• 08 Giu

    MATURAZIONE UMANA e VITA RELIGIOSA

     

    La favola delle tre lingue

    La favola delle tre lingue è una bella immagine della maturità umana. Vorrei riportarla qui perché nella figura del papa, cioè il Santo Padre, è sintetizzata la maturità umana e spirituale.

    C”era una volta in Svizzera un vecchio conte che aveva un solo figlio; questo figlio era anche sciocco e non riusciva a imparare niente. Allora suo padre gli disse: «Ascolta, figlio mio: qualsiasi cosa io faccia, da qualunque parte io cominci, non riesco a ficcare nien te nella tua zucca. Tu devi andartene da qui: io ti affiderò a un maestro famoso e ci proverà lui».

    Il giovane fu mandato in una città straniera e rimase presso il maestro un anno intero. Trascorso que­ sto periodo, tornò di nuovo a casa e il padre gli disse: «Allora, figlio mio, che cosa hai imparato?». «Padre, ho appreso l”abbaiare dei cani». «Santo cielo! », sbottò il padre, «è tutto qui quello che hai imparato? Allora ti mando in un”altra città da un altro maestro».

    Il ragazzo fu condotto altrove e anche presso questo maestro rimase un anno. Quando tornò, il padre gli chiese di nuovo: «Figlio mio, che cosa hai imparato?». Ed egli rispose: «Padre, ho imparato il lin­ guaggio degli uccelli». Allora il padre si arrabbiò e disse: «Sei un buono a nulla, hai passato del tempo prezioso senza imparare niente; non ti vergogni di comparire davanti a me? Ti manderò da un terzo mae­ stro ma, se non imparerai niente nemmeno questa volta, ti disconoscerò».

    Il figlio rimase un anno anche presso il terzo maestro e quando ritornò a casa e il padre gli chiese: «Fi­ glio mio, che cosa hai imparato?», il figlio rispose: «Caro papà, quest” anno ho appreso il gracidare delle rane». Allora il padre andò su tutte le furie, balzò in piedi, chiamò attorno a sé la sua corte e disse: «Questo ragazzo non è più mio figlio, io lo ripudio e vi ordino di portarlo fuori nel bosco e di togliergli la vita». I suoi sudditi lo condussero fuori ma, nel momento in cui avrebbero dovuto ucciderlo, si mossero a compassione e lo lasciarono andare. Cavarono gli occhi e tagliarono la lingua a un capriolo per portar li al vecchio a testimonianza dell” esecuzione dell” ordine.

    Il giovane continuò a vagare e dopo qualche tempo giunse in un castello dove chiese di essere alloggiato per la notte. «Sì», disse il castellano, «se vuoi pernottare laggiù, nella vecchia torre, va” pure. Però ti avverto: c”è il pericolo di lasciarci la pelle perché è pieno di cani randagi che continuano a latrare e ulu­ lare tutti insieme e a una cert’ora devono poter disporre di un essere umano che azzannano subito». Per questo motivo tutta la zona era nel dolore e nel lutto, ma nessuno riusciva a risolvere la situazione. Però il giovane non ebbe paura e disse: «Lasciatemi andare giù dai cani e datemi soltanto qualcosa da poter gettare loro; a me non faranno niente». Poiché non voleva nient’ altro, gli diedero del cibo per quegli ani­ mali selvatici e lo condussero giù alla torre. Quando entrò, i cani non gli abbaiarono contro, gli si fecero attorno muovendo le loro code in segno di benvenuto, mangiarono ciò che egli pose loro davanti e non gli torsero neanche un capello.

    Il mattino successivo, con grande stupore di tutti, egli riapparse sano e salvo davanti al castellano e disse: «I cani mi hanno spiegato nella loro lingua perché hanno preso dimora lì e fanno danni nel territorio. Sono vittime di un incantesimo; devono custodire un grande tesoro che sta giù nella torre e non avranno pace finché questo non verrà tolto da lì; dai loro discorsi sono anche riuscito a capire come ciò potrà avvenire». Allora tutti quelli che stavano ascoltando si rallegrarono e il castellano disse che lo avrebbe adottato come figlio se avesse portato felicemente a termine l”impresa. Egli scese di nuovo e, poiché sapeva che cosa doveva fare, agì conseguentemente e portò su un forziere ricolmo d”oro. A partire da quel momento nessuno sentì più il latrato dei cani randagi; erano spariti e tutta la regione era stata liberata dalla piaga.

    Qualche tempo dopo gli venne in mente di andare a Roma. Cammin facendo, passò davanti a uno stagno sulle cui rive c”erano delle rane gracidanti. Egli ascoltò e, comprendendo ciò che dicevano, divenne pensieroso e triste. Finalmente arrivò a Roma proprio nel momento in cui era da poco morto il papa; i cardinali erano molto dubbiosi in merito al successore da designare. Alla fine si misero d”accordo che avrebbero scelto come papa colui che fosse stato oggetto di un segno prodigioso di Dio. Proprio nel momento in cui avevano preso questa decisione, entrò in chiesa il giovane conte e improvvisamente due colombe bianche come la neve, volando, andarono a posarsi sulle sue spalle. Gli ecclesiastici riconobbero in questo il segno divino invocato e, seduta stante, gli chiesero se accettava di diventare papa. Egli era indeciso e non sapeva se ne fosse degno, ma le colombe gli dissero che avrebbe potuto farlo per cui alla fine rispose: «Sì». A quel punto lo unsero, lo consacrarono e così si era avverato ciò che aveva sentito durante il viaggio dalle rane e che lo aveva tanto costernato, cioè che sarebbe diventato il Santo Padre. Dopo di ciò dovette cantare messa e, sebbene non sapesse nemmeno una parola, le colombe che continuavano a rimanere sulle sue spalle gli suggerirono tutto all” orecchio.

    Sì, la favola ci fa anche capire che cosa comporta il cammino di maturazione per gli uomini e le donne consacrate. Anzitutto devono liberarsi dalle aspettative del padre. Il figlio del conte non apprende ciò che vorrebbe il padre, ma quello che gli è congeniale. Si reca da tre maestri diversi, scelti dal padre, che però evidentemente non gli insegnano ciò che secondo questi è fondamentale. Maestri stranieri in città straniere lo iniziano al mistero della vita. Il figlio deve staccarsi completamente dal padre e questo processo è come un itinerario di morte e di rinascita per il figlio. Poiché viene cacciato via con violenza dal padre, si mette in cammino e percorre la propria strada nella vita.

    La prima condizione per maturare umanamente nella vita consacrata è l”uscire da casa. Da questo punto di vista, è certo che gli ordini religiosi hanno finora aiutato molti a liberarsi dalle aspettative dei ge­ nitori. Si pone comunque l”interrogativo se non abbiano sostituito le aspettative dei genitori con quelle del monastero. In tal caso non si ha processo di maturazione. Oggi ci imbattiamo in un altro problema serio: i giovani e le giovani entrano in un ordine religioso prima di avere completato il distacco dalla fa­ miglia. Quando poi, attraverso la vita religiosa, si liberano dai legami parentali e trovano se stessi, la­ sciano la comunità e seguono la loro strada.

    Analogamente, gli ordini religiosi dovrebbero essere all”altezza del compito svolto dai tre maestri che hanno insegnato al giovane conte il linguaggio dei cani, delle rane e degli uccelli. A questo dovrebbero servire i “maestri” e le “maestre” esistenti negli ordini religiosi: guidare i novizi a scoprire nel proprio cuore il linguaggio di Dio. In altre parole: invece di porre attenzione alle nuove aspettative della comunità religiosa o a quelle familiari dei genitori, si tratterebbe di saper percepire Dio nella propria interiorità, di scoprire in sé il “maestro interiore” che guida al proprio centro personale e libera dalla consuetudine a cercare soltanto maestri esterni a sé. Così gli ordini religiosi adempirebbero la funzione svolta da quei tre maestri nelle città straniere, che hanno reso capace il giovane di percepire la volontà di Dio in quelle tre lingue e conseguentemente di seguirla fino al raggiungimento della piena maturità umana e spirituale (la figura del papa). Il cammino percorso nella vita religiosa potrebbe allora condurre la singola persona a quella forma che Dio le ha riservato, alla sua im magine unica e insostituibile di Dio. Ma – sia nella favola, sia nella vita religiosa – questo itinerario non è indolore. Il dolore della separazione è paragonabile alla morte della vecchia identità per trovare quella nuova identità che ci spetta per volontà di Dio.

    Qual è il nesso con il linguaggio delle tre specie di animali citati nella favola? Il latrato dei cani designa il linguaggio delle passioni, la voce dei problemi, delle malattie, dei conflitti, delle situazioni insolute. Il gracidio delle rane simbolizza la voce dell”inconscio, il messaggio dei sogni. E il linguaggio degli uccelli indica la conoscenza, la sapienza dello Spirito. Ma, evidentemente, non si può apprendere questo linguaggio dello Spirito se non si conoscono gli altri due.

    Il latrato dei cani conduce il giovane a scoprire il tesoro, il suo vero Sé, l”immagine che Dio aveva ab­ bozzato per lui ma che rimaneva sepolta sotto l”im magine puramente mondana e le aspettative conven­ zionali del padre. I cani che abbaiano furiosamente diventano per il giovane delle guide generose che non tacciono e non si tranquillizzano finché lui non ha ca pito quale tesoro esse nascondano. La loro voce è tanto forte proprio perché fino a quel momento la sua esistenza aveva soltanto sfiorato la sua vera natura. E proprio nel luogo nel quale essi latrano – giù in fondo, nella torre dell”inconscio (ancora) oscuro – giace sepolto il tesoro del suo vero Sé.

    Il gracidio delle rane gli preannuncia ciò che accadrà. Le rane stanno a indicare i presentimenti inte­ riori che a volte s”impadroniscono di noi e simbolizzano i sogni che ci indicano la strada del nostro fu­ turo. Spesso questo linguaggio apparentemente assurdo delle rane sembra non avere nessun rapporto con la nostra vita concreta, ma d”un tratto si verifica ciò che loro ci avevano predetto per mezzo di imma­ gini e di sensazioni.

    E il linguaggio degli uccelli guida il figlio del conte alla meta che non si era scelto da sé ma alla quale, seguendo la loro voce, capisce di essere stato destinato. Le colombe che si posano sulle sue spalle visibilizzano il segno che i cardinali attendevano. Esse spingono il giovane ad accettare un incarico che a lui appariva eccessivo. Il papa non rappresenta qui un concetto gerarchico, ma è immagine dell”accompagnatore spirituale, della persona che è diventata in tutto e per tutto spirituale, tanto da poter fare da guida ad altri. Analogamente, anche la figura del re presente in molte favole non rappresenta un concetto politico ma l”immagine della completezza umana. In quanto tale, la figura del papa può essere un simbolo per il religioso o la religiosa che vivono la loro spiritua lità in modo maturo e possono accompagnare altri nel loro cammino spirituale.

    Il messaggio della favola contiene quindi anche questo: noi diventiamo persone veramente spirituali so­ lamente se prima abbiamo imparato il latrato dei cani e il gracidio delle rane e ci liberiamo di tutte le fi­ gure paterne e dei loro messaggi per incamminarci sulla nostra strada. Qui di seguito vogliamo descrivere i luoghi (oscuri) nei quali attendono i cani latranti per guidarci al tesoro nascosto.

    La relazione con i sentimenti e i bisogni

    Si tratta in primo luogo di relazionarci in modo maturo con i nostri sentimenti e le nostre passioni. Dio ci parla anche attraverso i sentimenti. Non possiamo né svalutarli né ignorarli. Tutto ha un significato. Il problema è soltanto quello di capire quale messaggio ci recano e in quale direzione ci vogliono trasformare. Il fine è sempre la scoperta dell”immagine di Dio che è in noi. Possiamo interpretare le passioni come cani che abbaiano furiosamente perché vogliono condurci al tesoro nascosto nella nostra torre. Proprio lì dove sento latrare dentro di me c”è anche un tesoro. Per maturare in modo globale devo allora cominciare a comprendere la lingua dei cani che latrano.

    Le voci dei miei cani che latrano

    I religiosi, gli spirituali soggiacciono spesso al pericolo di pensare che il linguaggio di Dio si apprende esclusivamente dalla Sacra Scrittura, attraverso la liturgia e la preghiera. Perciò, in linea di massima, non abbiamo molta dimestichezza con il latrato dei cani. Ma Dio mi parla anche per mezzo dei cani che latrano in me. Per loro tramite mi indirizza verso la mia realtà individuale. E io non potrò arrivare a Dio se evito la mia realtà. A questo proposito, gli americani parlano di spiritual bypassing, di “deviazione spi­ rituale”. Con questo intendono dire che qualcuno, con la meditazione o altre pratiche religiose, non affronta la realtà dei propri pensieri e dei propri sentimenti e crede di poter arrivare a Dio evitando di guardare in faccia se stesso. I monaci dei primi secoli continuano a richiamare la nostra attenzione sul fatto che la strada per giungere a Dio ci fa passare attraverso l”incontro sincero con noi stessi. Incontrare Dio non significa assolutamente diventare soltanto un tutt”uno con lui e riposare in lui, ma comprende anche l”essere trasformato da Dio in quanto creatura umana in cammino. Ma Egli può trasformare solamente ciò che io gli porgo.

    Per molti religiosi anziani l”educazione nel noviziato è avvenuta in modo diverso da quella indicata nel primo monachesimo. Qualche decennio fa si era soliti sorvolare sulla realtà dei nostri sentimenti, biso­ gni e passioni. Ciò significava spesso reprimere e ignorare questi aspetti. Ma non si riesce facilmente a spegnere ciò che si reprime; il rimosso continua ad agire nascostamente in noi, perlopiù in modo distruttivo. Se io reprimo le mie sensazioni e i miei bisogni, se non offro loro uno spazio per uscire allo scoperto, premeranno per essere vissuti segretamente, avranno un dinamismo loro proprio – spesso incontrollabile – e arriveranno al punto da dominarmi completamente e irresistibilmente. Se, per esempio, io non ammetto la mia collera e le proibisco di esprimersi, questa troverà le scappatoie per insinuarsi in tutte le mie manifestazioni vitali. Quando tutti i conflitti leali e qualsiasi litigio sono tabù, la conseguenza può essere che in convento regni un”atmosfera di aggressività.

    Il monachesimo primitivo insegna a porsi lealmente di fronte alle proprie passioni e ai propri bisogni, senza giudicarli. Dio può modificare soltanto ciò che noi onestamente ammettiamo e affrontiamo. Si riconoscono i religiosi e le religiose non trasformati dal fatto che non sanno padroneggiare le loro esigenze ma, al contrario, sono da queste dominati, sono particolarmente aggressivi e suscettibili, insoddisfatti di se stessi e di buona parte di ciò che li circonda. Perdono la capacità di scorgere ciò che potrebbero positivamente modificare e trasformare. Non avendo investito fantasia ed energia a questo scopo, restano intrappolati nel circolo vizioso del ruolo della vittima. Poiché utilizzano tutte le energie solo per se stessi, in quanto l”insoddisfazione divora un”infinità di energia vitale, non rimane loro la forza per essere produttivi verso l”esterno.

    Le scappatoie segrete

    Particolarmente critica è, nei conventi, la considerazione delle esigenze. Il nobile ideale di molte comunità è: semplicità. Chi vuole vivere conformemente a questo ideale deve di conseguenza reprimere le proprie esigenze. Dato che anche le religiose e i religiosi più pii sono comunque esseri umani, questo comporta che i bisogni vengano vissuti in segreto o in modo indiretto e che non siano riconoscibili subito in quanto tali. Non vengono ammessi. Nei conventi ci sono cuoche e cuochi che potrebbero raccontarci come tante sorelle e tanti fratelli compensino di nascosto i loro bisogni proprio attraverso la cucina: quante eccezioni vengono richieste, perlopiù dissimulandole con motivi di salute, perché non si avrebbe il coraggio di ammettere apertamente le proprie esigenze. Sotto l”apparenza di uno stile ascetico di vita affiorano dei desideri che difficilmente si potrebbero avvertire in condizioni normali. Questi religiosi considerano il convento come una grande madre provvidente che deve dare tutto. E reagiscono con grande suscettibilità se una richiesta viene respinta.

    Esperienze analoghe vengono fatte da cellerari ed econome, fratelli e sorelle che sborsano il denaro dalla cassa. Anche lì si evidenziano esigenze che non sono affrontate ed espresse apertamente, bensì vissute in segreto sotto l”apparenza di una giustificazione razionale. E quelle persone che lavorano di meno generalmente hanno maggiori esigenze. Necessitano di più denaro di altri per i desideri più disparati. Poiché non sono motivati nel lavoro e non cercano soddisfazione in esso, devono riempire lo spazio vuoto soddisfacendo i loro desideri. Nella vita religiosa non hanno mai avuto a che fare con denaro proprio, pesonalmente guadagnato, non hanno mai avuto la responsabilità o corresponsabilità delle faccende economiche, per cui si comportano al riguardo in maniera infantile. La “grande madre” deve soddisfare ogni desiderio. Oppure: il bisogno di ricevere denaro viene abbastanza spesso vissuto sotto la forma di un costante ricorso al medico. Ma naturalmente non lo si ammette e si nasconde il bisogno dietro la malattia. Maturità nella vita religiosa?

    L’infermità secondo s. Benedetto

    È più matura la considerazione dei bisogni descritta da Benedetto nella sua Regola e similmente rintracciabile anche in Agostino e in altri fondatori di ordini: «Si faccia come è scritto: “Si provveda a ciascuno secondo il suo bisogno” (At 4,35). Con questo non intendiamo che si facciano differenze di persone (Rm 2,11) – non sia mai! – ma che si usi riguardo all”infermità: e così chi può fare con meno, ringrazi Dio e non si crucci; chi ha bisogno di più si umilii per l”infermità e non s”inorgoglisca della misericordia: e così tutte le membra saranno in pace. Soprattutto poi non si manifesti per qualunque motivo, in qualunque parola o segno, il male della mormorazione. Che se qualcuno vi sarà colto sia sottoposto a severa punizione» (Gregorio Magno, 177).

    Per Benedetto l”ideale è che ci accontentiamo di poco. Chi riesce a farlo deve esserne riconoscente. Chi invece ha delle necessità, deve comunicarle con grande umiltà. Deve ammettere i propri bisogni e non mai scherarli dietro una pretesa per nascondere il proprio stato di necessità. La consapevolezza dei propri bisogni è segno di maturità. In primo luogo devo ammetterli e poi potrò decidere liberamente se preferisco rinunciare o se intendo concedermi il soddisfacimento di un bisogno. Rinuncia e soddisfacimento sono entrambi importanti. Chi non sa rinunciare non svilupperà mai un io forte e maturo. Chi invece avverte un” esigenza e non si concede mai nulla corre paradossalmente il pericolo di essere dominato dai suoi bisogni repressi e mai soddisfatti. Una persona siffatta perde abbastanza spesso il buon umore, diventa severa e brontolona perché non concede nulla nemmeno agli altri. Benedetto ha in mente questo genere di lavativi quando si esprime così duramente contro il brontolio. Lagnarsi è negare la vita. Si rifiuta di assumersi la responsabilità della propria vita e si addossa agli altri la colpa della propria miseria. I brontoloni e i criticoni sono persone che non riescono a riconciliarsi con la realtà della loro vita terrena, sostengono tristemente degli ideali infelici e affrontano la realtà che non corrisponde alle loro aspettative e illusioni con un atteggiamento di rifiuto e rancore. Il mormorìo corrode l”anima, la indebolisce, la fa ammalare e la priva della gioia di vivere. Il lagnarsi, che evidentemente costituiva un problema nei monasteri già all”epoca di Benedetto, è un segno di immaturità umana. Si deduce con chiarezza che perfino per Benedetto è impossibile costituire una comunità con individui di questo tipo. Perciò egli vuole estirpare alle radici la mala pianta del mormorìo. Solo così può crescere una comunità matura nella quale ciascuno concede qualcosa all”altro e ognuno si rapporta in modo maturo con i propri bisogni.

    A che cosa mi serve la collera?

    La maturità richiede che io faccia i conti con il mio risentimento, la collera, la gelosia, l”aggressività. In taluni conventi soffia un vento particolarmente aggressivo. Basta un”osservazione e subito l”altro si inalbera. Oppure nei dialoghi in refettorio si coglie un” atmosfera di tensione latente e si fanno spesso delle battute a spese di altri. Si avvertono tangibilmente i colpi dell” aggressività repressa, sparati in ogni direzione. Ma l”ideale della vita religiosa non consente un comportamento apertamente aggressivo e allora i propri sentimenti “negativi” non vengono affrontati. Ma ciò che non può venire alla luce cerca e trova sicuramente delle scappatoie.

    L”aggressività latente può essere espressione e segno di frustrazione o di carenza di affetto. Ma può anche essere motivata dal non avere ancora trovato la relazione giusta con la propria aggressività. L”aggressività vuole regolare il rapporto tra vicinanza e distanza. È sempre un campanello di allarme avvertire in me delle spinte aggressive, è un segno che ho bisogno di maggiore vicinanza o maggiore distanza. In talune comunità religiose si vive a contatto troppo stretto. L”ideale comunitario prevede che si faccia tutto e sempre insieme, ma una tale modalità di vita può comportare delle pretese esagerate e produrre un”inutile aggressività. In questo caso, l”irritabilità e l”aggressività rivelano chiaramente l”esigenza di maggiore distanza per poter vivere bene in comunità.

    Se vivo insieme ad altre persone, è naturale che dovrò confrontarmi con il risentimento e l”aggressività. II che può rappresentare certamente una possibilità per conoscermi meglio. Può capitare che mi irriti per aver dato agli altri troppa confidenza, consentendo loro di farsi troppo vicini a me. A quel punto ho bi­ sogno di un maggiore spazio di libertà oppure devo prendere interiormente le distanze – almeno tempo­ raneamente – dai miei confratelli o dalle mie consorelle. In ogni caso si tratta di assumere attivamente e consapevolmente il proprio risentimento. Normalmente l”irritazione ha in sé l” impulso a cambiare qualcosa. Vorrei, per esempio, organizzare meglio in comunità qualcosa di ben preciso. Oppure il risentimento mi dice con chiarezza che dovrei (finalmente) parlare con quel confratello, con il quale mi arrabbio continuamente, per chiarire che cosa non va.

    Spesso il risentimento verso gli altri rivela anche le mie ombre.  Io scopro quello che non voglio ammet­ tere come esistente in me stesso. Questo sentimento può allora diventare un”importante fonte di cono­ scenza di sé e uno stimolo a muovere qualcosa in me o negli altri. Se io non riesco a cambiare me stesso o l”altro, ho comunque ancora la possibilità di correggere almeno il mio punto di vista o il mio atteggiamento. Il risentimento può spingermi per esempio a liberarmi del potere e dell”influenza che l”altro ha su di me. Posso dirmi, per esempio: «Non rendo onore all”altro continuando a pensare a lui. Non è nemmeno così importante per cui io debba occuparmi sempre di lui. È un suo problema se arriva troppo in ritardo. Non può farmi arrabbiare per questo motivo». L”altro ha su di me sempre e soltanto quel potere che io gli riconosco. È dunque solamente mia la responsabilità e mio è il compito di fare in modo che l”irritazione, la collera e l”aggressività diventino una forza propulsiva invece di dominarmi e paralizzarmi. La collera può diventare una fonte di energia del tutto positiva, un utile stimolo a vivere la mia vita, a prenderla in mano e ad assumermi la responsabilità di agire secondo i miei desideri e le mie attitudini.

    Il cammino di maturazione non passa attorno alla mia ira, ma la attraversa. Non si tratta di recidere le passioni, ma di trasformarle in modo che mi siano utili, che diventino una sorgente di forza e di gioia di vivere. Matura non è la persona priva di aggressività, ma quella che non si fa travolgere e che in essa vede un potenziale di energie positive, un terreno di coltura per il suo progetto di vita. I monaci dei primi secoli dicono che la forza della collera deve servire per difendersi dalle tentazioni istintuali, cioè dallo sti­ molo a mangiare continuamente, dalle fantasie sessuali o dalla voglia di spendere.

    A che cosa mi serve la sessualità?

    Per noi uomini e donne consacrate è importante anche saper gestire la nostra sessualità. In una tavola rotonda tenuta da Durckheim, una suora aveva dichiarato di non avere problemi relativamente alla propria sessualità perché l”aveva messa sotto ghiaccio. E Dùrckheim le aveva risposto: “E si vede! Ma, attenzione, perché lì si conserva fresca». Non si tratta di eliminare la sessualità, bensì di urilizzarla per sé come sorgente di spiritualità, di vivacità e di gioia di vivere. La sessualità è il cane che, abbaiando, vorrebbe condurmi a scoprire il tesoro nascosto nella mia torre interiore. Non devo rinchiuderla e congelarla in questa torre perché, così facendo, potrei perdere il mio calore, la mia carica affettiva e la mia umanità. Oppure potrei sentirmi tagliato fuori dalla vita. E vivrei continuamente nel timore che i cani possano irrompere e scorrazzare senza freni. Sarei sempre tormentato dall” angoscia dei desideri in agguato, che potrebbero cogliermi di sorpresa.

    Una monaca raccontava che non si fidava ad abbracciare un sacerdote che le piaceva perché con quel­ l”atto la sua sessualità avrebbe potuto attivarsi e sornmergerla. Ma con questa paura sulle spalle, non rimane che soffocare sul nascere ogni germe di energia sessuale e vietarsi qualsiasi gesto di tenerezza, sia pure il più piccolo, e la sessualità insita anche in una donna consacrata non riesce a trasformarsi in forza ablativa, in espressione di affettività. È naturale che in ogni abbraccio tra un uomo e una donna entri in gioco anche l”energia sessuale. Ma, se è vero che in un abbraccio io avverto sensibilmente e consciamente la vicinanza, questo non significa in nessun modo che esso segnerà l”inizio di una relazione sessuale. La paura e la fantasia di quella monaca sono piuttosto segni di energia accumulata, repressa e quindi predominante.

    A Walter Lechler, medico specialista,  sta molto a cuore che nelle sue cliniche si pratichi il contatto fisico per fare sperimentare ai pazienti che la vicinanza non significa ancora, e per un periodo di tempo prolungato, un contatto sessuale. Oggi abbiamo bisogno di una nuova cultura dell”affettività e della tenerezza: ci libererebbe dall” ossessione della genitalità. Le donne e gli uomini non sposati non devono reprimere la loro sessualità; potrebbero invece contribuire a vivere una spiritualità pervasa dalla forza dell” éros e sviluppare una cultura della relazione interpersonale uomo-donna in cui non è in gioco il dominio bensì una tensione rispettosa e feconda tra i due sessi e un erotismo che da epoca immemorabile è stato – senza alcun problema – il fattore basilare della cultura.

    Ma in alcune comunità religiose è proprio inutile cercare una cultura della tenerezza perché a malapena ci si saluta con una stretta di mano. Nella tradìzione benedettina si usa salutarsi augurando la pace, ma anche lì si ritiene che sia già un progresso darsi la mano. In altre comunità viene praticamente a man­ care la possibilità di esprimere in modo naturale, cioè fisicamente, la prossimità all”altro. Non si tratta soltanto della tenerezza nella relazione interpersonale, ma anche del rispetto e della delicatezza verso le cose. Nell”attenzione che abbiamo per gli utensili, gli abiti o la macchina da scrivere si rivela senz’ altro se permettiamo alla nostra energia erotica e sessuale di permeare tutte le nostre manifestazioni vitali. Una sessualità non integrata emerge spesso dal modo brutale in cui trattiamo le cose. A volte c”è da spaventarsi e proprio nei conventi per la brutalità con cui vengono trattati gli attrezzi e i libri dei canti, ma anche per la durezza verso se stessi e verso gli altri.

    Una sessualità coscientemente e amorevolmente integrata si esprime nella cultura della vita, nel senso della festa, nel modo di sistemare e abbellire la camera, nell” attenzione per le cose quotidiane. Dal mo­ do in cui una comunità celebra le proprie feste si comprende se le persone che in essa vivono hanno fantasia e forza erotica da spendere per una cultura del l”affettività e della tenerezza, se hanno integrato la loro energia sessuale o se tutto questo non viene mai messo a tema e l”atmosfera è sterile. Dovremmo riscoprire l”erotismo e la sessualità in quanto forze dello spirito. Nella storia della mistica vediamo che la sessualità è la vera e propria fonte della spiritualità. L”energia sessuale costituiva per i mistici uno stimolo a trascendere se stessi e a diventare un tutt”uno con Dio nell”estasi dell”amore. L”integrazione della sessualità nel nostro cammino spirituale e umano ci inviterà a non sentirei soddisfatti perché conosciamo e adempiamo a ordini e regole e viviamo correttamente. La vocazione più profonda della vita consacrata consiste piuttosto  nel vederci e amarci come siamo, creature umane fatte di anima e di corpo,  nel superare il nostro piccolo lo e  nell”abbandonarci tra le braccia di Dio.

    In Evagrio Pontico (ca. 346-399) è ancora possibile avvertire come i monaci di quel tempo fossero af­ fascinati dalla loro dignità consistente nel poter pregare e, pregando, diventare tutt”uno con Dio, nell”es­ sere assunti nella comunione d”amore del Dio trino. Non si tratta di “toccare con mano” la sessualità, ma di lasciarsi trascinare da questa nell”amore di Dio. Per i monaci dei primi secoli la sessualità era una forza che spingeva verso Dio. Allora la vita religiosa offre la possibilità di trasformare la sessualità in spiritualità, se la accettiamo e la prendiamo sul serio. Nella storia della spiritualità, il celibato è stato certamente causa e sprone a non accontentarsi di un cristianesimo tiepido e borghese ma a continuare a tendere verso Dio, con passione e in modo sempre nuovo. Anche oggi gli ordini religiosi avrebbero il compito di vivere la tensione tra éros e mistica e di tener desta la Chiesa. La trasformazione della nostra sessualità, voluta da Dio, in spiritualità impegnata può tuttavia avvenire solo a condizione che ci riconciliamo e facciamo amicizia con la nostra sessualità, solo se sappiamo viverla armoniosamente e non la rinchiudiamo nella torre per paura dei cani che latrano, impedendole di parlare. La sessualità terrà desto il nostro desiderio di Dio, che anche nell”amore e nell”estasi coniugale rappresenta il terzo, misterioso e indicibile. Questo desiderio ci fa cantare con il salmista: «O Dio, tu sei il mio Dio, all”aurora ti cerco, di te ha sete l”anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz”acqua» (Sal 63,2).

    La malinconia e la depressione dell” anima

    Le depressioni sono un tema ricorrente anche nei conventi e nei monasteri. Qui bisogna distinguere tra quella che è una vera e propria malattia – cioè la depressione endogena che si può trattare solo con i far­ maci  e le depressioni reattive per mezzo delle quali rispondiamo ai lutti e ai traumi emotivi. A volte le depressioni fanno seguito anche a esaurimento interiore o ambientale. Non si ha più la forza di far fron­ te alle esigenze della vita quotidiana perché sono   eccessive oppure perché non siamo più collegati con la nostra fonte interiore di energia. Tra le persone di vita consacrata, le depressioni possono inoltre aver origine nella conseguente repressione della sessualità, che è senz”altro una forza vitale decisiva. In altre situazioni le depressioni sono anche il risultato di reazioni immature a delusioni e frustrazioni.

    Alcuni si deprimono se il superiore o la superiora non rivolgono loro la parola abbastanza spesso o non li considerano sufficientemente, quando cioè si sentono trascurati – come forse accadeva molti anni prima con il padre o la madre. Osservano con precisione quante volte e per quanto tempo i superiori parlano con i singoli confratelli o consorelle e, se ritengono di non essere altrettanto oggetto di attenzione, diventano gelosi o cadono in depressione. È chiaro che si tratta di comportamenti immaturi, di tendenze infantili a punire la madre o il padre che si occupano troppo poco del bambino.

    Altri religiosi vanno subito a terra con il morale se vengono criticati da un confratello o da una consorella oppure se in comunità ci sono delle tensioni che disturbano o addirittura minacciano di distruggere la felicità e l”armonia del loro paradiso infantile. Altri ancora cadono in depressione perché non si sentono considerati quali essi sono oppure perché non si fidano di mostrarsi come realmente sono. Altri infine vanno in depressione perché hanno paura di non essere all”altezza di fare ciò che viene loro richiesto. E la depressione è spesso conseguenza del perfezionismo: ci si deprime perché non si è perfetti come si vorrebbe o si ritiene di dover essere, perché non si corrisponde alle fantasie di onnipotenza dell”infanzia.

    Qui si pone il problema di come convivere con stati d”animo depressivi. Anzitutto, la malinconia può essere certamente anche fonte di creatività, come ha dimostrato Romano Guardini che per un certo periodo della sua vita ha sofferto di malinconia. Secondo lui, la malinconia richiama la depressione dell”anima. È vero che la depressione può fiaccare e diventare un”afflizione. Se però io mi rassegno al fatto di essere sensibile e continuamente soggetto a depressione, allora posso rendermi sensibile anche ai problemi altrui e la depressione può diventare anche fonte di matura zione. È però indispensabile che io entri nel pozzo della mia depressione, più o meno come fa Goldmarie nella fiaba Frau Holle. Finché la protagonista di questa favola continua a lottare contro la rassegnazione e la depressione, rimanendo in superficie, finisce sempre più nel vortice delle pretese eccessive. Quando invece si decide a saltar giù nel pozzo, atterra su un prato fiorito. È dall”interno che le cose si rivelano nella loro multiformità. E la depressione si trasforma in un mondo colorato.

    Mi spiego: non basta un pio tentativo di scacciare la tristezza e la malinconia, dicendoci che non possiamo essere tristi perché Dio ci ama. Nel momento della depressione questa misura non serve per uscirne. lo devo scendere nella mia tristezza, ammetterla, provarla fino in fondo; solo allora può succedere che questa si trasformi da sé, che toccato il fondo della tristezza io avverta una pace profonda. Improvvisamente scopro la profondità della vita, avverto la gravità dell”esistenza. Ma questa scoperta non mi rende infelice perché mi sento a contatto con il segreto della vita, con il segreto del mio vero Sé, con il segreto di Dio. Sul fondo della mia tristezza misuro la mia profondità e mi sento a casa. Se mi espongo ad essa, mi concilio con essa, la tristezza può diventare sorgente di preghiera e/o di nuova forza e creatività. Qualcuno sfugge alla tristezza tuffandosi nelle varie attività. La sua vita potrebbe però diventare più profonda e più colorata se si concedesse anche il tempo per la tristezza e la malinconia che affiorano in noi e che chiedono di essere vissute.

     

     

     

     

     

     

     

     

  • 05 Giu

    LA DIREZIONE SPIRITUALE

     

    di p, Attilio Franco Fabris

     

    – I –

    UNA VELOCE PANORAMICA STORICA

    Il termine “direzione spirituale” appare solamente verso il XVI-XVII sec. per indicare una forma istituzionalizzata di aiuto spirituale.

    Ma per comprenderne il profondo significato occorre andare molto all’indietro nei secoli onde voler scoprire le principali e diverse forme di “direzione»” che hanno trovato posto lungo la storia della spiritualità cristiana.

    Se dovessimo cercare in queste antiche e nuove forme un denominatore comune quella che potrebbe rappresentare l’archetipo di tutte dovremmo ricercarla  nel rapporto maestro/discepolo o padre/figlio.

    Ma anche nel caso del rapporto maestro/discepolo, per comprenderne lo specifico significato bisogna riandare al contesto culturale originario, ben diverso dal nostro; contesto in cui la trasmissione del sapere non avveniva tramite libri o computer (formazione nella quale d’altronde trova sottolineatura solo la dimensione intellettuale), bensì tramite un insegnamento orale e ancor più la testimonianza esemplare.

    Lo scopo era infatti trasmettere quella particolare ed eccelsa forma di sapere che è la «sapienza della vita»: ciò che il padre/maestro aveva a cuore era la formazione globale del discepolo/figlio.

    Anche nel caso il maestro dovesse trasmettere un insegnamento dogmatico la sua funzione non era ristretta all’essere semplicemente dottore: ma nell’essere maestro di vita (così l’”abbà” del deserto, lo staretz russo, il guru indiano, lo shaikh dell’islamismo).

    L’influenza del maestro non è data perciò solo e anzitutto dalla parola e dalla scienza, ma soprattutto con l’esemplarità della vita con la sua sapienza ed è questo ciò che il discepolo ricercava nel maestro.

    NELL’ANTICO E NEL NUOVO TESTAMENTO

    Nella tradizione biblica il Rabbî è il maestro spirituale. Già attorno ai profeti di svilupparono vere e proprie scuole formate da discepoli (cfr. Is 8,16). Troviamo nell’ambito scritturistico anche la figura dei «saggi d’Israele»: essi si rivolgono ai discepoli come da padri a figli, al fine di insegnare loro la sapienza. Questi saggi non si sostituiscono alla rivelazione scritta, ma ne indicano l’applicazione concreta nella molteplicità delle situazioni (cfr. Is 50,4).

    Nel Nuovo Testamento, Gesù si presenta come Rabbî con dei discepoli (Talmudim). I Vangeli ce lo presentano come Maestro autorevole che chiama liberamente a porsi alla sua sequela.

    Gesù sceglie i dodici affinché stiano con lui e condividano con lui la missione: tra maestro e discepolo troviamo dunque una comunione di vita.

    Ai dodici Gesù domanda fiducia e disponibilità e soprattutto umiltà (cfr. Mt 11,25-27).

    NELLA CHIESA POST-PASQUALE

    Soprattutto nelle lettere paoline appare una profonda coscienza della paternità spirituale che si colloca e si fonda nella linea della paternità di Dio.

    Troviamo spesso Paolo che si rivolge ai cristiani delle comunità da lui fondate chiamandoli “figlioli”. Egli afferma che  da parte sua vi è stato un parto di dolore finché non si formasse in essi Cristo (cfr. Gal 4,19).

    Scopriamo così un aspetto fondamentale della direzione spirituale ovvero che la paternità spirituale si situa nella chiesa come partecipazione alla paternità divina: l’autorità del «padre» nella fede dunque non gli appartiene, ma gli viene affidata da un carisma dello Spirito, carisma che è vissuto all’interno della comunità ed è ad essa riferito.

    NEL MONACHESIMO

    Fin dalle origini della vita monastica, come è testimoniato ad esempio dai Detti dei Padri, viene raccomandata al discepolo l’apertura della coscienza all’Abbà, al padre del monastero o al monaco a cui si è stati affidati (s. Basilio nelle Regole ricorderà “quelli che sono incaricati di sorreggere con misericordia e con comprensione i fratelli più deboli”).

    Solo una sincera apertura del cuore permette di discernere l’opera di Dio nella propria esperienza spirituale con l’aiuto dell’Abba.

    Ma se nell’oriente monastico tale disciplina fu sempre tenuta in grande considerazione non così in Occidente in cui tale prassi venne sempre più a diluirsi in quanto spesso sostituita da varie altre istituzioni: noviziato, capitolo delle colpe, conferenze…

    Gli ordini itineranti e mendicanti vennero ancor più a togliere spazio alla direzione spirituale personalizzata e di carattere psico-spirituale.

    IL PERIODO DELLA RIFORMA: L’ISTITUZIONALIZZAZIONE

    Nel  XVI secolo grande importanza e spazio nella vita spirituale inizia ad essere data alla pratica dell’orazione mentale. In tale prassi viene ad evidenziarsi sempre più la necessità di una iniziazione e di un costante controllo. Scriveva s. Teresa d’Avila: “Io ritengo per certo che un’anima di orazione che tratti con uomini dotti, non verrà mai ingannata dal demonio, a meno che non lo voglia lei stessa” (Vita).

    Compito del direttore di spirito è perciò offrire sicurezza all’anima che ha intrapreso la vita spirituale facendole intravedere onde evitarli tutti i possibili pericoli.

    Ancora nel ‘500 nasce ad opera di Ignazio di Loyola la prassi degli “Esercizi Spirituali” che richiedono una forma specifica di accompagnamento e di direzione.

    Qui il compito del direttore è di guidare l’esercitante alla ricerca della volontà di Dio su di lui, proponendo le meditazioni e discernendo i vari moti dell’anima (consolazioni, desolazioni….) che vengono a mano a mano ad emergere.

    Allargandosi la pratica degli esercizi spirituali, i responsabili della formazione dei sacerdoti e gli educatori dei giovani nei vari collegi si preoccupano di includere nel loro programma anche la formazione spirituale individuale, che viene così ad trovarsi estesa a fasce sempre più larghe di individui.

    Riassumendo:   A partire dal XVI secolo emerge perciò: – che si va sempre più insistendo sulla necessità della direzione spirituale – che la sua pratica viene ad essere sempre più estesa a tutti gli stati di vita cristiana – che il compito del direttore è di operare un controllo dell’autenticità del cammino spirituale del diretto. – che la direzione stessa viene ad essere oggetto di sistematizzazione e riflessione teorica – che pure il clero secolare viene riconosciuto idoneo ad offrire una direzione spirituale. A proposito di quest’ultimo punto va evidenziato come questo fatto fa sì che la direzione spirituale si leghi sempre più al sacramento della penitenza. La conseguenza di questo è che l’autorità del direttore spirituale venne per la quasi totalità assorbita o spesso confusa con quella data dalla giurisdizione sacramentale. Non sarà in seguito così semplice distinguere il consiglio dall’ingiunzione. E’ evidente che le caratteristiche proprie della direzione vennero ad essere spesso adombrate o addirittura distorte.
    II –
    UN PRIMO APPROCCIO AL TEMA

    La direzione spirituale è un tema vastissimo nell’ambito della spiritualità in quanto interessa diversi ambiti e discipline.

    COME AFFRONTARE IL TEMA

    Possiamo partire prendendo in considerazione due prospettive presenti nella pastorale di oggi. Esse possono apparire di primo acchito in contraddizione, mentre in realtà sono complementari.

    Da un lato troviamo una giusta valorizzazione della persona: vi è stata una riscoperta e riflessione sulla sua unicità, sulla sua dimensione storica…

    Si è compreso che ciascuno deve essere accolto, riconosciuto, valorizzato nella sua individualità. Questa unicità non può essere sminuita da sistematizzazioni o direttive generiche.

    Dall’altro lato evidenziamo l’esistenza della valorizzazione della comunità: in questo caso si è giunti alla consapevolezza che l’individuo non può esistere da solo, ha bisogno degli altri. Deve far parte di un gruppo per poter crescere e camminare. «Nessun uomo è un’isola» affermava Thomas Merton.

    Queste due istanze hanno fatto sì che la direzione spirituale fosse contestata in quanto sembrerebbe un impedimento per lo sviluppo di entrambe le prospettive.

    Ma a questa prima contestazione oggi forse è subentrata una ulteriore fase che è la trascuratezza: fare un cammino di direzione o no è irrilevante! Sembra non esservi più una tensione al miglioramento e alla crescita del proprio cammino spirituale. Le energie sono tutte incanalate nella direzione delle attività e dell’apostolato.

    CONTORNI E ORIZZONTI GENERALI

    Evidenziamo ancora alcune difficoltà che vengono poste alla prassi della Direzione Spirituale.

    Anzitutto esistono difficoltà di tipo teorico:

    La socializzazione: come già accennato la direzione spirituale è vista come retaggio di una mentalità e spiritualità individualistica ed elitaria. Ancor più si sente dire che oggi non ha senso spendere le energie per la pecora rimasta nel gregge e tralasciare le novantanove disperse.

    Lo spirito comunitario: è sufficiente il gruppo per il cammino spirituale, è la condivisione, il dialogo che fa crescere ‘individuo.

    Al massimo si può parlare di una direzione/assistenza spirituale per il gruppo.

    Lo sviluppo della psicologia: lo psicologo sembra aver preso il posto del direttore e la psicanalisi quella della direzione. Non rare volte poi accade che i successi della psicoterapia siano effettivamente migliori di quelli della direzione spirituale.

    Alcune linee teologiche emergenti:  si sottolinea il ruolo della libertà e della coscienza adulta. Colui che si fa dirigere rischia di non crescere impedendosi di divenire adulto nella fede.

    La dinamicità della vita spirituale: la vita nello Spirito è in definitiva un lasciarsi condurre dal maestro interiore. La spontaneità permette allo Spirito di agire in noi.

    La direzione spirituale rischia di trasformarsi in una palla al piede, in un impedimento in quanto mortifica e la spontaneità e la libertà.

    La direzione spirituale si ferma allo spirituale puro, mentre l’impegno di fede è diretto a un coinvolgimento anche nelle realtà terrene. La fede deve essere incarnata e non ristretta all’ambito delle “cose dell’anima”.

    Queste sono alcune difficoltà teoriche alle quali se ne potrebbero certamente aggiungerne altre. Dietro queste asserzioni si rivela il più delle volte una errata concezione o una prassi sbagliata della direzione spirituale. Una vera comprensione della direzione spirituale risolve le difficoltà sopraddette.

    Esistono poi difficoltà di ordine pratico:

    La scarsezza dei direttori: ma occorre ricordare che non tutti sono adatti ad offrire una direzione spirituale per cui è meglio che talvolta venga posto da questi un rifiuto.

    Ancora: il rifiuto del direttore potrebbe essere dato dalla presa di coscienza delle motivazioni e degli atteggiamenti negativi di colui che fa richiesta di essere accompagnato spiritualmente: potrebbero infatti esistere meccanismi di fuga, di delega, di ricerca di sicurezza; oppure chi fa richiesta di direzione tende  a caricarla di attese indebite e sproporzionate, quasi magiche (come il più delle volte capita per sofferenze di tipo psicologico).

    Esiste inoltre una prassi errata: molti pensano di fare direzione spirituale, ma si fermano ad un livello psicologico-umano, oppure a problemi morali, o giuridici disattendendo la vera funzione della direzione.

    Offriamo perciò una prima chiarificazione: la direzione spirituale non è formalmente lavoro né da psicologi, né da moralisti, né da canonisti, né da sociologi, né da teologi, né da catechisti, né da evangelizzatori. Anche se è augurabile che il direttore spirituale abbia conoscenze basilari delle discipline umane e teologiche, non fosse altro per essere accorto nel non volerle e doverle usare.

    – III –
    NECESSITA’ DELLA DIREZIONE

    La necessità della direzione spirituale emerge da un’attenta analisi della situazione in cui il cristiano soprattutto oggi si trova a vivere. Ne elenchiamo alcune ad esempio.

    La complessità della vita e la complessità culturale:

    Inevitabilmente essa genera conflitti, ansia, indecisione. Molti vivono situazioni di scoraggiamento e disorientamento. E’ evidente che chi vive il problema soprattutto in modo acuto domandi un aiuto, e chieda una guida nella sua ricerca.

    La necessità di superare il soggettivismo selettivo e l’oggettivismo astratto:

    Da un lato ci si rende conto del rischio di divenire schiavi della situazione e dall’altro di trasformarsi in schiavi della legge. Trovare un giusto equilibrio è difficile ed esige un accorto discernimento. Il confronto è indispensabile perché da soli è pressoché impossibile essere oggettivi nei propri confronti.

    Il desiderio di significatività:

    La domanda di senso è ciò che maggiormente tocca l’uomo di oggi. Essi soprattutto in momenti critici si impone alla coscienza. Ecco allora che la ricerca di un significato, di un perché nella e della vita ad un certo punto si impone nel cammino di una persona che desideri vivere in profondità.

    Il passaggio dalla morale alla fede e l’incarnazione dei valori

    Questo passaggio significa desiderare ad un certo punto operare il superamento dal «Ma che male c’è?», al «Come è meglio fare?». Ciò significa interrogarsi su come incarnare nel proprio quotidiano quei valori che si stanno scoprendo nel proprio cammino.

    – IV –
    NATURA E COMPITI DELLA DIREZIONE SPIRITUALE

    La direzione spirituale in che cosa consiste? Che cosa è? Diamo una definizione:

    «Parliamo di direzione spirituale quando il credente alla ricerca della pienezza di vita cristiana riceve un aiuto spirituale che lo illumina, lo sostiene e lo guida nel discernere la volontà di Dio per raggiungere la santità» (C.A. Bernard)

    La definizione insiste sulla funzione di discernimento che investe l’intero vissuto della direzione.

    In questa definizione appare sottolineato come lo scopo della direzione spirituale è di far sì che si possa apprendere ad intuire la volontà di Dio nel concreto della propria vita apprendendone sempre di più il metodo.

    Per questo la direzione spirituale è in fin dei conti una educazione alla maturità cristiana, una vera e propria pedagogia alla libertà e della libertà. (Diceva san Francesco di Sales: «“Scopo del direttore è far sì che il diretto impari a far meno del direttore”»!).

    Vi è dunque la necessità nel contesto soprattutto della direzione spirituale e da ambe le parti di una docilità allo Spirito, un riconoscere la sua presenza e la sua azione. Non dimentichiamo: lo Spirito è il fulcro, l’attore, il soggetto principale, e la “vita spirituale” è il termine verso cui mirare.

    Solo questo atteggiamento i fondo fa sì che si operi l’educazione alla pienezza della vita cristiana superamento la visione riduttiva di un impegno solo morale.

    Il direttore accompagna nell’opera di discernimento, offre gli strumenti, indica un metodo, offre una presenza. Anche se questo non toglie che per arrivare all’ottimo si debba seguire un itinerario educativo progressivo.

    – V –
    LA RELAZIONE NELLA DIREZIONE SPIRITUALE

    Potremmo porci altri interrogativi: che tipo di relazione si instaura nella direzione spirituale? Come inizia? Come si sviluppa? Quale è il “luogo” e “tempo” privilegiato? Quale il ruolo dei due partners?

    E’ ovvio che la direzione spirituale possiede tutte le caratteristiche una relazione tra due persone. Occorre perciò interrogarci sui termini stessi che hanno lo scopo di  esprimere tale relazione.

    Essi sono numerosi. Quale il significato di questo fatto? Di certo che non si intende univocamente la relazione nella direzione spirituale, ma che essa viene ad essere interpretata, vissuta,  sviluppata in molteplici modalità ed accentuazioni.

    Infatti si parla ad esempio di:

    – direzione spirituale / direttore / diretto

    – paternità spirituale / padre spirituale / figlio spirituale

    – Accompagna.

    ..

    gia anche degli elementi negativi:

    non è presente nell’ambito della rivelazione biblica.

    Il termine “diretto” soprattutto può sembrare infelice: infatti dà l’idea che sia qualcun altro a spingere in una “direzione” preordinata, mentre abbiamo ben compreso come sia lo Spirito a dirigere, o meglio “attirare”, intendendo la funzione del “direttore” come una semplice mediazione.

    I termini direttore/diretto indicano anche grammaticalmente una relazione in cui uno è attivo e l’altro passivo con la relativa possibilità di distorsione nell’intendere la direzione nella linea dell’autorità e dell’obbedienza.

    Per intendere correttamente il termine “direzione” occorre ricordare che le persone coinvolte della relazione non sono due bensì tre. Infatti la presenza e l’azione dello Spirito Santo garantisce la libertà di colui che domanda aiuto ed impedisce la manipolazione da parte di colui che “dirige”.

    Il direttore ha come compito il facilitare l’incontro tra diretto e Spirito Santo. In questo senso dovrebbe desiderare di rivivere l’esperienza spirituale e carismatica di Giovanni Battista, voce della Parola: “Lui deve crescere, io diminuire”.

    Il diretto, da parte sua, deve porsi nell’atteggiamento dell’imparare ad accogliere con sempre maggior docilità la presenza e la funzione del direttore come mediazione della sua relazione con Do, ovvero sulla linea del “sacramento”.

    Sarebbe evidentemente cattivo direttore colui che stesse al gioco del diretto che ricercasse in lui una forma di sicurezza, di delega della propria responsabilità, o peggio una dipendenza di tipo infantile.

    PATERNITA’ SPIRITUALE: / PADRE SPIRITUALE / FIGLIO SPIRITUALE

    L’interpretazione di tale schema sulla linea della relazione familiare comporta elementi positivi e negativi:

    positivi:

    – si tratta di una relazione di aiuto

    – è inteso come un rapporto pedagogico

    – evidenzia una componente affettiva e di donazione.

    negativi:

    – il padre nella relazione naturale ha vera autorità, realtà che non compete al paternità spirituale

    – il termine padre oggi è compromesso dal clima culturale che tende, almeno inconsciamente, a cancellarlo.

    – la possibilità di un vissuto del rapporto secondo  transfert (questo da entrambe le parti)

    – Gesù invita a non chiamare nessuno padre, in quanto vi è prioritariamente una relazione basilare di fratellanza tra i discepoli.

    Ha senso leggere la relazione come “paternità” se essa viene vissuta e intesa come “sacramento” della relazione che si ha con il Padre celeste, e se è vissuta da entrambi come un rapporto di figliolanza dall’unico Padre e quindi di conseguenza di fratellanza.

    ACCOMPAGNAMENTO SPIRITUALE/ GUIDA SPIRITUALE / CONSIGLIERE

    Tale terminologia è molto usata in questi ultimi anni.

    Positivamente essa tende a restituire il giusto ruolo di protagonista a colui che ricorre all’aiuto spirituale.

    Si sottolinea la dimensione dinamica della vita spirituale, il suo essere itinerario progressivo mai concluso per ambedue, guida e “guidato”. Entrambi sono chiamati a mettersi in cammino.

    Il termine “consigliere” evidenzia soprattutto il carattere non impositore né autoritario della guida.

    Richiama direttamente allo strumento privilegiato adottato nel rapporto che è il consiglio. Quest’ultimo richiede riflessione e interiorizzazione e quindi è ricevuto in piena libertà offrendosi alla responsabilità di chi lo riceve al fine di divenire principio di azione.

    VI
    IL COLLOQUIO E IL DIALOGO SPIRITUALE

    E’ attraverso l’esperienza del colloquio interpersonale che principalmente si attua la pedagogia della direzione spirituale.

    La modalità in cui il colloquio si svolge è il dialogo: dobbiamo ritrovare dunque nella direzione spirituale le linee e le leggi del dialogo che la riflessione filosofica, psicologica e pedagogica hanno sviluppato in questi ultimi decenni.

    E’ importante operare una discriminazione anzitutto del vero dialogo dalla predica, dalla discussione, dalla conversazione.

    La “predica”: il monologo sarebbe un tipo di direzione univoca e autoritaria, non vi è incontro ma solo offerta di contenuti  da un lato e ricezione passiva dall’altro.

    La conversazione: è uno scambio tra pari, vi è il rispetto dell’interlocutore. Il primo scopo è alimentare la relazione, i contenuti passano in secondo piano. Non si affrontano problematiche determinate.

    La discussione: si muove sul piano della ricerca della verità oggettiva. Vi è comunicazione vicendevole di idee ed opinioni. L’interlocutore perciò passa in secondo piano.

    Il dialogo: quest’ultimo tipo di confronto tra due persone cerca di armonizzare e integrare le esigenze di ordine logico e quelle di ordine psicologico, l’oggettività e la soggettività, in una ricerca della verità che deve trovare incarnazione nell’esistenza della persona.

    Ovviamente la direzione spirituale si colloca nell’ambito della metodologia del dialogo, mentre non sarebbe possibile definire direzione spirituale quella che si riducesse ad essere predica, conversazione o discussione.

    Il vero dialogo non è semplice da realizzare, anzi è difficile.

    Esso richiede da un lato un’accoglienza incondizionata dell’altro e una autentica ricerca del vero e del bene dall’altro.

    Si tratta di considerare la persona concreta con la sua storia, le sue ricchezze e i suoi limiti e, nel medesimo tempo, la verità verso cui tendere; intendendoli non come fattori contrapposti in cui uno debba necessariamente sopraffare l’altro, ma come due realtà necessariamente in continuo dialogo, in continua ricerca di integrazione per un inveramento reciproco.

    CONTENUTI del DIALOGO

    Il contenuto fondamentale della direzione spirituale si può sintetizzare nel fatto che a partire dall’esperienza passata, attraverso la presa di coscienza del vissuto presente, colui che intraprende il cammino della direzione deve discernere un orientamento per il suo futuro.

    A.   Passato

    Considerare e prendere in esame il passato non significa fermarsi ad analizzare i problemi, ciò che interessa è arrivare a cogliere la persona come è e come si trova in questo preciso momento:  questo punto ovviamente è frutto di tutto il passato.

    Se la direzione spirituale dovesse ricercare l’origine ai problemi nel passato non sarebbe direzione spirituale, questo sarebbe competenza di una psicoanalisi.

    La lettura del passato nella direzione spirituale è soprattutto sapienziale, ovvero come occasione per scoprire un cammino, un senso, una presenza.

    B.   Presente

    La domanda a cui il diretto dovrebbe giungere a rispondere è: come si sta realizzando la mia vita spirituale oggi?

    Questo significa educare ed educarsi a:

    – cogliere i “fatti spirituali” dell’esistenza prendendo coscienza di tutto il proprio vissuto, interiore ed esteriore;

    – saper descrivere e comunicare tali “fatti spirituali”. Molte persone li avvertono ma in modo confuso rimanendo perciò in balia del momento e dell’emotività. Oggettivando al contrario si ha a disposizione la possibilità di ordinare e costruire il proprio vissuto.

    In tal senso se ne deduce come la direzione spirituale assuma il valore di una scuola privilegiata di comunicazione, comprensione e maturazione della fede.

    – saper valutare rettamente la propria esperienza, operando su di essa un discernimento.

    C.   Futuro

    L’analisi del passato e del presente è fatta in vista del futuro per sapersi sempre più orientare verso ciò che viene colto ed intuito come volontà di Dio

    Da un punto di vista concreto quali tematiche dovrebbero essere  affrontate?

    Diamo qui una possibile struttura di contenuti:

    – Conoscenza reciproca: ritratto della propria vita umana, familiare, sociale, ecc…; spesso, quando si inizia una direzione spirituale con una persona, ci si accorge molto bene se essa ne abbia già una certa pratica proprio dal fatto che spontaneamente espone e presenta un quadro generale della propria vita contestualizzandolo nell’ambiente in cui è chiamata a vivere.

    – Stato psicologico generale (contento, arido, triste, euforico, consolato, desolato…? ) Soprattutto è importante arrivare a conoscere il “perché” e ad analizzare le motivazioni profonde.

    – Stato di salute fisica

    – Problemi relativi equilibrio affettivo (per esempio simpatie, antipatie, amicizia, relazioni, sessualità …)

    – Problemi di rapporto e di adattamento con gli altri (nel mondo della famiglia, della scuola, del lavoro, del tempo libero e dei divertimento…)

    – Idee e visioni su problemi generali della vita (come la pensi su… ?)

    – Successi ed insuccessi nel lavoro, in famiglia, con gli amici…

    – Difetti e tendenze interiori. Anche i peccati? Possono e non possono essere significativi.

    – Esercizio delle virtù teologali della fede, della speranza e della carità.

    – Povertà, castità, obbedienza….

    – Senso della persona umana, visione dell’uomo e senso del mistero.

    – Modo di vedere Dio, Gesù Cristo, la Chiesa, Maria, il regno…

    – Disponibilità, spirito di sacrificio, abnegazione e mortificazioni

    – Preghiera, Parola di Dio e Sacramenti: concetto, e pratica…

    – Missionarietà, apostolato, testimonianza e servizio:

    – Decisioni:  dalle più semplici alle più impegnative…

    In sostanza capiamo come tutto il vissuto personale considerato e analizzato in ordine alla santità e ad un cammino sempre più attento e preciso alla via del Signore.

    Ripetiamo a mo’ di conclusione che la caratteristica fondamentale della direzione spirituale debba essere dinamica, ovvero intesa come itinerario, cammino, con delle tappe con una crescita, con inevitabili momenti di entusiasmo, di stanchezza, di conflitti.

    Occorre da ambedue le parti accettare questa evoluzione che interessa la relazione stessa e le sue modalità.

    Questo significherà ad esempio per il direttore accettare che più la crescita avviene meno si senta la necessità di una sua presenza costante come guida.

    In sintesi: la maturità attende da entrambi determinati passaggi, con le rispettive esigenze.

    – VII –
    ATTEGGIAMENTI FONDAMENTALI

    Quali le qualità, gli atteggiamenti richiesti al direttore spirituale e al diretto? Quale la formazione richiesta al direttore?

    Iniziamo dal direttore spirituale, dicendo in primo luogo il detto classico: «Nessuno può dare ciò che non ha!»

    – La Maturità spirituale:

    Essa comporta una vita teologale intensa, la libertà interiore (ricordiamo che l’”indifferenza” è un requisito fondamentale per il discernimento), la coscienza della propria identità, una buona conoscenza di se stesso (proprie luci ed ombre), un buon equilibrio psicologico che dia la possibilità di una unificazione e pacificazione interiore.

    – L’Attitudine alla ricerca:

    Ovvero un desiderio reale di ricercare la verità (la volontà di Dio), una chiarezza di fondo circa il fine e i mezzi da perseguire, il possesso di una gerarchia di valori e di un sistema axiologico di cui avvalersi come criterio di discernimento.

    – La Purificazione del cuore e la conversione:

    Il che comporta una spinta continua al rinnovamento (non ha senso l’affermazione: “Tiriamo i remi in barca” o peggio “Lasciateci vivere e morire in pace”). Un buon direttore è sempre alla ricerca del “Come è meglio fare?”.

    – Il Rapporto personale con Cristo:

    La familiarità con Cristo e la sua Parola, la stima e l’esercizio costante della meditazione, l’adesione alla missione e alla sequela crucis, l’unione profonda sacramentale con Cristo presente nella Chiesa: tutto questo diviene alimento indispensabile alla vita spirituale e sorgente di fecondità.

    – Il Senso ecclesiale:

    Il vero discernimento si fa nella Chiesa. L’oggetto di discernimento  non può essere qualcosa che vada contro la chiesa e il soggetto del discernimento deve sentirsi prima di tutto “parte” e “membro” della Chiesa.

    Il direttore deve educare il diretto al vero “sentire con la Chiesa e nella Chiesa”.

    – Il Senso del positivo:

    Si richiede cioè forte capacità, da parte del direttore, di apprezzare e di far emergere la positività delle situazioni e del vissuto interiore. Non si tratta di ingenuità, ma di capacità di vedere l’azione e la presenza dello Spirito Santo sempre e ovunque.

    Uno sguardo positivo che rimanda alla fiducia è condizione essenziale per la crescita autentica dell’altro.

    – La Capacità di creare un clima di fede, di speranza e carità:

    Solo tale clima infatti permette di porsi nei confronti di Dio in una giusta lunghezza d’onda.

    – La Capacità di ascolto:

    E’ un atteggiamento apparentemente facile, ma non si deve nascondere la sua reale fatica e difficoltà. Il vero ascolto deve coinvolgere l’intera persona (fisicamente, psicologicamente, affettivamente…). L’ascolto richiede soprattutto la disponibilità a lasciarsi “toccare” dal vissuto dell’altro (empatia) senza lasciarsene coinvolgere.

    Il rapporto con l’altro esige lasciar entrare l’altro nella propria vita, concedendogli spazio, tempo, cuore, intelligenza, attenzione, affetto. Certo una tale disponibilità richiede sacrificio ed abnegazione al direttore, che soprattutto in tal atteggiamento dimostra la sua vera paternità.

    Si tratta di un ascolto attivo (capacità di registrazione, rapida valutazione, capacità di distinguere il fatto dall’interpretazione, il saper interrogare…).

    Solo un vero ascolto permette di percepire l’altro, il suo mistero, di intuire il suo vissuto e quindi poter saggiamente consigliare.

    E ora passiamo agli atteggiamenti richiesti al diretto. Ne ricordiamo in modo particolare due:

    – L’Apertura e la manifestazione della coscienza:

    si tratta ovviamente della sincerità di fondo che è retta intenzione.  E’ una premessa essenziale, perché senza sincerità non vi sarebbe verità e quindi autentica apertura alla volontà di Dio.

    Si tratta anche di acquisire capacità di descrivere non solo i fatti esterni alla propria coscienza, ma anche e soprattutto i fatti interiori (disposizioni, desideri, mozioni, sentimenti…).

    – La Disponibilità a lasciarsi mettere in discussione:

    Se da parte del diretto vi fosse l’atteggiamento (implicito od esplicito) a voler confermare le proprie opinioni e scelte, non vi sarebbe nessuna capacità di aprirsi autenticamente alla volontà di Dio.

    Gli antichi parlavano in questo senso di una imprescindibile umiltà nel vivere la realtà della direzione spirituale.

    – VIII –
    FORMAZIONE DEL DIRETTORE

    Si richiedono tre tipi di formazione complementari:

    la formazione antropologica: conoscenza della scienze umane (soprattutto psicologia e pedagogia)

    la formazione teologica: conoscenza della teologia biblica e spirituale

    la formazione spirituale esperienziale tramite la direzione ricevuta e data.

    Il discernimento è arte o tecnica? A questa domanda credo si possa rispondere che fondamentalmente esso sia un dono , un carisma vero e proprio dato dallo Spirito per l’edificazione della Chiesa nei singoli credenti. Ciò non toglie che in certa misura tutti i cristiani lo hanno ricevuto in quanto tutti sono chiamati ad essere corresponsabili gli uni per gli altri.

    Il fatto che sia carisma non esclude tuttavia che non sia esercitato con profitto soprattutto da chi possiede doti e capacità costitutive alla sua struttura personale e alla sua storia.

    E’ di fondamentale importanza che colui che esercita la direzione abbia compiuto un lavoro su di sé a livello ascetico, spirituale, e possibilmente anche psicologico. E’ importante prima di presumere di aiutare gli altri l’umiltà del farsi aiutare ad essere sempre più trasparenti nei propri confronti.

    – IX –
    PROBLEMATICHE PARTICOLARI

    LA SCELTA DEL DIRETTORE

    Il direttore lo si sceglie. Certo è giusto che lo si indichi e proponga da parte dei responsabili, ma facendo attenzione che la persona si senta libera .

    Il direttore deve essere maestro di scienza o di esperienza? L’ideale sarebbe che entrambi le doti si trovassero riassunte in una persona, ma è raro. Non sempre si può aver l’optimum.

    In questo senso nella scelta occorre prendere in esame il punto del cammino in cui il diretto si trova: per gli incipienti infatti è più importante che si tratti di uomini di esperienza, mentre per chi più è avanzato può essere di maggior aiuto l’uomo di scienza (questa è l’esperienza ad esempio di s. Teresa d’Avila).

    DIREZIONE SPIRITUALE E PSICOLOGIA

    Sembra talvolta che la psicoterapia soppianti la direzione spirituale.

    In primo luogo occorre riconoscere che una corretta psicologia che faccia sua la visione antropologica aperta ai valori della fede, rappresenta un reale aiuto allo sviluppo della persona in modo particolare se nel suo vissuto permangono aspetti conflittuali o addirittura nevrotici. Ricorrere ad essa è saggio se non addirittura doveroso.

    Essa può essere vista come una opportunità di una pulizia/purificazione interiore, a tutto vantaggio di una successiva o concomitante direzione spirituale.

    Per il cristiano la dimensione psicologica se pur importante non rappresenta tuttavia la sintesi del mistero della persona umana (la psiche non è l’anima!).

    La crescita spirituale e lo sviluppo della vita cristiana non è frutto solo delle strutture psicologiche, ma sono iniziativa che nasce anzitutto da Dio, dalla presenza del suo Spirito in noi, il quale passa attraverso tali strutture  e mediazioni.

    In questa visione la psicologia rappresenta certamente un valido aiuto nella conoscenza dell’uomo e dei suoi dinamismi, ma non è lei ad offrire le motivazioni ultime dell’agire umano. E’ causa dispositiva ma non possiede efficienza causale (potremmo paragonarla alla necessaria e buona revisione dell’auto di tanto in tanto).

    Quale relazione tra direzione spirituale e psicoterapia? Non mancano casi in cui si domanda alla guida spirituale la soluzione a problematiche che non sono di sua competenza. In questo caso i “clienti” caricano di significato spirituale e religioso problemi che sono di natura strettamente psicologica. Il direttore dovrebbe allora demandare allo psicologo.

    In altri casi invece avviene che il ricorso alla psicologia rappresenti un approccio troppo riduzionistico  della persona e delle sue problematiche: lo psicologo dovrebbe allora demandare al direttore spirituale.

    La premessa essenziale  è che non vi deve essere confusione, ma distinzione e quanto più possibile armonia.

    In questo senso il lavoro del direttore non deve andare a scapito della psicoterapia e viceversa. (Nel caso apparisse una contraddizione insanabile nei due approcci il direttore inviti ad una scelta precisa). L’integrazione dei due aspetti è compito del diretto.

    Il direttore deve appoggiare al massimo il lavoro dello psicoterapeuta e lo psicologo deve evitare di “smontare” il cliente dal punto di vista religioso. Occorre cercare di operare una distinzione dei piani: ovvero quanto ad esempio della visione religiosa del paziente sia da purificare e modificare e quanto invece da sostenere e potenziare.

    LA DIREZIONE SPIRITUALE E IL SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE

    E’ bene che il direttore spirituale sia anche il confessore? E’ utile che la direzione spirituale avvenga all’interno della celebrazione del sacramento?

    Risponderemo dicendo che non è sempre detto che sia meglio che il direttore spirituale svolga anche le funzioni di confessore abituale del “diretto”, non solo per motivi pratici (ad es. la distanza), ma anche per motivi legati alla diversità di funzione esercitate.

    Certo non vi è nulla di contrario all’esercizio della direzione spirituale nell’ambito del sacramento della penitenza. Occorre tuttavia assicurare il clima adatto per i due momenti che non devono andare a discapito l’uno dell’altro, e ancora che siano salvaguardate le caratteristiche specifiche di entrambe.

    DIREZIONE SPIRITUALE E SACERDOZIO

    Ricordiamo che nei primi secoli la direzione spirituale era compito specifico dei monaci che erano dei laici. Quindi la direzione spirituale nasce nel contesto laicale e non ministeriale.

    Questo ci aiuta a comprendere che la direzione spirituale non è appannaggio esclusivo dei sacerdoti.

    Sarebbe ad esempio auspicabile la riscoperta del valore della direzione spirituale come servizio anche laicale ( ad esempio all’interno delle comunità femminili).

    FREQUENZA E DURATA

    Non si può dare una regola precisa, in quanto la frequenza e la durata variano a seconda delle persone e delle problematiche.

    Tuttavia si può ricordare che essa non deve essere né troppo pressante (impedirebbe il lavoro personale) né troppo allentata (verrebbe a mancare la tensione).

    E’ utile ricordare che invece è di fondamentale importanza la costanza, in modo che la richiesta non sia lasciata alla determinazione di desideri immediati che per lo più sono dettati o suggeriti da stati emozionali più che da obiettive necessità personali.

    TESTI

    Dal Catechismo degli Adulti, La verità vi farà liberi, nn. 934-5

    Il cammino, a parte vocazioni molto particolari, non deve essere solitario. I fratelli sono poveri come noi, ma sono cooperatori di Dio per la nostra santificazione. E’ importante l’inserimento in un gruppo di formazione, in una esperienza concreta di Chiesa. E’ prezioso, e almeno in alcuni momenti necessario, un consigliere o direttore spirituale. Si tratta di un educatore che, servendosi prevalentemente del dialogo, aiuta a discernere la volontà di Dio e a compierla. Viene scelto liberamente e mantenuto stabilmente, perché possa conoscere bene, consigliare con chiarezza, istruire, stimolare, correggere con gradualità. E’ preferibile che sia un sacerdote, anzi il confessore; ma può essere anche un’altra persona, purché abbia le qualità necessarie: pietà, zelo , umiltà, equilibrio, scienza, esperienza, bontà, disinteresse, riservatezza. Al consigliere spirituale si deve aprire il cuore con sincerità e fiducia. Le sue direttive vanno seguite con docilità. Infine il cammino spirituale per non rimanere velleitario, deve darsi un’appropriata disciplina. Contro la pigrizia e le eventuali crisi di scoraggiamento occorre seguire un programma di vita, realistico, commisurato alle proprie possibilità, flessibile, ma con alcuni punti fermi. Ognuno deve camminare con il suo passo, ma con perseveranza.”

     

  • 02 Giu

    LA VITA RELIGIOSA:
    DONO DELLO SPIRITO ALLA CHIESA


    di p. attilio franco fabris

     

    Mi rifaccio in sintesi al CdA, ai nn. 497-509, in cui si parla dell’”Unità e varietà nella Chiesa”.

    Nel giorno di Pentecoste lo Spirito è dato a tutti e in abbondanza; la profezia veterotestamentaria per i tempi messianici si è realizzata (cfr At 2,17).

    Tutti dunque ricevono lo Spirito

    tutti sono incorporati a Cristo mediante il battesimo

    tutti sono figli del Padre e fratelli tra loro

    tutti riceveranno la stessa eredità.

    Tutti sono chiamati alla santità che è perfezione della carità.

    Tutti cooperano ad edificare la Chiesa e partecipano della sua missione (Red.Missio, 90).

    Sparisce ogni differenza? Domanda il catechismo.

    Certamente no: dallo stesso Spirito derivano unità e varietà.

    Ade esempio gli Atti affermano che tutti i credenti hanno una funzione profetica: alcuni però ricevono un dono particolare di profezia (At 21,9-10). Tutti partecipano alla vita comunitaria ma ciascuno vi svolge un ruolo specifico (apostoli, diaconi, anziani…)

    L’unico e identico Spirito concede doni diversi “per l’utilità comune”.

    L’unica Chiesa si edifica e compie la sua missione con il contributo di vari carismi, ministeri, stati di vita, vocazioni.

    Tutti sono abbastanza poveri per dover ricevere; tutti abbastanza ricchi per poter dare”. Diceva santi’Agostino: “Come un uomo vede con gli occhi, ode con gli orecchi, sente odori con le narici, parla con la lingua, a ognuno il suo compito, così lo Spirito santo, in alcuni santi compie miracoli, in altri annuncia la verità, in altri custodisce la verginità, in altri ancora custodisce la pudicizia coniugale, in alcuni santi questo, in altri quello; a ciascuno concede di realizzare l’opera propria, a tutti parimenti di vivere” (Discorsi 276,4).

    Siamo introdotti così al tema dei carismi. Cosa sono? “I carismi sono grazie speciali dello Spirito Santo, con le quali ogni fedele viene reso adatto e pronto ad assumere qualche compito e a svolgere qualche attività, in modo da giovare direttamente o indirettamente, alla santità della Chiesa, alla sua vitalità apostolica, al bene delle persone e della società”.

    Sono dati dunque per il bene degli altri oltre che ovviamente per la persona stessa a cui sono concessi in ordine al suo cammino di santificazione. La capacità di contribuire al bene degli altri di solito è strettamente legata alla qualità della propria vita spirituale.

    I carismi vengono concessi a tutti i fedeli. “Sono dati alla persona singola, ma possono anche essere condivisi da altri”, possono prolungarsi nel tempo e passare da una generazione all’altra “come una preziosa e viva eredità” (Giovanni Paolo II, CL,24).

    Sono innumerevoli, e vanno da quelli ordinari, a quelli straordinari, alcuni occasionali, altri permanenti.

    Tutti sono ugualmente preziosi, devono essere accolti con gratitudine e consolazione, vanno integrati e valorizzati da una pastorale di comunione.

    Alla varietà dei carismi corrisponde una varietà di servizi. Quelli stabili e pubblicamente riconosciuti sono chiamati ministeri.

    Accanto alla varietà dei ministeri si collocano la varietà degli stati di vita: ovvero modi stabili di configurarsi a Cristo, di rapportarsi agli altri e alle cose.

    Lo stato di vita di speciale consacrazione è caratterizzato dalla testimonianza della vita del mondo che verrà (Giovanni Paolo II, CL,55).

    Riconosciamo dunque l’impulso, l’azione vivificante, dello Spirito che cin inctroduce alla dinamica del mistero di Cristo e della vita della Chiesa, tramite il dono, il carisma dello stato di vita di speciale consacrazione.

    Riconosciamo in lui l’autore della “nostra scelta”.

    A noi lo Spirito suggerisce una modalità specifica di sequela di Cristo, affinché la nostra vita testimoni al mondo un aspetto peculiare del mistero di Cristo. E’ questo il compito a noi affidato. Le persone consacrate “animate dalla carità che lo Spirito infonde nei loro cuori, sempre più vivano per Cristo e per il suo Corpo che è la Chiesa”.

    Lungo la storia si è dipanata la ricchezza straordinaria dei doni dello Spirito. Molteplici fondatori, molteplici carismi, molteplici spiritualità….

    E’ tutta opera incessante dello Spirito che rende perennemente presente e attuale nella Chiesa e nel mondo il mistero di Cristo.

    Lo spirito nella vita del consacrato è forza vitale sempre nuova.

    La vita consacrata ha anzitutto il compito di testimonianza profetica: questa è vera, possibile, solo quando nelle nostre comunità vi è la presenza e l’azione dello Spirito che spinge a decisioni concrete in vista del regno di Dio.

    Il consacrato vive interiormente una vita spirituale, ovvero secondo lo Spirito, nello Spirito. Cosa significa ed implica “docilità”?

    Il consacrato è chiamato ad entrare nel mistero di Cristo tramite la contemplazione, tempo e spazio dato allo Spirito affinché modelli in noi il volto di Cristo.

    Quanto spazio gli si dà affinché porti a compimento questa opera?

    L’azione dello Spirito è chiamata a pervadere tutto l’uomo: pensieri, affetti, volontà, corporetità…

    Esistono in qualche direzione delle forti resistenze a questa “invasione” dello Spirito?

    L’azione dello Spirito in me e nella comunità è in vista dell’edificazione della Chiesa tutta, e di riflesso per la deificazione-spiritualizzazione di Questo mondo. Mi metto in discussione per cogliere elementi contrastanti, per non ostacolare questa spinta dello Spirito in avanti?

  • 30 Apr

    IL VALORE DEL SILENZIO

     

    di Enzo Bianchi

     

    Viviamo in un’atmosfera di rumore assordante, non solo esteriore, ma anche interiore, i cui effetti ricadono su tutta la nostra vita, sempre più vuota, superficiale, impermeabile a ciò che richiede un ascolto e un’attenzione vigilante. Siamo saturi di informazioni come di pubblicità, eccitati da impressioni molteplici ed eterogenee, e così ci sembra che l’unica difesa sia diventare a poco a poco indifferenti quasi a tutto, se non cinici. Parole, suoni, rumori, immagini vogliono calamitare la nostra attenzione e cercano l’emozione, la novità, il sensazionale, la sorpresa.
    Viviamo sovrastimolati, con tanti “fornitori di contenuti” che si preoccupano dell’audience, mentre “l’ascolto” è atteggiamento sempre più raro. E il silenzio, che all’ascolto è indispensabile, ci inquieta perché è percepito come una forma di passività, una patologia, una zona della nostra esistenza spiacevole ed estranea, nella quale ci capita magari di finire, ma dalla quale vogliamo uscire al più presto, come dal buio, dal vuoto, dal nulla.
    Poi accade che dei media potenzialmente e abitualmente “rumorosi” – il cinema e la televisione – presentino due documentari che narrano il silenzio, ed ecco l’inatteso: migliaia di spettatori, stupiti, seguono per 160 minuti le scene girate durante sei mesi dal regista tedesco Philip Groning alla Grande Chartreuse di Grenoble, con solo due brevissimi dialoghi, l’ultimo dei quali sigilla la pellicola con un anziano monaco cieco che esclama: “Sì, siamo felici”; analogo successo di spettatori lo ottiene la BBC con una serie dal titolo “The Monastery”, trasmessa in prima serata, girata nell’abazia benedettina di Worth: nessun reality show, semplicemente la vita fatta di preghiera, lavoro, pasti, letture di un ventina di monaci avvolti in un clima di silenzio e quiete.
    Cosa c’è dietro questi sorprendenti successi mediatici? Curiosità per una vita altra? Fascino dell’esoterico per un occidente secolarizzato? Bisogno di indagare su una vita di cui ormai si conosce a malapena l’esistenza? Sì, ci possono essere queste e altre ragioni, ma forse la principale è proprio l’abilità dei registi nell’aver saputo ascoltare, rappresentare, far percepire il silenzio, il grande assente nella nostra vita quotidiana: “l’uomo è diventato un appendice del rumore”, osserva Picard, e di fatto la nostra parola è agonizzante per mancanza di silenzio. Già Pascal aveva intuito che la più grande disgrazia per gli uomini deriva dal loro non saper stare in silenzio e in solitudine per un’ora: il silenzio, infatti, è il principio da cui è generata la parola, ciò che le conferisce forza e autorevolezza. Eppure oggi questa esigenza antropologica è offesa e contraddetta più che mai, si ha paura del silenzio: in casa e in auto si tende a evacuarlo con radio, televisione o stereo accesi, in aeroporti, stazioni e negozi lo si allontana con un’onnipresente musica di sottofondo. Così, perfino l’ascolto musicale è diventato un semplice riempitivo che crea un’atmosfera in cui la musica non è più una bellezza che ascoltiamo ma una sorta di basso continuo che inganna le nostre ansie. Siamo colti da fastidio quando dobbiamo attraversare spazi silenziosi, per cui accettiamo passivamente quella condizione di non-silenzio, di non-pausa che la società ci impone, senza renderci conto che, così facendo, smarriamo la nostra capacità di ascoltare e, con essa, quella di parlare.
    Il silenzio, infatti, non è un atteggiamento aristocratico, non è un elemento esclusivo della mistica, né un esercizio di nobile interiorità, ma appartiene all’arte della comunicazione, consente di vivere in modo fecondo la solitudine, favorisce l’ascolto attento, affina le nostre facoltà discriminatorie e percettive, induce alla creatività. Antidoto ai pensieri ossessivi che affollano la nostra mente, il silenzio ci aiuta a frenare le nostre passioni e aggressività e a impedire loro di produrre violenze e sopraffazioni.
    Ma proprio per imparare a vivere con fecondità il silenzio è anche necessario essere consapevoli delle ambiguità che porta con sé. Vi è, infatti, un silenzio chiuso, impermeabile alla comunicazione, gestito come ostilità, usato come strumento per creare distanza: in questo caso il silenzio diventa un muro, una fortezza che respinge tutto quanto incontra. Sì, il silenzio è un “linguaggio” – come i due documentari hanno saputo testimoniare – e come ogni linguaggio ha delle risorse nascoste che possono essere messe al servizio della comunicazione come della chiusura all’altro. Il mutismo non è silenzio: silenzio è, invece, non lasciarsi distrarre, saper restare sempre in comunione con le cose, con l’altro, con la realtà. Questa sua ambiguità fa sì che molti concepiscano il silenzio come condanna imposta loro dagli altri che si rifiutano di ascoltarli, che li escludono con il non prestar loro attenzione. Allora il silenzio può divenire luogo di disperazione, mancanza di elementi vitali: si può morire di silenzio come si muore di fame, di sete, di fatica, di dolore. Chi infatti è solo, isolato e vive nell’angoscia, diviene avido di rumore, brama il suono di una voce conosciuta, insegue tutto ciò che rompe la monotonia della giornata.
    A volte chiamiamo silenzio il mutismo di chi si trincera dietro il rifiuto di comunicare, la chiusura di chi non può o non vuole parlare della propria sofferenza, il quotidiano negarsi all’altro anche nell’intimità familiare, il progressivo smarrimento della fiducia reciproca: sono i piccoli e grandi silenzi di morte. Ma non è certo di questo silenzio che abbiamo bisogno, non è questo il tesoro perduto di cui abbiamo nostalgia: no, il silenzio cui aneliamo è lo spazio in cui ridestiamo la nostra personalità, è la condizione per porre a noi stessi le domande più essenziali, per trovare le risposte da cui dipende il senso della vita, quello che possiamo sperare. Alle domande “Da dove veniamo? Dove andiamo? Chi siamo?” possiamo tentare di rispondere solo imparando il silenzio, custodendo una vita interiore autentica, perché esistono verità inespresse e inesprimibili che solo nel silenzio possiamo percepire. E nel silenzio impariamo anche l’arte della comunicazione non solo verbale, riscopriamo il linguaggio dello sguardo, l’espressività del corpo… Stare insieme, accanto a un altro nel silenzio è una delle esperienze più forti che permettono al dialogo verbale l’approfondimento e la scoperta di altre dimensioni. Del resto, ciascuno sa per averlo sperimentato che nelle relazioni umane più intense, come quelle tra amanti o tra amici, proprio il silenzio garantisce la percezione dell’alterità, del mistero dell’altro.
    Forse quanti hanno visto scorrere sugli schermi le esigenti ma rappacificanti giornate dei monaci hanno intuito qualcosa dei tesori che il silenzio sa elargire anche a chi monaco non è: la vigilanza e l’attenzione contro l’intontimento spirituale; la possibilità di ascoltare ciò che arde nel profondo di se stessi e degli altri; la capacità di portare – e quindi anche di sopportare – l’altro nella sua sofferenza; la resistenza contro il prevalere di atteggiamenti di inimicizia; in una parola: la pace interiore.
    Una prospettiva che concerne solo i monaci? Un esercizio che riguarda solo i cristiani? No, un tesoro a disposizione di ogni essere umano che sia disposto a scavare nella propria interiorità per poterlo dissotterrare, come sapientemente invitava a fare il poeta Kavafis: “E se non puoi la vita che desideri / cerca almeno questo / per quanto sta in te: / non sciuparla / nel futile commercio con la gente, / vane parole in un viavai / frenetico. / Non sciuparla portandola in giro / in balìa del quotidiano / gioco balordo degli incontri e degli inviti, / fino a farne una stucchevole estranea”.

  • 28 Apr

    PARLARE DI DIO OGGI: COME?

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Quando ci si pone la domanda di “quale Dio” vogliamo parlare, se ne forma implicitamente un’altra:” esiste quel Dio di cui vogliamo parlare?

    Le due domande sono inseparabili, esse sono tra loro strettamente interdipendenti. Perché?

    La ragione è che alla domanda dell’esistenza di Dio  si risponde (positivamente o negativamente) in base all’immagine di Dio che si possiede.

    Questa constatazione è importante anche per chi è chiamato ad annunciare.

    E’ esperienza costante la fatica del dire Dio, e questo quasi sicuramente perché di lui si hanno immagini troppo sbiadite, frastagliate, annebbiate, forse minacciose. Penso che occorra prendere in esame serio le proprie immagini di Dio, perché il più delle volte esse contengono elementi troppo eterogenei e magari contrastanti: ne risulta un Dio enigmatico che risulta poco amabile.

    Immagini che di conseguenza certamente non affascinano l’annunciatore per primo e di conseguenza gli uditori.

    Venendo meno la spinta a parlare di Dio, ci si ripiega allora ad accontentarsi di un parlare del “‘sacro’ oggettivo e generico: parola di Dio, sacramenti, nuovissimi, comandamenti, morale…

    Eppure di Dio si deve parlare. Ma come?

    Gli uditori infatti attendono una parola che dia vitalità al loro credere, che spinga non a confrontarsi con idee o con verità, ma ad incontrarsi con una persona.

    Per noi cristiani questo è possibile, non è un’utopia, perché Dio si è rivelato. Cristo è l’ ‘esegesi’ del Padre. Una rivelazione questa nella quale siamo invitati ad entrare e a penetrare sempre più, perché è Lui, Dio, che ci invita a conoscerlo: “Dio che aveva già parlato nei tempi antichi…” (Ebr 1,1).

    Partire dalla fede

    La fede donata è il punto di appoggio dal quale è necessario partire per intraprendere la conoscenza di Dio.

    Fede intesa come luce che illumina ed è illuminata dal mistero: “Dio vi conceda uno spirito di sapienza e di rivelazione per una conoscenza più profonda di lui” (Ef 1,17).

    Lo Spirito che scruta il mistero di Dio è lo Spirito che ci è stato donato, colui che immette il dinamismo nella nostra fede il quale ci spinge ad avanzare sempre più in là nella conoscenza di Dio, senza arrestarci dinanzi alle prime immagini acquisite di lui.

    E’ questa una esperienza da attuare. Ora nell’annunciatore non si può prescindere da questa sua soggettiva esperienza, non si può dare un annunzio esclusivamente del dato oggettivo rivelato. La fede è comunicata attraverso una testimonianza.

    Esiste quindi una circolarità fra credo confessato e vissuto: circolo ermeneutico tra rivelazione storica fatta a tutti e rivelazione individuale.

    Vero annunciatore di Dio è colui che ha ascoltato e risponde alla parola che poi dovrà annunciare.

    PARTIRE DALL’ESPERIENZA

    La conoscenza oggettiva è a disposizione di chiunque, non quella soggettiva. Essa rientra nel dinamismo della grazia.

    Ma è questa esperienza che vivifica la conoscenza oggettiva (fides quae et qua creditur).

    E sulla base di questa simbiosi l’annuncio si riveste di determinate caratteristiche: a ciascuno è dato di conoscere e testimoniare un dato particolare del mistero, egli renderà esplicito un aspetto di una totalità che nella sua infinitezza rimane in-comprensibile.

    Questa differenza va accolta come dono dello Spirito nella sua varietà di espressioni di un unico mistero

    E’ DIO CHE SI RIVELA

    Ovviamente l’annuncio non è ridotto a comunicazione di esperienze soggettive.

    La religione ebraico-cristiana crede in un Dio che, nel suo amore, ha voluto parlarci di se stesso.

    E’ questa verità di fede che sorregge l’annuncio e l’esperienza. Se ciò non fosse esso sarebbe ridotto a comunicazione di dati teorici oppure di un ventaglio di esperienze perlopiù contraddittorie.

    In base a ciò riteniamo fondamentale che l’annuncio ritorni continuamente alla rivelazione che Dio ha fatto di sé. Allora la predicazione diviene testimonianza di questa passione del Dio che si comunica alle creature

    Alcuni dati rivelati appaiono particolarmente fondamentali in questo senso.

    L’Incarnazione

    Affermiamo nella fede che il Figlio di Dio, la seconda persona della ss. Trinità, si è fatto uomo.

    Questo fatto lo riceviamo dalla testimonianza dell’autocoscienza di Gesù di Nazaret.

    Se questa coscienza è vera, come afferma la fede, allora la persona di Gesù è la fonte della conoscenza di Dio. Allora non è più possibile parlare di Dio prescindendo da Gesù.

    Il vangelo non può essere accostato come “‘prontuario’ di verità o di predicabili, ma come fonte che ci permette di accostarci all’umanità di Gesù rivelatrice di Dio. E’ la sua umanità l’ ‘immagine visibile’ del Dio invisibile. Ogni atto della vicenda di Gesù di Nazaret è rivelazione del mistero divino. ‘Se il soggetto di ogni azione di Gesù di Nazaret è il Figlio eterno, allora ogni atto di quest’uomo è rivelazione del mistero divino. In Gesù di Nazaret… si offre il volto umano di Dio… L’umano è pienamente assunto e radicalmente valorizzato nella storia del Figlio dell’uomo”’ (B. Forte, Gesù di Nazaret).

    Dio si rivela nell’umano: ed è la novità della rivelazione cristiana.

    Gesù è anche il Rabbi, il Maestro, che ci parla di Dio. Il suo annuncio si riassume nel proclamare il “‘Regnare di Dio’, nell’affermare la vittoria di Dio sulle potenze del male.

    Il suo è un evangelo di una liberazione definitiva ed universale. Il Regno che con lui già possiede l’inizio e che attende alla fine dei tempi il suo pieno compimento.

    Gesù ci rivela anche che questo Dio che regna, ha un nome nuovo: Abbà. Un Dio che ama paternamente ogni uomo, soprattutto il povero e il peccatore. I cieli con Gesù si aprono su un Dio che non incute più paura, ma che accoglie l’umanità in un abbraccio di misericordia e di comunione di vita.

    La Trinità

    Alla nostra predicazione manca una vera prospettiva trinitaria. Secondo il teologo Moltmann il nostro annuncio è ancora troppo costituito da ‘un monoteismo solo debolmente cristianizzato… che Dio sia uno e trino sembra irrilevante tanto per la dogmatica che per l’etica… In realtà i cristiani vivono quasi fossero soltanto monoteisti’.

    In effetti spesso si pensa Dio in termini di uno e quindi solo. Si parla anche linguisticamente più di Dio che di Trinità.

    E’ facile comprendere come un’esperienza di Dio Trinità verrebbe moltissimo in aiuto a recuperare un giusto rapporto con il divino, facendoci superare la paura.

    Infatti un Dio solo ci appare temibile, enigmatico, chiuso in se stesso, estraneo alla nostra esperienza più determinante che è quella del dialogo e della relazione. L’annuncio trinitario viene a rompere definitivamente questa immagine della divinità; essa invece ci rivela un Dio che è comunione, relazione, dialogo, eterno gioioso di tre persone. In Dio vi è un Io, un Tu, un Noi.

    Importante per l’uomo è che davanti a tale rivelazione egli non si sente più estraneo, schiacciato, estraneo, ma anzi chiamato per vocazione ad entrare e a partecipare di questo flusso eterno di amore.

    Un ulteriore aspetto di tale discorso è la necessità di recuperare la dimensione trinitaria nella vicenda terrena di Gesù. Se vi è Trinità, allora in questa storia è implicata sempre la relazione col Padre e lo Spirito. Essi la vivono con Gesù. Padre e Spirito ‘non sono spettatori estranei della storia del Verbo fatto carne: essi la vivono con lui… Tutta la storia di Gesù è rivelazione della storia trinitaria di Dio… In Gesù si rivela contemporaneamente il volto trinitario di Dio e il rapporto del mondo al Padre’ (B. Forte, Gesù di Nazaret).

    La Croce

    La croce assume tutto il suo scandalo se si accetta che essa sia toccata a Dio, e quindi all’intera Trinità. Essa è ‘passione’ di Dio.

    Di solito nella predicazione la lettura viene fatta dal basso: la via crucis dell’innocente che sale il Calvario per offrire il suo sacrificio a Dio: il padre ne resta fuori commosso o adirato a seconda delle teologie.

    Ora, in una visione trinitaria della storia di Gesù, si considera la via crucis del Padre che scende sul Calvario per offrire, attraverso il Figlio crocifisso, il suo perdono e la sua comunione di vita all’uomo peccatore.

    L’apostolo Paolo associa sempre la sua predicazione della croce alla rivelazione di Dio, e pensa la croce in riferimento al Padre: “Ma Dio ci dà prova del suo amore per noi nel fatto che, mentre ancora eravamo peccatori, Cristo morì per noi” (Rm 5,8); “Lui, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo diede in sacrificio per tutti noi, come non ci darà in dono insieme a lui tutte le cose?” (Rm 8,32)..

    Dio si rivela nell’impotenza, nel suo prender parte alla sorte degli ultimi; ed è quindi un Dio che si lascia coinvolgere nella sofferenza dell’uomo.

    L’evangelo della grazia

    La predicazione dovrebbe testimoniare ‘l’evangelo della grazia’” (At 20,24).

    Questa grazia, che lungo il corso della storia è stata fatta oggetto di interminabili diatribe e dispute teologiche, ha perso nella predicazione il suo carattere di annuncio gioioso.

    Essa è stata circondata dalle siepi spinose e precauzionali dei se e dei come, che finiscono solo per inaridire l’annuncio di un Dio folle di amore, di un Dio che si dona subito, totalmente, eternamente, gratuitamente..

    Il nostro discorso sulla grazia ha dato adito all’immagine di un Dio che bisogna comprare (anche se a prezzi stracciatissimi… e siamo ben lontani dalla “grazia a caro prezzo di D. Bonhoffer!), e quindi di un Dio banale e umiliato.

    La sovranità di Dio si manifesta nel suo dono che attende il dono, la grazia, dell’uomo: una risposta di fede amorosa e gratuita, mai comprata!

    In questa risposta l’uomo è assolutamente libero da costrizioni, in quanto Dio stesso lo pone in uno spazio di piena libertà.

    Purtroppo per tanti credenti il fatto, o la pratica religiosa, consiste in un ‘ dare qualcosa a Dio ‘, un ‘fare qualcosa per Dio’ al fine di avere ricompensa. Al discorso della grazia si è sostituito un discorso mercenario: in quanto Dio stabilisce le regole del gioco senza coinvolgersi, e sta all’uomo il decidere sul da farsi.

    Certo, non si tratta di negare il premio al bene, ma di sganciarlo dalla pretesa di diritto di comprare nei confronti di Dio la salvezza.

    Il Dio rivelato da Gesù è un Dio che salva. Il suo agire nella storia è sempre e soltanto salvifico: ‘Piacque a Dio buono e sapiente rivelare se stesso e far conoscere il disegno della sua volontà, mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo… e nello Spirito santo hanno accesso al Padre… Con questa rivelazione il Dio invisibile, nel suo immenso amore, parla agli uomini come ad amici” ‘ (DV 2).

    ALCUNE PISTE

    Riferimento alla sacra Scrittura

    Il ritorno alla Bibbia invocato dal Concilio Vaticano II a poco servirebbe se non contribuisse a far rivedere l’immagine di Dio.

    Preghiera, prassi sacramentale, predicazione, devono continuamente rifondarsi su quel Dio che si rivela nella storia descritta nelle pagine della Scrittura.

    Si ha l’impressione che la predicazione e la prassi liturgica viaggino piuttosto in senso perlopiù orizzontale, o tuttalpiù tentino qualche sporadico slancio verso l’alto ma senza convinzione ed entusiasmo.

    Si è forse incapaci di scorgere la presenza di Dio nella storia, e non si possiedono i parametri per leggere l’esperienza di Dio in noi.

    Oltre il moralismo

    Sembra prevalere ancora il ‘Cosa devo fare?’, ovvero l’interesse operativo nel fattore religioso. Il discorso morale ha ancora, nonostante tutti gli sforzi, la predominanza, questo dando sempre per scontato che chi si accosta al discorso religioso il vangelo sia già noto.

    Occorre sempre ricordare che l’aspetto morale è importante, ma sempre subordinato al discorso della grazia, questo affinché non si rischi di restare ancora senza il vangelo della grazia di Cristo.

    Nella predicazione bisogna tornare all’annuncio di questo evangelo.

    Parlare di Dio da credenti

    La fede in Cristo ci presenta il Dio di cui parlare. Ma come parlarne?

    Anzitutto occorre parlarne da credenti: ‘Ho creduto perciò ho parlato’ (Sal 116,10); ‘Anche noi crediamo e perciò parliamo’ (“2Cor 4,13).

    Come Chiesa e come annunciatori si parla di Dio non solo perché ‘si sa’, ma perché questo ‘sapere’ scaturisce e si fonde sulla e nella fede.

    La parola che viene annunciata ad altri è anzitutto una parola rivolta prima a se stessi. Io sono il primo destinatario e il primo uditore della parola che annuncio agli altri.

    E la fede di chi annuncia si alimenta del rapporto con Dio nella preghiera. E’ lì che si radica la missione. Un annuncio privo di questo dinamismo interiore si riduce a comunicazione di dati oggettivi, privi del sostegno fondamentale della testimonianza.

    Raccontare Dio

    La passata predicazione si dilungava a parlare di Dio attraverso i suoi attributi (onnipotenza, eternità, giustizia, onnipresenza…). Ma questo approccio al discorso su Dio, benché giusto filosoficamente, è tuttavia insufficiente. Il Dio della scrittura è colui che si rivela nelle sue opere salvifiche.

    Nella bibbia non si parla in modo astratto degli attributi di Dio, essi emergono lungo la storia e sono da questa raccontati.

    Teniamo presente che la traduzione in storia degli attributi di Dio è operazione che egli stesso ha già compiuto.

    Questa metodologia di Dio dovrebbe essere seguita dalla predicazione. L’uomo si domanda se Dio esiste, se è amato da lui: la sacra scrittura risponde più volentieri al passato, raccontando. Il regno di Dio lo si racconta perché esso consiste nel suo operare.

    Evangelizzare Dio

    Forse sarebbe il caso di domandarsi sinceramente se la nostra predicazione riguardante Dio suscita lode e ringraziamento (ovvero è ‘buona notizia’), oppure lascia ancora adito all’inquietudine e al disagio.

    E’ un dato di fatto che da un lato Dio è predicato nello stesso tempo come bontà e giustizia, perdono e punizione, colui che distribuisce grazie ma anche disgrazie, colui che è presente ma anche assente… Se le cose stanno così è chiaro che l’uditorio finisca col trovarsi dinanzi ad un Dio imprevedibile ed inaffidabile.

    Nel profondo viene avvertito come essere ambiguo.

    Riconosciamo che questo sospetto  e questa diffidenza è uno dei frutti del peccato. La colpa originaria ha distorto l’immagine di Dio. Ma la grazia dell’evangelo dovrebbe farci recuperare in Cristo la sua giusta immagine.

    L’annuncio di Dio deve essere sempre ‘buona notizia’. Dio è Abba’, ed è solo questo e non un’altra cosa contemporaneamente.

    “Per un uomo religioso è insopportabile un Dio che non sia innanzitutto colui che ricompensa e castiga… L’inclinazione naturale dell’uomo è quella di non credere in un Dio come quello rivelato da Gesù, la cui giustizia e potenza sono soltanto di amare” (Six).

    Dio prova pietà e sofferenza per il peccatore, non desiderio di punirlo. La punizione del peccato è già racchiusa  nella sua natura di assenza di bene.

    Conclusione

    L’immagine di Dio in noi è sempre in mutamento. E’ immagine viva, chiamata a crescere ( o destinata per vari motivi a deformarsi sempre più sino ad essere rigettata).

    Sarà importante tenere presenti due aspetti.

    Il primo è che in quest’opera di riscoperta dell’immagine di Dio non siamo solo noi ad operare, ma anzitutto la grazia dello Spirito di Cristo che ci insegna le cose di Dio.

    Il secondo è che la nostra immagine è guida al nostro rapporto con Dio, ci fa strada nella preghiera e nell’azione.

    E proprio nella preghiera e nei sacramenti tale immagine viene incessantemente elaborata e rielaborata.

    Colui che parla veramente di Dio parla di ciò che ha ricevuto come dato di fede  e che ha accolto e assimilato nella propria esperienza.

  • 20 Apr

    INTRODUZIONE


    SIAMO VIANDANTI SULLA VIA DELLA VITA


    di p. attilio franco fabris

     


    La vita: un cammino, un viaggio, una ricerca… Sono tante le simbologie adottate per dire una verità sola fondamentale: nella vita vi ci siamo trovati. E la vita stessa ci chiede di essere vissuta sino in fondo con tutta la sua fatica, i suoi rischi, la sua conclusione. E’ la vita stessa a porci in cammino.

    Vi può essere il desiderio, la paura, le reticenze, l’entusiasmo di questo porsi in viaggio… “Ricominciare ogni giorno come fosse il primo” direbbero i padri del deserto.

    Ciò talvolta è faticoso e talvolta doloroso, il cammino appare così misero, così sofferto, annoiato. Il mettersi in viaggio ti richiede di abbandonare tante cose che vorresti portare con te ma non puoi: “Nell’andare se ne va e piange portando la semente da gettare, ma nel tornare viene con giubilo portando i suoi covoni” (Sl 126,6). E’ spesso fai l’esperienza di  “portare” solo “semente da gettare”, ovvero di vivere, giorno dopo giorno, in perdita, senza nessun conforto e sicurezza.

    A tutti il cammino della vita chiede di gettare qualcosa e un giorno tutto. E allora il metterti ogni giorno in cammino, il ricominciare a gettare quella semente diviene un atto di speranza nella possibilità di  tornare un giorno nella gioia carichi di frutti insperati.

    Il porsi  in  cammino comporta l’accettazione della sfida del cambiamento; in un viaggio tante cose cambiano,  imprevisti, incontri, contrattempi, ritardi…: e questo accettare il cambiamento è faticoso, talvolta sofferto perché significa l’abbandonare  una realtà posseduta per una ricercata e creduta nella speranza.

    In questi giorni mi sembra importante il risvegliare in te la coscienza di essere persona in cammino, il saperti interrogare, e lasciare che la vita stessa ti interroghi. A livello personale il porti delle precise domande: in questo cammino della mia vita dove mi trovo? Lascia che il Dio della vita ti interroghi: Dove ti trovi? E’ la domanda che JHWH rivolge ad Adamo nascosto: “Dove sei?”.

    E’ dalla conoscenza del “dove mi trovo” che scopro una via, quella già percorsa e quella ancora da percorrere: il cammino della mia vita.

    Si tratta cioè di non lasciarti vivere, ma di imparare con umiltà e pazienza a rivedere e a riprendere in mano la tua storia, a ripossedere questo tempo che ti è stato dato in dono.

    Come credente la tua fede si basa su un Dio che con la sua creazione ha dato inizio ad una storia, che non è una storia ciclica, condannata ad un eterno ripetersi (il mito dell’eterno ritorno di Ulisse), ma una storia, come quella lineare di Abramo, che ha in Lui un avvio e una meta.

    Ti sentirai dunque viandante come Abramo verso la terra promessa, come Israele nel deserto, come Gesù nel cammino verso Gerusalemme, come la Chiesa verso il Regno.

    “ ”Via” è chiamata la vita, poiché ciascun uomo cammina verso una meta. Come coloro che durante la navigazione dormono o sono condotti spontaneamente dal vento in porto, anche se non se ne accorgono, (perché la corrente li spinge al compimento del loro viaggio), così anche noi, mentre il tempo della nostra vita scorre, ci affrettiamo, ciascuno verso il proprio fine, con il corso insensibile della nostra vita, come un movimento continuo e inesausto. Ad esempio, dormi e il tempo ti passa inosservato; vegli e sei irrequieto. Tuttavia, la via si consuma, anche se sfugge alla nostra percezione. Tutti noi uomini, dunque, corriamo una sorta di corsa, ciascuno affrettandoci verso il nostro fine. Perciò siamo in via. Così potresti intendere il significato di “via”. In questa via sei un viandante. Tutto tu oltrepassi, tutto resta dietro di te. Hai visto sulla strada un germoglio o dell’erba, o dell’acqua o qualunque altra cosa degna di essere osservata. Ne hai goduto un attimo, sei passato oltre” (Basilio, Om. sul Sal.1).

     

  • 18 Apr

    Dall’amore di sé al servizio all’altro

    Jean Vanier, La comunità luogo di festa e di perdono, Jaka Book


    Una comunità non è tale che quando la maggioranza dei membri sta facendo il passaggio da “la comunità per me” a “io per la comunità”, cioè quando il cuore di ognuno si sta aprendo ad ogni membro, senza escludere nessuno. E’ il passaggio dall’egoismo all’amore, dalla morte alla resurrezione: è la Pasqua, il passaggio del Signore, ma anche il passaggio da una terra di schiavitù a una terra promessa, quella della liberazione interiore.

    La comunità non è coabitazione, perché questo è una caserma o un albergo. Non è una squadra di lavoro e ancor meno un nido di vipere! E’ quel luogo in cui ciascuno, o piuttosto la maggioranza (bisogna essere realisti!), sta emergendo dalle tenebre dell’egocentrismo alla luce dell’amore vero. “Non concedete nulla allo spirito di partito, nulla alla vanagloria, ma ognuno per umiltà stimi gli altri superiori a sé; nessuno ricerchi i propri interessi, ma piuttosto ognuno pensi a quelli degli altri” (Fil 2,3-4).

    L’amore non è né sentimentale né un’emozione passeggera; è una attenzione all’altro che a poco a poco diviene impegno, riconoscimento di un legame, di un’apparenza vicendevole; è ascoltare l’altro, mettersi al suo posto, capirlo, interessarsene; è rispondere alla sua chiamata e ai suoi bisogni più profondi; è compatirlo, soffrire con lui, piangere quando piange, rallegrarsi quando si rallegra. Amare vuol dire anche essere felici quando l’altro è lì, tristi quando è assente; è restare vicendevolmente uno nell’altro, prendendo rifugio uno nell’altro. “L’amore è una potenza unificatrice” dice Dionigi l’Areopagita.

    Se l’amore è essere teso uno verso l’altro, è anche e soprattutto tendere entrambi verso le stesse realtà; è sperare e volere le stesse cose; partecipare della stessa visione, dello stesso ideale. E, con questo, è volere che l’altro si realizzi pienamente secondo le vie di Dio e al servizio degli altri; è volere che sia fedele alla sua chiamata, libero di amare in tutte le dimensioni dell’essere suo.

    Abbiamo qui i due poli della comunità: un senso di appartenenza gli uni agli altri ma anche un desiderio che l’altro vada oltre nel suo dono a Dio e agli altri, che sia più luminoso, più profondamente nella verità e nella pace. “L’amore è longanime; l’amore è servizievole; non è invidioso; l’amore non si gonfia, non si vanta; non fa nulla di sconveniente, non cerca il suo interesse, non si irrita, non tiene conto del male ricevuto, ma mette la sua gioia nella verità. Scusa tutto, crede tutto, sopporta tutto” (1Cor 13,4-7).

    Perché un cuore faccia questo passo dall’egoismo all’amore, dalla “comunità per me” a “io per la comunità”, e la comunità per Dio e per quelli che sono nel bisogno, occorrono tempo e molteplici purificazioni, delle morti costanti e nuove risurrezioni. Per amare, bisogna incessantemente morire alle proprie idee, alle proprie suscettibilità, alle proprie comodità. La via dell’amore è tessuta di sacrifici.

  • 17 Apr

    L’amore: il mistero più alto

    da J. Vanier, La comunità luogo di festa e di perdono, Jaka Book

    “Amare” è una parola sconvolgente.

    “amare” è interessarsi veramente a qualcuno, essere attenti a lui; è rispettarlo così come è, con le sue ferite, le sue tenebre e la sua povertà, ma anche con le sue potenzialità, con i suoi doni forse nascosti; è credere in lui, nella sua capacità di crescere, è volere che lui progredisca; è nutrire verso di lui una speranza folle: “non sei perduto; sei capace di crescere e di fare delle belle cose; ho fiducia in te”; è gioire della sua presenza e della bellezza del suo cuore, anche se resta ancora nascosta; è accettare di creare con lui dei legami profondi e duraturi, malgrado le sue debolezze e la sua vulnerabilità, la sua attitudine alla ribellione e alla depressione.

    Assai spesso non m’interesso di qualcuno se non quando ho la percezione di fargli del bene e quando sento di essere io il bene. Attraverso quella persona, io amo me stesso. È un’immagine di me stesso che io ricerco. Ma se la persona comincia a disturbarmi, a chiamarmi in causa, allora costruisco barriere per proteggermi. È facile amare qualcuno quando mi asseconda o mi dà la sensazione di essere utile, di riuscire.

    “Amare” è tutt’altra cosa. Significa spogliarmi di me stesso al punto che il mio cuore possa battere al ritmo dell’altro, perché la sua sofferenza diventi la mia sofferenza. È com-patire.

    L’amore: mito o realtà, esperienza vera o illusione? L’amore, scopo reale di una vita o scappatoia… L’amore dai molti visi, come si presenta in televisione, al cinema, alla radio? Attrazione effimera tra l’uomo e la donna, tradotta in atti sessuali che non sono più che giochi, passatempi, rischi, avventure, desiderio di dominare o di sedurre? O meglio, realtà umana, anche divina, vetta dell’amicizia, che implica un dono e un’esperienza fuori dal tempo e una fedeltà nel tempo?

    L’amore è il mistero più alto e più profondo dell’universo, alla fonte e alla fine di ogni cosa. Implica una forza di carattere, una fedeltà interiore, un’intelligenza perspicace, una delicatezza del cuore e soprattutto un ascolto, un’accettazione, una disponibilità verso l’altro, attitudini rare nella nostra società.

    Ma le cose rare sono spesso le più belle: si tratta di orientare su di esse lo sguardo, il cuore e lo spirito degli uomini del giorno d’oggi. È solo questo tesoro incomparabile dell’amore e dell’unione che può donare all’uomo la felicità.

  • 14 Apr

    La grazia a caro prezzo

    Dietrich Bonhoeffer, Sequela


    La grazia a buon prezzo è il nemico mortale della no­stra Chiesa.

    Noi oggi lottiamo per la grazia a caro prezzo.

    Grazia a buon prezzo è grazia considerata materiale da scarto, perdono sprecato, consolazione sprecata, sa­cramento sprecato; grazia considerata magazzino ine­sauribile della Chiesa, da cui si dispensano i beni a pie­ne mani, a cuor leggero, senza limiti; grazia senza prez­zo, senza spese. L’essenza della grazia, così si dice, è ap­punto questo, che il conto è stato pagato in anticipo, per tutti i tempi. E così, se il conto è stato saldato, si può avere tutto gratis. Le spese sostenute sono infinita­mente grandi, immensa è quindi anche la possibilità di uso e di spreco. Che senso avrebbe una grazia che non fosse grazia a buon prezzo?

    Grazia a buon prezzo è grazia intesa come dottrina, come principio, come sistema; è perdono dei peccati inteso come verità generale, come concetto cristiano di Dio. Chi la accetta, ha già ottenuto il perdono dei pec­cati. La Chiesa che annunzia questa grazia, in base a questo suo insegnamento è già partecipe della grazia. In questa Chiesa il mondo vede cancellati, per poco prezzo, i peccati di cui non si pente e dai quali tanto meno desidera essere liberato.

    Grazia a buon prezzo, perciò, è rinnegamento della Parola vivente di Dio, rinnegamento dell’incarnazione della Parola di Dio.

    Grazia, a buon prezzo è giustificazione non del pecca­tore, ma del peccato. Visto che la grazia fa tutto da sé, tutto può andare avanti come prima. «È inutile che ci diamo da fare». Il mondo resta mondo e noi restiamo peccatori «anche nella migliore delle vite». Perciò anche il cristiano viva come vive il mondo, si adegui in ogni cosa al mondo e non si periti in nessun modo — a scanso di essere accusato dell’eresia di fanatismo — di condurre,   sotto  la  grazia, una  vita  diversa  da   quella che conduceva sotto il peccato.  Si guardi bene dall’in­fierire  contro la grazia, dall’offendere la grande grazia data a buon prezzo, dall’erigere una nuova schiavitù del-l’interpretazione letterale,  tentando di condurre una vi­ta  in  obbedienza  ai comandamenti  di  Gesù Cristo!   Il mondo è giustificato per grazia, e perciò — in nome del­la serietà di questa grazia per non opporsi a questa in­sostituibile graziai — il cristiano viva come vive il resto del mondo!

    Certo, il cristiano desidererebbe fare qualco­sa di straordinario; è senza dubbio la rinuncia più diffi­cile quella di non farlo, ma di dover vivere come il mon­do! Ma il cristiano deve accettare questo sacrificio, es­sere pronto a rinunciare a se stesso e a non distinguersi, nel suo modo di vivere, dal mondo. Deve lasciare che la grazia sia veramente grazia, in modo da non distruggere la fede del mondo in questa grazia a buon prezzo. Il cri­stiano sia, nella sua vita secolare, in questo sacrificio ine­vitabile che deve compiere per il mondo — anzi, per la grazia! — tranquillo e sicuro nel possesso di questa gra­zia che fa tutto da sé. Il cristiano, dunque, non segua Cristo, ma si consoli della grazia.

    Questa grazia a buon prezzo, che è giustificazione del peccato, e non giustifica­zione del peccatore penitente che si libera dal suo peccato e torna indietro; non perdono del peccato che separa dal peccato. Grazia a buon prezzo è quella grazia che noi concediamo a noi stessi.

    Grazia a buon prezzo è annunzio del perdono senza pentimento, è battesimo senza disciplina di comunità, è Santa Cena senza confessione dei peccati, è assoluzione senza confessione personale. Grazia a buon prezzo è gra­zia senza che si segua Cristo, grazia senza croce, grazia senza il Cristo vivente, incarnato.

    Grazia a caro prezzo è il tesoro nascosto nel campo, per amore del quale l’uomo va e vende tutto ciò che ha, con gioia; la perla preziosa, per il cui acquisto il commercian­te da tutti i suoi beni; la Signoria di Cristo, per la quale l’uomo si cava l’occhio che lo scandalizza, la chiamata di Gesù Cristo che spinge il discepolo a lasciare le sue reti e a seguirlo.

    Grazia a caro prezzo è l’Èvangelo che si deve sempre di nuovo cercare, il dono che si deve sempre di nuovo chiedere, la porta alla quale si deve sempre di nuovo pic­chiare.

    È a caro prezzo perché ci chiama a seguire, è grazia, perché chiama a seguire Gesù Cristo; è a caro prezzo, perché l’uomo l’acquista al prezzo della propria vita, è grazia, perché proprio in questo modo gli dona la vita; è cara, perché condanna il peccato, è grazia, perché giusti­fica il peccatore. La grazia è a caro prezzo soprattutto perché è costata molto a Dio; a Dio è costata la vita del suo Figliolo — «siete stati comperati a caro prezzo» — e perché per noi non può valere poco ciò che a Dio è costato caro. È soprattutto grazie., perché Dio non ha ri­tenuto troppo caro il suo Figlio per riscattare la nostra vita, ma lo ha dato per noi. Grazia cara è l’incarnazione di Dio.

    Grazia a caro prezzo è la grazia ritenuta cosa sacra a Dio, che deve essere protetta di fronte al mondo, che non deve essere gettata ai cani; è grazia perché Parola viven­te, Parola di Dio, che lui stesso pronuncia come gli piace. Essa ci viene incontro come misericordioso invito a segui­re Gesù, raggiunge lo spirito umiliato ed il cuore contrito come parola di perdono. La grazia è a caro prezzo perché aggioga l’uomo costringendolo a seguire Gesù Cristo, ma è grazia il fatto che Gesù ci dice: «Il mio giogo è soave e il mio peso leggero».

    Due volte è stata rivolta a Pietro la chiamata: Seguimi! È stata la prima e l’ultima parola di Gesù al suo disce­polo (Me. 1,17; Gv. 21,22). Tutta la vita di questo è po­sta tra queste due chiamate. La prima volta Pietro ha sentito l’invito di Gesù sul lago di Genezaret ed ha ab­bandonato le sue reti, la sua professione, e lo ha letteral­mente seguito. L’ultima volta il Risorto lo trova di nuovo nella sua professione di prima, sul lago di Gene­zaret, ed ancora una volta gli dice: Seguimi! Frammezzo c’era stata tutta una vita di discepolato al seguito di Cristo; al centro la sua professione di fede in Gesù come il Cristo (l’unto) di Dio. Tre volte a Pietro fu annunziata la stessa cosa: al principio e alla fine a Cesarea di Filippo, che, cioè, Cristo è il suo Dio e il suo Signo­re. È la stessa grazia di Dio che lo chiama: Seguimi! e che si manifesta nella sua professione di fede nel Figlio di Dio.

    Per tre volte la grazia si è fermata sulla via di Pie­tro: una grazia annunziata tre volte in maniera diversa; e così fu la grazia di Cristo stesso, e non certo una gra­zia che il discepolo si annunziava da se stesso. Fu la stessa grazia di Cristo che vinse il discepolo e lo indus­se ad abbandonare tutto per seguirlo, la stessa che ope­rò in lui la professione di fede, che a tutto il mondo doveva apparire una blasfemia, la stessa che richiamò l’infedele Pietro alla comunione del martirio e gli per­donò così tutti i peccati. Grazia e seguire Cristo, nella vita di Pietro, sono indissolubilmente legati. Egli aveva ricevuto la grazia a caro prezzo.

    …. Se la grazia è il ‘risultato’ di una vita cristiana, donato da Cristo stes­so, questa vita non è dispensata nemmeno un attimo dal seguirlo. Se la grazia è, invece, presupposto per prin­cipio della mia vita cristiana, allora i peccati che com­metto durante la mia vita in terra sono giustificati in partenza. E allora in base a questa grazia posso pec­care, dato che il mondo, per principio, è giustificato per grazia. Io, allora, continuo a vivere la mia vita secolare-borghese; nulla cambia nella mia esistenza, ep­pure sono sicuro di essere coperto dalla grazia divina. Tutto il mondo, sotto questa grazia, è divenuto ‘cri­stiano’, ma il cristianesimo, sotto questa grazia, è di­venuto mondo come mai in precedenza. La vita cristiana consiste appunto nel fatto che io vivo nel mondo come il mondo, che non mi distinguo in nulla da esso, anzi, non devo nem­meno — per amore della grazia! — distinguermi da esso, ma che al momento opportuno dall’ambiente ‘mon­do’ mi reco nell’ambiente ‘chiesa’ per ricevervi l’assi­curazione del perdono dei peccati.

    Sono dispensato dal­la necessità di seguire Cristo mediante la grazia a buon prezzo, che deve essere il nemico più accanito della volontà di seguirlo, che deve odiare e disprezzare l’im­pegno a seguirlo veramente. La grazia come presupposto è una grazia di nessun valore; la grazia come risultato è una grazia a caro prezzo. È terribile riconoscere quan­to è importante il modo con cui una verità evangelica viene espressa e messa in atto. È la stessa parola che esprime la giustificazione per sola grazia, eppure l’uso errato della stessa frase porta alla distruzione totale del­la sua essenza.

    Se Faust, alla fine della sua vita spesa nello sforzo di conoscere, dice: «Riconosco che non possiamo sa­pere nulla», questo è un risultato ed ha un senso ben diverso che se uno studente di primo anno si arroga tale frase per giustificare con essa la sua pigrizia (Kierkegaard). Come risultato l’affermazione è vera, come presupposto è un autoinganno. Il che significa che non si può separare ciò che è stato riconosciuto dall’esisten­za che ha portato a tale constatazione. Solo chi si trova al seguito di Gesù, dopo aver rinunciato a tutto ciò che aveva, può affermare di essere giustificato per sola grazia. Egli riconosce nell’invito stesso a seguire Gesù la grazia, e nella grazia questo invito. Chi, però, pensa di essere dispensato per via della grazia dal seguirlo inganna se stesso.

    Ma lo sappiamo che questa grazia a buon prezzo è stata estremamente spietata verso di noi? Il prezzo che oggi dobbiamo pagare con la rovina delle chiese isti­tuzionali non è forse la conseguenza necessaria della grazia acquistata troppo a buon prezzo? Predicazione e sacramenti venivano concessi ad un prezzo troppo bas­so; si battezzava, si cresimava, si dava l’assoluzione a tutto un popolo senza porre domande e senza mettere condizioni; per amore umano le cose sacre venivano dispensate a uomini sprezzanti e increduli; si distribui­vano fiumi di grazia senza fine, mentre si udiva assai raramente l’invito a seguire Gesù con impegno. Dove restava ciò che aveva riconosciuto la Chiesa primitiva la quale, durante il catecumenato, vigilava tanto attenta­mente sulle frontiere tra Chiesa e mondo, sulla grazia cara? Dove restavano gli ammonimenti di Lutero di guardarsi dall’annunziare un Evangelo che tranquillizzasse gli uomini nella loro vita senza Dio? Quando mai il mondo fu cristianizzato in maniera più orrenda e funesta? Che cosa sono le tre migliaia di Sassoni uccisi da Carlo Magno fisicamente di fronte ai milioni di ani­me uccise oggi? Si è realizzato sopra di noi l’ammo­nimento che i peccati dei padri saranno puniti sopra i figli fino alla terza e quarta generazione. La grazia a buon prezzo si è mostrata alquanto spietata verso la nostra chiesa evangelica.

    E spietata la grazia a buon prezzo lo è stata pure verso la maggior parte di noi personalmente. Non ci ha aperta la via verso Cristo, ma anzi l’ha bloccata. Non ci ha invitati a seguirlo, ma ci ha induriti nella disob-bedienza. O non era forse spietato e duro se, dopo aver sentito l’invito a seguire Gesù come invito della grazia, dopo aver, forse, osato una volta fare i primi passi sulla via che ci portava a seguirlo nella disciplina dell’obbedienza al suo comandamento, fummo colti dalla parola della grazia a buon prezzo? Quale senso poteva avere per noi questa parola se non quello di un ri­chiamo ad una sobrietà assai umana, inteso a fermare il nostro cammino, a soffocare in noi il piacere di seguire Gesù, con l’affermazione che questa era una via scelta solo da noi stessi, un impiego di forze, una fatica e una disciplina non solo inutili, ma addirittura dannosi? Infatti nella grazia tutto era già pronto e compiuto! Il lucignolo fumante fu spento in maniera spietata. Era spietato parlare in questo modo ad un uomo, perché egli, turbato da un’offerta così a buon prezzo, necessa­riamente lasciava la via alla quale era chiamato da Ge­sù, perché ora voleva afferrare la grazia a buon prezzo che gli precludeva per sempre la possibilità di ricono­scere la grazia a caro prezzo. Non poteva essere diver­samente; l’uomo debole, ingannato, possedendo la gra­zia a buon prezzo doveva sentirsi improvvisamente for­te, mentre, in realtà, aveva perduto la forza di obbe­dire, di seguire Gesù. La parola della grazia a buon prezzo ha rovinato più uomini che non qualunque co­mandamento di buone opere.

    Non possiamo più, oggi, eludere il problema. Diviene sempre più evidente che la difficoltà della no­stra chiesa sta solo nel problema di come vivere, oggi, da veri cristiani.

    Beati coloro che si trovano già alla fine del cam­mino che noi vogliamo percorrere, e che comprendono, pieni di meraviglia, quello che veramente non pare comprensibile, cioè che la grazia è a caro prezzo pro­prio perché è grazia pura, perché è grazia di Dio in Gesù Cristo. Beati coloro che, seguendo semplicemente Gesù Cristo, sono vinti da questa grazia, così che pos­sono lodare con cuore umile la grazia di Cristo che sola agisce. Beati coloro che, avendo conosciuto questa gra­zia, possono vivere nel mondo senza perdersi in esso, che, seguendo Gesù Cristo, hanno acquistato una tale certezza della loro patria celeste, che sono veramente liberi per la vita in questo mondo. Beati coloro, per i quali seguire Gesù Cristo non ha altro significato che vivere della grazia, e per i quali grazia non ha altro significato che seguire Gesù Cristo. Beati coloro che so­no divenuti cristiani in questo senso, coloro dei quali la grazia ha avuto misericordia.

  • 08 Apr

    La morte dell’uomo vecchio

    da p. Amedeo Cencini

    Per costruire un autentico rapporto con Dio occorre essere disposti ad un’opera di smantellamento dell’uomo vecchio, se non vogliamo accontentarci di mettere vino nuovo in otri vecchi e continuare a rammendare tutta la vita abiti logori.

    Di quale opera di smantellamento? Si tratta di liberarci anzitutto dalle false immagini di Dio che ci sono state proposte nell’arco della vita e/o che da noi stessi ci siamo costruiti.

    Teniamo presente che ad un’immagine di Dio corrisponde un itinerario spirituale preciso. Ad una falsa immagine di Dio corrisponde un falso itinerario spirituale.

    Le illusioni

    E’ per questo che è facile  correre il rischio di cadere in pericolose illusioni.

    Gesù nel vangelo ci dona un criterio di discernimento per il nostro itinerario spirituale: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze” (Mc 12,30).

    Per fare un’esperienza autentica di Dio occorre tutto l’uomo: cuore, mente, volontà.

    La globalità del nostro essere, la totalità dei nostri dinamismi in esso insiti.

    Se Dio è Dio egli è tutto o niente.

    L’illusione sentimentale

    Il sentimentale crede che per conoscere Dio occorre che io ne “senta” l’emozione, lo sperimenti sentimentalmente.

    Dio è ridotto ad un’emozione piacevole, il mio essere è considerato solo un fascio di sensazioni.

    Una impostazione di cammino spirituale di questo genere risulterà: instabile, illusorio, contraddittorio.

    Instabile: la nostra emotività è instabile. All’entusiasmo succede la freddezza, il disinteresse. (Soprattutto questo nell’ambito della preghiera).

    Illusoria: l’emozione rimane fine a se stessa e non porta ad un reale cambiamento e conversione: “Si cercano le consolazioni di Dio ,e non il Dio delle consolazioni).

    Contraddittorio: non ci si compromette realmente in una relazione amorosa con Dio che è richiesta in un autentico rapporto. L’attenzione è ancora centrata su di sé.

    Deviazioni possibili: la superstizione, la disperazione, lo spiritualismo, il devozionalismo, l’intimismo pietistico.

    Dio è il Dio della vita, non un oggetto di consumo per la ricerca di “esperienze spirituali”.

    L’illusione morale

    La volontà qui è assolutizzata. Per fare esperienza di Dio devo fare determinate cose, devo osservare un determinato codice morale, devo impormi una determinata ascesi.

    Come il giovane ricco diremo: “Che cosa mi manca?… Cosa devo fare?” (cf Mt 19,20).

    L’affettività sottostante è prevalentemente idealizzante. Fa da traino alla vita un alto ideale di sé, solitamente con funzione compensativa.

    Ma l’esperienza di Dio è prendere atto che è Lui a cercare l’uomo, a chinarsi su di lui: l’esperienza di Dio è puro suo dono. L’uomo può solo disporsi alla sua azione.

    Il volontarista:

    non sa dire grazie: Tutto è frutto delle sue fatiche. E’ lui che si acquista i meriti per la salvezza. Si vanta davanti a Dio come il fariseo della parabola. Dio è colui che premia o castiga: è giusto ed esigente padrone. Non è certo il padre del figliol prodigo, o il padrone degli operai dell’ultima ora.

    Non riconosce il suo limite: il limite stona, non è sopportato, non ci deve essere. Occorre in qualche modo negarlo. (Complesso della statua o del sughero!)

    La propria povertà non è occasione di grazia, del sentirsi accolto, amato, redento ma causa invece di deprezzamento di sé, di disistima. Il volontarista preferisce essere contato tra le file dei 99 giusti e non certo fra i peccatori di cui il paradiso fa festa.

    E’ un perfezionista-legalista: la legge gli dà sicurezza. Per cui è rigido con se stesso e con gli altri. Il v. Fatica ad amare perché la sua energia è tutta impiegata nel poter raggiungere la sua impossibile perfezione.

    Notiamo che alla lunga è molto difficile, se non impossibile, che uno regga nel cammino spirituale facendo leva solo sulla forza di volontà. Non ci si può chiedere di fare cose alla lunga solo perché si devono o si vogliono fare.

    L’illusione intellettuale

    C’è il tipo tutto testa. Ritiene egli che conoscere Dio sia azione prevalentemente speculativa. Il suo credere equivale ad una formula.

    Si tratta di una strumentalizzazione di Dio per i propri scopo di rassicurazione.

    Non ha il senso della trascendenza e del mistero: presume di sapere tutto, conoscere tutto, spiegare tutto. E’ il tipo che non ha nessun tipo di problemi in quanto riduce tutto ai propri schemi di pensiero. Dio è incasellato.

    Non è capace di silenzio adorante: vuole capire e programmare; gli risulta difficilissimo abbandonarsi. La propria vita è tenuta stretta tra le mani,

    Dio viene ridotto ad una funzione di certezza teorica.

    Conclusione

    Siamo contaminati tutti da queste illusioni.

    Il rendersene conto non è un dramma ma l’inizio della liberazione.

    “Illudere” è etimologicamente “predenrsi gioco”: e nessuna vuol prendersi gioco né di Dio né di se stessi.

    Non vi fate illusioni, non ci si può prendere gioco di Dio” (Gal 6,7).

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