole comunità ortodosse della diaspara, la misura non è la stessa, spesso si rende necessaria la collaborazione ecumenica. In ogni modo dobbiamo inventare, aprire gli occhi su una miseria crescente, offrire, anche poveramente. Ci è necessario, e già alcuni lo fanno, ritrovare quel legame tra il “sacramento dell’altare” e il “sacramento del fratello”, del quale parlava Giovanni Crisostomo. Non si tratta di sostituire il sacramentale con il sociale, il che porterebbe a fare del cristianesimo una variante sentimentale dell’umanitarismo, ma di mostrare il carattere sacramentale del sociale, della diaconia, e di fondare nella comunione ecclesiale questo istinto di solidarietà, cosi forte presso molti dei nostri contemporanei, soprattutto tra i giovani.

    Collocare il politico nel giusto ambito è riconoscerne la necessità e insieme la relatività. La logica totalitaria identificava il potere con l’assoluto, il potere con un sapere che negasse ogni autonomia del politico. La logica liberale comporta, di fatto, l’identificazione quasi assoluta del potere con il denaro. Da qui nascono gli innumerevoli scandali che scuotono le nostre società e squalificano i responsabili politici. Invece di riproporre il luogo comune della politica come alienazione, del potere come fatalmente oppressivo, il nostro compito è quello di ripensare il politico, rifondare il potere politico nel suo obiettivo autentico: garantire le libertà e ostacolare la violenza distruttiva. Vladimir Soloviev diceva che il ruolo del potere non è quello di trasformare la società in un paradiso, ma di evitare che essa diventi un inferno. Vorrei citare qui due pensatori francesi contemporanei, entrambi cristiani: un economista, François Perroux, e un filosofo, Claude Bruaire. François Perroux, in Pouvoir et économie, scriveva: “La politica inizia nel punto in cui la violenza cessa”. Lo stato ha il compito di preservare, in determinate condizioni storiche, la vita e la libertà di ogni essere umano e di preconizzare un potere politico” distante dai singoli interessi, capace di orientarli e/o di fare da arbitro tra di loro”. A questo arbitro sono affidati gli obiettivi e i mezzi che non possono essere semplicemente contabilizzati, “ciò che, di conseguenza, non può avere mercato. È esso (lo stato) che, nella sua sfera, protegge gli uomini dall’invasione del mercato, li mette in condizioni favorevoli per resistere alla ‘mercificazione’ dell’ essere umano” (2).

    Claude Bruaire, in La raison politique, individuava il ruolo del politico nello scongiurare la violenza, nella misura in cui esso dà diritto e forza alla giustizia e alla libertà. “Voler abolire ogni forma di potere politico è disprezzare la libertà per instaurare la violenza, assicurandole il dominio”. Il politico non si definisce dunque da ciò che è, ma dai legami che instaura, dai valori che salvaguarda. Non compete al potere politico esprimere un sapere assoluto, creare una religione o dei sindacati, ma permettere la libertà dello spirito, l’osservanza religiosa e l’esercizio dei diritti sindacali. Compito del suffragio universale non è opprimere la minoranza. Ogni minoranza deve essere protetta dal potere e ogni opposizione legale non soltanto legittimata ma favorita per permettere la critica e il dialogo. Si delinea così l’ideale, sempre da difendere, sempre da reinventare, dello stato di diritto nel quale, diceva Bruaire, “la legge, ed essa sola, permette al potere di essere simultaneamente interno ed esterno alla società” (3) della quale è arbitro, e senza il libero consenso della quale non sarebbe nulla.

    Collocare il potere nel giusto ambito significa dunque contemporaneamente delimitarlo e ispirarlo. Il suo limite “esterno” (a proposito del quale si può parlare di “contro-poteri”) non può essere che una società civile solida, nella quale si moltiplicano comunità e associazioni autonome, dove la famiglia è incoraggiata e salvaguardata. Il suo limite “interno” potrebbe essere invece l’esistenza di un’ etica testimoniata da una, o diverse, élite di irradiamento, prive di potere concreto, ma forti di una vera autorevolezza. Con il crollo delle ideologie e dei miti, mi sembra che stiano emergendo alcune tematiche fondamentali: quella della persona irriducibile, chiave di volta inoggettivabile, non concettualizzabile, di una moltitudine di approcci, tutti necessari; ad esempio l’ homo oeconomicus, ma anche l’homo ludens e l‘homo adorans. Un’ altra tematica, con la scomparsa della civiltà contadina, è quella di un atteggiamento positivo, ormai cosciente e volontario, nei confronti della natura. O ancora il rispetto incondizionato della persona e delle complesse relazioni tra le persone costituite dalle lingue, dalle nazioni, dalle culture; un nuovo patto nuziale con la terra; la nascita di un’umanità europea e di un’umanità planetaria, non con la cancellazione, ma con la salvaguardia della loro diversità: questi sono ormai i nostri valori e i nostri compiti.

    In quest’ambito si colloca, come si può facilmente intuire, il ruolo indispensabile del cristiano come “sentinella” – in conseguenza del quale il potere della fede può manifestarsi come “contro-potere” -, ma anche come “ispiratore”, e il potere della fede può manifestarsi allora come profezia. La chiesa, o il “consiglio delle chiese”, a seconda dei tempi e dei luoghi, è chiamata a diventare a suo rischio, con umiltà e fermezza, la coscienza della società. Coscienza che propone senza imporre, a rischio di un’emarginazione manifesta, quando non addirittura di una persecuzione, più o meno scoperta. Solo la coscienza cristiana può far emergere, tener viva continuamente una tensione vivificante tra le pesanti realtà della questione sociale e la visione evangelica del potere come servizio. Il vasaio deve avere le mani coperte d’argilla, deve conoscere le regole e i gesti che gli permettono di plasmare bene, ma non farà nulla che valga senza un’ispirazione superiore.

    Per questo l’attuale ricerca di un’ etica capace di delimitare e di orientare il politico esige più che mai la testimonianza e la forza della nostra fede. Certo si può, come scriveva André Glucksmann (4), abbandonarsi al meccanismo del cinismo e del sentimento. Il sentimento occidentale, secondo lui, consisterebbe nell’ evitare il cinismo senza dimenticarne il messaggio, il suo obiettivo morale nel fuggire il male di cui ci si sa capaci sin dai tempi dell’Orestea di Eschilo (io aggiungerei, con René Girard, da quando la Bibbia ha osato chiamare assassinio l’uccisione di Abele…). Ma perché? Perché in definitiva preferire la morale di Kant alla contro-morale del “divin marchese” de Sade? Come smontare il nichilismo e il sarcasmo che regnano nelle nostre società? Certo solo la grazia, riconosciuta o semplicemente intuita, permette la libera e gratuita apertura all’ altro, a colui che è diverso da me, e l’intuizione del mistero delle cose divenute ad un tratto delle presenze. Ispirazione spirituale, o quasi-poetica, essa convince l’individuo a intraprendere le vie della trasfigurazione e della comunione. La grazia non comanda, non organizza, ma ispira. Non si tratta di una tecnica della non-violenza, che può essere anch’essa moralmente aggressiva e farisaica: si tratta di rendere operante una forza buona venuta da altrove. Per Gandhi, per esempio, questo indù rimasto sconvolto dall’ evangelo, il digiuno non era, o non tanto, un mezzo di pressione (quello che è diventato oggi), era invece un atteggiamento di preghiera, un tempo di silenzio dell’anima e del corpo, per permettere a Dio di agire nella storia. Per questo è cosi importante la presenza di piccole comunità monastiche in Europa occidentale.

    Il potere, l’umile potere della fede, attraverso milioni di anime, nutre la storia di eternità, fa incontrare costantemente la storia di Erode e di Pilato con la contro-storia delle Beatitudini, la “bestiale-umanità” con la “divino-umanità”. La pazienza, la sofferenza, assunte nella certezza che “questo mondo” non è il mondo di Dio; l’amore visibilmente o invisibilmente creatore che fa scaturire dalle tenebre le scintille dell’ottavo giorno, il giorno del regno; i piccoli gesti di bontà disinteressata di tanti giusti sconosciuti, ricostituiscono instancabilmente la trama dell’ esistenza lacerata dalle forze del nulla. La vera storia si gioca alla frontiera del visibile e dell’invisibile. Noi la conosciamo solo in modo molto parziale. Gli angeli di luce e il “principe di questo mondo” vi intervengono, la preghiera di un bambino sconosciuto ne muta il corso, o anche la dedizione apparentemente beffarda della Matriona di cui parlava Solzenicyn, ricordando che essa era uno di quei giusti senza i quali nulla starebbe in piedi: né il loro villaggio, né la terra intera.

    Il contemplativo immerso nel silenzio e ogni atteggiamento di preghiera, di apertura al mistero, provocano nella storia un’irruzione dell’eternità e permettono quelle creazioni di vita e di bellezza che, a loro volta, terranno desti i cuori. “Il suolo della storia è vulcanico”, diceva Berdjaev. Periodicamente erompono i fiumi di lava e fanno nascere nella cultura quelle immagini, quei simboli, quei thémata segreti sui quali milioni di anime fonderanno quello che Tillich chiamava “il coraggio di esistere”. Francesco d’Assisi ha reso possibile Cimabue e un primo Rinascimento nel quale l’umano si affermava senza separarsi dal divino; Sergio di Radonez ha reso possibile Rublev – e non abbiamo ancora finito di contemplare l’icona della Trinità -, direi anzi: ha reso possibili Rublev e Tarkovskij.

    Oggi la potenza dell’uomo sembra oggettivarsi al di fuori di lui, anzi contro di lui: in conoscenze scientifiche e creazioni tecniche che tendono a svilupparsi per mezzo del loro dinamismo interno, al punto che l’uomo non è più padrone della propria potenza, che anzi sembra dominarlo; si rischia allora quella che Michel Henry chiama la “barbarie”.

    Il potere della fede susciterà un nuovo tipo di uomo capace di dominare queste forze, capace di padroneggiare la propria potenza. È necessaria qui la forza nuda dello spirito animato dallo Spirito; bisogna, nella scia della fede e della contemplazione, creare un autentico stile di umile e forte sovranità. Una nuova santità, di rottura ascetica e di trasfigurazione cosmica, permetterà con l’esempio e anche con una misteriosa trasfusione un cambiamento progressivo delle mentalità e la possibilità di una cultura che serva da mediazione tra l’evangelo e la società, tra l’evangelo e il politico.

    Non si tratta, in fondo, di negare la violenza, ma di canalizzarla e di trasfigurarla, come fece la chiesa nell’ alto medioevo trasformando il guerriero selvaggio in cavaliere, il capo crudele e dispotico in “santo principe”. Qui si rendono necessarie l’ascesi e l’avventura, “la lotta interiore, più dura di una battaglia tra uomini”, il gusto di servire e di creare, l’esigenza di illuminare la vita con quella bellezza “che genera ogni comunione”, come diceva Dionigi l’Areopagita.

    E se il potere della morte, malgrado tutto, sembra in certi momenti, in certi luoghi, imbalsamare la storia, ridurla a una sorta di zoologia, si può ancora conservarla aperta attraverso il martirio, che costituisce la prima e fondamentale esperienza mistica del cristianesimo. Nel martirio, il potere che vuole farsi idolatrare è accettato nella sua legittimità, rifiutato nella sua pretesa totalitaria; esso permette così, suo malgrado, una testimonianza paradossale di morte-risurrezione che faceva dire agli antichi romani che i cristiani sono” quelli che non hanno paura della morte” .

    Ci sono molte forme di “martirio”, banali, dissimulate, quotidiane. L’essenziale è che il cristiano sia un battezzato che ha dietro di sé la Morte (con la maiuscola), dietro di sé e non più davanti a sé, non più in sé, e che quindi non la diffonda, non la trasmetta più, ma doni e trasmetta la Vita (anch’ essa con la maiuscola). Un vivente che dia la vita, anche e soprattutto quando è oppresso dalla propria croce, anche e soprattutto quando non comprende più ma si rifugia ai piedi della croce. Un vivente che dia la vita: tale è, forse, il potere della fede.

    1] C. Bendaly, “Le témoignage de la communauté eucharistique”, in SOP 101 (1985), p. 15.
    [2]
    F. Perroux, Pouvoir et économie, Paris 1983, p. 128.
    [3]
    C. Bruaire, La raison politique, Paris 1972, cc. 1 e 2 della prima parte.
    [4]
    Cf. Cynisme et passion, Paris 1981.

    POETI E PROFETI
    ALLA LUCE DEL CRISTO VENIENTE

    “Poeti e suonatori dicono: tutte le sorgenti sono in te” canta il Salmo 87. Sentiamo che comincia a sciogliersi la neve che ricopre le cose che appaiono e che queste apparenze, in realtà, sono delle epifanie. In questa prospettiva, evocherò dapprima la nuova situazione del cristianesimo che, sempre di più, mi sembra si stia delineando. Poi gli itinerari da tracciare. Per poter infine mostrare che, nella luce di Cristo che scende agli inferi perché gli inferi stessi divengano luogo della pentecoste, i veri poeti sono dei profeti.

    Ri-collocare il cristianesimo

    Il cristianesimo del XXI secolo non sarà più, non si presenterà più come una “religione” omologabile alle altre (tranne che in alcuni ghetti integristi, veri e propri “fossili viventi”). Esso si svelerà, si affermerà come la religione dello Spirito e della libertà nello spazio dell’umanità di Cristo che i filosofi religiosi russi – quei profeti – chiamavano, a partire da Vladimir Soloviev, la “divino-umanità”. La divino-umanità è la meta stessa della creazione. Il divenire del cosmo che la abbozza – come sottolineano oggi alcuni astro fisici -, e poi il dinamismo della storia: tutto si ricapitola e si apre sull’ avvenire con l’incarnazione, la croce nuovo albero di vita, la risurrezione e la pentecoste. In Cristo, sotto il soffio e i fuochi dello Spirito, l’uomo trova pienamente la sua vocazione di “creatore creato”. La divino-umanità riguarda l’umanità intera. La chiesa è la parte emersa dell’iceberg, un popolo di re, di sacerdoti e di profeti che testimoniano e pregano perché nel Cristo veniente risplendano le fiammelle ovunque presenti dello Spirito santo, Soffio che sorregge i mondi, le culture, le religioni. Noi sappiamo dov’è il cuore della chiesa, nell’evangelo e nell’eucaristia, ma non ne conosciamo i confini: essa costituisce la profondità di ogni esistenza umana ed è in essa che le costellazioni descrivono le loro orbite e i mandorli fioriscono alla fine dell’inverno.

    Il cristianesimo del XXI secolo non sarà né un moralismo, né un pietismo, ma l’annuncio – che chiama a una santità creatrice – della vittoria di Cristo sulla morte e sull’inferno. Non potremo più evitare quella che Léon Bloy chiamava “la pericolosa pedagogia dell’ abisso“. È forse la sola via che ormai possa essere insegnata agli innumerevoli eredi (anche se inconsapevoli) di Dostoevskij e di Nietzsche, agli insofferenti sempre delusi che si inoltrano nell’inferno della droga, dell’erotismo, del terrorismo, della follia. Questi uomini e queste donne, che sono discesi nelle regioni più tenebrose dell’ abisso, lacerati nella carne viva, saranno raggiunti, rianimati dai gemiti dello Spirito, dalle sue grida di gioia pasquale. Lo Spirito li farà entrare non nel mondo della “salvezza” e della morale, ma nel mondo della risurrezione e della trasfigurazione – una trasfigurazione totale dell’uomo e dell’universo -.

    Perciò saranno chiamati non a quella mistica che s’immerge nel divino come una mosca nel miele, ma a una profezia creatrice, quella del regno che, dice Gesù, è nel contempo tra di voi e in voi. Regno la cui forza, luce, parresia possono fecondare nei loro fondamenti autentici la storia e la cultura dell’umanità. Che importanza ha qui contarsi? Come ha detto Kazantzakis, in questa prospettiva, “un uomo può salvare l’intero universo“. Lo studio dei movimenti del sottosuolo c’insegna che uno spostamento di alcuni millimetri negli strati profondi della scorza terrestre provoca un terremoto in superficie! Una spiritualità creatrice – in base alla quale più ci si immerge in Dio, più si diventa responsabili degli uomini – costituisce la vera infrastruttura della storia (per riprendere, capovolgendolo, il vocabolario marxista).

    Nella divino-umanità, il divino non assorbe e non schiaccia l’umano, così come anche l’umano, per affermare se stesso, non ha bisogno di eliminare il divino. Per riprendere la grande affermazione dei padri greci, “Dio si è fatto uomo perché l’uomo possa diventare Dio” , cioè uomo in pienezza, capace di amare e di creare in pienezza. Dio si è rivelato in un volto di uomo, affinché ogni volto d’uomo possa trovare il proprio compimento in Dio. Nella divino-umanità si incontreranno l’occidente e l’oriente cristiani, il primo contraddistinto da un’ accentuazione dell’ amore attivo, del servizio al prossimo, il secondo dalla “deificazione” come autentico fine della “salvezza”. Nella divino-umanità soprattutto si incontreranno gli umanesimi, gli anti-umanesimi, le ribellioni e le scoperte che caratterizzano la modernità, così come le forme di meditazione, le teofanie, il grande appello all’interiorità dell’ oriente non cristiano, dell’oriente tradizionale. Le negazioni tipiche dell’ ateismo saranno integrate nell’ approccio negativo e antinomico al mistero. In antropologia, come in economia politica, il fattore “residuale” svelerà il carattere irriducibile della persona, il suo enigma, e infine l’uomo come “microcosmo e mikrotheos” (come diceva Gregorio di Nissa), cioè l’uomo “immagine di Dio”. I sapienti dell’oriente che a occhi chiusi s’immergono in un’insondabile interiorità potranno, senza che questa si dissolva, aprire gli occhi per scoprire, irriducibile anch’ essa, l’alterità dell’altro.

    A poco a poco capiremo che un cristianesimo del genere non è un’ideologia che aspira ad essere imposta con la forza dello stato: è invece la rivelazione della persona – in comunione -, e dell’ essere come qualcosa che sgorga dall”‘abisso senza fondo” della persona e della comunione. La laicità come libertà dello spirito è nata dal movimento messo in atto dall’ evangelo stesso. I mezzi del potere sono estranei al cristianesimo. Questo sarà sempre di più un fermento, una luce, un esempio, che non impone nulla, che si presenta nell’umiltà; una profezia capace nel contempo di contestare gli idoli e di aprire delle vie all’avvenire, testimoniando del senso, offrendo all’uomo la capacità di padroneggiare, nello Spirito, il suo stesso potere.

    Perciò nella divino-umanità, si comunicherà agli uomini il mistero della divinità che è l’amore – unità totale e diversità totale, inseparabilmente -. Dio è Mistero e Amore, diceva Dionigi l’Areopagita, quindi ogni uomo è mistero e amore, tanto più misterioso quanto più lo si conosce. Lacerati senza sosta dal nostro accecamento, unificati senza sosta da Cristo, noi uomini siamo in realtà un solo Uomo in una moltitudine di persone e quindi, poiché queste sono altrettante dimensioni delle persone, in una moltitudine di lingue, di culture, di tradizioni umanistiche o religiose. La spiritualità dell’avvenire non sarà solo divino-umana, sarà trinitaria, e continuerà a trasformare Babele in una pentecoste. Al di là dell’opposizione attuale a un’unificazione tecnica del pianeta e delle inevitabili reazioni “identitarie”, la rivelazione dell’Uni-Trinità profetizza l’unità diversificata degli uomini… e noi potremo dire, come Hadewijch di Anversa: “Allora io compresi tutte le lingue che si parlano in settantadue modi”.

    Itinerari

    È necessario tornare a interrogarsi sull’uomo – e dirgli che si può rispondere a quest’interrogativo! -. Un interrogativo, molti interrogativi.

    Perché la bellezza? Se il rosaio fosse solo una macchina efficiente, non avrebbe bisogno di tanti fiori. La bellezza è una profusione inutile, la gratuità d’essere, un sentimento trascendente della gioia di esistere. La macchia purpurea della rosa buca lo spazio, buca la luce a volte grigia e piatta, verso quale altrove?

    Perché la morte? O piuttosto perché siamo consapevoli del fatto che moriremo? Gli animali non lo sanno, la scimmia più intelligente si trascina il figlio morto, cerca di nutrirlo, fino a che questa” cosa” non le si affloscia tra le braccia. Solo l’uomo sa che morirà e intuisce la morte come qualcosa contro natura. Se la morte, per lui, non è “naturale”, è perché non ne è completamente prigioniero, perché intuisce un altro stato, una vita più forte della morte. La sua nostalgia, il suo desiderio, e persino il suo furore trasgressivo e parossistico cercano un altrove, quale altrove?

    E perché l’amore, e non solamente il sesso? Perché la passione tragica o l’umile e buona fedeltà e non soltanto, come diceva un philosophe del XVIII secolo, “l’incontro di due fantasie e il contatto di due epidermidi”? Perché la tenerezza, ogni tanto, al di là del desiderio, o le metamorfosi del desiderio nel linguaggio della tenerezza? Quale altrove paradisiaco si lascia intuire quando l’incontro dei corpi prolunga solo la comunione tremante degli sguardi?

    Scriveva John Donne:
    Ai corpi dunque ci volgiamo, che i deboli
    possano contemplare rivelato l’amore:
    i misteri d’amore crescono nelle anime
    ma il nostro corpo è il libro dell’amore.

    Tuttavia non ci sono soltanto domande, ci sono anche risposte. L’altrove viene a noi, si rivela. L’amore al di là del desiderio, la bellezza al di là dell’utile, il carattere innaturale della morte ci aprono alle rivelazioni dell’ altrove.

    Sarà dunque importante approfondire, alla luce dello Spirito santo, il significato dell’ eros, del cosmo, della morte.

    Di fronte alla miserevole banalizzazione dell’eros, alla smania di mostrare tutto e di vedere tutto, ricorderemo che l’eros può diventare il linguaggio di un vero incontro tra due persone.

    Forgeremo una poetica rinnovata per l’amore e per la donna. Scriveva Rilke: Un giorno, la donna sarà. E questa parola “la donna” non significa più soltanto il contrario dell’uomo, ma qualche cosa di particolare, che ha valore in sé. Non più un semplice complemento, ma una forma completa della vita, la donna nella sua autentica umanità. (Allora, aggiunge il poeta, l’amore diventerà) due solitudini … che s’inchineranno l’una davanti all’altra.

    Per quel che concerne il cosmo, svilupperemo le intuizioni di san Francesco d’Assisi e della “contemplazione della natura” nell’ascesi dell’oriente cristiano, contemplazione, dice Isacco il Siro, “dei segreti della gloria di Dio nascosta negli esseri e nelle cose”. Nella divino-umanità, lo Spirito ci permetterà di scoprire l’essenza spirituale delle cose, non per appropriarcene, ma per offrirle gli uni agli altri e, insieme, offrirle al Dio della vita, dopo averle “chiamate per nome”, cioè dopo aver lasciato su di esse l’impronta del nostro genio creatore.

    Infine diremo, testimonieremo la vittoria pasquale sulla morte, vittoria sempre presente, sempre rinnovata. Ormai la morte biologica è una “pasqua”, un “passaggio” verso una luce molto dolce e nel contempo molto penetrante nella quale noi discerniamo, nella quale noi entriamo mediante la grazia della croce – che, dice Massimo il Confessore, è il “discernimento della giustizia” – in un processo di guarigione, di cicatrizzazione, nella comunione dei santi che combattono e pregano per la salvezza universale. Dio infatti non è né l’autore della morte, né il responsabile del male, egli è il crocifisso dal male che soffre con noi per aprirci le vie della risurrezione.

    Poeti e profeti

    È compito del poeta – e attraverso questo indubbiamente egli profetizza – provocare un risveglio. I vecchi asceti dicevano che il più grande dei peccati è l’oblio: quando l’uomo diventa opaco, insensibile, talora indaffarato, talaltra miseramente sensuale; quando diventa incapace di fermarsi un istante nel silenzio, di meravigliarsi, di vacillare davanti all’abisso, per l’orrore o per il giubilo; quando diventa incapace di ribellarsi, di amare, di ammirare, di accogliere lo straordinario negli esseri e nelle cose; quando insomma diventa insensibile alle sollecitazioni segrete, anche se cosi frequenti, di Dio.

    Allora interviene il poeta, e citerò per primo il grande, il tragico Pier Paolo Pasolini:
    Per me c’è un vuoto nel cosmo
    un vuoto nel cosmo
    e da là tu canti.
    Questo può urlare, un profeta che non ha
    la forza di uccidere una mosca – la cui forza
    è nella sua degradante diversità.

    O ancora, in modo più pacificato (apparentemente), Stéphane Mallarmé:
    Balbetto, ferito: la Poesia è l’espressione, attraverso il linguaggio umano ricondotto al suo ritmo essenziale, del senso misterioso dell’esistenza. Essa conferisce quindi autenticità al nostro soggiorno sulla terra e costituisce l’unico compito spirituale.

    Perciò la poesia – più in generale l’arte – ci risveglia. Essa ci cala più in profondità nell’ esistenza. Fa di noi degli uomini e non delle macchine. Rende solari le nostre gioie e laceranti le nostre ferite. Ci apre all’ angoscia e alla meraviglia.

    La poesia profetica di domani, nell’irradiante luce della croce pasquale, non sarà più quella volontà di auto-deificazione, di auto-trasfigurazione, di conquista prometeica del Wonderland (Paese delle meraviglie) che ha segnato l’«alchimia della parola» in occidente dal romanticismo tedesco fino al surrealismo: “Il vero poeta è onnisciente” diceva Novalis, “il filosofo poetico è nelle condizioni di un creatore assoluto… la poesia è il reale assoluto”. E Rimbaud: “Svelerò tutti i misteri: … morte, nascita, avvenire, passato, cosmogonie, nulla. Sono maestro in fantasmagorie”. E Nietzsche: “Da quando l’uomo si è perfettamente identificato con l’umanità, esso mette in movimento la natura intera… sono io stesso il fato e, dall’ eternità, sono io che determino l’esistenza”. Ma il mito del Wonderland si è dissolto nelle camere a gas di Bitler, nelle nevi della Siberia dove tanti cadaveri sono stati abbandonati, con una targhetta di legno alla caviglia. Un filosofo tedesco ha potuto dire che dopo Auschwitz non avrebbe potuto più esserci poesia. Eppure ora noi sappiamo che molti scampati alla shoah hanno resistito recitando a se stessi dei poemi, recitandoli ai loro amici: poemi del Wonderland, di tanto in tanto, ma spogliati del prometeismo, restituiti alla loro nostalgia fondamentale. Poemi anche di quei “traghettatori”, di quegli stalkers (nel senso che Tarkovskij ha dato a questa parola) tra i bagliori della parusia da una parte e la bellezza e l’orrore del mondo dall’ altra. Penso per esempio a Baudelaire, Eliot, Mandel’stam, Pasternak e la Achmatova.

    Echi della liturgia in Pasternak:
    Ma ogni carne dopo mezzanotte
    improvvisamente farà silenzio.
    La primavera diffonderà la notizia
    che dalla prima schiarita
    la morte sarà alla mercé
    del grande grido di Pasqua.

    Umiltà dell’ultima rosa in Achmatova:
    Signore, tu vedi quanto sono stanco
    di risuscitare, di morire e di vivere.
    Prendi tutto, ma di questa rosa rossa
    possa sentire ancora la freschezza.

    In seconda istanza, spero che in futuro si sviluppi una poesia liturgica illuminante che, pur attingendo alla grande tradizione d’oriente e d’occidente quale viene conservata nei monasteri benedettini o esicasti, ricorderà che Cristo continua a scendere agli inferi e che il nichilismo occidentale, planetario nel prossimo futuro (gli integrismi che pretendono di resistergli in realtà non ne sono che lo specchio), sì, che proprio il nichilismo è certamente oggi l’unico luogo possibile della risurrezione. Una poesia liturgica di questo tipo si staglierà come un’ alta montagna dove l’azzurro si condensa nella neve, che fa nascere i ruscelli, i torrenti, le praterie, i frutteti.

    Perciò sta nascendo, al di là del Wonderland, al di là anche del sarcasmo e dell’ironia contemporanei, una poetica umile e austera delle cose, delle sostanze, che parte dalla concretezza del loro apparire per scoprirvi la trans-apparizione della Sapienza, quella Sapienza, dice la Bibbia, che continuamente gioca con Dio nella creazione. Ogni cosa contemplata con l’occhio del cuore, si apre allora su orizzonti infiniti. Semplicità così profonda di un Giorgio Mazzanti, ne Il canto della Madre:

    – Oh il vento
    sulle foglie degli olivi,
    oh la luce dei mattini
    terreni –
    lo splendore dei tramonti.

    Poetica delle cose, avvenire dei volti, giacché il mondo, il mondo di Dio e dell’uomo, il mondo di Dio fatto uomo e dell’uomo chiamato a deificarsi, esiste solo nello spazio dell’incontro tra gli sguardi, della comunione tra i volti. L’arte astratta di Kandinskij ha permesso al suo amico Alexej von Jawlensky di accedere al mistero del volto, alle sue strutture segrete, al suo lik, dicono i russi, cioè alla sua potenziale icona (per distinguerlo da licina, che significa maschera):

    Sentivo il bisogno di trovare una forma per il volto, perché avevo compreso che la grande pittura è possibile solo se si ha un sentimento religioso, e questo potevo esprimerlo solo attraverso il volto umano.

    Tanti accenni in un Berdjaev, un Athenagoras, più recentemente in Emmanuel Lévinas, annunciano questa poetica dei volti e ogni tanto, anche alla televisione, in mezzo a tante facce, raffinate o bestiali, s’impone un volto di verità, di santità, come Veronica nella scena della passione di Hieronymus Bosch… Allora l’essere profondo dell’uomo si mette in movimento, ogni cosa, ogni persona sembra un miracolo.

    Una poesia di questo tipo è profetica. Non che essa indovini o predica l’avvenire. Nella sua umiltà, nella sua spoliazione, nella sua gloria segreta, essa non decifra l’avvenire, lo rende possibile. Pro-feta significa “colui che parla a favore di”. Colui che parla a favore di ciò che più è segreto, più inosservato, più disprezzato, più debole – quel Dio che Elia intuisce non nella tempesta, né nel terremoto, ma in un mormorio “al confine con il silenzio” -.

    Dobbiamo allora perseverare. Oggi tutto ciò che è essenziale sembra sotterraneo, come la grotta della natività, come la grotta del cuore. Bisogna che lo sia. Bisogna che il Dio della libertà e della gioia s’incontri con l’uomo “postmoderno”, che è adulto e nel contempo non accetta di esserlo, che è potente e insieme disperato, nel punto più segreto della sua angoscia e del suo desiderio.

    È il grido profetico di Dmitrij Karamazov condannato al bagno penale, a lavorare nei sotterranei, anche quelli dell’ anima, condannato per un crimine che ha consumato senza commetterlo, come tutti noi: Se si scaccia Dio dalla terra, lo incontreremo sotto la terra… Allora noi, gli uomini sotterranei, intoneremo nelle viscere della terra un inno tragico al Dio della gioia. Viva Dio e la sua gioia! Io lo amo!

  • 17 Mar

    Vangelo ed esistenza monastica oggi

    di Ghislain Lafont  *

    Svolgerò il tema assegnatomi come una meditazione, da fratello verso altri fratelli e altre sorelle con cui ormai da anni mi trovo in confidenza, e lo farò per così dire, da cuore a cuore, prima di toccare l’intelligenza della mente. In questa vostra Consulta il nostro comune cuore monastico si confronta con le tre parole del titolo – il vangelo, l’esistenza monastica, l’oggi – che rappresentano tutto il proposito professato, in quanto sono la carne e il sangue della nostra vita.

    1. Vangelo

    La parola è semplice, ma il contenuto infinito. Per ciascuno di noi la parola «vangelo» ha una risonanza propria. Ad esempio, per Lutero la parola «vangelo» era equivalente a «giustificazione del peccatore mediante la fede in Gesù Cristo», cosicché la grazia per lui diventava il principio interpretativo di tutta la Scrittura. Altri cristiani sono colpiti dall’inizio del vangelo di Marco: «Convertitevi e credete al vangelo; il regno di Dio è vicino».

    Dovendo fare anch’io la mia scelta, la parola «vangelo» mi conduce direttamente ai due comandamenti del Signore, che riprendo dal vangelo di Marco giunto ormai alla fine, prima della passione. Qui trovo la medulla di tutta la Scrittura, molto efficace nella versione di Marco dove lo scriba, che aveva fatto la domanda a Gesù su quale fosse il primo di tutti i comandamenti, è soddisfatto della risposta e la riprende quasi alla lettera, ricevendo alla fine la lode dello stesso Gesù: «Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio“» (Mc 12,34).

    In più, solo in Marco, qualche versetto dopo, segue la storiella della povera vedova con la sua piccola offerta al tempio che rappresenta tutti i suoi quattrini. Allora Gesù dice ai suoi discepoli: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Me 12,43-44). Qui finisce la vita pubblica di Gesù con l’esempio di una donna ebrea che non sa niente di Gesù e si reca ad un tempio che di li a qualche anno sarà distrutto. Potremmo dire: una che non è sulla strada giusta, non capisce niente, ma dà tutto! Mi colpisce il vangelo di Marco che si conclude con questa donna che non ha alcuna formazione teologica e non è nemmeno un’ebrea discepola di Gesù, ma che ha capito che per il tempio di Dio deve dare tutto.

    Riprendo la domanda centrale dell’intera rivelazione di Dio: che significa amare secondo il vangelo? Per Gesù nessuno ama di più di quando dà la vita propria per gli amici. Amare non è un sentimento, né una benevolenza o beneficenza, ma è qualcosa di più: un dare totale che suppone un ricevere totale. Riguarda la «propria» vita: in che senso? Stiamo tutti cercando oggi questo, cristiani battezzati o monaci?

    Per cominciare a rispondere, penso che tutti noi abbiamo grandi desideri, specialmente quando mettiamo in gioco i nostri interessi umani. Ciascuno di noi ha un desiderio d’infinito che non basta tutta la vita a soddisfare (come si sperimenta quando ci si avvicina con gli anni al traguardo finale … E vi dico che non mi dispiacerebbe la reincarnazione, perché ci sono tante cose che non ho avuto il tempo di fare!). Voglio dire: un uomo senza desideri non è un uomo, perché gli manca la spinta per una vita autentica. Bisogna sempre ricominciare ad aprire il cuore e l’intelligenza, in quanto è possibile comprendere di più grazie al desiderio di una identità personale sempre più grande e ricca.

    Eppure, il desiderio umano non può essere soddisfatto, e non solo per i limiti umani, ma perché accanto a me ci sono altri uomini e donne che hanno pure i loro desideri. Si verifica una interruzione del mio desiderio, al punto che mi piace formulare una specie di definizione (ormai alcuni di voi già la conoscono dato che la ripropongo in vari interventi!): «L’uomo è un desiderio infinito interrotto dal desiderio dell’altro». In effetti, è un’esperienza comune che non c’è posto per la soddisfazione di due desideri nello stesso momento: uno deve fare posto a quello dell’altro perché possa svilupparsi. Faccio spesso un esempio, che è riportato nel mio intervento uscito in questi giorni sul numero della vostra rivista camaldolese. Quando qualcuno chiama – e oggi il telefono funge quasi sempre da sostituto delle comunicazioni! -, significa che sono disturbato nel mio Io. Un altro, un estraneo, viene ad interrompere il mio desiderio: «Non ti aspettavo». Non so che cosa sta per dire la persona che chiama o che entra. Il cerchio dei miei desideri in cui ero contento e sviluppavo il mio essere è spiazzato. L’altro viene a manifestarmi il suo desiderio che attraversa la mia vita, perché ha bisogno di me per andare avanti.

    Ho l’impressione che, in un mondo dove c’è un eccesso di comunicazioni, dire «Pronto!» al telefono, oppure «Avanti!» a chi bussa alla porta, diventino delle frasi insensate, o addirittura ipocrite se dette malvolentieri. Comunque, ogni volta che uno si rivolge all’altro, la sua parola è già una richiesta che esige la mia disponibilità ad ascoltare il suo volere, specie se dico: «Che vuoi?». Il suo desiderio mi interrompe, ancor prima che lui mi chieda, ad esempio: «Dammi una mano!». Così l’altro che si rivolge a me può farlo perché mi conosce. Ma non è sempre così, perché altre volte anche verso di me potrebbe parlare con più prudenza.

    Com’è possibile tralasciare ciò che si sta facendo per ascoltare la domanda dell’altro? Più che il desiderio del mio adempimento, è in gioco una relazione più profonda: il nostro adempimento. Mediante la dinamica della parola capisco che l’altro fa parte di me e che la cosa importante è la nostra vita. Il mio desiderio è modificato nel nostro desiderio perché l’esistenza è costellata di un continuo scambio di invocazioni, di domande, di azioni comuni, giungendo finalmente alla scoperta che, mediante la rinuncia al mio desiderio, si gode insieme la pienezza del «noi». Qui nasce la comunione che costituisce la comunità.

    Facendo un passo in più, possiamo dire che l’esperienza ci fa capire che l’amore è «morte», piccola se volete: abbandonando il mio desiderio, devo morire a quanto facevo per vivere ad un altro livello. Certo, una morte che non è distruzione, ma interruzione in vista, per così dire, di un «risorgere». Lo diceva anche la spiritualità classica di «morire a se stessi», ma la dinamica costante legata al desiderio riflette più la sensibilità contemporanea o, meglio, quella che vi offro io, per mettere in luce una differenza importante: mentre nel linguaggio classico morire a se stessi è ancora egotico, cioè una cura di me stesso per diventare più perfetto, nella prospettiva del desiderio interrotto dalla parola dell’altro diventa centrale l’ascolto per creare una comunione. Questa è la cellula costitutiva dell’amore.

    Come già dicevo in altre occasioni, un amore di questo tipo implica un uomo e una donna ricchi di sensibilità, cioè capaci di percepire tutti gli appelli che possono provenire dall’esterno. Possiamo chiudere tutti i sensi, ma, per quanto ci sforziamo, con l’orecchio non è possibile farlo del tutto. Ciò significa che siamo fatti per ascoltare e, pur sapendo quanto sia difficile lasciare che la parola dell’altro entri davvero in me prima di rispondere, soprattutto senza aver fretta di trovare le mie parole, mi sento di affermare che l’uomo è fondamentalmente ascolto. Infatti già l’ascolto è una rinuncia: il mio orecchio, la mia intelligenza, il mio cuore è così orientato verso l’altro che è una perdita di me stesso.

    Allora l’amore perfetto di cui parla Gesù nel vangelo – amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutte le forze – è un ascolto della parola, sostenuto da un desiderio di essere in comunione con l’altro, a qualunque prezzo. Se questo ascolto riesce, l’amore c’è, come pure la mia identità vera: finalmente scopro che non posso essere io senza l’altro e viceversa. Amare Dio secondo il vangelo significa ascoltare Lui quando per primo ci bene-dice: «Ti voglio bene». Un ascolto della parola di un Dio che dona, non che domanda o comanda.

    In origine non c’è dunque l’interruzione del mio desiderio, ma l’offerta di un dono da ricevere, il che è per noi sempre faticoso, perché è ancora una morte a noi stessi: accettare che l’altro mi ricordi il mio limite, una mia relativa incapacità, per aprirmi a lui e diventare una comunione. Se Dio Padre dona tutto invitandoci a dargli tutto, noi possiamo avere le vertigini, immersi in una circolazione infinita dove nessuno possiede niente, ma tutto è ricevuto e scambiato.

    Finora non ho introdotto la parola «peccato». Potremmo pensare che il discorso sia troppo «paradisiaco»: nel giardino di Eden l’uomo e la donna si volevano bene prima del peccato, quando le rinunce non costavano e l’armonia era sempre goduta. In questo stesso paradiso Dio pronuncia una parola di domanda, che, come le vere domande, sono una sorpresa, perché non sono mai ragionevoli: «Non toccare quell’albero perché ti farà male». Se l’uomo non l’avesse toccato, il rapporto con Dio sarebbe stato libero, avrebbe amato secondo la dinamica di morte-risurrezione, che in tal modo non è legata al peccato, come vado dicendo da un po’ di tempo. È importante infatti non vedere dappertutto il male e il peccato, ma capire che le persone, anche quando sono esigenti, lo sono in vista di una comunione, da ritrovare persino dietro quelle parole di domanda che non sono sempre gradevoli.

    Da tutto ciò anche la morte-risurrezione di Gesù non è prima di tutto legata al peccato, ma all’amore. Gesù era una persona che sapeva amare, in ascolto di ogni parola del Padre e di ogni uomo, sempre pronto a rispondere. Ma siccome il peccato ha portato un disordine che ferisce profondamente tutti, la dinamica di morte-risurrezione diventa molto più temibile, senza tuttavia perdere la sua essenza originaria di comunione che Gesù ha vissuto anche prima della passione. E se diciamo con san Giovanni che «Dio è amore», ci riferiamo ad un Dio trinitario che è Dono, dove il Padre genera sempre tutti e tutto, il Figlio è rendimento di grazie (il «Si» al Padre, secondo san Paolo) e lo Spirito Santo è il desiderio permanente che spinge alla comunione. Dicendo Dono, vuol dire che in Dio non c’è alcuna proprietà.

    Provando a concludere questo primo punto, la parola amore significa che l’identità si trova nella perdita e che il «se stesso» si trova «nell’altro», Dio o il prossimo. Il vangelo dunque come buona novella è la rivelazione dell’amore che possiamo offrire a tutti per entrare in dialogo (comunitario, ecclesiale, interreligioso … ). È la prima e ultima parola che dà senso a tutto, sempre ché sia intesa sul modello di morte-risurrezione. Un proverbio dell’Africa meridionale dice che l’amore è come l’acqua calda: se non mettiamo la legna sul fuoco, si raffredda, cioè il sentimento di generosità non basta se non c’è la legna del dare-ricevere.

    2. Esistenza monastica

    Ciò che ho detto finora vale per la vita cristiana e quindi anche la vita monastica è governata dal principio-amore che si ritrova nelle beatitudini come programma di vita per tutti. Ora, per cercare lo specifico della vita monastica, bisogna ricollegarsi al fatto che, rispetto al tempo in cui io sono diventato monaco più di sessant’anni fa, la Chiesa del concilio Vaticano II e dell’immediato periodo successivo ha modificato il posto, diciamo, della vita religiosa. La Costituzione dogmatica Lumen gentium, semplificando un poco, tratta i religiosi dopo i laici, cosicché, dentro il cap. 2 sul popolo di Dio, c’è il seguente ordine: gerarchia laici religiosi, mentre in passato c’era una scala discendente: gerarchia religiosi laici. Sappiamo quanto è ancora difficile far seguire un cambiamento di mentalità, specialmente sulla figura del laico che rischia di essere definito secondo il «non»: non è un prete, non è un religioso.

    Ora, per tornare al compito assegnatomi, in base a questi presupposti mi chiedo che cos’è la vita monastica. Riprendendo l’immagine del paradiso, là ci sarebbe stato posto per dei monaci? Una domanda del genere non se la ponevano i miei confratelli negli anni in cui ero novizio, in quanto tutto ruotava attorno al peccato, quale eredità dello spirito medievale, che vedeva nella vita monastica una scelta per ritrovare la strada giusta, diciamo in modo sicuro, rispetto al cammino secolare considerato molto pericoloso. La mia risposta alla domanda sul posto dei monaci nel paradiso terrestre è chiara: «Si, è possibile!». Lo è perché un/a monaco / a è chiamato/ a dedicare direttamente la propria vita a Dio e ai fratelli e alle sorelle, senza sentirsi attratto/ a dal matrimonio, ove, sempre con la stessa qualità dell’amore secondo il vangelo, c’è la mediazione del corpo in vista di una famiglia. È possibile che nel paradiso, dove tutti obbediscono alla parola di Dio e si ascoltano a vicenda, ci sia qualcuno chiamato ad un dono esclusivo per Dio solo, restando disponibili per tutti gli altri, non già per negare alcunché. Ci troviamo in entrambi i casi, matrimonio e verginità, nel mistero di Dio: ci crediamo e basta. Se ci sono troppe spiegazioni, si può perdere di vista la medesima direzione di comunione universale.

    Con questa risposta positiva per Dio solo e per i fratelli, si comprende meglio la dialettica tra l’eremita e il cenobita, da sempre presente nella tradizione monastica, ma che è proposta con forza nell’esperienza camaldolese. Nella vita di solitudine viene ancor più sottolineata l’esclusività per Dio solo, il che è molto difficile perché non si deve spegnere la spinta al dono verso gli altri; c’è il rischio infatti che l’eremita diventi egoista oppure perda l’equilibrio umano. Per questo oggi il silenzio viene proposto in forme diverse, più mitigate, per salvaguardare l’ascolto della parola di Dio insieme con alcuni fratelli o sorelle con cui si fa comunità. Poi, oggi, la stessa vita fraterna, rispetto a cinquant’anni fa, si apre molto di più all’accoglienza e all’ospitalità.

    Questa visione della vita monastica secondo i tre livelli di amore – solitudine, cenobio, ospitalità – è molto semplice, nel senso che non ci sono tante cose da fare oltre che stare con Dio, con i fratelli e con quanti bussano alle nostre porte. Auspico di ritrovare nelle nostre comunità una specie di «grado zero» della vita cristiana. Ovviamente, si tratta di una linea di tendenza che attraversa lo spessore della tradizione e delle varie forme istituzionali e che richiede molto discernimento su che cosa conservare e su che cosa tralasciare, anche quando si è accettata la diversità di linguaggi e di culture.

    3. L’oggi

    In Europa il calo delle vocazioni religiose maschili in quarant’anni (1965-2005) risulta del 34%. In pratica siamo un terzo in meno, e credo che almeno la metà di coloro che rimangono siano oltre i sessant’anni di età. Le previsioni non sono rosee, perché nel giro di vent’anni si rischia di diminuire, se si va di questo passo, ancora di un altro terzo. Che significa tutto ciò, almeno in Occidente?

    Di solito si fa il confronto con il resto del mondo dove non si registra il calo, specialmente dove la civiltà europea non ha prevalso. Dovremmo concludere che la scelta religiosa è legata al tipo di civiltà e che quindi la modernità non è il terreno adatto per lo sviluppo di certe scelte? Domande complesse per risposte difficili, almeno per me! L’eventualità di una morte potrebbe affacciarsi, anche per la situazione attuale del mondo sotto ogni profilo. Condivido l’opinione di coloro che dicono che siamo ad un momento un po’ cruciale della storia, quando qualcosa sta morendo e qualcos’altro sta nascendo.

    Che cosa sta morendo? La cultura occidentale, fin dalla filosofia platonica, è stata contrassegnata più dal paradigma della verità che da quello dell’amore (ma la cosa si trova anche nella civiltà indiana e altrove). Se il mondo deve tornare sotto il segno della verità, vuol dire che i sensi c’ingannano e ci conducono ad una vita falsa, non autentica. Quindi la vera vita va cercata altrove, sempre «al di là», perché altrimenti siamo nella menzogna o nella sofferenza. La fuga dal mondo e dai desideri del corpo diventa il cardine di questo modello che sostanzialmente conduce alla staticità e alla atemporalità.

    L’inizio del cristianesimo ha visto l’assorbimento di questa cultura per troppi aspetti, soprattutto per trovare la stabilità e l’identità vera combattendo strenuamente contro «ciò che è» a favore di «ciò che dovrebbe essere». Lo scopo è stato di passare dall’imperfetto, sempre colpevole, al perfetto. Ma già in santa Teresa d’Avila, secondo la quale Dio è dappertutto ma non altrove, possiamo vedere l’invito a correggere la concezione precedente: Dio è qui non solo come Padre misericordioso che manda il Figlio a correggere tutti i nostri difetti, ma come colui che dona una persona vera al nostro essere personale, comunitario, politico. Invece di cercare la verità al di là, siamo chiamati a trovarla qui, ora.

    Applicando tale visione alla vita religiosa, essa è da intendere non quale rimedio ai difetti del tempo, ma quale ricerca dei valori positivi che permettano al mondo di vivere cosi come è. Testimoni di questo cammino di morte-risurrezione quali sono stati Dietrich Bonhoeffer (pastore evangelico) e Etty Hillesum (ebrea non praticante), partono dal presupposto che il mondo è buono, anche se poi i difetti vanno osservati. Ma è diverso se lo si fa nella prospettiva di un ottimismo di base: per esempio, ci sono delle lettere inviate da entrambi dal lager (segnalo anche quelle di Etty Hillesum che sono meno note … ), in cui, pur vedendo tutto il male atroce dello sterminio, è conservata la meraviglia per la bellezza-bontà del mondo.

    Come dicevo all’inizio, se Dio è amore, è molto più che un essere di misericordia, che è ancora troppo legata alla miseria umana. Prendiamo la Messa. Tutto quanto viene offerto è già segno della grazia in me e negli altri se proviene dall’amore. Il rendimento di grazie eucaristico comincia qui, non dal peccato che purtroppo nelle nostre preghiere conserva ancora il primato. Si tratta dunque di mettere un ordine diverso in cui la preoccupazione per il peccato e per la penitenza sia vissuta alla luce dell’amore, che è la sorgente dell’atto di fede.

    Anche la presenza di Dio è messa in questione dato che Lui non si vede, come pure il bene, che non fa notizia nei mass media, troppo pieni di informazioni su catastrofi, disgrazie, guerre. Ma se invece guardo con occhi diversi a ciò che le persone fanno per stare al mondo con dignità, lottando anche contro tante difficoltà, allora posso trovare il modo di ringraziare Dio perché la gente fa quello che può e quindi va incoraggiata. La speranza può sorgere e risorgere come primato dell’amore qui, oggi: mentre in altri tempi ci si rifugiava nell’al di là, nel cielo, oggi si cerca il futuro perché nell’indomani è sempre possibile fare qualcosa. Non lo penso solo come teologo; infatti anche nella cultura filosofica, sociale e politica le previsioni più catastrofiste hanno avuto il contrappeso di altre visioni più aperte ad una discussione sulle potenzialità che tengono in piedi il mondo.

    Le conseguenze per la vita religiosa, o meglio per la vita monastica, quali potrebbero essere? La forma attuale dei monasteri sparirà, forse all’80%, e non so quale sarà quella che verrà perché non ci sarò più … Comunque, pur in questa morte, i giovani hanno bisogno di sentirsi incoraggiati, dentro e fuori la vita religiosa, a costruire una civiltà basata sul principio-amore che, come dicevo nel primo punto, è il Dono di un Dio unico sempre in comunicazione. E nel pensare alla riforma a largo respiro dei nostri eremi e cenobi, il cardine deve essere la manifestazione della bontà del mondo, mediante, da un lato, una conversione dei singoli ad una visione della vita non più angosciata dal peso del peccato e della morte, e dall’altro, un’attenzione premurosa di tipo umanistico ai fermenti culturali, alimentata dalla speranza di scoprire «se stessi come un altro» (Paul Ricoeur).

    Una sfida grossa per la vita religiosa che, radicandosi nell’immagine di Dio Amore presente in tutti, si pone al servizio di tutto ciò che è buono del mondo, senza più lamentarsi del male e della miseria. Sarebbe forse la prima volta nella storia dell’umanità!

    * Monaco dell’abbazia francese di La Pierre-qui-Vire, è professore emerito di teologia dogmatica al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo e alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Per desiderio dell’A., che ha rivisto il testo tratto dalla registrazione magnetica, l’articolo mantiene il tono colloquiale dell’intervento tenuto a Camaldoli il 3 ottobre 2008, in occasione della Consulta della Congregazione camaldolese dell’Ordine di san Benedetto.

    (da Vita Monastica, n. 243, luglio-dicembre 2009)

  • 16 Mar

    Fondamenti di Vita Monastica

    una guida spirituale

    P. Placide  Deseille


    PROLOGO

    Regola fondamentale – e in certo senso unica – del monaco è l’Evangelo, che egli si impegna a mettere in pratica radicalmente in una vita profetica. Dovrà cercare in tutto di seguire l’esempio e l’insegnamento del Signore Gesù, che si è fatto volontariamente il servo di tutti, mite e umile di cuore. Dovrà lasciarsi penetrare dallo spirito delle beatitudini e del discorso della montagna;  alla conformità ad essi ci conduce, nel profondo del nostro cuore, lo Spirito santo che è stato riversato in noi e che ci vuole plasmare a immagine del Figlio diletto del Padre.

    1.  LA VITA MONASTICA

    È per unirsi a Dio con cuore indiviso e per vivere di Lui solo che il monaco ha lasciato il mondo, rinunciando alle sue gioie più legittime. Il timore di Dio, un amore radicale, la profonda conoscenza della sua grandezza e della sua santità, e al tempo stesso della sua sconvolgente vicinanza, ispireranno tutte le scelte e le decisioni del monaco e unificheranno la sua vita.

    2.  LA PREGHIERA CONTINUA

    Il monaco ha rinunciato a formarsi una famiglia, si è liberato dalle occupazioni del mondo per esprimere con tutto il proprio essere – anima e corpo – la sua consegna piena e radicale al Signore. La potenza del Cristo risorto l’ha raggiunto, l’ha strappato alle condizioni normali dell’esistenza umana, per consentirgli di vivere in una comunione cosciente e il più possibile continua con la santa Trinità. La sua vita è una profezia vivente della Gerusalemme celeste, nella quale entrerà tutta l’umanità salvata dopo la risurrezione finale. Per questo la preghiera – in chiesa o in cella – sarà la sua prima occupazione; consacrerà lunghi momenti alla lode di Dio e all’intercessione per tutti gli uomini, e si sforzerà di trasfigurare anche le sue occupazioni più materiali facendone una liturgia interiore.

    3.  IL COMBATTIMENTO INVISIBILE

    Il deserto è il luogo nel quale Dio si rivela all’uomo e parla al suo cuore, ma è anche l’arena dove ci si consegna a un’aspra lotta contro tutte le tendenze sregolate che portiamo in noi. Nella solitudine queste tendenze si manifestano più facilmente, sotto forma di “pensieri“, cioè di suggestioni, impulsi, fantasie malvagie. Il monaco potrà resistere soltanto se instancabilmente supplica Cristo, vincitore di Satana, di risvegliare in lui, mediante il dono dello Spirito santo, impulsi e desideri buoni, capaci di elevarlo al di sopra delle tentazioni. “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dia, abbi pietà di me, peccatore!“.

    4.  LE PASSIONI

    La tradizione monastica ci ha consegnato il catalogo delle otto principali tentazioni, dei “pensieri” malvagi, che muovono guerra all’uomo gola, lussuria, amore per il denaro, tristezza, collera, acedia, vanagloria, superbia.  Questa lista dei nemici della vita spirituale può aiutarci a restare vigilanti e a smascherare i loro assalti.

    5.  IL DISCERNIMENTO

    La legge di Cristo non consiste semplicemente in un codice esteriore di precetti, ma si identifica con la presenza interiore dello Spirito santo che trasforma i nostri cuori, donando loro il senso e il desiderio di ciò che piace a Dio. Il monaco dovrà dunque essere quanto mai attento alle ispirazioni e alle mozioni dello Spirito di Dio.  Satana però è molto abile nel trasformarsi in angelo di luce; occorre dunque discernere l’origine delle ispirazioni che riceviamo e la reale natura delle nostre motivazioni. Da questo dipende la qualità spirituale dei nostri atti e non soltanto la loro rettitudine esteriore. Ogni azione buona in se stessa può essere viziata da una motivazione impura. Questa vigilanza su di sé non deve essere confusa con un’introspezione minuziosa e soffocante;  saranno piuttosto l’umiltà del cuore e una serena attenzione alla divina presenza a consentire all’anima di percepire come d’istinto ciò che è in dissonanza con lo Spirito di Dio.

    6.  IL RICORSO AL PADRE SPIRITUALE

    Nessuno è buon giudice di se stesso.  Per questo motivo normalmente ci è necessario l’aiuto di un altro, per vagliare i nostri desideri e discernere le decisioni da prendere nella nostra vita. Il vero discernimento degli spiriti è un carisma che generalmente è accordato solo a chi ha un cuore profondamente rappacificato. E così i padri hanno sempre insistito sulla necessità della manifestazione dei pensieri a un padre spirituale.

    7.  L’UMILTÀ

    L’umiltà di cuore è l’anima di ogni forma di ascesi nella vita monastica.  L’ascesi non è altro che un mezzo per esprimere – anche con il proprio corpo – e per radicare profondamente dentro di noi una rinuncia vera alla nostra pretesa autosufficienza, all’affermazione e all’esaltazione del nostro io, alla nostra sete di onore e di stima, e tutto questo affinché non siamo più noi stessi a vivere in noi, ma il Cristo (cf: Gal 2,20), che è l’amore, e che ha donato se stesso al Padre e agli uomini.

    8.  L’OBBEDIENZA

    La tradizione monastica ha considerato l’obbedienza come la migliore espressione dell’umiltà vera e non illusoria. Chi obbedisce, infatti, non si ritiene superiore agli altri; rinuncia a imporre le sue idee, i suoi gusti, le sue preferenze; egli non ricerca il proprio interesse, ma quello degli altri e – a imitazione del Signore – preferisce servire piuttosto che essere servito.

    9.  LA CARITÀ

    Sostentati dal medesimo pane eucaristico, dissetati dallo stesso Spirito, i cristiani sono una sola cosa nel corpo di Cristo. L’amore vicendevole è così la legge fondamentale della loro vita, un amore che esige l’incessante dono della vita per gli altri attraverso le molte rinunce – umili ma spesso assai dolorose – che la vita quotidiana porta con sé. La comunità monastica è un luogo privilegiato per esercitarsi in questo amore che, attraverso la morte a noi stessi, ci fa entrare nella vita e nella gioia dell’indivisibile Trinità.

    10.  L’OSPITALITÀ

    L’amore cristiano è universale. La carità del monaco non può dunque limitarsi, anche sul piano della sua realizzazione pratica, agli orizzonti della comunità. Essa deve rimanere aperta e saper accogliere ospiti e pellegrini attraverso i quali Cristo viene a visitarla. I monasteri saranno così dei luoghi di preghiera e di vita spirituale per tutti quelli che cercano Dio. Per molti una breve visita al monastero, l’accoglienza di un fratello, la partecipazione a un Ufficio, saranno l’occasione per intravedere, oltre la dura scorza della vita quotidiana, la presenza segreta del regno di Dio su questa terra.

    11.  IL SILENZIO

    Il silenzio è una condizione indispensabile per una preghiera profonda ed è al tempo stesso un frutto di questa preghiera. Deve tuttavia essere praticato con discernimento, e non avrà alcun valore spirituale se non è accompagnato dal silenzio del cuore, al quale si giunge soltanto con una strenua lotta contro le divagazioni dello spirito, contro le preoccupazioni inutili e contro la ruminazione interiore dei desideri frustrati, delle tristezze, delle gelosie e dei rancori.

    12.  LA POVERTÀ

    La rinuncia ad appropriarsi i beni materiali e l’abitudine ad accontentarsi di poco costituiscono, per il monaco, un mezzo per esprimere e per realizzare un perfetto spossesso di sé. Mediante questa povertà evangelica egli rinuncia a chiudersi nella propria autosufficienza e nel proprio individualismo, per entrare più pienamente in comunione con Dio e con gli uomini. La povertà testimonia la preferenza che accordiamo ai beni del regno di Dio rispetto ai beni terreni, il nostro abbandono filiale al Padre celeste e il nostro amore per il prossimo.

    13.  L’AUSTERITÀ DI VITA

    Nell’uomo, anima e corpo sono uniti a tal punto che il comportamento esteriore è il segno e il coadiutore efficace degli atteggiamenti interiori, che dispongono il cuore ad accogliere la grazia o che sono il frutto di questa accoglienza. Per questo il monaco deve unire, alla lotta contro i pensieri e alla pratica delle virtù evangeliche, l’ascesi del corpo. Essa gli consente di attualizzare, in una maniera veramente personale e che lo impegna con tutto il suo essere, il mistero della morte e della risurrezione al quale è stato iniziato attraverso il battesimo.

    14.  IL DIGIUNO E IL DOMINIO DI SÉ

    In un racconto di grande portata simbolica il Libro della Genesi ha descritto il peccato d’orgoglio di Adamo e di Eva come una disobbedienza a un divieto concernente il cibo. E gli Evangeli mostrano nel digiuno di Cristo nel deserto uno dei primi gesti significativi mediante il quale egli manifestava che suo cibo era fare la volontà del Padre suo ed esprimeva la sua dipendenza filiale nei suoi confronti, prefigurando così l’offerta di sé sulla croce. In tutta la Scrittura il digiuno intende esprimere l’umiltà del cuore, la supplica insistente e l’attesa di Dio.  L’obbedienza alle regole del digiuno e la sobrietà riguardo al cibo aiuteranno il monaco a spogliarsi del suo egoismo, del suo “io” carnale e diventeranno simbolo della trasfigurazione progressiva del suo essere per opera dello Spinto santo.

    15.  LE VEGLIE

    La silenziosa oscurità della notte favorisce il ritorno al cuore e la preghiera. D’altra parte, nulla meglio delle veglie è in grado di esprimere la vigilanza dell’anima attenta a non lasciarsi vincere dal torpore spirituale, e il desiderio di incontrare Dio nella preghiera e nell’ascolto della Parola, nell’attesa del suo ritorno.

    16.  LE METANÌE

    Stare in piedi, chinare il capo, prostrarsi costituiscono gli atteggiamenti tradizionali della preghiera cristiana. Mentre la posizione eretta esprime la gioia pasquale, la piena confidenza con la quale ci rivolgiamo al nostro Padre celeste, l’inchino del capo e la prostrazione simbolizzano l’adorazione, la coscienza della nostra piccolezza e della nostra fragilità dinanzi alla santità divina e la compunzione che nasce al ricordo dei nostri peccati. Questi atteggiamenti favoriscono il risveglio della nostra sensibilità spirituale profonda.

    17.  IL LAVORO

    Ogni giorno il monaco deve consacrare diverse ore a un lavoro, che gli consenta di guadagnarsi la vita e di aiutare gli altri. Questo lavoro sarà contemporaneamente un esercizio di ascesi e un fattore di equilibrio e di realismo spirituale. Dovrà essere adempiuto in un clima di preghiera e di carità fraterna, con coraggio e generosità, ma evitando l’eccessiva agitazione e l’attivismo.

    18.  AGIRE NEL SEGRETO

    Il monaco deve fare tutto quello che dipende da lui, per testimoniare Cristo e non causare scandalo a nessuno. Il desiderio di essere gradito agli uomini o il timore di non esserlo, la ricerca della loro stima e della loro considerazione, non dovranno però mai trasformarsi nelle motivazioni di fondo del suo comportamento. Desideroso di vivere soltanto per Dio, sotto il suo sguardo, si sforzerà piuttosto di nascondere tutto quello che potrebbe attirare su di lui l’attenzione o metterlo in mostra. Niente è più contrario allo spirito dell’Evangelo che il rispetto umano e il fariseismo.

    19.  UMILE FIDUCIA

    La nostra salvezza non può venire dall’uomo, ma da Dio solo. La condizione fondamentale del progresso spirituale è non sperare nulla da se stessi e sperare tutto da Dio. Per diverse vie il Signore ci può condurre alla convinzione intima, reale della nostra debolezza e della nostra impotenza. Può permettere a questo fine dei lunghi periodi di aridità interiore, dei ‘fallimenti’ dolorosi e perfino la ricaduta negli stessi peccati. L’importante è non scoraggiarsi, non rinunciare a perseguire uno scopo apparentemente inutile, ma restare al proprio posto e ricominciare senza stancarsi la lotta, supplicando il Signore dal profondo del cuore di venire in nostro aiuto. Si dovrà forse attendere a lungo, prima che la fiducia in noi stessi – profondamente radicata in noi – venga estirpata. Ma Dio è fedele, e il suo intervento è altrettanto certo quanto il sorgere dell’aurora dopo la notte.

    20.  IL DONO DELLO SPIRITO SANTO

    Il cristiano è rinnovato dallo Spirito santo nel battesimo e gli altri sacramenti accrescono in lui questo dono iniziale. Ma esso sfugge alla sua coscienza, non dà ordinariamente l’esperienza di Dio. Perché l’uomo prenda coscienza della presenza intima di Cristo, perché acquisti il gusto e il senso profondo di Dio e delle cose di Dio ed esperimenti così un rinnovamento interiore decisivo, sono necessarie nuove effusioni dello Spirito. Questi doni che aprono la nostra vita spirituale all’esperienza e che segnano l’ingresso nella piena maturità cristiana, sono totalmente gratuiti; non sono legati a un sacramento, non sono accordati abitualmente se non a quelli il cui cuore è stato purificato da una lunga lotta spirituale, condotta con l’aiuto segreto della grazia. Nel mondo monastico, gli uomini che ne sono favoriti si sono generalmente mostrati avari di confidenze su tal genere di esperienze. Soltanto chi ha gustato può conoscere il sapore; parlarne sarebbe esporsi all’incomprensione e rischierebbe di eccitare l’immaginazione di quelli che non hanno ancora avuto accesso a tali esperienze e di farli sprofondare nell’illusione. Quello che ci lasciano intravedere dei doni di Dio, tuttavia, è in grado di ravvivare il nostro fervore e ci fa meglio comprendere il senso del nostro sforzo spirituale.

  • 16 Mar

    “DI INIZIO IN INIZIO…”

    FASI DEL CAMMINO E SUO SVILUPPO

    di p. Attilio Franco Fabris


    Scrive Allport nel suo studio su L’individuo e la sua religione: “A somiglianza di un tessitore di arazzi, l’uomo è obbligato a lavorare dietro al disegno che crea. Tenendo i fili separatamente ed inserendoli con cura, può soltanto sperare che il modello da lui formato sia intero quando lo vedrà dalla parte anteriore. Da dietro  il telaio l’intrico di fili appare sconcertante. Strutturare un modello integrale è compito la cui durata comprende una vita intera ed anche più”.

    Nella vita l’uomo si pone un progetto dinanzi, delle tappe da raggiungere, nella speranza che alla fine tale progetto si realizzi pienamente. Così anche nella vita spirituale bisogna aver chiaro quale è l’ideale che ci viene posto dinanzi dalla Parola di Dio. Questo fa sì che si abbia chiaro quale sia il filo conduttore ed unificatore di tutto il nostro cammino.

    Per evitare abbagli ci viene rassicurato dalla teologia spirituale che non si tratta di un ideale di  perfezione ontologica, ovvero del raggiungimento (impossibile) della perfetta misura della grazia santificante (ciò fu possibile solo in Gesù e in Maria sua madre). Non si tratta di un ideale di perfezione ascetica in conformità alle virtù. Tutto ciò sarà, ma solo come conseguenza del vero e autentico scopo della vita spirituale che è l’orientamento e la tensione di tutto noi stessi ad un dialogo di fede con il Padre, dialogo che si attua con Cristo e per Cristo nella forza dello Spirito d’amore nella Chiesa.

    Guida e modello del nostro cammino è Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita”, al quale siamo chiamati a conformarci.

    Tale orientamento dovrebbe idealmente essere il più possibile armonioso: ossia dovrebbe dipanarsi e svilupparsi nella totalità della persona e in tutte le sue dimensioni. Nei trattati di teologia spirituale ritroviamo degli itinerari ben delineati e precisi in questo senso.

    Ma sappiamo bene che ciò, il più delle volte, non può avvenire: l’esperienza dice che il ritmo di crescita non vede quasi mai un progresso strettamente parallelo tra le varie dimensioni presenti nell’uomo.

    In tal senso, detto per inciso, un obiettivo parallelo a quello fondamentale di carattere teologico, o meglio una conseguenza, è il poter giungere ad una sempre maggiore unificazione del nostro essere (i santi ci appaiono persone unificate e perciò pacificate). Questo tenendo conto che il peccato originale ha sovvertito l’ordine e l’equilibrio che erano dati all’uomo; l’unificazione e pacificazione appaiono uno dei frutti del cammino spirituale soprattutto di conversione.

    Non possiamo così aspettarci che il cammino spirituale sia piano e dritto. Esso segue invece ritmi alternati, imprevedibili, diseguali ( s. Ignazio parla di tempi di desolazione e di consolazione!). Esso infatti è “molto più vivo, mobile, imprevedibile, misterioso, ricco della vita biologica” (Thrular). Esso non procede meccanicamente quasi assommando i nostri meriti, ma in modo discontinuo a seconda dell’intensità delle nostre operazioni spirituali. Ed è altrettanto vero che è “sempre Dio che fa crescere”, ovvero che il progredire dipende direttamente da Dio e soltanto indirettamente dall’uomo.. In questi agisce, si muove e opera lo Spirito santo che “soffia dove vuole”(Gv 3,8).

    Forse l’immagine di cammino spirituale risulta generica ed imprecisa: essa rimanda infatti, in certo qual senso, solo a cambiamenti di luogo  più che a progressive trasformazioni interne della persona stessa. Qualche autore spirituale propone una visione spaziale più complessa: la spirale. La linea a spirale avanza e sale, ma nel medesimo tempo torna su se stessa se pur a livelli sempre superiori al precedente, incontra sì gli stessi punti di riferimento ma su un altro piano. Fuori di metafora quel che si vuol dire è un concetto importante: il progresso spirituale non consiste tanto e in primo luogo l’apprendimento di realtà nuove diverse dalle precedenti, (i paesaggi che cambiano), quanto invece sul tornare sulle nostre medesime realtà interiori ma viste con uno sguardo diverso, a diversa profondità, con una fede diversa (così ad es. la nostra vocazione, la nostra storia, il nostro limite, il nostro peccato…).

    Forse anche l’immagine della crescita organica e psichica della nostra natura umana è la più adeguata a descrivere il tipo di crescita spirituale: l’organismo attraversa varie fasi, cambia, si trasforma pur rimanendo sempre lo stesso.

    Nella storia della spiritualità si sentì subito la necessità di una riflessione sistematica sul progredire della vita cristiana. Già s. Paolo ad es. comincerà a distinguere cristiani “bambini” bisognosi di latte e “adulti” capaci di cibo solido.

    Furono tentate diversissime sistematizzazioni basate ad es. sui gradi della carità, sui gradi dell’ umiltà (RB)… La suddivisione di origine patristica fu quella maggiormente accolta essa distingueva tre fasi: la purificazione l’illuminazione e l’unione.  Nei secoli seguenti essa fu ripresa vista però con i termini di:  fase dei principianti, dei proficienti dei perfetti.

    Gli incipienti.

    Sono coloro che intraprendono deliberatamente la via interiore, generalmente  motivato da una prova o da una illuminazione, le quali generano un desiderio di una perfezione più alta e di una vita cristiana più autentica. Si verifica conciò una vera e propria conversione all’interiorità. Nell’intraprendere questa discesa in sé stesso l’incipiente percepisce gli ostacoli e le ripugnanze verso la vita soprannaturale: il primo esercizio è l’esame di coscienza, la pratica delle virtù, la penitenza. Scopo di questo periodo è principalmente la purificazione dell’anima sempre più in profondità. I dinamismi della persona (mente, cuore, affetti) sono sempre più indirizzati a Dio.

    I Proficienti.

    Qui l’anima sperimenta una fase spirituale più pacificata. L’illuminazione spirituale è più intensa e quasi nulla è concesso al peccato anche veniale. Sarà importante conservare la tensione del fervore dello Spirito perché il progresso divenga continuo. La maggior parte si arrestano qui. Nel grado dei proficienti si cerca la conformazione a Cristo. Cristo diviene l’oggetto di un amore personale, il che implica la custodia del cuore e il raccoglimento dello spirito. Tutte le creature ormai non sono più considerate in se stesse, ma in relazione alla volontà di Cristo per la gloria del Padre. Le virtù preponderanti sono l’abnegazione di sé affinché Cristo possa crescere in noi e l’umiltà. scopo di questo grado è l’illuminazione della mente e la conformità a Cristo nell’azione, grazie all’eucaristia e alla familiarità col vangelo.

    I Perfetti.

    Questo terzo grado non indica uno stato senza possibilità di ulteriore progresso, ma piuttosto uno stato in cui le condizioni per un progresso continuo sono possedute in modo permanente e stabile. Qui l’uomo spirituale è ormai abitualmente docile alle ispirazioni dello Spirito Santo e la sua vita è tutta permeata dalla virtù teologale della carità.

    Come non ricordare il cammino classico proposto dal grande mistico Giovanni della Croce: la vita spirituale interpretata come salita al Monte Carmelo verso la cima “dove abitano soli l’onore e il piacere di Dio”. Lungo la salita l’anima andrà incontro alla purificazione dei sensi, il cui scopo è di sottometterli alla ragione sorretta dalla grazia, procede poi la purificazione dello spirito, grazie al quale questo si sottomette all’azione dello Spirito santo.

    Sulla linea della teologia narrativa verrà proposto ad es. l’itinerario simbolico della ricerca del santo Graal in cui il battezzato deve mettersi in cammino per partecipare alla pienezza del mistero. I cavalieri devono passare successivamente per i tre luoghi dell’iniziazione per giungere alla vera conoscenza – il castello di Corbenye, la Nave di Salomone, la città di Sarraz.

    Interessante anche “Il viaggio del pellegrino” di John Bunyan, il grande scrittore allegorico inglese del ‘600. Il suo racconto narra, in forma di sogno, le vicende di Bunyan-Cristiano che fugge, col suo pesante fardello dalla città della Distruzione in cerca di salvezza verso la Città Celeste. Nel suo pellegrinaggio Cristiano passa attraverso la Palude dello Sconforto, la Valle dell’Umiliazione, il Colle del Lucro, la Valle dell’Ombra della Morte, il Castello della Disperazione, la Fiera della vanità… e incontra decine di personaggi che ora lo ostacolano, ora lo distraggono, ora lo accompagnano: Fedele, Vergogna, Poca-Fede, Speranzoso, Chiaccherone, il Gigante Disperazione, il Demone Apollion che raffigurano vizi e virtù che abitano in ognuno di noi.

    Più vicina a noi vediamo Teresa di Lisieux. In lei vediamo un’alternativa nell’intraprendere il cammino spirituale: piuttosto che spendere le proprie forze per camminare o per scalare la montagna, l’anima preferisce essere portata. In questo cammino  di carattere “passivo” i simboli sovrabbondano. Teresa percepisce la sua vita come una attraversata verso la riva del Cielo. Ella usa l’immagine della “Navicella”: “quando ero triste – ci dice – ripetevo le parole che mi facevano sempre rinascere nel cuore la pace e la forza: La vita è la tua nave e non la tua dimora. Già da piccolissima queste parole mi restituivano il coraggio; ancora adesso, nonostante gli anni che cancellano tante impressioni di pietà infantile, l’immagine della nave affascina ancora la mia anima e l’aiuta a sopportare l’esilio…La Sapienza stessa non dice forse che “La vita è come il vascello che solca i flutti agitati senza lasciare alcuna traccia del suo rapido passaggio”?”.  Ella vede la montagna da scalare, la sua salita al Carmelo, il sentiero del Nulla: non le sembra però possibile inerpicarvisi per la sua debolezza. Ella dunque si industrierà a ricercare “una piccola via dritta dritta, corta corta, una piccola via tutta nuova”: si tratterà di farsi piccola per farsi portare e “l’ascensore che deve innalzarmi fino al cielo sono le vostre braccia o Gesù”.

    Perché questo bisogno di sistematizzazione, simbolizzazione del cammino spirituale? Perché in modo particolare l’uomo deve raffigurarsi le diverse tappe e soprattutto i pericoli che incontrerà?  “Se il tempo fosse semplicemente sinonimo di continuità, basterebbe incamminarsi fiduciosamente sulla via spirituale;: essa ci condurrebbe al termine prefissato. Ma i Maestri che ci hanno preceduto sanno che il percorso di questa via è lungo, incerto, insidioso: di qui la tentazione di tornare indietro: Ne conoscono l’angustia, mentre ampie sono le vie che conducono alla perdizione o al fallimento: Ecco perché ci hanno spesso narrato il loro faticoso cammino, il cui esito felice non può non incoraggiare il  discepoli: Alcuni, con maggior precisione ancora, hanno voluto tracciare un itinerario tipico: chi potrebbe ancora temere di smarrirsi?” (A: Bernard).

    Nel parlare di progresso spirituale forse è meglio evitare di parlare di tappe della vita spirituale: la tappa indica l’acquisizione definitiva di un tratto di strada per iniziarne uno del tutto nuovo che non ha nulla a che fare né col precedente né col successivo. E’ preferibile parlare di fasi: ovvero di momenti forti, di situazioni (cfr Rahner) decisive per la crescita. Le fasi si prestano a confini più sfumati, esse si possono mescolare, frapporre, saltare sia per iniziativa di Dio sia per il possibile interferire di eventi esterni o interni significativi.

    La meta del cammino spirituale qui in terra non sarà mai pienamente raggiunta. La nostra santità può  essere semplicemente una santità in via. “Da un inizio ad un altro inizio fino all’inizio senza fine della vita eterna” (Gregorio Niss.). Questa santità ha una caratteristica sua, tipicamente evangelica: non si tratta come già detto di perfezione ontologica o ascetica in cui siamo noi, per sola nostra iniziativa che vogliamo e possiamo essere santi.

    Prendiamo invece coscienza che la santità non è raggiunta attraverso i soli nostri sforzi, una santità ricercata volontaristicamente è destinata a rivelare prima o poi la sua illusione. Proprio perché santità in via si tratta di una santità “non più desiderata nella ricerca della nostra perfezione, ma vissuta nell’offerta della nostra povertà” (R. Voillaume).

    Essa trova la sua dinamica nella carità: nella comunione vitale con Dio e i fratelli. E sarà proprio l’amore la misura e la meta della vera perfezione e il criterio di discernimento.

    Dobbiamo perciò fare molta attenzione sul come percepiamo e pensiamo la santità, mettendo al bando quelle immagini standardizzate e molto idealizzate (per non dire disincarnate) di santità cristiana.

    Sarà utile ripercorrere il proprio cammino; segnalarne le tappe significative… dare loro un nome e un significato…

  • 14 Mar

    L’Idiozia: debolezza di Dio e salvezza dell’uomo

    di p. Silvano Fausti s.j.

    Introduzione

    Che cosa ne è della salvezza che il Figlio di Dio  ha portato ai fratelli?

    E’ semplice proiezione di desideri, belli consolatori, ma inconsistenti?

    Il male è enigma insolubilemette in crisi non solo noi, ma anche la realtà di Dio.

    Se c’è perché non interviene?

    Forse non può o non vuole?

    Ma se non può, non è onnipotente; se non vuole, non è buono!

    Che Dio è allora? Impotente o cattivo?

    Il male, realtà innegabile, fa crollare la nostra idea di lui, che, se c’è, necessariamente è onnipotente e buono.

    I greci cercano una divinità sapiente, in grado di fondare e spiegare le aspirazioni umane. Con essa ci si può rassegnare all’esistente, in attesa che si compia il cieco destino.

    I giudei, come tutti i religiosi, cercano una divinità potente, in grado di far trionfare la sete di libertà e di giustizia.

    Il Dio crocifisso.

    Paolo parla di un Dio crocifisso che è stupidità per i sapienti del mondo e debolezza per i pii di ogni religione (1Cor 1,23).

    Il paradosso del cristianesimo è non solo proporre un Dio stupido e debole, ma – doppio paradosso – pretendere che la sua stupidità convinca d’insipienza i sapienti e che la sua debolezza distrugga i potenti.

    La Parola della Croce rivela un “assurdo”. La Croce è l’enigma con cui Dio risponde all’enigma dell’uomo.

    Un Dio crocifisso non corrisponde a nessuna concezione religiosa o atea.

    E’ una rappresentazione “oscena”: fuori della scena del nostro immaginario. E’ la distanza infinita che Dio ha posto tra sé e l’idolo.

    Salvezza

    Certo togliere la ricerca della salvezza è levare la molla che aziona l’uomo. Non ci sarebbe cultura, né storia, né libertà; ma solo natura, fato, necessità. Si rinuncerebbe anche a vivere: perché conservare la vita se la si perde inesorabilmente?

    Chi rinuncia alla propria promessa di felicità, si condanna da subito al naufragio del non senso, nell’infinita vanità del tutto.

    Si può salvare uno che è veramente perduto e che da solo non può uscire dalla sua situazione. Per noi cristiani il nostro salvatore è Gesù di Nazaret.

    Salvezza è l’opposto di perdizione.

    E la salvezza costituisce il progetto fondamentale di ogni uomo. La felicità è l’obiettivo assoluto e ogni nostra azione è mirata in tal senso.

    L’uomo è cosciente di dover morire: questo ci distingue dall’animale.

    Ognuno vive questa situazione come limitazione mortale e angosciosa da superare ad ogni costo, invece che come condizione naturale da vivere.

    L’uomo vuol mettere le mani sul proprio principio invece di mettersi nelle sue mani, vuol possedere la vita invece di riceverla in dono: da qui il sorgere di ogni male. Ed ecco anche tutti i nostri tentativi inutili di salvarci dalla morte.

    Nel cristianesimo parliamo di salvezza oltre la morte, che quindi si realizza oltre la storia individuale e collettiva.

    Pensare la salvezza in questo modo è un’opzione che uno può fare o meno, come accettare o meno di essere figlio: ma è ragionevole farlo.

    In questo secolo abbiamo avuto tanti tentativi di salvezza realizzate non oltre, ma dentro la storia.

    In campo politico (marxismo, capitalismo…); lo scientismo, il selfismo psicologico; in campo pseudoreligioso (New Age).

    Conosciamo pure salvezze oltre la storia, che sono anche fuori di essa: il fatalismo, la rassegnazione, lo stoicismo…

    La salvezza nella Bibbia, correttamente intesa, è oltre ma non fuori della storia. Anzi agisce dentro di essa.

    La meta dirige ogni passo dell’uomo, nessun istante è irrilevante, nessuna azione, per quanto piccola, insignificante. Il futuro dirige il presente e il presente ne è la paziente realizzazione.

    Quando si parla di Cristo salvatore, si intende parlare di questa salvezza che va oltre la storia, ma che è dentro di essa come suo principio motore.

    Ambiguità

    Ci sono tante salvezze quanti gli ideali dell’uomo, e tanti ideali quante le idee sui Dio. E’ vero che c’è un solo Dio, ma in realtà ci sono molti idoli che ci tiranneggiano.

    C’è Mercurio il dio degli affari (Il dio della Borsa)

    C’è Venere ( il dio Viagra e dell’erotismo)

    C’è Vulcano (il lavoro)

    C’è Cerere la dea delle messi (concimi e mutazioni transgeniche)

    C’è Esculapio ( la farmacologia pronta per ogni rimedio anche contro la vita)

    C’è Giove e le sue clonazioni più o meno malriuscite.

    Altra forma sono le ideologie fatte di moda e consumismo.

    C’è l’idolatria costituita dal proprio pensiero filosofico e religioso:  tutto è sempre chiaro, non esistono dubbi: l’arroganza del pensiero che pretende di conoscere e spiegare tutto.

    C’è l’idolatria allo stato puro fatto del culto dell’immagine: chi produce immagini ha in mano il potere.

    Infine c’è l’idolatria del credente: servirsi di Dio come mezzo per ottenere le cose che interessano, che sono il proprio dio.

    L’idolatria teorica e l’idolatria pratica si intrecciano sempre con dosaggi diversi nel nostro rapporto con Dio. Al nostro parlare con troppa certezza di lui, o al nostro chiedergli segni visibili, lui risponde con il suo silenzio.

    Stiamo attenti a non riempirlo con chiacchiere  vuote, per evitare di ascoltarlo.

    Siamo tutti convinti che c’è un solo Dio Uno e Trino e un unico salvatore. Ma a questa rivelazione ognuno accede con una sua interpretazione “idiota”, propria e singolare, che non deve mai sostituirsi né all’esperienza di Dio né alla sua parola che lo rivela, né tanto meno a lui stesso.

    L’uomo è fatto per “dire l’indicibile” ma non deve confondere il suo dire con l’Indicibile.

    Già nel Vangelo troviamo un modello di cristologia idolatrica: ed è la professione di Pietro. Egli è il primo che dopo i demoni riconosce che Gesù è il Figlio di Dio.

    Il problema di fondo di ogni discorso su Dio è vedere quali interpretazioni sono fuorvianti e quali no, quanto sia idiozia necessaria e legittima per dire l’indicibile, celebrarlo e amarlo, e quanto invece siano idolatria che fa dire ogni stupidità possibile e impossibile.

    Che pietra di paragone abbiamo per risolvere l’ambiguità che sempre c’è in ogni nostra riflessione su Dio?

    Chi ci garantisce di non modellarci un Dio a nostra immagine e somiglianza invece di modellare noi stessi a immagine di Dio?

    La “carne” come criterio di salvezza

    L’A.T. da’ un criterio preciso: non farsi immagini né di Dio né dell’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza.

    Se in molte religioni si cerca una salvezza dalla carne e dai desideri, la Bibbia ci propone una salvezza della carne e dei desideri. Dio ce li ha donati e lui stesso li ha assunti su di sé facendosi uomo.

    Caro cardo salutis: essa è la notitia dei.

    L’uomo Gesù con la sua storia concreta, ci dona la vera conoscenza di Dio e ci salva. Ogni nostra idea su Dio e su Cristo deve misurarsi su questa carne.

    Parlando di “carne” si intende la condizione di debolezza, fragilità, esposizione al male, che il Signore stesso ha condiviso con noi. Per questo Paolo scopre la croce come la grande rivelazione di Dio: Io ritenni di non saper altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso (1Cor 2,2). Solamente lì  si può conoscere Dio nel Figlio.

    I demoni lo proclamavano anche prima Figlio di Dio ma solo per ingannare gli uomini!

    Davanti alla croce si frantuma ogni idolo.

    I vangeli non furono scritti per provare che il crocifisso è risorto. Al contrario: vogliono proclamare che il risorto è il crocifisso. La croce non fu un incidente di percorso da dimenticare in fretta, perché Dio stesso vi ha posto rimedio con la risurrezione.

    La croce è la gloria di Dio, rivelazione assoluta e indubitabile di lui come amore senza limiti. La sua comprensione è stata lenta: un lungo cammino per la comunità.

    Se la croce fosse stata solo un episodio brutto e increscioso, allora ogni nostro male sarebbe e resterebbe solo un episodio brutto e increscioso, e non luogo di salvezza. La stessa vita che termina con la morte sarebbe solo un vuoto a perdere.

    Il vangelo della croce è essenzialmente anti-idolatrico: smonta e smentisce ogni nostra idea di Dio.

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