• 29 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

     

    L’evento della preghiera ci viene pienamente rivelato nel Verbo che si è fatto carne e dimora in mezzo a noi. Cercare di comprendere la sua preghiera, attraverso ciò che i suoi testimoni ci dicono di essa nel vangelo, è avvicinarci al Santo signore Gesù come al Roveto ardente: dapprima contemplarlo mentre prega, poi ascoltare come ci insegna a pregare, infine conoscere come egli esaudisce la nostra preghiera” (CCC 2598).

    Per comprendere l’originalità della nostra preghiera cristiana è necessario accostarci al Signore Gesù.

    Egli stesso ha pregato e ha voluto che la sua stessa preghiera ci fosse di esempio: “si alzò a pregare mentre era ancora buio”, “passò tutta la notte in preghiera”.

    Gesù come uomo ha pregato, ha sentito il bisogno della preghiera, pur vivendo da Figlio nella relazione continua con il “Padre suo”: “Il Padre non mi lascia mai solo” “Io e il Padre siamo una cosa sola”. La sua preghiera è dunque testimonianza della verità della sua incarnazione. Egli come uomo ha pregato con tutta la sua sensibilità, una preghiera umile e profondamente umana. Davanti alla tomba di Lazzaro, e davanti a Gerusalemme Gesù in preghiera piange. E’ inquieto dinanzi alla debolezza di Pietro: “Simone ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno” (Lc 22,32). Prega quando è schiacciato dall’angoscia e dalla tristezza: “cadde con la faccia a terra dicendo: Padre se è possibile passi da me questo calice” (Mt 26,39).

    Tutto questo ci rassicura: il Signore conosce la nostra fatica umana che ci fa talvolta titubare, tirar indietro, volere ciò che Dio non vuole. Sulla croce Gesù sperimenta in modo drammatico questa fatica, questa angoscia che sembra far sprofondare negli inferi:

    “Tutte le angosce dell’umanità di ogni tempo, schiava del peccato e della morte, tutte le implorazioni e le intercessioni della storia della salvezza confluiscono in questo grido del Verbo incarnato.” (CCC 2606).

     

    Cristo dunque è modello della nostra preghiera:

    “Quando Gesù prega, già ci insegna a pregare. Il cammino teologale della nostra preghiera è la sua preghiera al Padre… Come un pedagogo egli ci prende là dove siamo e, progressivamente, ci conduce al Padre” (CCC 2607).

    Ci suggerisce l’atteggiamento, anche le stesse parole con cui pregare. Soprattutto ci svela i grandi momenti o passaggi della preghiera cristiana: la lode, l’adorazione, la domanda.

    Gesù si pone dinanzi al Padre sua in atteggiamento di lode:

    “Padre ti do lode, Signore del cielo e della terra” (Mt 11,25)

    “Padre… ti ho glorificato sopra la terra” (Gv 17,4-5).

    L’invocazione della paternità di Dio, rivelataci da Gesù, è sorgente di ciò che Egli è per l’uomo. Gesù ci insegna a chi deve indirizzarsi la nostra preghiera: (“Quale Padre darà….”).

    Il Dio al quale ci rivolgiamo nella preghiera è un Padre che ci ha rivelato il suo amore donandoci il Figlio suo:

    “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio suo unigenito perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna” (Gv 4).

    Il primo momento della preghiera è dunque un’azione di grazie, una lode, una eucaristia, con tutte le sfumature che prenderà l’invocazione di “Padre”:

    “Prova che voi siete figli è che Dio ha inviato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4,6).

    La lode è la forma di preghiera che più immediatamente riconosce che Dio è Dio! Lo canta per se stesso, gli rende gloria perché EGLI E’, a prescindere da ciò che fa. E’ una partecipazione alla beatitudine dei cuori puri, che amano Dio nella fede prima di vederlo nella Gloria. Per suo mezzo, lo Spirito si unisce al nostro spirito per testimoniare che siamo figli di Dio, rende testimonianza al Figlio unigenito nel quale siamo stati adottati e per mezzo del quale glorifichiamo il Padre. La lode integra le altre forme di preghiera e porta verso colui che ne è la sorgente e il termine: il solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui (1 Cor 8,6).” (CCC 2639).

     

    Glorificare il nome di Dio: vocazione di Cristo e del cristiano.

    “Sia glorificato il tuo Nome”

    “Padre glorifica il tuo Nome” (Gv 12,28)

    “Io ho manifestato il tuo Nome agli uomini “ (Gv 17,6).

    Il dono di Dio a noi è pura grazia. Egli infatti non ha bisogno della nostra lode. La gratuità, la liberalità del suo dono appaiono agli occhi della fede come segni di un amore purissimo, il solo  amore puro: noi “non serviamo niente a Dio”. Il suo dono di grazia è manifestazione luminosa della sua diversità, della sua infinita dignità di Dio.

    Contemplando gli aspetti divini del dono del Padre, scoprendo la magnificenza che suppone il dono, la sequela di Cristo, il cristiano scopre nel suo essere stesso fino a qual punto questo dono, non solamente scaturisce da un’iniziativa totalmente gratuita del donatore, ma ancor più come apporta addirittura anche i titolo per essere ricevuto. Il dono di Dio colma per sua grazia i ritardi, le mancanze, le imperfezioni che gli infrapponiamo (“Mentre eravamo ancora peccatori…” Rm). E’ l’adorazione.

    “L’adorazione è la disposizione fondamentale dell’uomo che si riconosce creatura davanti al suo Creatore. Essa esalta la grandezza del Signore che ci ha creati e l’onnipotenza del Salvatore che ci libera dal male. E’ la prosternazione dello spirito davanti al Re della Gloria (Sal 24,9) e il silenzio rispettoso al cospetto del Dio “sempre più grande di noi”. L’adorazione del Dio tre volte santo e sommamente amabile ci cola di umiltà e dà sicurezza alle nostre suppliche” (CCC 2628).

    La gratuità del dono è quella dettata dalla infinita misericordia di Dio: di Colui che solo può farsi più piccolo, benché tre volte santo,, di colui che vuole salvare perché non ha alcun timore di perdere se stesso.

    Cristo sa che pregando affinché sia reso al Nome del Padre l’onore di cui è degno, prega affinché sia riconosciuto il vero carattere della trascendenza dell’onnipotente: quella della misericordia.

     

    L’invocazione del Regno di Dio ci apre allo spiraglio della preghiera di domanda.

    “Venga il tuo Regno”

    “Il Regno di Dio è vicino” (Lc 10,11)

    “Il mio Regno non è di questo mondo” (Gv 18,36).

    La percezione dei doni meravigliosi di Dio non fa che infiammare il nostro desiderio di vederli condivisi, accolti da tutti. E’ questo l’oggetto della seconda parte della preghiera sacerdotale di Gesù, come della seconda parte del Padre Nostro:

    “Che essi siano una cosa sola come noi”

    “preservali dal male”

    “santificali nella verità”…

    Invocare la venuta del Regno equivale all’attesa a alla speranza di ciò di cui più vero e profondo portiamo in noi stessi:

    “La domanda cristiana è imperniata sul desiderio e sulla ricerca del regno che viene, conformemente all’insegnamento di Gesù. Nelle domande esiste una gerarchia: prima di tutto si chiede il Regno; poi ciò che è necessario per accoglierlo e per cooperare al suo avvento. Tale cooperazione alla missione di Cristo e dello Spirito Santo, che è ora quella della Chiesa, è l’oggetto della preghiera della comunità apostolica. … mediante la preghiera ogni battezzato opera per l’avvento del Regno” (CCC 2632).

     

    E’ all’interno del rapporto tra Cristo e il Padre che si colloca la nostra preghiera di cristiani.

    “E’ contemplando e ascoltando il Figlio che i figli apprendono a pregare il Padre” (CCC 2601).

    La preghiera cristiana nasce dal riconoscimento del dono di grazia fattoci dal “Padre del N.S.Gesù Cristo”. E’ lui che ha l’iniziativa. Non arriviamo perciò a lui lui a forza di impegno e di volontà, ma come dice la liturgia solamente “Obbedienti al comando del Salvatore e formati al suo divino insegnamento” possiamo osare dire il Nome di Padre.

    La preghiera non è cristiana sino a ché essa non realizza la transustanziazione dei nostri desideri e volontà in quelli di Cristo: è questo lo statuto perfetto della preghiera. Autentica amicizia con Cristo. E questo è dono dello Spirito:

    “La preghiera di fede non consiste soltanto nel dire “Signore, Signore”, ma nel disporre il cuore a fare la volontà del Padre (Mt 7,21). Gesù esorta i suoi discepoli a portare nella preghiera questa passione di collaborare al Disegno divino” (CCC 2611).

    La nostra preghiera partecipa dell’audacia, della sicurezza, dell’universalità della preghiera di Cristo. In ogni situazione, di gioia o di dolore, ci possiamo unire alla preghiera di Gesù, di conseguenza il nostro cuore si dilaterà come il suo. Non ci sentiremo più impotenti dinanzi al mondo.

  • 29 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

     

    Si aspetta e si ama solo ciò che si conosce: e più si conosce più si ama.

    Se siamo assenti a noi stessi nella preghiera non è forse perché siamo estranei alle cose di Dio? La nostra preghiera è forse troppo scarna e povera perché carente di nutrimento.

    A noi il non confondere spontaneità con trascuratezza.

    Pretendere di amare una persona non conoscendola è una pretesa assurda: si rischia di restare ad una affettività povera, limitata. Per amare una persona devo giungere ad un’autentica conoscenza.

    E’ doveroso per il credente che vuole crescere nella propria fede e nel proprio cammino di fede attingere a quegli strumenti che ci aiutano a preparare la nostra intelligenza.

    Sempre dobbiamo operare un confronto tra i nostri desideri ed aspirazioni con la Parola di Dio, la sana dottrina: Esse infatti ci espongono ampiamente i desideri e le aspirazioni di Cristo e della Chiesa.

    Inoltre occorre spesso far fronte concretamente all’inerzia, all’accidia e ai vuoti interiori, combattendoli con grande umiltà: si tratta dell’umiltà delle scelte precise e concrete.

    Questo non contraddice ciò che si è detto circa il pericolo del cerebrale: si tratta invece di scoprire un equilibrio tra la pigrizia e l’ingordigia spirituale-intellettuale: lettura e meditazione non hanno valore se non nella misura in cui ci spingono ad intrattenerci con Dio.

    “Questa forma di (la meditazione) riflessione orante ha un grande valore, ma la preghiera cristiana deve tendere più lontano: alla conoscenza d’amore del Signore Gesù, all’unione con lui” (CCC 2708).

    Bisogna tacere, nell’incontro con Dio, piuttosto che continuare una meditazione di pure idee; ma, contro le mie distrazioni, dovrò essere in grado di ricorrere a quel testo o a quell’idea che mi permetteranno di ritrovare il mio luogo di incontro con Dio:

    “Se ti viene una riflessione utile, prenda per te il posto della salmodia. Non rifiutare il dono di Dio per mantenere la tradizione. Una preghiera in cui non entrino l’intuizione di Dio e la visione dell’intelletto, è soltanto una fatica della carne. Non compiacerti della quantità dei salmi: questa getta un velo sul tuo cuore. Vale di più una sola parola nell’intimità che mille parole nella lontananza” (Evagrio P., Parenetica).

     Venendo ora a trattare del doveroso disinteresse nella preghiera, dobbiamo purtroppo partire da una constatazione. La nostra cultura non ci facilita in questo: essa giudica tutto in base al rendimento, all’interesse che se ne ricava. Tutto, anche certe forme di preghiera e meditazione, viene ridotto ad utensile.

    “Dobbiamo anche affrontare alcune mentalità di questo mondo che, se non siamo vigilanti, ci contaminano, per esempio: l’affermazione secondo cui vero sarebbe ciò che è verificato dalla ragione e dalla scienza (pregare invece è un mistero che oltrepassa la nostra coscienza e il nostro inconscio); i valori della produzione e del rendimento (la preghiera improduttiva è dunque inutile); il sensualismo, il comfort, eretti a criteri del vero e del bene (la preghiera invece “amore della bellezza” è passione per la gloria di Dio vivo e vero); per reazione contro l’attivismo, ecco la preghiera presentata come fuga dal mondo (La preghiera cristiana, invece, non è un estranearsi dalla storia né un divorzio dalla vita” (CCC 2727).

    La gratuità, l’amore verso la Bellezza puro dono, tutto ciò contraddistingue un amore autentico da uno invece interessato in cui la persona ricerca solo se stessa. L’animale cessa di desiderare quando ottiene, per l’uomo non è così: l’amore adulto non ama più solo e in base a ciò che ottiene in soddisfacimento di un bisogno, ma diviene trascendente, dono di sé:

    “La preghiera… tutto attinge all’Amore con cui siamo amati in Cristo e che concede di rispondervi amando come lui ci ha amati. L’Amore è la sorgente della preghiera; che vi attinge, tocca il culmine della preghiera:

    “Vi amo o mio Dio, e il mio unico desiderio è di amarvi fino all’ultimo respiro. Vi amo o mio Dio infinitamente amabile, e preferisco morire amandovi che vivere senza amarvi. Vi amo, Signore, e la sola grazia che vi chiedo è di amarvi eternamente. Mio Dio, se la mia lingua non può ripetere ad ogni istante che vi amo, voglio che il mio cuore ve lo ripeta tutte le volte che io respiro”(G.M.Vianney)” (CCC 2658).

    L’uomo dinanzi a Dio non è più solo un mendicante, ma quasi fosse alla pari, egli può farsi “Signore” di un dono di gratuità. Allora non è perché abbiamo anzitutto bisogno di Dio che noi lo adoriamo, ma perché egli Dio, il solo degno di essere adorato e servito:

    “La lode è la forma di preghiera che più immediatamente riconosce che Dio è Dio. Lo canta per se stesso, gli rende gloria perché egli E’, a prescindere da ciò che fa. E’ una partecipazione alla beatitudine dei cuori puri, che amano Dio nella fede prima di vederlo nella gloria…” (CCC 2639).

    Se la nostra adorazione nascesse dalla paura e dal desiderio, sarebbe sempre inficiata da un amore non puro, da un interesse che accentrerebbe l’attenzione “non al Dio delle consolazioni, ma alle consolazioni di Dio” (s. Francesco di S.).

    La nostra adorazione unita a quella di tutti gli esseri creati è chiamata ad essere un riconoscimento che Dio è Dio:

    “Tu solo sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la lode, l’onore e la potenza” (AP 4,11).

    Questo invito dovrebbe eliminare dalla nostra preghiera ogni atteggiamento di calcolo: il povero non fa calcoli. Si affida.

    Non troppo raramente capita invece che “usiamo” della preghiera. Allora trasformiamo Dio in un tappabuchi a nostro servizio quando ne abbiamo bisogno.

    Nel Vangelo al contrario incontriamo Gesù che è ammirato dalla preghiera disinteressata: Maria di Magdala e il suo prezioso vaso di profumo (Mc 14,3-6).

    Quando ci accingiamo a pregare ricordiamo che la preghiera non è un mezzo tra tanti altri, ma che ad essa dobbiamo abbandonarci, perdervisi.

    Essa deve sviluppare in noi il senso della gratuità, del dono, che è la migliore prova  del nostro amore disinteressato.

    Risulta quindi essenziale nel nostro incontro con Dio la tensione ad oltrepassare il nostro bisogno, non certo per negarlo, ma per purificarlo, per cercare un riposo disinteressato in Dio amato “sopra ogni cosa”:

    “Noi dobbiamo insistere soprattutto nella preghiera, che è come il corifeo delle virtù, in quanto è tramite essa che chiediamo le rimanenti virtù a Dio. Chi insiste nella preghiera si unisce a lui in una stretta comunione grazie ad una mistica santità, a un’energia spirituale e ad una disposizione d’animo ineffabile. Costui, ricevuto da dio lo Spirito come guida e alleato, brucia d’amore per il Signore, ribolle di desiderio e non si sazia mai di pregare” (Gregorio Niss., Fine cristiano).

     

     

  • 29 Gen

     

    di p. Attilio F. Fabris 

     

    Un altro scolio per la nostra preghiera è l’illusione di credere di essere sempre pronti ad incontrare Dio.

    Si tratta di una doppia illusione in quanto da un lato il nostro cuore è occupato da tante cose e dentro di noi non vi è silenzio; dall’altro rimaniamo estranei alle cose di Dio: una mancanza di familiarità con la dottrina.

     

    LA MANCANZA DI SILENZIO E DI DISTACCO

     

    Dice un proverbio arabo: “Non sono le difficoltà del cammino che fanno male ai piedi, ma i sassi che hai nelle scarpe”. Ovvero: è dall’interno di noi stessi che provengono i principali ostacoli, mentre spontaneamente saremmo portati a trovarli immediatamente all’esterno: scrive Basilio di C.:

    “Ho ben abbandonato le occupazioni del mondo, sorgenti di mille mali, ma non ho saputo ancora abbandonare me stesso. Io sono come quei tali che, sul mare, non conoscendo cosa sia una traversata, provano la nausea del mal di mare, e malcontenti della barca in cui si trovano, che sembra loro non adatta, passano su un’altra; ma sempre stanno male, perché nausea e bile li hanno accompagnati.

    Così è per noi: portando in noi le passioni siamo ovunque nella stessa confusione, come non avessimo guadagnato nulla nella solitudine. Al che bisogna dire: <Se qualcuno vuol seguirmi, rinunci a se stesso>“.

    Così è per noi. Spesso pretendiamo di ascoltare Dio, mentre siamo ingombri di noi stessi: ascoltiamo solo noi stessi e i nostri progetti. Magari sì siamo portati a credere importante il silenzio esteriore, ma nonostante questo il sasso che è nella scarpa rimane, non riusciamo a liberarcene; lo sforzo ci sembra inutile.

    Potremmo proporci un piccolo esame di coscienza sul nostro silenzio:

    – la nostra memoria: l’amarezza interiore, il rancore, i cambiamenti di umore, il ricordo di tutto ciò che non è stato secondo quello che ci aspettavamo riguardo a noi stessi, gli altri, gli avvenimenti… “Quando accetterai in pace la prova di non amarti per te stesso? Solo allora fari posto a Cristo” (s. Teresa d’Avila). Forse nella preghiera siamo troppo preoccupati da ciò che ci ingombra la memoria.

    – la nostra persona: un’altra fonte di disturbo interiore è costituito da tutte le idee che ci siamo fatti di noi stessi. Siamo molto attaccati all’immagine di noi stessi che ci viene riflessa dagli altri. Purtroppo molto spesso ricerchiamo negli altri l’immagine che noi vorremmo essere, un’immagine che ci rassicuri, in cui possiamo trovarci tranquilli, nel falso silenzio del nostro sogno. “Io non ho nulla – amava ripetere l’abbé Chevence – io non ho assolutamente nulla, e ci ho messo trent’anni per riconoscerlo. Ciò che pesa all’uomo è il sogno” (Bernanos, La gioia).

    – la nostra attività: un’eccessiva inclinazione al lavoro, la smania di arrivare rapidamente a dei risultati possono creare in noi una tensione tale da impedirci la preghiera.

    “La tentazione più frequente, la più nascosta, è la nostra mancanza di fede. Si manifesta non tanto in una incredulità dichiarata, quanto piuttosto in una preferenza di fatto. Quando ci mettiamo a pregare, mille lavori e preoccupazioni ritenuti urgenti, si presentano come prioritari; ancora una volta è il momento della verità del cuore e del suo amore preferenziale.” (CCC 2732).

    Questa tensione si riversa nella preghiera stessa: la caccia di distrazioni diviene a sua volta fonte di distrazione. Si diviene incapaci di imporsi delle pause di silenzio.

    – le nostre passioni: sono tutti i nostri piccoli o grandi attaccamenti, a livello di persone, cose, situazioni: “Che l’uccello sia legato ad una catena o ad un filo non importa, è sempre legato” (s. Giovanni della C.).

    Tutte queste difficoltà traggono forza dal falso amore per noi stessi. Dal ricercarci per noi stessi dimenticando il nostro fondarci sul un Altro. Siamo allora terrorizzati dall’idea di “perderci”. Ci troviamo costretti a rimpiazzare l’autentico amore, con altri piccoli ed insufficienti amori.

    Se amare significa divenire una sola cosa con chi si ama, ciò può avvenire nella misura in cui si è liberi dall’attaccamento per tutto il resto. Amare è preferire la persona amata a tutto il resto: “Nulla antepongano all’amore di Cristo” (RB).

    Questo è il senso più vero del silenzio interiore: un silenzio colmo di amore:

    “L’orazione è silenzio <simbolo del mondo futuro> (Isacco di N.), o <silenzioso amore> (s. Giovanni della C.). Nell’orazione le parole non sono discorsi, ma come ramoscelli che alimentano il fuoco dell’amore. E’ in questo silenzio, insopportabile all’uomo <esteriore>, che il Padre ci dice il suo Verbo incarnato, sofferente, morto e risorto” (CCC 2717).

    Il silenzio fa sì che ci poniamo nella condizione di unificare la nostra vita. Ciò che esaurisce l’anima, una delle sue sofferenze, è l’inevitabile moltiplicarsi in noi e dall’esterno di infiniti messaggi che disperdono. Siamo dis-tratti: portati, strappati quasi in mille diverse direzioni.

    A motivo di questa dispersione siamo sempre alla ricerca del nostro vero centro, perno della nostra esistenza, che è impossibile scoprire a livello di semplici impressioni e diversità di messaggi.

    Se il punto di riferimento del nostro agire siamo noi stessi, allora rimarremo nella discontinuità, nella molteplicità. Solo il silenzio può fare unità nella nostra vita poiché esso si inscrive nel più profondo di noi stessi, nella nostra anima che ci rimanda ad un Altro al di fuori di noi stessi.

    Il silenzio non è facile, anzi. I ritmi della nostra cultura non ci aiutano Si ha paura del silenzio e della solitudine. E’ per questo motivo che dobbiamo continuamente apprendere il silenzio. attraverso uno stile di vita, delle abitudini sane che possono far da argine a stili di vita ed abitudini diametralmente opposte.

    “L’amico del silenzio si avvicina a Dio. In segreto si intrattiene con lui e riceve la sua luce” (. Giovanni C., Sc. Par.).

     

     

     

     

  • 28 Gen

     

    di p. Attilio F. Fabris 

     

     

    “Il Nome che comprende tutto è quello che il Figlio di Dio riceve nell’Incarnazione: Gesù. Il Nome divino è indicibile dalle labbra umane, ma il Verbo di Dio, assumendo la nostra umanità, ce lo consegna e noi possiamo invocarlo: Gesù, YHWH salva. Il Nome di Gesù contiene tutto: Dio e l’uomo e l’intera economia della creazione e della salvezza. Pregare Gesù è invocarlo, chiamarlo in noi. Il suo Nome è il solo che contiene la presenza che esso significa. Gesù è risorto, e chiunque invoca il suo Nome accoglie il Figlio di Dio che lo amato e ha dato se stesso per lui” (CCC 2666).

    Gesù ha promesso indistintamente l’efficacia della preghiera a condizione che essa sia fatta nel suo Nome:

    “Qualunque cosa chiederete nel mio nome la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio” (Gv 14,13).

    “In verità in verità vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete ed otterrete, perché la vostra gioia sia piena” (1Gv 16,23-24).

    Anche l’autore della Lettera agli Ebrei ci presenta Gesù come “nostro sommo sacerdote” (Ebr 7,24-25): colui che intercede per noi presso il Padre.

    Egli ripete davanti al Padre le nostre parole, trasformandole e facendole sue. Perciò la nostra preghiera nel suo Nome è efficace: perché è divenuta quella di Cristo:

    “Chi prega partecipa alla preghiera del Verbo di Dio, che sta in mezzo anche a quelli che lo ignorano, e non è assente dalla preghiera di nessuno. Egli prega il Padre in unione col fedele di cui è mediatore. Infatti il Figlio di Dio è il gran sacerdote delle nostre offerte, e nostro avvocato presso il Padre. Prega per quelli che pregano e implora per quelli che implorano” (Origene).

     

    La nostra preghiera non è più quella dell’A.T. Essa è ormai la preghiera di Cristo:

    “Finora non avete chiesto nulla nel mio nome: chiedete ed otterrete” (Gv 16,24).

    Una preghiera perciò che si estende universalmente a tutte le necessità del regno.

     

    Sant’Agostino scrive:

    “Nostro Signore è colui per il quale, nel quale, rendiamo gloria a Dio, ed è anche colui che preghiamo”.

    E ancora:

    “Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo dunque in lui la nostra voce e in noi la sua voce” (Agostino, En. in Ps. 85).

     

    Il Cristo è colui per il quale noi preghiamo il Padre. In effetti da noi stessi non possiamo celebrare il Padre in verità: non lo conosciamo.

    “nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27).

    L’adorazione più vera al Padre è quella del Figlio. E’ il prototipo del modo in cui una creatura deve rapportarsi nei riguardi di Dio:

    “attraverso Cristo sale il nostro Amen per la gloria di Dio” (2Cor 1,20).

     

    Il Cristo è colui nel quale noi rendiamo gloria e onore al Padre. Compito della Chiesa è di riprendere continuamente la preghiera del Cristo davanti al Padre, facendo sua l’obbedienza di lui al Padre, la sua passione per il Regno. Noi compiamo l’opera di Cristo. Riviviamo i suoi misteri (cfr la liturgia):

    “abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo” (Fil 2,5).

     

    Riconosciamo in noi il dono pasquale di Cristo: lo Spirito che abita i nostri cuori. Per questo siamo creature abitate da Cristo e non siamo mai soli davanti a Dio: si è sempre in due:

    “Gesù prega anche per noi, al nostro posto e in nostro favore. Tutte le nostre domande sono state raccolte una volta per sempre nel suo grido sulla croce ed esaudite dal Padre nella sua Resurrezione, ed è per questo che egli non cessa di intercedere per noi presso il Padre. Se la nostra preghiera è risolutamente unita a quella di Gesù, nella confidenza e nell’audacia filiale, noi otteniamo tutto ciò che chiediamo nel suo nome; ben più di questa o quella cosa: lo stesso spirito santo che comprende tutti i doni” (CCC 2741).

     

    Non siamo soli a pregare i Salmi o la Scrittura o ad adorare il Padre: è Cristo sommo sacerdote che in noi prega i salmi, legge la scrittura, adora il Padre:

    “Che il Cristo parli allora, nel Cristo la Chiesa parla, e nella Chiesa il Cristo parla. Il capo parla nel corpo e il corpo nel capo” (sant’Agostino).

     

    Il Cristo è colui che noi preghiamo e celebriamo. La preghiera cristiana soprattutto quella liturgica non è che una lunga meditazione del mistero di Cristo nei suoi vari aspetti, che ci ha rivelato la grazia e la misericordia di Dio. La chiesa “fa’ memoria”. La liturgia celebra Cristo come sposo della Chiesa.

    L’apocalisse pone la contemplazione e l’adorazione dell’Agnello ritto ed immolato, centro dell’universo: é lui solo che possiede le chiavi della storia:

    “Quando ebbe preso il libro i quattro esseri viventi e i ventiquattro vegliardo si prostrarono davanti all’agnello, avendo ciascuno un’arpa e coppe colme del profumo che sono le preghiere dei santi” (Ap 5,8).

     

    Sovente la scrittura muove l’invito a “fare memoria” (es. Es 32,11-14; Sal 105,106; Dt 9,18-26; Is 63,7-9). Il ricordo, il memoriale, di tutto ciò che Dio ha compiuto, diviene forse il motivo principale della preghiera e la ragione della nostra speranza. E’ questa la struttura della fede biblica.

    E’ questo il dinamismo centrale della grande preghiera eucaristica che fa memoria del mistero pasquale, perno della nostra fede:  “Celebrando il memoriale…”.

     Attraverso la preghiera fatta nel nome di Gesù si attua una trasformazione dei nostri sentimenti, dei desideri, delle sofferenze, nei sentimenti, nei desideri, nelle sofferenze di Cristo. Una trasformazione simile a quella che avviene nell’eucaristia per il pane e il vino che si transustanziano nel corpo e sangue di Cristo:

    “E’ entrando nel santo Nome del signore Gesù che noi possiamo accogliere, dall’interno la preghiera che egli ci insegna” (CCC 2750)

     

    Se abbiamo compreso che come cristiani la nostra preghiera non può che essere fatta nel nome di Gesù, allora comprendiamo come non abbia senso contrapporre preghiera pubblica e privata.

    Fuggiamo i rischi sia dell’individualismo come del collettivismo. Preghiera pubblica e privata non possono essere contrapposte: è sempre e comunque preghiera di Cristo.

    Comprendiamo pure come la preghiera liturgica esiga una relazione personale di ciascun membro con Cristo. E’ questo è sempre dono dello Spirito in noi: egli solo può formare in noi tale relazione. Saremo pienamente cristiani quando ci accorgeremo che non potremo parlare a Dio se non con e per Cristo, sapendo che il solo sguardo a cui Dio non resiste è quello del Figlio:

    “Per Cristo, con Cristo e in Cristo:

    a te Dio Padre onnipotente

    nell’unità dello Spirito santo

    ogni onore e gloria

    per tutti i secoli dei secoli. Amen”

     

    Tutto quanto è stato detto ci impone un punto di riflessione importante: la nostra preghiera in che misura si spinge a conformarsi ai desideri di Cristo? In che misura ci preoccupiamo a comprendere il pensiero di Cristo su ciascuno di noi, su ciò che facciamo, diciamo, pensiamo?

    Forse potremmo accorgerci che finora la nostra preghiera non è stata che una carellata di pensieri che nulla avevano a che fare con l’autentica preghiera. Forse ci si rivela come una sorta di sterile monologo. Una ricerca di idee “su…”.

    Per la meditazione : cfr Ebr. 5.

     

  • 28 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

     

    Confrontiamoci con la parabola degli invitati a nozze in Lc 14,16-24.

    Ci viene mostrato un Dio che vuole farci suoi commensali. Ma sono tanti i motivi di rifiuto apposti al suo invito.

    Tutti questi rifiuti si possono riassumere in due:- la preoccupazione per la famiglia e il lavoro.

    Se questi motivi fossero veri allora chi potrebbe pregare? Sarebbe vera l’obiezione che il più delle volte si porta: “Non ho tempo”.

    Il messaggio della parabola al contrario ci dimostra che tutti sono chiamati, nessuno escluso.

     In effetti rimane pur sempre vero che la preghiera esige uno sforzo che spesso ci risulta difficile: ma questa difficoltà è normale perché non possiamo pretendere di “sentire” umanamente il mistero di Dio: si tratta di uno sforzo di fede:

    “La preghiera… presuppone sempre uno sforzo: … la preghiera è una lotta. Contro noi stessi e contro le astuzie del tentatore” (CCC 2725).

    La grande tentazione della nostra preghiera è la stanchezza, lo scoraggiamento. Una tentazione dalla quale Gesù stesso ci mette in guardia nelle sue due parabole: l’amico importuno in Lc 11,5-13 e la vedova e il giudice iniquo in Lc 18,1-8.

    Queste due parabole sono molto chiare: “giorno e notte” “insistentemente”, a costo di importunare occorre chiedere al Padre ciò di cui abbiamo bisogno.

    “L’amico importuno esorta ad una preghiera fatta con insistenza: “Bussate e vi sarà aperto”. A colui che prega così il Padre del cielo “darà tutto ciò di cui ha bisogno” e principalmente lo Spirito santo che contiene tutti i doni”.

    La seconda, la vedova importuna, è centrata su una delle qualità della preghiera: si deve pregare sempre, senza stancarsi, con la pazienza della fede. “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”” (CCC 2613).

    Il termine greco utilizzato dall’evangelista suggerisce di non prendere in maniera puramente materiale la parola “continuamente”; forse sarebbe meglio tradurla con  “in ogni occasione”. Questo ridimensionerebbe il problema circa il tempo da dedicare alla preghiera.

    Se la prima legge della preghiera ci dice del necessario atteggiamento di povertà e umiltà, la seconda ci insegna la continuità.

    Esse sono strettamente collegate: solo il povero, che si sente realmente tale, non si dà pace sino a che non abbia ottenuto ciò di cui ha bisogno.

    Quantità e/o qualità? Quali di queste due caratteristiche dobbiamo privilegiare?

    La Scrittura ci insegna che non dobbiamo misurare il tempo. Dio ci aspetta sempre e in ogni luogo senza alcun istante di interruzione.

    Ciò che è essenziale è mantenere viva in noi quella tensione alla pienezza alla quale il Vangelo ci invita.

    “Pregate incessantemente (1Tess 5,17), rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre nel Nome del Signore nostro Gesù Cristo (Ef 5,20) Pregate incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi (Ef 6,18). <Non ci è stato comandato di lavorare, di vegliare, e di digiunare continuamente, mentre la preghiera incessante è una legge  per noi> (Evagrio P.). Questo ardore instancabile non può venire che dall’amore. Contro la nostra pesantezza e la nostra pigrizia il combattimento della preghiera è quello dell’amore umile, confidente, perseverante… Pregare è sempre possibile: il tempo del cristiano è quello di Cristo Risorto, che è con noi  <tutti i giorni>(Mt 28,20), quali che siano le tempeste. Il nostro tempo è nelle mani di Dio: <E’ possibile, anche al mercato o durante una passeggiata solitaria, fare una frequente e fervorosa preghiera. E’ possibile pure nel vostro negozio, sia mentre comprate, sia mentre vendete, o anche cucinate> (Giovanni Cr.)” (CCC 2742s).

     

     

    DIO ATTENDE IL CUORE

     

    Pregare “continuamente” sarà impossibile se facciamo della preghiera un puro sforzo intellettuale:

    “Se la preghiera dimorasse nel corpo, noi non potremmo contemporaneamente pregare e lavorare; se stesse nella sensibilità, ogni preoccupazione sensibile, la malattia, le emozioni la renderebbero impossibile, essa sarebbe succube di ogni minima variazione di umore; se essa stesse unicamente nel cervello, non potremmo pregare se non facendo della teologia. Ma la preghiera dimora anzitutto nel profondo del nostro cuore, nel profondo di noi stessi; il nostro <cuore> può sempre parlare con Dio, anche quando siamo occupati, quando la sensibilità è oppressa e la nostra testa piena di preoccupazioni. Il cuore può sempre parlare di ciò che è la sua vita e il suo amore.

    Di conseguenza: se il nostro cuore sarà occupato da altre cose più che da Dio, la preghiera tacerà in noi” (P. Chevignard).

    Sul piano concreto è evidentemente impossibile essere in “costante” esercizio di preghiera, ma la tensione che sta nell’amore è una realtà viva che perdura anche quando non ne siamo coscienti.

    L’educazione della preghiera sarà allora una tensione a far s^ che si tenda a dialogare con Dio in ogni occasione, trasformando ogni avvenimento, ogni circostanza in una possibile apertura a Dio, in ricordo costante della sua presenza.

    Distinguiamo perciò l’”esercizio” dallo “stato” di preghiera: si diceva di s. Francesco “Franciscus non orabat, factus enim oratio”.

    Non facciamo perciò dipendere la nostra preghiera da stati, luoghi od orari: essa è sempre possibile in quanto essa dimora nel profondo di noi stessi, nel nostro cuore, come realtà interiore indipendente:

    “Lo Spirito, quando abita in un uomo, non lo lascia dal momento in cui quest’uomo è divenuto preghiera, perché lo Spirito stesso non smette di pregare in lui. Che quest’uomo dorma o vegli, che mangi o beva o faccia qualsiasi altra cosa, e fin nel profondo sonno, il profumo della preghiera si innalza senza fatica nel suo cuore. La preghiera non lo abbandona più. In tutti i momenti della sua vita, anche quando sembra cessare, essa è segretamente attiva in lui di continuo” (Isacco di N.)

     Questa fedeltà ed apprendistato interiore non si può raggiungere se non consacrando ogni giorno un tempo alla preghiera:: per poter offrire tutto il proprio tempo, bisogna imparare a donare un tempo preciso:

    “La preghiera è la vita del cuore nuovo. Deve animarci in ogni momento. Noi invece dimentichiamo colui che è la nostra vita e il nostro tutto. Per questo i Padri della vita spirituale, nella tradizione del Deuteronomio, insistono sulla preghiera come “ricordo di Dio”, risveglio frequente della “memoria del cuore”: <E’ necessario ricordarsi di Dio più spesso di quanto respiriamo> (Gregorio Niss.). Ma non si può pregare in ogni tempo se non si prega in determinati momenti, volendolo: sono i tempi forti della preghiera cristiana, per intensità e durata” (CCC 2697).

    Troppo spesso invece, delusi, lasciamo andare la barca alla deriva scoraggiati, e la dimenticanza di Dio rischia di permeare il nostro cuore:

    “La nostra lotta deve affrontare ciò che sentiamo come nostri insuccessi nella preghiera: scoraggiamento dinanzi alle nostre aridità, tristezza di non dare tutto al signore, poiché abbiamo <molti beni>, delusione per non essere esauditi secondo la nostra volontà, ferimento del nostro orgoglio che si ostina sulla nostra indegnità di peccatori, allergia alla gratuità della preghiera ecc…: la conclusione è sempre la stessa: perché pregare? Per vincere tali ostacoli, si deve combattere in vista di ottenere l’umiltà, la fiducia e la perseveranza” (CCC 2728).

    Abbiamo dunque bisogno, come necessità, di tempi precisi perché si faccia calma in noi stessi e si possa ricomporre un certo ordine interiore:

    “La scelta del tempo e della durata dell’orazione dipendono da una volontà determinata, rivelatrice dei segreti del cuore. Non si fa orazione quando si ha tempo: si prende il tempo di essere per il Signore, con la ferma decisione di non riprenderglielo lungo il cammino, qualunque siano le prove e l’aridità dell’incontro… sempre si può entrare in orazione, indipendentemente dalle condizioni di salute, di lavoro o di sentimento” (CCC 2710)

    Da questa  fedeltà nasce la capacità e l’esercizio ad un’apertura più vasta di fede.

    Allora non è tanto il tempo che manca, ma la fede. Quando saremo convinti dell’importanza della preghiera troveremo di certo anche il modo per farle sempre più posto nella vita. Dovrà avere la stessa importanza del mangiare e del dormire, del respirare: non potremo vivere più senza di essa:

    “La tentazione più frequente, la più nascosta, è la nostra mancanza di fede. Si manifesta non tanto in una incredulità dichiarata, quanto piuttosto in una preferenza di fatto. Quando ci mettiamo a pregare, mille lavori o preoccupazioni, ritenuti urgenti, si presentano come prioritari; ancora una volta è il momento della verità  del cuore e del suo amore preferenziale…. In tutti i casi la nostra mancanza di fede palesa che non siamo ancora nella disposizione del cuore umile: <Senza di me non potete far nulla>(Gv 15,5)” (CCC 2732).

    Prendiamo sempre atto che il fatto stesso di pregare è sempre una grazia unita ai nostri sforzi (Dio lavora l’uomo suda), ed è grazia da domandarsi continuamente.

  • 28 Gen

    di Attilio Fabris

     

     

    Aprirei questa nostra conversazione con un testo di K. Gibran, poeta libanese, che contiene preziosi luci (è la potenza del linguaggio poetico) per dare avvio al nostro discorso:

    Cantate e danzate insieme e siate felici,

     ma lasciate che ciascuno sia solo.

    Anche le corde del liuto sono sole 

    pur se vibrano con la stessa musica.

    State insieme ma non troppo vicini

    perché i pilastri del tempio sono separati

    e la quercia e il cipresso

     non crescono l’uno all’ombra dell’altro.

     

    La solitudine è qui descritta come condizione perché si possa crescere vicendevolmente divenendo pienamente se stessi, senza tentare di vivere “l’uno all’ombra dell’altro”.

    Difficile scelta perché non ci rassicura, anzi innesca la paura di rimanere senza alcun tipo di appoggio: è per questo che solitudine è una parola che può risvegliare dentro di noi risonanze contraddittorie.

    Della solitudine possiamo avere paura perché essa ci può sprofondare nell’angoscia dell’abbandono, ma possiamo anche ricercarla – è il caso dell’esperienza delle grandi religioni e filosofie – con appassionato desiderio, come condizione per riprendere contatto con le profondità del mistero che ci abita, come luogo privilegiato in cui far esperienza dell’Assoluto.

    Essa si presenta perciò come un’esperienza ambivalente-critica che può divenire occasione di di-sperazione come, al contrario, luogo di crescita e di riappropriazione di sé e di autentica apertura all’Altro.

     

     

    1. L’inevitabile solitudine dell’Io

     

    L’etimologia della parola può essere illuminante: la parola “solitudine” trova il suo etimo latino corrispondente nel verbo “se-parare”, parola che rimanda a quella iniziale separazione necessaria anche se dolorosa del nascituro dalla madre. In quel momento la persona inizia la sua avventura da “sola” nel mondo, non più collegata alla madre. Da quel momento la persona intraprende il suo cammino “solitario” nel mondo. E come la nascita segna l’inizio della nostra solitudine così pure l’ultimo respiro segna e conferma drammaticamente che ciascuno è solo al mondo. Consapevolezza faticosa e dolorosa da accogliere perché accettazione del fatto che ciascuno si ritrova “gettato” (per usare il termine haidegheriano) da “solo nel mondo” come essere unico e irripetibile.

    Perciò alla solitudine – per il semplice fatto di nascere e di dover morire – non si sfugge! Sarebbe assurdo perciò rifiutarla e negarla. Con essa occorre “fare i conti” dal primo all’ultimo momento della vita.

    Si prende consapevolezza della propria solitudine quando ci si incontra/scontra, in modo più o meno improvviso, con la propria unicità/diversità/responsabilità dinanzi alla vita. Si tratta di un’esperienza che emerge sempre più imperiosa e talvolta drammatica man mano che la persona avanza nel cammino della vita (la nascita, lo svezzamento, l’asilo, la scuola, l’adolescenza, la giovinezza con i suoi progetti, l’età adulta con le sue responsabilità e sconfitte, la vecchiaia, la malattia, la morte): “si diventa solitari quando si ha l’improvvisa percezione della propria inalienabile solitudine” scriveva il monaco trappista Thomas Merton nel libro intitolato “Pensieri dalla solitudine”.

    Proprio perché inevitabile e situazione nella quale l’uomo si ritrova “solo” al mondo ecco che proprio nella solitudine egli è chiamato a dare una risposta alla domanda essenziale della vita: “Cosa ci sto a fare al mondo? Che senso ha la mia vita?”

     

     

    2. Una solitudine ambivalente

     

    Il discorso si fa più complicato quando si affrontano le modalità con cui ci si rapporta con questa fondamentale situazione di solitudine “esistenziale”.

    Ciascuno cerca modalità a volte estremamente diversificate per tentare di “colmare” a suo modo il “vuoto” derivante dalla propria unicità. Quali le strategie adottate per tentare di uscire dalla solitudine che ci accompagna inesorabilmente? Fatto per la relazione con l’altro ciascuno cerca sin dal principio di uscire (pensiamo solo al neonato) dall’orbita centripeta della sua solitudine (da questa “monade” direbbe Leibniz) entrando in una relazione, in un dialogo con gli altri, col mondo, con Dio. È una ricerca estremamente difficile e ambivalente perché o si riconosce vicendevolmente l’inalienabile solitudine-alterità dell’altro o si ricorrerà a stratagemmi più o meno patologici per inglobare l’altro a sé, fagocitarlo, alla fin fine distruggerlo con la pretesa che egli sia quel tutto che possa riempire la mia vita al prezzo di negargli la sua diversità da me: l’incontro con l’altro è sempre l’incontro con un’altra solitudine. È solo il silenzio che “garantisce la percezione dell’alterità, del mistero dell’altro” (Enzo Bianchi).

    Io in quanto sono “io” devo accettarmi come solitudine chiamata alla comunione con la diversità dell’altro: “il nostro desiderio di amore, anche quando lo viviamo con una persona matura, è sempre in perdita, perché dentro di noi permane un anelito che non deriva da una carenza affettiva, ma da una dimensione incolmabile, da un bisogno che va oltre ogni dose di affetto terreno che riceviamo” (G. Daquino, Bisogno d’amore).

    Comuni a tutti sono i sentimenti e gli stati d’animo (legati in modo particolari a certi passaggi della vita) legati al rimpianto di istanti di pienezza e comunione, allo struggimento per relazioni ormai scomparse, all’ansia d’una ricerca di appartenenza che sembra sempre fatalmente negata (ci si sente sempre fuori posto!), al desiderio inappagato – che a volte diviene aggressivo e violento – di intimità capace di colmare il vuoto della propria vita, all’angoscia che scaturisce dal fatto di ritrovarsi frustrati ed incapaci di vere relazioni: così “sembra che la solitudine del cuore sia così abissale da non essere raggiunta da nessuna voce umana” (Galimberti, Le cose dell’amore).

    Ma vi possono essere sentimenti positivi legati ad esperienze di solitudine: essi generalmente sono vissuti come “peak esperiences” (Maslow), ovvero istanti di pienezza in cui la solitudine non spaventa ma rappresenta al contrario l’instante di un’intuizione felice e piena di un “ritrovarsi immersi” in una totalità nella quale alla persona è dato di toccare, fosse solo per un momento, la gioia di essere se stessi nel mondo. È nel silenzio misterioso di chi è immerso nella natura, o sotto la cupola infinita delle stelle, o all’ombra delle volte di una grande cattedrale, o il silenzio dolcissimo colmo di parole non dette che intercorre tra innamorati, o il silenzio dolce della madre che tiene tra le braccia il suo bambino, o del monaco in preghiera nella notte nel silenzio della sua cella.
    Dunque la risposta alla solitudine non è per nulla scontata. Essa per essere costruttiva esige un ascolto della propria coscienza e una conseguente maturità che porti in un primo tempo a riconoscere e in secondo tempo a dare significato e spessore a questa solitudine “esistenziale”. Un percorso non facile e di maturazione della propria libertà e responsabilità.

    Non meraviglia perciò il fatto di constatare tante risposte se non abnormi e patologiche il più delle volte insoddisfacenti e talvolta addirittura distruttive.

     

     

    3. La solitudine “ vuota”

     

    Uno sguardo attorno a noi ed in noi ci porta a riconoscere che questo percorso è reso oltremodo difficile, a volte culturalmente e socialmente insormontabile: alla solitudine “esistenziale” l’uomo della nostra cultura occidentale non sa più dare, e non è più aiutato a dare!, una ragione e una risposta (dia 7).

     Li abbiamo tutti sotto gli occhi: bambini lasciati soli davanti alla TV e sballottati da un genitore all’altro, famiglie in cui ristagna solo una pesante cappa di silenzio,  vecchi abbandonati negli ospizi, malati relegati in anonime corsie di ospedale, ragazzi sprofondati nella solitaria prigione del loro walkmann o del loro videogioco, il disoccupato disperato,  il divorziato che si ritrova a far i conti col fallimento di una vita, il gruppo anonimo degli ultrà o il gruppetto muto e spaesato dei ragazzi del muretto, il senza-casa o l’extracomunitario in fila per il pasto…è un panorama desolante che si incontra ogni giorno!

    La solitudine-isolamento è il male della nostra “città”. Il rumore e una musica banale è il continuo sottofondo per riempire il silenzio.

    La soluzione è più che altro cercata all’interno di orizzonte inconcludenti e vuoti, realtà apparentemente piene di immagini e di suoni e di parole ma in realtà estremamente vuote: il denominatore comune è dato dal costante sforzo di fuggire-evitare- sopprimere la solitudine, il silenzio, in un’angoscia del non “dover-mai-restare-soli”.

    A questo fine tutto può essere usato: dipendenze da alcol e droga o altro, comportamenti compulsavi (internet, cell., shopping, gioco d’azzardo, a surrogati di vario tipo: il lavoro…).  Queste piste di soluzione rischiano di sprofondare la persona nell’inferno di un grave disagio che può evolversi in malattia psichiatrica vera e propria.

    Culturalmente e socialmente si è esasperato il soggettivismo (e dunque l’individualismo) con la conseguenza  che si è ancor più esasperato l’orizzonte della solitudine. Le relazioni sentite come necessarie sono vissute più che altro in funzione dell’io, in un contesto spesso di rivalità e competizione, di predominio. Galimberti commenta questa situazione: “Nella nostra epoca l’amore diventa indispensabile per la propria realizzazione e al tempo stesso impossibile perché, nella realizzazione d’amore, ciò che si cerca non è l’altro, ma attraverso l’altro, la realizzazione do sé” (Le cose dell’amore). L’uomo alla fin fine cerca “solo se stesso”: e la conclusione inevitabile di questa tensione esasperata è lo sprofondare in una solitudine sempre più vuota, nella quale è precluso ogni autentico incontro di sguardi e si riscontra un’assenza di parola vera capace di intessere dialogo: “Non ci si angoscia per “questo” o per “quello”, ma per il nulla che ci precede e che ci attende. Ed essendoci il nulla all’ingresso e all’uscita della nostra vita, insopprimibile sorge la domanda che chiede il senso del nostro esistere” (Galimberti, Le cose dell’amore).

    Spietata nella sua crudezza, l’analisi che di questa situazione faceva già a suo tempo  F. Nietzsche ne “La gaia scienza”: “Che mai facemmo a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non abita su di noi uno spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?”. Non è forse proprio nella notte che soprattutto i giovani, in masse anonime, cercano di fuggire alla loro solitudine ricorrendo allo “sballo” delle droghe, dell’alcol, del sesso, della violenza, della sfida al pericolo? Non è forse nella notte che le angosce più profonde assalgono all’improvviso il cuore togliendo la voglia di vivere?

    Un complesso musicale degli anni ’70 cantava un motivo di successo: “Tutta mia la città: un deserto…”. (Equipe 84). La “città” paradossalmente assurge sempre più a un deserto senza vita, senza colore, dove gli sguardi non si incrociano, una folla anonima senza direzione, dove non esistono parole ma solo comunicazioni di servizio, silenzio pesante e vuoto che impermea il caos rumoroso del traffico. La città è il deserto “vuoto” e sterile, senza punti di riferimento e in cui si corre a vuoto, intorno a se stessi e senza destinazione(il quadro di Munch, “L’urlo” ne potrebbe essere emblematica icona).  

     

     

    4. La sfida del deserto

     

    Tuttavia la coscienza attenta percepisce che il dramma della solitudine può trasmutarsi in  portatrice di certo temibili ma quanto salutari! rivelazioni. Essa potrebbe far emergere, più o meno violentemente, le proprie paure, i propri vuoti e conflitti, che nella vita quotidiana si cerca continuamente di mettere a tacere e di non affrontare perché scomodi, dolorosi, bisognosi di risposta e cambiamento.

    Accettare di entrare nella solitudine equivale ad accettare d’entrare in battaglia con i “nostri demoni”, obbligando la nostra coscienza ad assumere la propria libertà e responsabilità nei confronti della direzione da imprimere alla nostra vita. Si tratta di una vera e propria discesa nel “profondo” del cuore per scoprirvi la radice del senso della vita. Ci si dirige verso il luogo in cui si è collocati dinanzi all’essenziale! “Solo la solitudine permette all’uomo di scoprire, e dunque di affrontare, tutte le forze oscure ch’egli porta in sé. L’uomo che non sa restare solo, non sa neppure (e oscuramente non vuole) riconoscere, in fondo al suo cuore, i conflitto ch’egli si sente incapace di mettere a nudo, o anche solo di sfiorare. La solitudine è una prova terribile, perché fa scricchiolare ed andare a pezzi la vernice delle nostre sicurezze superficiali: essa ci scopre gli abissi sconosciuti che tutti portiamo in noi stessi. E, afferma la tradizione degli antichi monaci, essa ci scopre che questi abissi sono infestati: non sono soltanto le profondità della nostra anima, ignorate da noi stessi, che noi scopriamo, ma anche le potenze oscure che vi sono come rimpiattate, e di cui noi resteremo fatalmente schiavi fino a quando non ne avremo preso coscienza. E, a dire il vero, questa coscienza ci schiaccerebbe se non fosse illuminata dalla luce della fede. Solo il Cristo può impunemente scoprirsi “il mistero di iniquità”, perché egli solo, oggi in noi come una volta già per noi, può affrontarlo con successo” (L. Bouyer, Spiritualità dei Padri).

    Nella tradizione biblica e spirituale cristiana il deserto, la solitudine, assurge a luogo di una duplice rivelazione: quella di Dio e quella del male. Nella storia della spiritualità il deserto è il luogo della lotta con il demonio (cfr Vita di Sant’Antonio) perché nella sua essenzialità smaschera inevitabilmente tutti quei “demoni-mostri” che, in altri contesti, subdolamente abitano il fondo della nostra coscienza e la governano.

    Intravediamo in questa disponibilità ad entrare in contatto, attraverso la solitudine, con le profondità del nostro essere. Questa è la condizione perché si recuperino quelle dimensioni che sono tipicamente “umane”: la riscoperta della libertà, della responsabilità dinanzi alla vita, del suo senso ultimo.

     

     

    5. Opportunità di crescita

     

    (dia 11). Se l’uomo si ritrova oggi sprofondato in queste solitudini per la maggior parte subite, sofferte, rifiutate è saggio e doveroso chiedersi: che fare per aiutare la persona ad affrontare la propria solitudine, a leggerla in modo costruttivo, a saperla utilizzare per il proprio sviluppo umano e spirituale?  Non potrebbe l’esperienza del vuoto e dell’angoscia trasformarsi in occasione (“crisi”) per intraprendere nella propria vita percorsi diversi che vadano in profondità, che rieduchino e risveglino le domande vere e i bisogni più profondi che nascono solo dall’ascolto della coscienza? L’uomo contemporaneo proprio perché frastornato, “sfilacciato”, “di-sperso”, nel rumore e nell’anonimato, nei suoi frustranti tentativi di colmare inutilmente il proprio disagio ha bisogno di riscoprire urgentemente proprio dentro la sua solitudine il luogo e l’occasione per ritrovare se stesso, cessando di vivere da “alienato” ovvero fuori di sé. Bernardo di Chiaravalle monaco cistercense affermava con lucidità che: “Dio non discorre con quelli che stanno al di fuori di se stessi” (Lettere, 107).

    Così la solitudine può trasmutarsi in trampolino per un balzo verso la ricerca della verità, e quindi verso il bene, il buono e il bello. Essa diviene possibilità in cui all’uomo è offerto di aprirsi alla consapevolezza di essere fatto per “un oltre” che “va al di là” di quel “soggettivismo-individualismo-relativismo” che ci impregna e costringe all’isolamento.

    Perché questo accada non rare volte si necessita di un evento che sia traumatico, un elettroshok spirituale..  Nella vita di ciascuno giunge quasi sempre – c’è da augurarselo! – il tempo di smettere di fuggire da se stessi – fosse pure negli ultimi istanti della vita – e di entrare nella tragedia-dramma della “propria” solitudine ovvero in quella grazia del ritrovarsi – finalmente – di fronte al mistero di  se stessi e dell’Altro. Qui si attua – se si fa in verità – un giudizio spietato, e talvolta dall’esito drammatico, sulla propria vita!: “A dire il vero – scrive il teologo psicoterapeuta Eugen Drewermann – dal punto di vista psicologico non esiste forse niente di più augurabile che venire messi, ad un certo momento, di fronte a se stessi senza orpelli, ma non è una cosa che si può forzare. Si presenta quando è matura, e non siamo noi a recarci in questo genere di deserto, ma come dice Marco, in questi spazi decisivi dell’esistenza ci veniamo sospinti”.

    Nel “deserto” luogo dove si “spengono le luci e i colori del mondo esterno, per rivolgere lo sguardo verso l’interno” (P. Evdokimov) ci troviamo faccia a faccia con noi stessi, senza falsi specchi che ci rinviano alle nostre precostituite, illusorie, compromettenti immagini di noi stessi. (dia 13).Qui si offre un’opportunità preziosa per imparare l’essenziale, ovvero a discernere ciò che conta da ciò che non conta: “La vita solitaria, essendo silenziosa, dissipa la cortina di fumo delle parole, posta dall’uomo tra la sua anima e le cose. Nella solitudine rimaniamo faccia a faccia con la nuda essenza delle cose. Eppure scopriamo che la crudezza della realtà, da noi temuta, non è motivo né di paura, né di vergogna. Viene ricoperta nell’amichevole comunione del silenzio, e questo silenzio è legato all’amore” (T. Merton)

    Nel silenzio e nella solitudine del deserto si è obbligati a scegliere continuamente tra la morte e la vita, tra il ripiegamento nelle nostre paure e angosce, o l’aprirci fiduciosi alla promessa e alla speranza che ci pone in cammino. Il deserto pone in uno stato di perenne tensione, di pellegrinaggio, obbligando a fissare lo sguardo fuori di noi all’orizzonte cercando sempre al di là. Non ci si può fermare nel deserto, pena la morte: si è obbligati o ad avanzare o a tornare indietro!

    In questo avanzare pellegrini nella solitudine è racchiusa una promessa di un tesoro che non è immediato e alla portata di mano, esso esige il lento, faticoso e paziente scavo nelle “profondità del proprio cuore”, perché liberato da tutte le macerie e i rottami di una vita inconcludente si apra alla rivelazione di un nuovo modo di guardare alla vita che passa attraverso la griglia dell’essenzialità e la categoria dell’eterno: il frutto è la pace interiore di un orizzonte sconfinato che si apre dinanzi alla propria libertà.

     

     

    6. Una proposta

     

    Da quanto detto appare chiaro come la fede biblica non debba e di fatto non annulla la solitudine “esistenziale” in cui l’uomo è collocato sin dall’inizio. Essa tuttavia all’interno della rivelazione si pone come una premessa in vista di un progetto di comunione per cui l’uomo è stato creato: “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2,21). La spiritualità biblica assume e riconosce la solitudine come situazione nella quale all’uomo è riofferta l’occasione di ritornare (“convertirsi”) a ciò per cui è stato creato.

    Tutta la spiritualità cristiana (pensiamo all’esperienza del monachesimo o all’esperienza degli Esercizi Spirituali) ben utilizza la solitudine some strumento, mai fine a se stesso!, per imparare a leggere nelle proprie nostalgie, ansie, paure, desideri più profondi un invito alla trascendenza per cui siamo stati fatti. Nel silenzio il cuore può parlare e dire ciò che più desidera senza la tentazione di fuggire a se stessi. Un motto monastico intuiva questo risvolto quando ripeteva: “O solitudo vera beatitudo”.

    Così la solitudine da nemica diviene amica irrinunciabile al fine di aiutarci a dare spessore e scopo alla vita quotidiana fatta di tante cose da fare, da mille contraddizioni da affrontare, di mille problemi da risolvere. Non diviene fuga ma luogo in cui ritrovare il bandolo della matassa e non sperdersi nei meandri della cose. Diviene maestra di “umanizzazione” in quanto insegna a riaccostarsi alla verità di se stessi senza fuggirla, un tesoro a disposizione di ogni essere umano che sia disposto a scavare nella propria interiorità per poterlo dissotterrare, come sapientemente invitava a fare il poeta Kavafis: “E se non puoi la vita che desideri / cerca almeno questo / per quanto sta in te: / non sciuparla / nel futile commercio con la gente, / vane parole in un viavai / frenetico. / Non sciuparla portandola in giro / in balìa del quotidiano / gioco balordo degli incontri e degli inviti, / fino a farne una stucchevole estranea“.

    E un grande testimone contemporaneo della fecondità del deserto quale è stato Charles de Foucauld scriveva dalle infuocate distese di sabbia del Sahara: “Bisogna passare attraverso il deserto e dimorarvici per ricevere la grazia di Dio: è là che ci si svuota, che si scaccia da noi tutto ciò che non è Dio e che si vuota completamente questa piccola casa della nostra anima per lasciare il posto a Dio solo”.

    Sono convinto della necessità di dare vita a “laboratori di umanizzazione” in cui alle persone che lo richiedono possano trovare un contesto fatto di luoghi e persone che siano di aiuto nell’insegnare a riprendere contatto con se stesse e con il Mistero.

    Rientra tutto questa proposta quell’emergenza educativa di cui oggi molto si parla, e a ragione! Alle coscienze troppo ottenebrate, distolte dall’essenziale, fagocitate da una società del consumo e del potere che trova enormi interessi a far sì che l’uomo disimpari a pensare e riscoprire la propria libertà e responsabilità, è urgente offrire loro la possibilità di rieducarsi anche attraverso il silenzio e  la solitudine al fine di saper riascoltare se stesse, al riprendere contatto con il proprio “io”.

    Urgenza da offrire soprattutto alle nuove generazioni che stanno vivendo e incontreranno disagi non indifferenti nel prossimo futuro, ma da offrire anche a non pochi adulti che ad un certo punto della loro cammino spesso domandano di essere aiutati a riprendere il “filo della matassa” della loro esistenza sfilacciate da sofferenze, abbandoni, sconfitte, malattie…

    Le comunità cristiane e in particolar modo quelle religiose e soprattutto quelle contemplative dovrebbero essere impegnate in questo in prima fila nella consapevolezza che quest’opera di rieducazione dell’ascolto della coscienza è la premessa indispensabile se si desidera poi procedere ad una significativa proposta di apertura alla fede.

     

     

    Bibliografia

     

    Sant’Atanasio, Vita di sant’Antonio-Lettere, ed Paoline, Milano 1995

    L. Bouyer, La spiritualità dei Padri, EDB , Bologna 1968

    San Bruno; Lettera a Rodolfo il Verde, PL 154,421

    E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2001

    E. Borgna, Noi siamo un colloquio, feltrinelli, Milano 1999C.

    C. Carretto, Lettere dal deserto, La Scuola, Brescia, 1975

    S. De Fiores, Deserto, in “Nuovo dizionario di Spiritualità”, ed Paoline, 1975

    U. Galimberti, Le cose dell’amore, Feltrinelli, Milano, 2005

    U. Galimberti, Psiche e tecne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999

    A. Grun, Lacerazioni. Il cammino verso l’unità personale, ed. Messaggero, Padova 2003

    M. Melenso, Passione per la vita, ed. CVX, Roma 1997

    Un Monaco, L’eremo-spiritualità del deserto, Queriniana, Brescia, 1976

  • 28 Gen

     

    Una prima constatazione che possiamo fare è che non sappiamo pregare; è un’esperienza fatta dagli stessi apostoli:

    “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei suoi discepoli gli disse: Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1)

    E’ importante per la verità di noi stessi e di conseguenza per la preghiera, accorgerci di questa difficoltà: “io non so pregare”. Affermare questo implica già una spinta a cercare, a non fermarci.

    Se la preghiera è dialogo, incontro, essa è difficile perché il più delle volte non percepiamo il nostro interlocutore. Egli rimane nascosto, apparentemente assente. Se è incontro essa deve perciò essere caratterizzata dalla spontaneità.

    Ma allora è giusto parlare delle leggi della preghiera senza rischiare l’artificiosità, l’inautenticità, la non spontaneità?

    Se la preghiera è incontro, dialogo con Dio, dobbiamo imparare il linguaggio nascosto di Dio:

    “Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo Spirito dell’uomo che è in lui?

    Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio” (1Cor 2,11)

    “Nessuno può dire: “Gesù è Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor 12,3)

    “Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26)

    E’ vero: non sappiamo pregare. Da noi stessi non potremmo parlare il linguaggio di Dio; ma il dono dello Spirito fattoci da Gesù nella Pasqua, ci rende capaci ormai anche di questo.

    All’inizio della nostra preghiera non deve mai mancare l’invocazione allo Spirito che abita in noi, perché ci suggerisca pensieri secondo il cuore di Dio:

    “Nessuno può dire: “Gesù è Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12,3).

     

    Ogni volta che incominciamo a pregare Gesù è lo Spirito Santo che, con la sua grazia preveniente, ci attira sul cammino della preghiera… Ecco perché la Chiesa ci invita ad implorare ogni giorno lo Spirito Santo, soprattutto all’inizio e al termine di qualsiasi azione importante: Vieni Spirito, riempi il cuore dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”” (CFC 2670s)

     

    Una delle prime difficoltà che incontriamo nel cammino della preghiera è: “Devo preoccuparmi delle formule?”.

    Anzitutto consideriamo come Gesù nella parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14) ci mostra che l’essenziale della nostra preghiera è presentarci come poveri, “mendicanti di Dio”.

    S. Giovanni della Croce ci offre le ragioni per cui alle formule dobbiamo preferire l’atteggiamento interiore:

    “La ragione per cui è meglio per colui che ama presentare le sue necessità piuttosto che domandare di soddisfarle è per tre motivi: il primo perché il Signore sa meglio di noi stessi ciò di cui abbiamo bisogno; il secondo perché l’amico è preso da compassione più vedendo la necessità di colui che l’ama; il terzo perché l’anima è più protetta dal rischio dell’amor proprio e dalle pretese presentando ciò che le manca, più che domandando ciò di cui le sembra di aver bisogno” (lettera alle carmelitane di Becs).

    Tutto quanto detto è confermato dagli esempi tratti dalla Scrittura.

    Maria a Cana non dice: Protesti dare loro del vino?; ma “Non hanno più vino” (Gv 2,3).

    Marta e Maria implorano: “Il tuo amico Lazzaro, colui che ami, è malato” (Gv 11,3).

    Così il centurione a Cafarnao (Mt 8,6) e la donna cananea (Mt 15,22ss).

    Anche nell’antico testamento troviamo un esempio significativo: è la storia di Mosè. Ciò che ottiene la liberazione del popolo non sono né i miracoli, né le assicurazioni, né l’eloquenza. Questi strumenti non hanno che un risultato: l’indurimento del cuore del faraone. Ma è quando Mosè sperimenta tutta la sua debolezza ed è scoraggiato che egli innalza la sua vera preghiera: “Ma chi sono io?” (Es 3,11; 4,10; 5,21-23).

    Mosè stesso sperimenta la paura; ma è attraverso la sua paura e la sua debolezza che impara a parlare con Dio.

    Così anche Elia, quando scoraggiato nella fuga implora di morire (1Re 4,5); così Geremia, al momento della sua chiamata e nelle difficoltà e sofferenze della sua missione (Gr 20,7).

    Soprattutto abbiamo ancora l’esempio di Gesù nell’orto del Getsemani, e il suo grido sulla croce.

    Nel momento dell’estrema debolezza e povertà Dio interviene, quando è impossibile ingannarsi su colui che veramente può portarci in salvo.

    JHWH risponde a Mosé: “Io sarò con te”; l’angelo dirà a Maria: “Non temere”. Gesù nella sua agonia sperimenta la vicinanza del Padre: “Venne allora una voce da cielo: L’ho glorificato e lo glorificherò ancora” (Gv 12,28).

     

    Le formule della nostra preghiera non si esprimono necessariamente a parole o rappresentazioni intellettuali. La preghiera, talvolta, potrà solo consistere in un grido del cuore, uno sguardo supplice rivolto a Dio:

    “Che la vostra preghiera ignori ogni molteplicità: una parola bastò al pubblicano e al figliol prodigo per ottenere il perdono… Nessuna ricercatezza nelle parole della vostra preghiera: quante volte i semplici e monotoni balbettamenti dei bambini inteneriscono il loro padre! Non abbandonatevi a lunghi discorsi per non dissipare il vostro spirito nella ricerca delle parole. Una sola parola del pubblicano ha commosso la misericordia di Dio, una sola parola piena di fede ha salvato il ladrone” (G. Climaco, Sc. Par.).

    Sarà tuttavia utile esprimere la preghiera attraverso la nostra parola. E’ la cosiddetta preghiera vocale:

    “Con la sua Parola Dio parla all’uomo. E la nostra preghiera prende corpo mediante parole, mentali o vocali. Ma la cosa più importante è la presenza del cuore a colui al quale parliamo nella nostra preghiera: Che la nostra preghiera sia ascoltata non dipende dalla quantità delle parole ma dal fervore delle nostre anime” (Giov. Crisost.)”

    “Il bisogno di associare i sensi alla preghiera interiore risponde ad un’esigenza della natura umana. Siamo corpo e spirito, e quindi avvertiamo il bisogno di tradurre esteriormente i nostri sentimenti. Dobbiamo pregare con tutto il nostro essere per dare alla nostra supplica la maggior forza possibile” (CFC 2701s)

    Riassumendo: la preghiera è una realtà molto semplice.  Il dialogo con Dio non è complicato. Prima preoccupazione non è cercare delle formule, né sapere che cosa dobbiamo ottenere: la cosa indispensabile è imparare a parlare a Dio con la nostra

    debolezza:

    “Che la mente non si sparpagli in cerca di parole…Le molte parole nell’orazione sovente riempiono la testa solo di idee e distrazioni, mentre la brevità e talora una parola sola può conciliare il raccoglimento. Quando in una parola dell’orazione ti senti pervadere di dolcezza o di compunzione, fermati in essa” (G.Climaco, Sc Par).

    Non bisogna spaventarsi se Dio nella sua pedagogia inizia col smascherare tutte le nostre illusioni, al fine di collocarci nella verità. Infatti, se egli veramente ci ama, non può sopportare che noi ci sbagliamo sulla nostra vera felicità.

    Accettare l’amore di qualcun altro è permettergli di esercitare su di noi una certa gelosia: Dio ha per noi la gelosia della verità.

    Dio purifica così il nostro desiderio, trasformandoci in uomini dell’attesa: “Siate vigilanti” (Mt 24,42). Dio ha sempre agito così, in modo da condurre l’uomo a preferirlo a tutto il resto.

    La preghiera è vera nella misura in cui ci spinge a ri-cercare Dio, se diviene testimonianza che preferiamo Dio a tutto il resto.

    La scoperta della nostra povertà è la modalità attraverso cui l’immensa ricchezza di Dio ci è data da condividere, a cui siamo invitati ad aderire:

    “Tutto posso in colui che mi dà la forza”

    “Nulla è impossibile a Dio”

    “Mi glorierò della mia debolezza perché possa risplendere in me la potenza di Dio”

    Nella vita di Mosè, come in quella dei santi, le prove e le sconfitte superano il loro senso immediato: esse testimoniano che l’opera di Dio si è manifestata e rivelata come unicamente sua, un’opera dettata dall’amore per la sua creatura:

    “Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi con compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli di amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Os 11,3-4).

    Nella nostra vita Dio non può rivelarci il suo amore se non passiamo l’esperienza che Lui solo può liberarci, e in lui solo possiamo riporre ogni nostra speranza.

    Ripeteva Gandhi: “Pregare è un’ammissione quotidiana della nostra debolezza”.

    Sa Paolo scriveva: “Quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12,9-10).

    Accettare la povertà non comporta allora la gioia per una mancanza, ma una gioia in quanto essa può essere occasione di rivelazione del nostro dipendere da un altro. E’ il senso del verbo”credere” nella Scrittura: lasciarsi portare da un altro.

     

     

     

  • 27 Gen

    di p. Attilio F. Fabris 

     

    Nel libro della Genesi troviamo il meraviglioso racconto del dialogo orante di Abramo e i suoi tre misteriosi ospiti sotto la quercia di Mamre.

    Certo Dio non cambia, e anche noi come Abramo possiamo scoprire che Dio non sarebbe più tale nel caso egli cambiasse; infatti un Dio sottomesso alle nostre esitazioni non potrebbe essere Colui dal quale attendiamo sicurezza:

    “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della Luce, nel quale non c’è variazione né ombra di cambiamento” (Gc 1,17)

    Ma allora perché supplicare Dio di intervenire? A cosa serve presentargli la nostra miseria?

    Dio non cambia, ma tuttavia “allorché distrusse le città, egli si ricordò di Abramo, e fece fuggire Lot dal disastro” (Gn 19,29). Questa è la risposta alla sua preghiera.

    Dio è immutabile nei suoi disegni, ma ciò sarebbe mutilare la sua provvidenza se si limitasse ai soli risultati visibili, alle realtà apparenti.

    Dio è immutabile nei suoi disegni, ma in questi disegni interviene la preghiera dei suoi figli.

    Scopo della preghiera non è cambiare l’ordine delle cose stabilito da Dio, ma di ottenere ciò che Dio ha deciso di compiere attraverso la nostra preghiera.

    Dio ha voluto far dipendere la realizzazione di certe realtà, dalla nostra preghiera.

    “La preghiera cristiana è cooperazione alla Provvidenza di Dio, al suo disegno di amore per gli uomini” (CFC 2738).

    L’ordine voluto da Dio comporta la mia collaborazione. Siamo fatti per cooperare al nostro destino e all’evolversi della storia.

    Potremmo quasi suddividere tutto ciò che capita nella nostra vita in due categorie di avvenimenti:

    – ciò che capita, ma che non dipende da noi

    – ciò che possiamo ottenere attraverso il nostro sforzo ed impegno.

    Se non preghiamo noi rimaniamo puramente passivi di fronte agli avvenimenti della prima categoria e attribuiamo ai nostri sforzi quelli della seconda.

    Al contrario: pregando noi sostituiamo alla nostra volontà quella di Dio, ovvero entriamo nel piano di Dio.

    Ci poniamo così sulla stessa lunghezza d’onda del progetto di Dio. Scopro di conseguenza che Dio fa la storia con me. Che, come Maria, sono fattivamente collaboratore di Dio.

    Egli non vuole fare senza di te ciò che ha deciso di fare con te!

    Abbiamo nella Scrittura diversi esempi:

    – Gesù e la donna sirofenicia: ella deve lottare con lui per ottenere ciò che desidera;

    – la lotta dell’angelo con Giacobbe: essa dura tutta la notte, Dio desidera essere vinto dall’uomo;

    – Mosé intercede per il popolo dopo il peccato dell’adorazione del vitello;

    – la vedova importuna che chiede giustizia.

    La preghiera perfetta alla quale tendiamo è sull’esempio di Gesù stesso: “Sia fatta la tua volontà”.

    Essa non cambia, ma deve compiersi con il nostro assenso e collaborazione. Che possiamo volere ciò che Dio stesso vuole.

    Dio entrando in comunione con noi fa appello alla nostra libertà: chiederà a Mosé: “Lascia che la mia collera s’infiammi contro di loro” (Es 32,10).

    Caterina da Siena fa dire al Signore: “Io sono incatenato dalle catene dei vostri desideri; ma queste catene le ho forgiate io stesso”. Dio suscita in noi i desideri che intende esaudire.

    Nel suo disegno eterno ed immutabile, Dio ha collocato un posto preciso alla nostra preghiera, e Dio non cambia. E’ questa una delle peculiarità più profonde della preghiera cristiana, che possiamo tradurre con un’espressione di san Tommaso:

    “L’amore non ha permesso a Dio di restare solo”

    L’amore è condivisione di tutto. Dio vuole farci partecipi della sua felicità. E’ questa la grande rivelazione della fede cristiana. Per la filosofia antica e le vecchie religioni l’uomo non era che uno spettatore. Paolo, con la sua veemenza afferma di costoro:

    “Siamo collaboratori di Dio” (1 Cor 3,9)

    E’ questo l’insegnamento di tutti i santi. Teresa di G.B. scrive ad esempio:

    “Perché Gesù dice: Pregate il Signore della messe perché mandi operai nella sua messe? Gesù forse non è onnipotente? Ah, è che Gesù ha nei nostri confronti un amore così grande che vuole che anche noi abbiamo parte alla salvezza delle anime, non vuole far nulla senza di noi. Il creatore dell’universo attende la preghiera d’una povera, piccola anima per salvare altre anime, riscattate dal suo stesso sangue. Ecco le parole di Gesù: “Alzate lo sguardo, vedete… Vedete come nel mio cielo vi sono dei posti vuoti, tocca a voi riempirli. Voi siete i miei Mosé che pregano sulla montagna” (Lettere)

    Noi entriamo nel mistero della rivelazione cristiana allorché sperimentiamo che Dio vuole essere amato come colui che attende da noi il desiderio di cooperare al suo piano. Vi scopriamo anche l’estrema delicatezza di Dio che non comanda, non si impone, ma un Dio che chiede un Dio che… prega l’uomo!

    Potremmo tentare così una prima definizione della preghiera: un incontro tra due desideri o meglio, l’assorbimento del desiderio dell’uomo in quello di Dio.

    La preghiera è dunque un incontro, nell’interiorità, fatto di amicizia e di cui Dio ha la prerogativa:

    “Sia che l’uomo dimentichi il suo Creatore, oppure si nasconda lontano dal suo volto, sia che corra dietro ai propri idoli o accusi la divinità di averlo abbandonato, il Dio vivo e vero chiama incessantemente ogni persona al misterioso incontro della preghiera. questo passo d’amore del Dio fedele viene sempre per primo nella preghiera; il passo dell’uomo è sempre una risposta. Man mano che Dio si rivela e rivela l’uomo a se stesso, la preghiera appare come un appello reciproco, un evento di alleanza. Attraverso parole e atti, questo evento impegna il cuore” (CFC 2567).

    Chiaramente la percezione della concretezza della preghiera, il suo rientrare nell’”appello reciproco”, nell’”Alleanza”, fa sì che essa debba in noi allargare sempre più i suoi confini, andando al di là di tante preoccupazioni immediate e talvolta meschine.

    Ancora su queste basi bisognerebbe riflettere alle dimensioni e al realismo che potrebbe assumere la nostra preghiera, all sua audacia, all’abbandono confidente in dio qualora essa sia percepita ed accolta quale collaborazione al disegno di Dio.

     

     

     

     

     

  • 27 Gen

    di p. attilio fabris 

    Vi è una contraddizione nel nostro pregare:

    da un lato avvertiamo il bisogno del dialogo con Dio

    dall’altro la preghiera suscita in noi innumerevoli resistenze.

    Alcune di queste resistenze potrebbero essere:

    – la mancanza di tempo

    – la stanchezza

    – la difficoltà.

    Potremmo fermarci a queste. Ma se abbiamo il coraggio di indagare poco più in profondità scopriamo in noi un’obiezione di fondo: “Forse la nostra preghiera è inutile?” Infatti: “Se Dio già conosce tutto, e per di più non ha bisogno delle mie preghiere, allora perché dovrei pregare?”.

     

    DIO SA TUTTO

     

    In effetti, dobbiamo confermarlo, la preghiera non “serve” a Dio: “Tu non hai bisogno della nostra lode” (Liturgia). Gesù stesso ci pone attentamente in guardia contro questa falsa presunzione:

    “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate” (Mt 6,7-8)

    Dunque Dio conosce meglio di noi ciò che ci serve. La preghiera non serve a lui, ma a noi.

     

     

    L’INTOLLERANZA DEL LIMITE

     

    Una delle esperienze più dure e dolorose che ciascuno, prima o poi, è chiamato a fare è la presa di coscienza del proprio limite.

    Solo chi è stato in grado di integrare questo limite nella sua esistenza può dirsi maturo umanamente; se ciò non accadesse la persona vivrebbe in un mondo illusorio, falsamente idealizzato, tipico dell’adolescente.

    Anche la preghiera è chiamata a farci prendere coscienza del nostro limite. Si tratta della pedagogia di Dio. In questo contesto possiamo collocare quella virtù tanto un tempo apprezzata che è l’umiltà, quella vera. Il CCC afferma a tal proposito:

    “L’umiltà è il fondamento della preghiera… è la disposizione necessaria per ricevere gratuitamente il dono della preghiera: ‘L’uomo è un mendicante di Dio’ (sant’Agostino)” (n. 2559)

    Il prendere coscienza del proprio limite, nell’umiltà, è una prova alla quale ogni uomo è soggetto e che attraversa in varie strade (malattia, sofferenza morale o psichica, morte di cari, esperienze “metafisiche”…): attraverso la prova egli giunge alla coscienza di essere creatura superando la tentazione di Adamo: l’onnipotenza! Essere Dio a se stessi.

    Naturalmente siamo portati a rifiutare il limite, a fuggirlo. Ecco allora la dis-trazione il di-vertimento. Ovvero lo sforzo di distoglierci dagli interrogativi che ci richiamano alla nostra vera realtà. L’uomo che fugge in mille modi e che ha paura di se stesso. La distrazione appare allora come l’opposto della preghiera, come una scappatoia dalla coscienza della nostra reale condizione, un’evasione da essa verso un’illusione, il sogno, il miraggio del “Sarete come Dio!” (Gn 2)

    Allora il primo passo verso la preghiera è l’umiltà, l’apprendere e il riconoscere il proprio limite di creatura.

    La preghiera ci riconduce, essa è pedagogia di Dio, a ciò di cui più autenticamente ha bisogno il nostro cuore limitato:

    “Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (S. Agostino, Confessioni)

    Essa salvaguardia ciò di cui abbiamo più bisogno, ciò che in noi è più prezioso e autentico: il nostro desiderio di Dio.

    Il riconoscimento del proprio limite implica già di per se stesso una chiamata da parte di Dio. La preghiera appare come una risposta alla domanda che Dio pone nel segreto del nostro cuore: Essa è un incontro tra due desideri:

    “Se tu conoscessi il dono di Dio. La meraviglia della preghiera si rivela proprio là presso i pozzi dove andiamo a cercare acqua: là Cristo viene ad incontrare ogni essere umano; egli ci cerca per primo ed è lui che ci chiede da bere. Gesù ha sete: la sua domanda sale dalle profondità di Dio che ci desidera. Che lo sappiamo o no, la preghiera è l’incontro della sete di Dio con la nostra sete. Dio ha sete che noi abbiamo sete di Lui” (CCC 2560)

    Questa chiamata all’uomo nel contesto del limite nella Scrittura appare spesso in forma sconcertante: es: Agar e la gelosia di Sara, la sua fuga (Gn 21,8-21); Elia fuggitivo e perseguitato (1Re 19); l’esilio di Israele (Bar 2,30-3,8); il figlio prodigo (Lc 15).

    Dovremmo porci l’interrogativo: Che atteggiamento assumo io dinanzi alle esperienze del mio limite? Quali sono queste esperienze? Di fronte al limite mi accorgo di soccombere o esso mi spinge ad aprirmi alla scoperta dell’Altro?

    Quando Dio mi conduce allo spogliamento non è forse sempre in vista di una mia crescita?

    “Nella terra del loro esilio ritorneranno in sé, e riconosceranno che io sono il Signore loro Dio. Darò loro un cuore e orecchi che ascoltano nella terra del loro esilio. Mi loderanno e si ricorderanno del mio nome” (Bar 2,26)

     

     

     

     

    DIO HA BISOGNO DEGLI UOMINI

     

    Dice Gesù nel vangelo di Giovanni: “La verità vi farà liberi”: ma questa verità, questa pedagogia di Dio, spesso è dura e dolorosa perché l’esperienza della nostra povertà ci sconcerta.

    La preghiera svolge un ruolo fondamentale: essa trasforma ciò che in noi è limite, pesantezza; essa cambia il nostro modo di guardare la nostra povertà.

    La preghiera dopo averci costretto ad accettare i nostri limiti ed averci insegnato il nostro vero bisogno, trasforma tutto questo in uno sguardo rivolto ad un Altro.

    Il nostro bisogno è in qualche modo indispensabile a Dio per instaurare la sua relazione con noi.

    La nostra povertà diviene il nostro tesoro. E rifiutare di essere poveri è rifiutare che Dio sia Dio per noi.

    Così Dio non ci donerà ciò di cui abbiamo bisogno anche se lo conosce bene, senza che noi glielo domandiamo.

    “Con la preghiera di domanda noi esprimiamo la coscienza della nostra relazione con Dio: in quanto creature non siamo noi il nostro principio, né siamo padroni delle avversità, né siamo il nostro ultimo fine” (CFC 2629)

    Ogni giorno prendiamo atto della nostra povertà. Ogni giorno è necessario che la poniamo alla base della nostra preghiera.

    Scriveva s. Giovanni Crisostomo:

    “Se Dio tarda a rispondere è unicamente per trattenerci più lungamente presso di lui, proprio come i padri fanno con i figli che amano. Ma io sono indegno. La tua perseveranza a pregare ti renderà degno. Spesso Dio si fa attendere per mostrarsi poi più generoso”

  • 29 Dic

    Si assiste sempre più ad un accentuato contrasto tra l’insistenza dei pastori sull’importanza, anzi sulla necessità dell’impegno politico dei cattolici, e il diffuso disimpegno in questo ambito.

    Potrebbe scaturirne una visione pessimismistica: se i cristiani più vicini agli insegnamenti della Chiesa non percepiscono concretamente la necessità dell’impegno politico, sembra superfluo insistervi ulteriormente e dedicare un convegno a questo tema.

    L’altra prospettiva  invece è più ottomistica: il diffuso disinteresse in campo politico deve servire di stimolo per perseverare in tale insegnamento, per insistere sulla necessità dell’impegno politico, e sulle caratteristiche che esso deve avere; e bisogna farlo non solo al livello teoretico, ma anche al livello pratico e in modo incisivo.

     

    1. Il diritto-dovere all’impegno politico

     

    Tutti coloro che partecipano alla vita sociale, vale a dire tutti gli uomini, hanno il diritto e il dovere di impegnarsi in campo politico.

    Naturalmente, ognuno lo farà con modalità diverse, secondo la sua situazione e le sue attitudini; ma nessuno può rimanere estraneo a questo importante compito.

    Ciò è particolarmente vero per i cristiani.

    Prima però vorrei fare una precisazione: il diritto-dovere di partecipare alla vita politica deriva dalla cittadinanza delle persone.

    In tal senso, un cattolico non ha una situazione particolare che accresca o riduca tale diritto-dovere rispetto al resto della società.

    L’essere cattolico costituisce però, di fronte alla propria coscienza, un ulteriore motivo per vivere con più responsabilità l’impegno politico.

     

    1.1. Il punto di vista della Redenzione

     

    Cristo ha redento tutto l’uomo, anche nel suo essenziale rapporto con gli altri e con la società. La realtà sociale naturale è stata assunta nel disegno redentore

    Tutte le attività temporali possono quindi essere vissute come risposta alla vocazione divina, nella quale la persona segue le orme del Signore.

    Nell’esperienza della salvezza l’uomo scopre il vero significato della sua libertà ed è educato al suo retto uso. Così alla dimensione soteriologica della liberazione viene ad aggiungersi una dimensione etica: la persona è chiamata ad agire in favore della liberazione da ciò che schiavizza l’uomo, anche riguardo ai rapporti sociali.

    Sebbene la salvezza non possa essere ridotta alla dimensione etico-sociale, che ne è una conseguenza, la distinzione tra le due non comporta una separazione; infatti, la vocazione dell’uomo alla vita eterna non elimina, anzi conferma il suo dovere di mettere in atto le energie e i mezzi per sviluppare la sua vita temporale.

    Perciò nessuna realtà umana — ambito politico incluso — è estranea al disegno redentore e, pertanto, all’evangelizzazione e alla missione della Chiesa e dei cristiani.

    Tuttavia, «si osservano a volte degli atteggiamenti che derivano dall’incapacità di penetrare in questo mistero di Gesù.

    Per esempio, la mentalità di chi vede nel cristianesimo soltanto un insieme di pratiche e atti di pietà, senza coglierne il nesso con le situazioni della vita ordinaria, con l’urgenza di far fronte alle necessità degli altri e di sforzarsi per eliminare le ingiustizie. Direi che chi ha questa mentalità non ha ancora compreso che cosa significa che il Figlio di Dio si sia incarnato, abbia preso corpo, anima e voce umana, abbia condiviso il nostro destino, fino a sperimentare la suprema dilacerazione della morte. Magari senza volere, alcune persone considerano Cristo come estraneo all’ambiente degli uomini.

    Altri, invece, tendono a immaginare che per poter essere umani bisogna mettere in sordina alcuni aspetti centrali del dogma cristiano, e agiscono come se la vita di preghiera, il colloquio continuo con Dio, costituissero un’evasione dalle proprie responsabilità e un abbandono del mondo. Dimenticano che fu proprio Gesù a rivelarci fino a quali estremi debbono essere spinti l’amore e il servizio. Soltanto se cerchiamo di capire il mistero dell’amore di Dio, il mistero dell’amore che arriva fino alla morte, saremo capaci di darci totalmente agli altri senza lasciarci sopraffare dalle difficoltà o dall’indifferenza».

    In breve: sebbene la crescita del Regno di Dio e la promozione umana non si identifichino, esiste tra di esse una concatenazione profonda ed inscindibile. Perciò la sequela di Cristo richiede l’ottemperanza dei doveri politici, e questi si possono compiere con maggiore perfezione se sono animati dallo spirito cristiano.

    Tutto ciò pone ai cristiani obblighi specifici: essi non devono considerare le strutture sociali, politiche ed economiche come indifferenti rispetto alla storia salvifica, ma come realtà affidateci dal Signore come compito e connotate dalla scelta libera e responsabile degli uomini e, quindi, positivamente o negativamente relazionate ai valori del Regno.

     

    1.2. Punto di vista della perfezione personale

     

    Il disegno del Creatore include la vita sociale degli uomini (cfr. Gn 2,18). Dio ha chiamato l’uomo a raggiungere la patria celeste tramite l’agire terreno; sicché tutte le attività umane indirizzate a far progredire questa vita corrispondono alle intenzioni del Creatore, e le persone devono compierle responsabilmente.

    In unione con Cristo l’operare politico acquisisce una dignità tutta nuova: non è soltanto un’opera “indifferente” resa buona da qualcosa di esterno, ma è molto di più poiché, per l’unione con Cristo, tale agire diviene una realtà santa, santificata e santificante nella storia della salvezza.

    Non esiste un’autentica vita cristiana (neppure umana) se si tiene poco conto dei bisogni, delle leggi e delle istituzioni sociali. E ciò è ancora più vero nelle circostanze odierne, in cui la crescente interdipendenza sottolinea pressantemente che tutti siamo veramente responsabili di tutti.

    Perciò il Vaticano II ammonisce: «Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna»[14].

    Talvolta si è detto che la preoccupazione dei cristiani per l’aldilà fa loro dimenticare i problemi del mondo presente. La realtà è diametralmente opposta: poiché la vita eterna dipende dal nostro agire in questo mondo, e più specificamente dall’agire in favore degli altri, occorre riconoscere che la vita cristiana è un forte incentivo ad impegnarsi seriamente nella costruzione di una società più giusta e fraterna.

     

    1.3. Punto di vista della società

     

    Lo scopo precipuo della politica è il raggiungimento del bene comune.

    Il dovere di partecipare allo sviluppo del bene comune non riguarda però tutte le persone nella stessa misura; è un dovere differenziato a seconda del ruolo sociale di ognuno. Tale responsabilità è propria in primo luogo dello Stato e dei poteri pubblici, poiché questa è la loro ragion di essere e, conseguentemente, il loro dovere primario.

    Ciò però non giustifica il disimpegno per il bene comune delle singole persone e dei gruppi sociali. Poiché il bene comune è il fine della società, tutti i suoi membri sono responsabili nell’instaurarlo e conservarlo.

    Di più: come la dottrina della Chiesa insegna e la storia ha dimostrato, per assicurare un saldo bene comune occorre una floridezza di società intermedie; «queste, infatti, maturano come reali comunità di persone ed innervano il tessuto sociale, impedendo che scada nell’anonimato ed in un’impersonale massificazione, purtroppo frequente nella moderna società».  La necessità dell’impegno di tutti per il bene comune comporta la necessità dell’impegno di tutti nella vita politica.

     

    1.4. Obbligatorietà dell’impegno politico

     

    Da quanto detto si desume la straordinaria portata umanizzante (o disumanizzante) dell’attività politica. Perciò «la Chiesa ha un’alta stima per la genuina azione politica; la dice “degna di lode e di considerazione” (Gaudium et spes, n. 75), l’addita come “forma esigente di carità” (Octogesima adveniens, n. 46).

    Da ciò derivano il diritto e il dovere di impegnarsi per migliorare la vita pubblica, organizzandola in modo conforme alla dignità della persona umana.

    Questo è oggi un diritto ampiamente accettato nella società.

    Ma è anche un dovere, poiché libertà non significa soltanto mancanza di coazione o indifferenza nell’agire; la libertà è una formidabile energia, una fonte potenziale di progresso che non deve rimanere inattiva, né nelle singole persone, né nelle comunità e nei paesi. Anzi, la “salute” di una comunità politica si esprime, tra l’altro, «mediante la libera partecipazione e responsabilità di tutti alla cosa pubblica”.

    A ciò si deve aggiungere che l’ottenimento di un bene — incluso il bene comune — esige un impegno attivo. La politica non può limitarsi all’ambito teoretico: non basta comprendere perché un’azione umana sia buona o cattiva in ordine al bene sociale. Il suo scopo è anche, e principalmente, quello di “dirigere” l’agire umano verso il bene: perciò la politica possiede una “praticità” inerente al suo stesso enunciato.

    L’insegnamento sociale cristiano possiede, pertanto, un’imprescindibile dimensione pratica, e deve evitare una grave e deleteria dicotomia: quella che separa la fede dalla vita.

    Non è proprio del cristianesimo un malinteso distacco che porta a vedere le cose del mondo come estranee ai propri interessi, né una lamentazione sterile che nulla risolve. È necessario che i cristiani apportino alla vita sociale l’elemento vivificatore dei principi evangelici, rispettando l’autonomia delle realtà terrene, che, pure, costituisce un principio evangelico

    Così Leone XIII ricorda che per i fedeli «l’astensione totale dalla vita politica non sarebbe meno biasimevole che il rifiuto di qualsiasi concorso al pubblico bene: tanto più che i cattolici in ragione appunto dei loro principi, sono più che mai obbligati di portare nei propri impegni integrità e zelo». E Paolo VI invitava tutti a fare, a questo proposito, un serio esame di coscienza: «Ciascuno esamini se stesso per vedere quello che finora ha fatto e quello che deve fare. Non basta ricordare i principi, affermare le intenzioni, sottolineare le stridenti ingiustizie e proferire denunce profetiche: queste parole non avranno peso reale se non sono accompagnate in ciascuno da una presa di coscienza più viva della propria responsabilità e da un’azione effettiva. (…) In tal modo, nella diversità delle situazioni, delle funzioni, delle organizzazioni, ciascuno deve precisare la propria responsabilità e individuare, coscienziosamente, le azioni alle quali egli è chiamato a partecipare»[27]. Indirizzate direttamente ai fedeli laici, le seguenti parole di Giovanni Paolo II sottolineano come questo grave dovere di tutti i cattolici sia oggi sempre più pressante: «Situazioni nuove, sia ecclesiali sia sociali, economiche, politiche e culturali, reclamano oggi, con una forza del tutto particolare, l’azione dei fedeli laici. Se il disimpegno è sempre stato inaccettabile, il tempo presente lo rende ancora più colpevole. Non è lecito a nessuno rimanere in ozio».

    Si deve perciò prendere la decisione di influire positivamente sulla vita politica, evitando così un’apparente vita cristiana, che non può essere autentica se trascura i doveri sociali.

     

     

    2. Elementi che favoriscono un corretto impegno politico

     

    2.1. Finalità dell’agire politico

     

    Giovanni Paolo II, nell’esortazione apostolica Christifideles laici, afferma che la politica è la «molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente “il bene comune”». E poco dopo ricorda: «Una politica per la persona e per la società trova il suo criterio basilare nel perseguimento del bene comune, come bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo, bene offerto e garantito alla libera e responsabile accoglienza delle persone, sia singole che associate»[29].

    Queste frasi sintetizzano un costante insegnamento della Chiesa: lo scopo immediato della politica è quello di promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune. Perciò la politica, ad ogni suo livello, non va considerata soltanto come un metodo per costituire, consolidare ed esercitare il potere pubblico; né va vista come una procedura tecnica per il buon andamento di quanto corrisponde alla natura, alla finalità, ai mezzi e alle forme di organizzazione dello Stato. La politica è soprattutto un servizio al bene comune, che necessariamente include il bene integrale di ogni persona appartenente ad una determinata società.

    Da qui l’importanza di capire correttamente cosa sia il bene comune, affinché l’agire politico sia ad esso adeguato.

    Il Vaticano II insegna che il bene comune è «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente». La finalità del bene comune è, pertanto, quella di aiutare e facilitare la realizzazione di ogni persona umana, affinché essa “sia” di più, e progredisca secondo l’integra verità dell’uomo. Ciò richiede che gli elementi materiali, culturali e spirituali siano sviluppati in modo armonico, sia in ogni singola persona, sia nei rapporti tra le diverse persone e i diversi gruppi sociali. Occorre ricordare che il bene comune non è la semplice somma degli interessi particolari, ma implica la loro valutazione e composizione, in base ad un’equilibrata gerarchia di valori e, in ultima analisi, ad un’esatta comprensione della dignità e dei diritti umani.

    E bisogna sottolineare che, poiché la perfezione della persona è intimamente legata alla sua dimensione trascendente, cioè alla sua relazione con Dio, il bene comune si ricollega, innanzitutto, all’aspetto spirituale e morale dell’uomo, a cui corrisponde la preminenza tra i diversi elementi dell’uomo stesso[33]. Preminenza, purtroppo, frequentemente dimenticata nel concreto agire politico odierno.

    Certo, la priorità dell’aspetto trascendente non esclude la necessità dei beni terreni, ma fa sì che questi siano integrati nel quadro generale della vita umana senza prendere il sopravvento:. Lo sviluppo integrale include il possesso di beni materiali, ma lo scopo di tali beni è di contribuire alla maturazione e all’arricchimento della persona umana in quanto tale. Per risolvere le “questioni sociali”, per trovare più efficienti strutture di governo o di produzione è necessario quindi che la ricerca sia accompagnata e, in un certo senso, preceduta dalla consapevolezza delle questioni umane più profonde e basilari.

    Bisogna curare, in primo luogo, lo sviluppo delle persone poiché il tentativo di migliorare la società senza impegnarsi per il miglioramento personale non può che rivelarsi illusorio.

    In aggiunta ai cambiamenti personali e istituzionali, occorre compiere un terzo passo, senza il quale i primi due rimarrebbero in uno stato di precarietà: bisogna cioè impregnare la cultura di fermenti etici, i soli che danno solidità allo sviluppo umano integrale. «È insufficiente e riduttivo pensare che l’impegno sociale dei cattolici possa limitarsi a una semplice trasformazione delle strutture, perché se alla base non vi è una cultura in grado di accogliere, giustificare e progettare le istanze che derivano dalla fede e dalla morale, le trasformazioni poggeranno sempre su fragili fondamenta».

    In politica, forse più che in altri campi, non basta risolvere le questioni che si presentano giorno per giorno: è necessaria una programmazione culturale di ampio respiro. Il fallimento di tanti progetti fatti con buona volontà, ma privi di lungimiranza ne è la prova palese.

     

    2.2. I mezzi dell’impegno politico

     

    a) Dimensione morale della politica

     

    il primo “mezzo” dell’attività politica è quello di salvaguardare la sua dimensione morale.

    Tutto l’agire personale appartiene all’ordine morale: l’arte, la scienza, la tecnica, la politica, l’economia, ecc., non si possono considerare soggetti neutrali dal punto di vista della crescita umana. E siccome la politica è finalizzata a promuovere la dignità delle persone, vale a dire, al raggiungimento del bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo, l’agire politico, più di altri ambiti dell’agire umano, è particolarmente legato alle esigenze morali.

    Infatti, «è nella persona umana, intesa nell’integralità dei suoi diritti e doveri, che deve trovarsi la base di partenza, il punto di incontro e il criterio deontologico per l’agire politico o per agire in politica. Il primato e la centralità della persona umana relativizzano ogni sistema politico e la stessa politica, sottolineandone vigorosamente il carattere funzionale e di servizio».

    Sicché la metodologia politica non deve essere sorretta da un’antropologia di tipo quantitativo (che aspira ad un gran numero di consensi), bensì da un’antropologia qualitativa che mira ad ottenere la fiducia dei cittadini; una fiducia che occorre conquistare giorno per giorno tramite un comportamento e un insieme di istituzioni e di leggi che siano in sé affidabili.

    Il principio cardine dell’etica sociale è la dignità di ogni essere umano. Tale dignità ha un limite negativo invalicabile che va applicato sempre a tutte le persone: non bisogna mai considerare una persona come una semplice parte di un corpo sociale e non bisogna abbassarla in nessun caso a mezzo, perché ogni persona ha sempre il valore di fine, in quanto titolare di diritti intangibili ed inviolabili. Tali diritti, che l’autorità politica deve tutelare in ogni circostanza, costituiscono non soltanto un confine invalicabile, ma anche un obiettivo da raggiungere. Perciò il rispetto della persona esige la solidarietà, perché nessuna fascia sociale (economica, etnica, religiosa, ecc.) deve essere esclusa dal bene comune.

    Da quanto detto si evince, e la storia lo ha mostrato in molteplici occasioni, che una vita sociale sana dipende da una moralità personale sana. E, viceversa, la separazione tra etica e politica risulta funesta per la stessa vita sociale.

     

    b) Impegno politico e coerenza cristiana

     

    La fedeltà morale trova un sostegno particolarmente valido nella vita cristiana: essa insegna l’intera verità sull’uomo e sorregge saldamente la condotta morale delle persone. Perciò la fede si rivela un aiuto di prim’ordine. Se vissute con coerenza, le credenze religiose — soprattutto quella cristiana — sono sempre un elemento importante dell’agire umano, sia nell’ambito individuale sia in quello che riguarda le rispettive comunità di appartenenza. 

    Al contrario, se si affievolisce la fede in Dio e in Gesù Cristo, e si spegne negli animi la luce dei principi morali, viene scalzato l’unico e insostituibile fondamento che può sorreggere un vero e duraturo ordine sociale.

    Certamente, la strada del miglioramento interiore delle persone come presupposto per migliorare le strutture politiche può sembrare «più ardua, più lunga, più complessa. A volte essa può apparire anche non adeguata all’urgenza dei problemi. Ma è l’unica che permette soluzioni veramente umane e durature. Insomma, la fede cristiana svolge un ruolo importante nella costruzione della società. Anche per questo il Vaticano II ricorda: «Il distacco, che si constata in molti tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo»[54].

    È chiaro che tutto ciò non può costituire un alibi per la pigrizia e il disimpegno, né significa che la politica debba essere succube della religione, ma piuttosto che essa deve servire l’uomo e, di conseguenza, deve rientrare nell’ambito della morale, il cui fondamento saldo è Dio.

    La spiritualità del cristiano impegnato nell’ambito politico consiste nella maturazione della sintesi interiore e profonda tra l’obbedienza al disegno di Dio e l’impegno storico speso alla ricerca di strumenti e nel perfezionamento o nella creazione di istituzioni che rispondano alle esigenze ordinarie dell’esistenza terrena.

    Una fede coerente infonde un grande vigore allo sviluppo sociale, perché da essa deriva una motivazione perenne e profonda per incoraggiare gli impegni terreni e politici; essa comunica fiducia e ottimismo sulla possibilità di costruire un mondo più a misura d’uomo, anche se mai esisterà un «paradiso in terra». Le motivazioni religiose della Redenzione annunciata dalla Chiesa possono non essere condivise, ma l’atteggiamento etico che ne deriva costituisce uno dei cardini comuni più forti attorno ai quali si può sviluppare lo sforzo dei cristiani e di tutti gli uomini di buona volontà per un cammino da compiere insieme.

     

    c) Inefficacia del comportamento onesto?

     

    Esiste una diffusa ammirazione, non sempre confessata, per coloro che, comportandosi in modo disonesto negli affari pubblici, tuttavia “la fanno franca”. Parallelamente si ritiene spesso che in ambito pubblico, soprattutto in quello politico, un comportamento onesto non risulti efficace. Da ciò nasce non soltanto l’idea che la politica sia sempre un “affare sporco” — il che accresce la disaffezione per questo ambito —, ma anche la pretesa di giustificare tale comportamento. «Oggi siamo in presenza di un tentativo in grande scala, a livello planetario e continentale, di annullare la nostra coscienza, personale e collettiva. Le società più avanzate sono alla ricerca di un “sistema societario” che possa rendere inutili e vani sia i valori sia le norme propriamente umane: il tentativo è quello di costruire un “sistema sociale” che consenta all’uomo di procedere senza dover fare scelte propriamente etiche, cioè fra il bene e il male» (Donati).

    Ma, anche limitandoci ad un’ottica puramente terrena e materialistica, occorre rilevare che un comportamento del genere tende ad estendersi a macchia d’olio — come si è visto in tanti paesi in tempi recentissimi —, e quando dilaga la disonestà dilagano gli svantaggi materiali per tutti. Poi, con un’ottica più profondamente antropologica, è facile capire che i vantaggi che si possono ottenere mediante una condotta immorale sono ben poca cosa rispetto alla perdita umana di chi agisce così: già Socrate sosteneva che è peggio perpetrare un’ingiustizia che subirla, e lo stesso ha sempre insegnato la dottrina cristiana.

    La Chiesa «pensa che occorra, anzitutto, fare appello alle capacità spirituali e morali della persona e all’esigenza permanente della conversione interiore, se si vogliono ottenere cambiamenti economici e sociali che siano veramente al servizio dell’uomo. Il primato dato alle strutture e all’organizzazione tecnica sulla persona e sulle esigenze della sua dignità è espressione di un’antropologia materialistica, ed è contrario all’edificazione di un giusto ordine sociale».

    Ciò non comporta la futilità dei mezzi e delle tecniche politiche, che sono imprescindibili. Ma sottolinea che essi, da soli, non bastano: occorre che siano accompagnati e, ancor meglio, preceduti dai mezzi e dalle tecniche morali e spirituali.

    Abbiamo già ricordato che l’egoismo è il più grande nemico di una vita sociale sana; ciò, perché l’amore disordinato per se stessi tende ad assolutizzarsi e a usare le cose e le persone per il proprio tornaconto fino all’abuso e alla sopraffazione.

      

    d) Necessità della formazione

     

    Quanto detto mette in luce la necessità di unire la formazione tecnico-politica con quella morale. Difatti, per tradurre l’impegno politico in un’azione efficace per lo sviluppo sociale, e per maturare una realistica capacità di iniziativa politica, la persona deve acquisire adeguate competenze tecniche e lucidità di discernimento, nonché le necessarie qualità morali.

    Nell’educazione politica dei fedeli occorre distinguere, di conseguenza, due livelli:

    Il primo può essere descritto come l’edificazione della personalità sociale, intesa come l’insieme delle qualità che rendono la persona in grado di assumere efficacemente l’impegno politico

    Il secondo livello è quello dell’educazione civile e politica, che va impartita diligentemente affinché tutti svolgano adeguatamente il loro ruolo nell’ambito delle comunità in cui sono inseriti.

    Poiché la dottrina sociale della Chiesa trova la sua forza più nella pratica che nella coerenza dei suoi principi, occorre che l’educazione sociale non rimanga soltanto al livello teoretico, ma mostri parimenti, e forse più insistentemente, i modi concreti di applicare tale insegnamento.

    Occorre quindi promuovere esperienze che consentano di tradurre gli orientamenti della dottrina sociale in termini concreti, all’interno di una matura unità tra vita morale e azione pubblica.

    In questo ambito è particolarmente importante non cedere al relativismo etico, e non confondere la giusta autonomia dei cattolici in politica con la disattenzione nei confronti dei valori etici umani e cristiani. Non si può favorire, anzi si deve contrastare «l’attuazione di un programma politico o di una singola legge in cui i contenuti fondamentali della fede e della morale siano sovvertiti dalla presentazione di proposte alternative o contrarie a tali contenuti. Poiché la fede costituisce come un’unità inscindibile, non è logico l’isolamento di uno solo dei suoi contenuti a scapito della totalità della dottrina cattolica. L’impegno politico per un aspetto isolato della dottrina sociale della Chiesa non è sufficiente ad esaurire la responsabilità per il bene comune. Né il cattolico può pensare di delegare ad altri l’impegno che gli proviene dal vangelo di Gesù Cristo perché la verità sull’uomo e sul mondo possa essere annunciata e raggiunta» (Congr. per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24-XI-2002, n. 4). Anche in ambito politico l’intelligenza e la volontà umana sono costitutivamente orientate verso il vero e il bene e, di conseguenza, sono estranee allo scetticismo e al relativismo etico.

    Nella situazione odierna, con un pluralismo sovente affine al relativismo e all’indifferenza morale, occorre, oltre alla virtù della fortezza e a una solida personalità, un’intensa formazione e un profondo rinnovamento delle coscienze per compiere i peculiari doveri politici.

    È opportuno soffermarci un momento anche su un tema che viene riproposto oggi con una certa frequenza: alle volte si sente dire che i cattolici dovrebbero rinunciare alla propria dottrina quando agiscono in una funzione pubblica: ciò è illusorio e ingiusto. Illusorio, poiché le convinzioni di una persona — derivate o meno da una fede religiosa — influiscono necessariamente su quanto tale persona decide e su come agisce; ingiusto, perché i non cattolici — per quanto si è appena detto — applicano in questo ambito le proprie dottrine. Difatti, tutti i cittadini, siano o meno cristiani, hanno il diritto e il dovere di agire coerentemente con le proprie idee, rispettando le differenze e la dignità di ogni persona.

    Anzi, accantonare le proprie convinzioni nella vita politica, accademica, culturale, ecc., comporterebbe una mancanza di sincerità, che è una virtù indispensabile nei rapporti sociali.

     

    2.3. Il ruolo dei laici

     

    Tale missione ha un denominatore comune a tutti i fedeli, ma ognuno deve viverla in conformità con la vocazione ricevuta: sacerdote, religioso o laico. La funzione propria e specifica del laico, anche se non unica né esclusiva, è quella di contribuire alla santificazione delle realtà terrene quasi dall’interno. Tale “indole secolare” dei fedeli laici non si limita ad essere una realtà di fatto, ma è anche una qualità teologica ed ecclesiale; una qualità, cioè, che qualifica i rapporti che tali fedeli hanno con Dio nella Chiesa. Il fatto che l’indole secolare del laico sia di carattere teologico, implica che egli deve — mediante i suoi compiti nel mondo (familiari, politici, professionali, ecc.) — portare a termine quella parte di missione della Chiesa che a lui, in quanto  suo membro, corrisponde. Dio li chiama a vivere nel mondo e a compiere la loro missione cristiana (santità e apostolato) nelle loro mansioni terrene.

    A tal fine, occorrono — come già accennato — un’adeguata formazione e un serio impegno: «Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali. Quando essi, dunque, agiscono quali cittadini del mondo, sia individualmente sia associati, non solo rispetteranno le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistarsi una vera perizia in quei campi. Daranno volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità. Nel rispetto delle esigenze della fede e ripieni della sua forza, escogitino senza tregua nuove iniziative, ove occorra, e le realizzino. Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero» (GS 43).

    Tutti i cristiani godono di un’ampia libertà nel loro agire politico; ma non soltanto nell’agire: secondo l’insegnamento appena ricordato del Vaticano II, essi hanno la stessa autonomia per quanto riguarda gli ideali e i progetti da proporre in questo ambito. Anche per questo, nell’impegno di “cristianizzazione” della realtà politica, i laici non sono semplici esecutori, ma creatori di pensiero sociale.

     

     

    Conclusione

     

    Oggi si assiste a una crescente spoliticizzazione dei cittadini, che si manifesta con una indifferenza generalizzata verso i problemi che riguardano la società (a condizione che essi non ledano gli interessi personali). Il crollo delle ideologie, che va accolto con gioia, ha però portato con sé anche il crollo delle idee e degli ideali politici. L’uomo appare ipersensibile di fronte a ciò che lo riguarda personalmente e incredibilmente apatico nei confronti del bene comune. La causa principale di tale atteggiamento è forse la perdita di significato della vita personale e sociale, per cui le persone tendono a rifugiarsi nell’immediato e nell’effimero. Un’altra causa, non meno grave, va ricercata nel disincanto generato dall’immoralità privata e pubblica di molte persone e di tanti gruppi politici. In definitiva la spoliticizzazione di cui si parlava è dovuta, soprattutto, a cause morali e culturali. Una ragione in più per impegnarsi seriamente e con un alto profilo etico nell’ambito dell’attività politica.

    Occorre ribadire ancora che il cristiano coerente non può disinteressarsi di tale attività, non può essere succube della passività o della rassegnazione in questa sfera così importante per il bene di tutti gli uomini. La partecipazione alla vita politica è un diritto e un dovere, che ognuno dovrà assumersi a seconda delle personali competenze e delle proprie condizioni, ma senza cessioni né scoraggiamenti.

     

     

     

     

     

     

    SCHEDA di LAVORO

     

     

    1. Il diritto-dovere del cristiano all’impegno politico

     

    Tutti coloro che partecipano alla vita sociale, vale a dire tutti gli uomini, hanno il diritto e il dovere di impegnarsi in campo politico.

     

    1.1. Il punto di vista della Creazione e Redenzione

    Cristo ha redento tutto l’uomo, anche nel suo essenziale rapporto con gli altri e con la società. La realtà sociale naturale è stata assunta nel disegno redentore. La vocazione dell’uomo alla vita eterna non elimina, anzi conferma il suo dovere e mandato – e il valore – di mettere in atto le energie e i mezzi per sviluppare la crescita umana.

    Il disegno del Creatore include la vita sociale degli uomini (cfr. Gn 2,18). Dio ha chiamato l’uomo a raggiungere la patria celeste tramite l’agire terreno; sicché tutte le attività umane indirizzate a far progredire questa vita corrispondono alle intenzioni del Creatore, e le persone devono compierle responsabilmente.

     

    1.2. Punto di vista della società

    Lo scopo precipuo della politica è il raggiungimento del bene comune. Il dovere di partecipare allo sviluppo del bene comune è un dovere differenziato a seconda del ruolo sociale di ognuno.

     

    1.3. Obbligatorietà dell’impegno politico

    Da ciò derivano il diritto e il dovere di impegnarsi per migliorare la vita pubblica, organizzandola in modo conforme alla dignità di ciascuna persona umana.

    È oggi un diritto ampiamente accettato nella società. Ma è anche un dovere, poiché libertà non significa soltanto mancanza di coazione o indifferenza nell’agire; la libertà è una formidabile energia, una fonte potenziale di progresso che non deve rimanere inattiva, né nelle singole persone, né nelle comunità e nei paesi.

     

     

    2. Elementi che favoriscono un corretto impegno politico

     

    2.1. Finalità dell’agire politico

    Il costante insegnamento della Chiesa è: lo scopo immediato della politica è quello di promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune. Perciò la politica, ad ogni suo livello, non va considerata soltanto come un metodo per costituire, consolidare ed esercitare il potere pubblico; né va vista come una procedura tecnica per il buon andamento di quanto corrisponde alla natura, alla finalità, ai mezzi e alle forme di organizzazione dello Stato.

    La politica è soprattutto un servizio al bene comune, che necessariamente include il bene integrale di ogni persona appartenente ad una determinata società.

     

    2.2. I mezzi dell’impegno politico

     

    a) Dimensione morale della politica

    Il primo “mezzo” dell’attività politica è quello di salvaguardare la sua dimensione morale.

    Infatti, «è nella persona umana, intesa nell’integralità dei suoi diritti e doveri, che deve trovarsi la base di partenza, il punto di incontro e il criterio deontologico per l’agire politico o per agire in politica. Il primato e la centralità della persona umana relativizzano ogni sistema politico e la stessa politica, sottolineandone vigorosamente il carattere funzionale e di servizio».

     

    b) Impegno politico e coerenza cristiana

    La fedeltà morale trova un sostegno particolarmente valido nella vita cristiana: essa insegna l’intera verità sull’uomo e sorregge saldamente la condotta morale delle persone. Perciò la fede si rivela un aiuto di prim’ordine. Le motivazioni religiose della Redenzione annunciata dalla Chiesa possono non essere condivise, ma l’atteggiamento etico che ne deriva costituisce uno dei cardini comuni più forti attorno ai quali si può sviluppare lo sforzo dei cristiani e di tutti gli uomini di buona volontà per un cammino da compiere insieme.

     

    c) Inefficacia del comportamento onesto?

    Esiste una diffusa ammirazione, non sempre confessata, per coloro che, comportandosi in modo disonesto negli affari pubblici, tuttavia “la fanno franca”. Parallelamente si ritiene spesso che in ambito pubblico, soprattutto in quello politico, un comportamento onesto non risulti efficace. Da ciò nasce non soltanto l’idea che la politica sia sempre un “affare sporco” — il che accresce la disaffezione per questo ambito —, ma anche la pretesa di giustificare tale comportamento.

    La Chiesa «pensa che occorra, anzitutto, fare appello alle capacità spirituali e morali della persona e all’esigenza permanente della conversione interiore, se si vogliono ottenere cambiamenti economici e sociali che siano veramente al servizio dell’uomo. Il primato dato alle strutture e all’organizzazione tecnica sulla persona e sulle esigenze della sua dignità è espressione di un’antropologia materialistica, ed è contrario all’edificazione di un giusto ordine sociale».

     

    d) Necessità della formazione

    Quanto detto mette in luce la necessità di unire la formazione tecnico-politica con quella morale. Difatti, per tradurre l’impegno politico in un’azione efficace per lo sviluppo sociale, e per maturare una realistica capacità di iniziativa politica, la persona deve acquisire adeguate competenze tecniche e lucidità di discernimento, nonché le necessarie qualità morali.

    È opportuno soffermarci un momento anche su un tema che viene riproposto oggi con una certa frequenza: alle volte si sente dire che i cattolici dovrebbero rinunciare alla propria dottrina quando agiscono in una funzione pubblica: ciò è illusorio e ingiusto. Illusorio, poiché le convinzioni di una persona — derivate o meno da una fede religiosa — influiscono necessariamente su quanto tale persona decide e su come agisce; ingiusto, perché i non cattolici — per quanto si è appena detto — applicano in questo ambito le proprie dottrine. Difatti, tutti i cittadini, siano o meno cristiani, hanno il diritto e il dovere di agire coerentemente con le proprie idee, rispettando le differenze e la dignità di ogni persona.

     

    2.3. Il ruolo dei laici

    Tale missione nell’attività politica è un denominatore comune a tutti i fedeli, ma ognuno deve viverla in conformità con la vocazione ricevuta: sacerdote, religioso o laico. La funzione propria e specifica del laico, anche se non unica né esclusiva, è quella di contribuire alla santificazione delle realtà terrene dall’interno.

     

     

    Conclusione

     

    Tutti i cristiani godono di un’ampia libertà nel loro agire politico; ma non soltanto nell’agire: secondo l’insegnamento appena ricordato del Vaticano II, essi hanno la stessa autonomia per quanto riguarda gli ideali e i progetti da proporre in questo ambito. Anche per questo, nell’impegno di “cristianizzazione” della realtà politica, i laici non sono semplici esecutori, ma creatori di pensiero sociale.

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