• 27 Feb

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    Il difficile cammino della fede

     

     La fede è un affidarsi, un appoggiarsi saldamente alla Roccia-Dio (Batah) in modo incondizionato. Ma questo atteggiamento, lo sperimentiamo continuamente, non è né facile, né scontato.
    La fede è dono che diviene appello per l’uomo verso l’autotrascendenza, verso l’incontro con il mistero di Dio. Mistero che ci è stato rivelato in Cristo Gesù.
    Questo cammino di autotrascendenza è difficile, faticoso.  Esso esige pazienza, perseveranza, fiducia.
    Nel nostro contesto culturale che privilegia l’immediato, l’istante presente, l’atteggiamento della fede appare ancor più ostico e arduo.
    La Parola di Dio illumina questo aspetto della nostra esperienza di fede.

    La peregrinazione nel deserto

     La fede è peregrinazione (di Maria nella LG si dice che “peregrinò nella fede”), peregrinazione soggetta a tante prove e tentazioni:
    2 Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. 3 Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. 4 Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. 5 Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te. (Dt 8,2-4)

    Israele nel deserto è il prototipo del nostro difficile cammino nella fede.
    E’ significativo di come subito dopo l’esperienza entusiasmante del passaggio del Mar Rosso in cui aveva toccato con mano la presenza liberatrice di JHWH, inizia a crescere in mezzo al popolo eletto la zizzania, i rovi che è l’incertezza, la sfiducia, il pessimismo. Nasce così la ribellione.
    “22 Mosè fece levare l’accampamento di Israele dal Mare Rosso ed essi avanzarono verso il deserto di Sur. Camminarono tre giorni nel deserto e non trovarono acqua. 23 Arrivarono a Mara, ma non potevano bere le acque di Mara, perché erano amare. Per questo erano state chiamate Mara. 24 Allora il popolo mormorò contro Mosè: «Che berremo?». 25 Egli invocò il Signore, il quale gli indicò un legno. Lo gettò nell’acqua e l’acqua divenne dolce. In quel luogo il Signore impose al popolo una legge e un diritto; in quel luogo lo mise alla prova. 26 Disse: «Se tu ascolterai la voce del Signore tuo Dio e farai ciò che è retto ai suoi occhi, se tu presterai orecchio ai suoi ordini e osserverai tutte le sue leggi, io non t’infliggerò nessuna delle infermità che ho inflitte agli Egiziani, perché io sono il Signore, colui che ti guarisce!». 27 Poi arrivarono a Elim, dove sono dodici sorgenti di acqua e settanta palme. Qui si accamparono presso l’acqua.” (Es 15,22-27).
    “2 Mancava l’acqua per la comunità: ci fu un assembramento contro Mosè e contro Aronne. 3 Il popolo ebbe una lite con Mosè, dicendo: «Magari fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti al Signore! 4 Perché avete condotto la comunità del Signore in questo deserto per far morire noi e il nostro bestiame? 5 E perché ci avete fatti uscire dall’Egitto per condurci in questo luogo inospitale? Non è un luogo dove si possa seminare, non ci sono fichi, non vigne, non melograni e non c’è acqua da bere».” (Nm 20,2-5)
    “2 Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. 3 Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine».” (Es 16,2). 

    Israele diviene il popolo che pur eletto sperimenta la ritrosia a camminare, a crescere, a porre fiducia in Dio. Risulta più comodo rimpiangere la sicurezza delle cipolle e delle pentole lasciate in Egitto. Alla libertà si vorrebbe preferire la falsa sicurezza che non scomoda.
    Si arriva a dubitare della presenza e dell’esistenza di Dio: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7).
    E allora ritorna incessante il monito dell’esodo: “Quante volte si ribellarono a JHWH nel deserto” (Sl 78,40).

    Il nostro cammino nel deserto (cdr Cencini, Amerai…, p. 81ss)

     La storia dell’esodo, i quarant’anni trascorsi da Israele nel deserto del Sinai diventano esemplari per la vita di ciascuno di noi. Ogni anima deve passare per il deserto, camminarvi per lungo tempo, vivere momenti di esitazione e di incertezza.
    E’ il tempo della purificazione.
    Possiamo qui scoprire una prima grande legge della vita spirituale: non esiste vera conoscenza di Dio che non nasca nella solitudine del cammino nel deserto e non maturi tra le difficoltà della prova. “Preparati alla tentazione” (Sir 2,1).
    Scriveva Charles de Foucauld mentre si trovava nei silenzi profondi e misteriosi del Sahara:
    “Bisogna passare attraverso il deserto e dimorarvici per ricevere la grazia di Dio: è là che ci si svuota, che si scaccia da noi tutto ciò che non è Dio e che si svuota completamente questa piccola casa della nostra anima per lasciare il posto a Dio solo… Il deserto è indispensabile. E’ un tempo di grazia. E’ un periodo attraverso il quale ogni anima che vuol portare frutti deve necessariamente passare”.
    Ad un certo punto a tutti Dio domanda di camminare nel nostro deserto, nella nostra solitudine. Di andare oltre alle nostre pretese di capire tutto, di avere noi il controllo della nostra situazione, di pretendere di avere un appoggio sicuro dove mettiamo il nostro piede senza dubbi e senza rischi. Perché troppo spesso, sì siamo disposti alla rinuncia e al sacrificio, però sempre in modo ragionevole, e purché Dio si faccia capire e si lasci trovare.
    Come fu l’esperienza di Paolo sulla via di Damasco così anche a noi può capitare ad un certo  punto del cammino della nostra vita di trovarci a terra e di perdere la vista.
    La nostra sofferenza di consacrati in modo particolare è causata dal silenzio e dall’assenza di Dio. Tutto quello che si è vissuto prima appare vuoto, i valori su cui si era costruita la vita si rivelano pseudovalori.
    Dinanzi a noi c’è il buio: forse si intuisce una possibile strada ma appare lontana e difficile.
    Quanto l’uomo ha paura di sentirsi del tutto povero e nudo dinanzi a se stesso e a Dio!
    Di fronte a questa situazione di estrema incertezza e sofferenza, forte è la tentazione di tornare indietro, di riabbarbicarsi dietro ad antiche certezze che stanno barcollando, a convincersi che non è il caso di proseguire… Purtroppo l’esperienza di Israele è spesso la nostra stessa esperienza. Quante volte rifiutiamo di camminare di crescere e ci rifugiamo in mille espedienti (l’osservanza legalista, nel sogno, nella violenza…). e allora ci si blocca, non si va più avanti. Ma questo significa morire dentro! Nel deserto se non si cammina si muore.
    La cosa non è strana: è difficile per l’uomo vivere proteso verso una realtà che non possiede ancora, specie se questa realtà è solo promessa ed appare lontana, chiede ogni giorno la fatica del discernimento ed espone al rischio della libertà.
    Ma la conversione inizia proprio quando si accetta che Dio sia diverso dai nostri schemi, essa diventa effettiva quando lasciamo che questo Dio sconosciuto ci conduca dove lui solo sa e vuole. (Occorrerà l’umiltà di lasciarsi guidare: ci saranno nuovi Mosè e nuovi Anania per ciascuno di noi…). 

    “Dio ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri” (Gdt 8,25)

     Non è l’uomo che fa esperienza di Dio! E’ Dio che sperimenta l’uomo, lo cerca, lo scruta, lo mette alla prova. Nella prospettiva biblica il protagonista non è l’uomo ma Dio. Chi attraversa il deserto fa questa  esperienza: è Dio a venirgli incontro.
    Ma per arrivare a ciò l’uomo ha dovuto fare un’esperienza dolorosa: perdere progressivamente il controllo della situazione, di vedere più chiaro… questo  lo costringe a lasciare a Dio l’iniziativa, ad abbandonarsi a Lui.
    “Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe” (Gdt 8,26).
    Quando è invece l’uomo che mette Dio alla prova pretendendo conferma ai suoi progetti o garanzie previe o dimostrazioni della sua presenza e fedeltà, allora la parola di Dio assume toni di volta in volta violenti e severi: “Non indurite il vostro cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri” (Sl 95,8); “Chi siete voi dunque che avete tentato Dio e vi siete posti al di sopra di lui, mentre non siete che uomini? Certo, voi volete mettere alla prova il Signore onnipotente, ma non ci capirete niente, né ora né mai… Non pretendete di impegnare i piani del Signore Dio nostro, perché Dio non è come un uomo che gli si possan fare minacce e pressioni…anzi … ringraziamo il Signore Dio nostro che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri” (Gdt 8,12.16.25).
    Abbiamo bisogno di essere purificati perché Dio diventi realmente Dio, ed è per questo che il Padre ci mette alla prova. Crea cioè condizioni di deserto, di solitudine affettiva, di rifiuto, di lotta e tribolazione, di fallimento e delusione… che fanno sì che siamo liberati dai nostri idoli.
    E’ nella prova infatti che viene a galla chi veramente siamo e che cosa abbiamo realmente nel cuore, che cosa c’è di autentico e che cosa no. Si rivela il nostro vero volto. Il deserto ci restituisce la nostra vera immagine: “Ecco l’attirerò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,16).
    “Dio disse ad Abramo: Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, e offrilo in sacrificio sul monte che ti indicherò” (Gn 22,1).
    Dio non chiede solo qualcosa , sacrifici parziali di ciò che è superfluo.
    Ad un certo punto (fosse il momento della morte) chiede all’uomo ciò che ha di più caro: Dio appare contraddittorio, inspiegabile.
    Saprò sacrificare un amore grande solo per un amore ancora più grande. Io non lo sento ancora questo amore, mi sembra impossibile: Ma se Dio mi chiede questo sacrificio vuol dire che Dio può essere amato ancor più del “mio figlio unico”! Dio ci mette alla prova.
    Dio ci domanda di amare ancor più di quanto abbiamo mai amato. E’ il suo modo di agire: ci chiede l’olocausto d’un amore importante, ma poi ci ridona molto di più di quanto ci ha chiesto.
    E’ tuttavia importante dire che è stato necessario anche il cammino precedente, con tutto l’amore che l’ha caratterizzato. Come chiedere, del resto, il sacrificio del cuore a chi non avesse mai amato?
    “Non turbiamoci quando ci capita di essere immersi nelle tenebre, soprattutto se non ne siamo noi la causa. Considera che codeste tenebre che ti ricoprono ti sono state date dalla divina Provvidenza, per ragioni che Dio solo conosce. Qualche volta infatti la nostra anima annega, è inghiottita dalle onde. Sia che ci si dedichi alla lettura della scrittura o alla preghiera, qualunque cosa si faccia, si è rinserrati sempre più nelle tenebre… Quest’ora è piena di disperazione e di paura. La speranza in Dio, la consolazione della fede hanno completamente abbandonato l’anima. Questa è tutta piena di titubanza e di angoscia. Ma quelli che sono stati provati dal turbamento di una simile ora sanno che ad essa segue infine un cambiamento… infatti dicono i Padri, grandi saranno la stabilità e la forza cui  l’anima perverrà dopo di ciò. Tuttavia una tale lotta non terminerà in un’ora, né immediatamente. Né la grazia viene e rimane nell’anima una volta per sempre e totalmente, ma a poco a poco. Dopo la grazia, torna la prova. C’è un tempo per la prova. E c’è un tempo per la consolazione”. (Isacco di Ninive, Discorsi ascetici, 57).

  • 26 Feb

    Alla luce della Parola

    (come leggere la Bibbia)

    Matta el Meskin: Comunione nell’Amore, Edizioni Qiqajon 1986


    La  Bibbia  di  fronte  al  lettore


    La Bibbia è un libro diverso da tutti gli altri: gli altri libri sono scritti dall’uomo, la Bibbia invece non solo contiene le parole e i comandamenti di Dio, ma è anche stata interamente scritta sotto ispirazione divina. Perciò possiamo dire che è il libro di Dio, quello che egli ha dato all’uomo per guidarlo fino alla vita eterna.

    Nell’Antico e nel Nuovo Testamento, sebbene il discorso, gli eventi, la storia e tutti i racconti si concentrino sull’uomo, in realtà chi è nascosto in essi è Dio. La Bibbia infatti ci descrive Dio e ce lo rivela attraverso gli eventi. Ma una descrizione completa di Dio non ci è data nello spazio di una generazione né di un libro e nemmeno di un intero periodo storico. È con grande difficoltà che la Bibbia si sforza di darci un’immagine mentale semplificata di Dio, narrando il suo rapporto diretto con l’uomo lungo un arco di cinquemila anni. Questo perché nessuno, in nessuna epoca, sia privato della possibilità di percepire riguardo a Dio qualcosa che appaghi la sua sete, a tal punto che ciascuno può sperimentare un tal fiume di gioia da credere di essere arrivato a conoscere Dio e di averlo compreso in pienezza.

    Chiunque invece ha l’audacia intellettuale di tentare di mettere da parte i propri limiti umani cercando dentro di sé di percepire un’immagine perfetta di Dio, è destinato a fallire e perde la capacità di raggiungere anche i più piccoli risultati compatibili con la sua statura umana. È immensamente difficile per l’uomo comprendere Colui i cui giorni non hanno inizio né fine, perché Dio è perfetto e, pur essendo vero che noi possiamo percepirlo, la sua perfezione, come pure tutte le sue opere, restano insondabili.

    La Bibbia cerca in molti modi di preparare intimamente l’uomo a ricevere Dio, sia rivelandocelo che facendocelo conoscere. Anche se apparentemente può sembrare che sia l’uomo ad andare incontro a Dio, la gioiosa e meravigliosa verità è che è Dio che viene verso l’uomo, come un amante e un padre pieno d’amore. “Se uno mi ama osservi le mie parole e il Padre mio lo amerà e noi verremo e prenderemo dimora in lui”  (Gv 14,23). Questo è il motivo per cui il Signore ci ha comandato di preparare il nostro cuore per la sua venuta benedetta: “Il mio cuore è pronto, o Dio, il mio cuore è pronto” (Sal 57,7).

    Così vediamo che la Bibbia nella sua interezza misteriosamente rivela Dio e ci prepara a riceverlo nei nostri cuori, perché possiamo d’ora in poi vivere con lui, preparandoci a ciò che sarà alla fine dei tempi, quando Dio sarà rivelato apertamente e noi lo incontreremo faccia a faccia per vivere con lui per sempre.


    Il  lettore  di  fronte  alla  Bibbia

    Esistono due modi di lettura: il primo si ha quando uno legge e pone se stesso e la propria mente come padroni del testo e cerca di sottometterne il significato alla propria comprensione, che confronta poi con quella di altri; il secondo si ha quando uno legge ponendo il testo al di sopra di sé e cercando di rendere sottomessa la propria mente al suo significato, o anche ponendo il testo come giudice su di sé, considerandolo come il criterio più alto.

    Il primo metodo è adatto per qualunque libro al mondo, sia che si tratti di un’opera di scienza che di letteratura; il secondo è indispensabile nel leggere la Bibbia. Il primo metodo porta alla signoria dell’uomo sul mondo, che è il suo ruolo naturale; il secondo porta alla signoria di Dio come Creatore onnisciente e onnipotente.

    Ma se l’uomo confonde i ruoli di questi due metodi, viene a perdere le potenzialità di entrambi: se infatti legge le opere di scienza e di letteratura come dovrebbe leggere l’Evangelo, rimpicciolisce la sua statura, la sua abilità accademica diminuisce e scema la sua dignità in mezzo al resto della creazione; se d’altro canto legge la Bibbia come dovrebbe leggere le opere di scienza, comprende e sente Dio come qualcosa di piccolo, l’essere divino appare limitato e il timore di Dio si spegne. L’uomo acquista una falsa sensazione di superiorità sulle cose divine: è esattamente l’azione proibita commessa da Adamo agli inizi.


    Comprensione  spirituale

    1. La  memorizzazione  intellettuale

    Leggendo la Bibbia miriamo dunque alla comprensione e non alla ricerca, all’indagine o allo studio, perché la Bibbia deve essere capita, non investigata. È allora opportuno a questo punto far rilevare la differenza tra comprensione spirituale e memorizzazione intellettuale.

    La comprensione spirituale è centrata sull’accettazione di una verità divina che cresce costantemente, sorgendo all’orizzonte della mente fino a invaderla completamente. Se la mente e le sue reazioni sono ricondotte a una volontaria obbedienza a questa verità, la verità divina continua a permeare la mente sempre di più e la mente si dilata con essa senza fine “per conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3,19).

    È chiaro da questo versetto che la conoscenza e l’amore di Dio, e delle cose divine in generale, sono immensamente superiori al livello della conoscenza umana. È perciò futile e sciocco per l’uomo cercare di “investigare” le cose di Dio, in un tentativo di afferrarle e sottometterle al suo potere intellettuale.

    Al contrario, è l’uomo che deve essere sottomesso all’amore di Dio, così che la sua mente possa aprirsi alla verità divina. Allora sarà in grado di ricevere la conoscenza che sorpassa ogni altra. “E così, radicati e fondati nell’amore, abbiate il potere di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità” (Ef 3.17-18).

    La memorizzazione intellettuale richiede che una persona passi da uno stato di sottomissione alla verità (attraverso la comprensione) a uno stato di dominio e di possesso su di essa. Richiede che la mente avanzi passo passo attraverso l’investigazione fino a trovarsi allo stesso livello della verità, e poi si innalzi a poco a poco al di sopra di essa fino a poterla padroneggiare, richiamandola e ripetendola a suo piacimento, come se la verità fosse un possesso e la mente il  suo padrone.

    Perciò la memorizzazione consiste nel determinare la verità, nel riassumerla e definirla nel modo più aderente possibile, così che la mente possa assorbirla e immagazzinarla. Cioè, la memorizzazione intellettuale è il contrario della comprensione spirituale, perché la comprensione spirituale si espande con la verità e la verità con essa fino “a tutta la pienezza di Dio”, cioè all’infinito. La memorizzazione intellettuale invece indebolisce la verità divina e la priva del suo vigore e del suo respiro: non è quindi una via adatta per avvicinarsi alla Bibbia, e porta a risultati minimi.


    2. La  memorizzazione  spirituale

    C’è un altro modo per memorizzare la parola di Dio, per mezzo del quale si può richiamare e riesaminare il testo, sebbene questo non lo si possa fare quando e come uno lo desideri, ma piuttosto quando e come lo desidera Dio. Questa è la memorizzazione spirituale, non intellettuale, e Dio la accorda attraverso lo Spirito santo a quanti comprendono le sue parole: “il Consolatore, lo Spirito santo, che il Padre vi invierà nel mio Nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che ho detto” (Gv 14,26).

    Proprio come Dio concede la comprensione spirituale a quelli che con sincerità e onestà chiedono di conoscerlo, “a coloro le cui menti sono aperte a comprendere il testo”, così anche la memorizzazione spirituale è un’opera spirituale che Dio accorda a coloro ai quali è stato concesso di essere suoi testimoni. Quando lo Spirito santo richiama alla nostra mente determinate parole, lo fa con profondità e larghezza di spirito, non semplicemente facendoci ricordare il testo o il versetto, ma dandoci insieme una sapienza irresistibile e il potere spirituale di far emergere la gloria di quel versetto e la potenza di Dio in esso. Inoltre con le parole è inviato uno spirito di rimprovero, allo scopo di compungere il cuore.

    Perciò vi è una straordinaria differenza tra la meccanica memorizzazione intellettuale e la memoria attraverso lo Spirito santo.

    Nondimeno l’uomo deve prepararsi a questa memoria, rendendo il suo cuore consapevole della parola di Dio, meditandola frequentemente e immagazzinandola nel suo cuore con amore e diletto: “quando le tue parole mi vennero incontro, io le divorai” (Ger 15,16) ed esse erano “più dolci del miele alla mia bocca” (Sal 119,103). L’uomo così disposto le ripete costantemente a se stesso: “sulla tua legge ho meditato giorno e notte” (Sal 1,2), e ogni volta che incontra una parola che possa essergli utile la imprime nel suo cuore: “Ho conservato le tue parole nel mio cuore per non peccare contro di te” (Sal 119,11), proprio come ammonisce Dio chiedendo di parlare di esse “quando siedi in casa tua e quando cammini per strada, quando ti corichi e quando ti alzi. E tu le legherai come segnale alla tua mano e saranno come pendaglio tra i tuoi occhi” (Dt 6,8-9).

    Ora, c’è una grande differenza tra un uomo che medita la parola di Dio perché è dolce e vantaggiosa alla sua anima, rallegra il suo cuore e consola il suo spirito, e uno che medita su di essa per ripeterla ad altre persone, per potersi distinguere come maestro e abile servitore dell’ Evangelo. Per il primo la Parola rimane salda, perché fonda una consapevolezza del cuore o una relazione con Dio; per il secondo la Parola passa semplicemente nella memoria intellettuale, dove egli può usarla per tessere relazioni con gli altri.

    Così, se uno cerca di leggere la Bibbia e imparare a memoria i versetti per usarli nell’insegnamento alla gente e per una testimonianza fatta di parole – senza prima aver sottomesso se stesso alla verità divina, in modo da agire conformemente ad essa e da aprire la mente per ricevere comprensioni spirituali – egli ne ricava soltanto delle conoscenze e non dà una testimonianza utile, per quanti versetti o dimostrazioni chiare possa presentare con grande abilità intellettuale; lo Spirito infatti lo avrà abbandonato.  Il peggior uso che possiamo fare della Bibbia è utilizzarla solo come fonte di versetti dimostrativi.

    La comprensione spirituale delle parole, dei comandamenti e degli insegnamenti di Dio è il nostro penetrare nel mistero dell’Evangelo: “A voi è stato dato di conoscere i misteri del regno di Dio” (Mt 13,11). Il segno poi della comprensione spirituale è la sensazione di un’inesauribile sorgente interiore di intuizioni spirituali riguardanti la parola di Dio e la percezione che ogni verità è collegata a tutto il resto. Allora l’uomo diventa capace di collegare nel proprio cuore ogni versetto che legge con un altro versetto e ogni intuizione si dilata in armonia con un’altra, cosicché l’Evangelo diventa facilmente un tutto unitario.

    Questa condizione non è raggiunta solo da chi ha speso molti anni nella lettura della Bibbia. È possibile che a qualcuno con un’esperienza di pochi mesi sia concesso di percepire questa sensazione, così da essere capace, usando i pochi versetti che gli sono familiari, di parlare di Dio con uno zelo, una sincerità e una forza tali da attirare a Dio il cuore degli altri. A costui basta leggere un versetto una volta sola perché gli resti poi indelebilmente impresso nel cuore per sempre, perché la parola di Dio è spirituale; in un certo senso è addirittura spirito, come dice il Signore: “Le parole che vi ho dette sono spirito e vita” (Gv 6,63).


    Introduzione  pratica alla  comprensione  dell’ Evangelo

    Non esiste alcun mezzo intellettuale per entrare nell’Evangelo, perché l’Evangelo è spirituale. Deve essere obbedito e vissuto attraverso lo Spirito, prima di poter essere compresoSe qualcuno, che vive fuori dell’Evangelo cerca di capirlo, inciamperà e cadrà, e se osa cercare di insegnarlo sarà una pietra d’inciampo per quelli che lo seguono. Ma se qualcuno ha uno zelo autentico, un amore ardente e un’obbedienza totale a Dio ed esegue fedelmente anche un solo comandamento dell’Evangelo, questi penetra nel mistero dell’Evangelo senza esserne consapevole.

    La prima cosa che scopre è la fedeltà di Dio nel compiere, nella sua anima, le promesse. Ciò rende la sua mente desiderosa di ricevere la scintilla della fede viva che accende nel cuore un grande fuoco di amore e di timore di Dio e ve lo fa ardere. L’esperienza spirituale di una persona e il grado della sua comprensione dell’Evangelo si approfondiscono proporzionalmente al grado di obbedienza fedele e puntuale ai comandamenti dell’Evangelo stesso.

    Una sincera e umile accettazione dell’obbedienza a Dio, che scaturisce da un cuore non macchiato da falsità, ipocrisia, amore del mettersi in mostra o esibizionismo, e che non cerca qualche particolare risultato, può essere considerato l’inizio della vera via alla conoscenza di Dio. Infatti, quando l’uomo cerca di osservare i comandamenti, la sua intenzione è messa alla prova da tentazioni. Egli è aiutato a seconda del grado della sua fede e della sua perseveranza e, nella misura in cui riceve aiuto, la sua fiducia aumenta e la sua conoscenza di Dio e delle sue vie cresce più sicura.

    Questo per dire che la comprensione spirituale dell’Evangelo e di Dio è il risultato del nascere di una relazione con Dio attraverso l’obbedienza ai suoi comandamenti. Non si tratta semplicemente di una comprensione di testi e versetti, bensì di una comprensione del potere della Parola e di una conoscenza della vita che scaturisce dal versetto, basate sull’esperienza, la fiducia, la testimonianza e su un’incrollabile fede in Dio.


    Un  eccellente esempio  di  lettura e  comprensione  dell’ Evangelo

    Il più grande comandamento attraverso cui l’uomo può sperimentare la provvidenza di Dio e ottenere il potere spirituale che svela i misteri e i segreti della Bibbia e illumina il cammino, è che l’uomo lasci ogni cosa e segua Cristo. Questo comandamento riassume infatti l’intero Evangelo. Questo è il versetto che sant’Antonio ascoltò: ne fu profondamente colpito e lo osservò con precisa determinazione. Così facendo raggiunse una vita in accordo con l’Evangelo e una comprensione, una conoscenza e una memoria della Bibbia che stupiva gli studiosi e i teologi, come sappiamo da sant’Atanasio il Grande. E tutto ciò, nonostante che Antonio non sapesse né leggere, né scrivere.

    Molti Padri seguirono lo stesso modello e si verificarono in loro le stesse meraviglie, perché raggiunsero le vette della conoscenza della Bibbia, di Dio e della direzione spirituale, pur essendo analfabeti. Tra questi c’erano i grandi monaci Pambo e Pafnuzio, discepolo di Macario il Grande, di cui Palladio dice che aveva la grazia della conoscenza dei libri sacri e dell’arte di trasmetterli, sebbene non sapesse leggere né scrivere.

    Molti altri nel mondo, uomini o donne, colti o ignoranti, sono entrati nel mistero dell’Evangelo attraverso uno fra i molti comandamenti, come la povertà volontaria e la semplicità di vita, rifiutando di mettere da parte del denaro per le eventuali necessità e mettendo la loro fede in Dio al di sopra di tutte le altre considerazioni. Attraverso ciò hanno sperimentato le meraviglie di Dio, le loro menti sono state aperte, hanno percepito il mistero del piano divino e capito le parole di Dio essendo persone che le sperimentavano nella vita quotidiana e le realizzavano. In questo modo erano capaci di evangelizzare con grande fede e coraggio.

    Altri hanno abbracciato il rinnegamento dei piaceri mondani e dei divertimenti privi di vita; hanno sperimentato il potere della parola di Dio e trovato in essa grande consolazione e delizia; hanno capito che l’uomo vive della Parola più che del cibo e della scienza medica; hanno conosciuto Dio e lo hanno gustato e le loro menti sono state illuminate dalle sue parole.

    Altri invece sono entrati nel mistero dell’Evangelo attraverso atti segreti di sacrificio, offrendo il loro denaro, le loro energie, il loro tempo per servire i poveri, gli indigenti, gli afflitti e i curvati dalle più svariate tribolazioni. Essi hanno agito con muto coraggio, dando tutto quanto avevano e sopportando ogni cosa al limite delle proprie possibilità. Tutti costoro hanno acquistato conoscenza, intuizione e comprensione dell’Evangelo e dei comandamenti del Signore, ma non la comprensione che deriva dal meditare sulla bellezza delle parole e della spiegazione del loro significato. La loro comprensione è invece quella che sgorga dall’esperienza ed è trasformata in vita eterna, perché costituisce una relazione vivente tra l’uomo e Cristo.


    La  meditazione  accademica  e  la  meditazione  pratica

    Vi è una comprensione accademica della meditazione della bibbia e ve n’è una pratica.

    La meditazione accademica è il prodotto di idee derivanti dallo studio e dalla ricerca, dalla riflessione sul significato dei versetti e sui loro reciproci legami, è l’insieme di ragionamenti che arrivano a cogliere i fatti attraverso un processo di deduzione logica.

    La meditazione pratica consiste nell’ispirazione che l’anima percepisce come risultato della propria esperienza, delle prove e delle lotte con la verità sostenute nel corso della sequela dei comandamenti evangelici. A questo si aggiungono anche la luce e i dettami dello Spirito, che l’uomo riceve nel giusto momento, senza aver in precedenza acquisito la conoscenza delle cose rivelategli.

    La meditazione accademica della Bibbia stimola la mente, ma non mette in moto lo spirito; rende l’ascoltatore desideroso della verità senza mostrargli come accedervi; fornisce un’immagine di Dio, ma non può portare al faccia a faccia con Dio.

    Questa discordanza della meditazione accademica rispetto all’esperienza spirituale e al segreto adempimento dei comandamenti porta a un culto puramente formale e a una falsa devozione intellettuale all’Evangelo. “Questo popolo mi onora con le labbra, ma i loro cuori sono lontani da me” (Mt 15,8).

    Per quanto deplorevole, è questo il tipo di lettura, di comprensione, di esperienza e di insegnamento della Bibbia oggi più diffuso nella nostra Chiesa e, a dire il vero, in tutto il mondo. L’Evangelo è stato ridotto a una fonte da cui si possono citare dei versetti o in base alla quale dimostrare dei principi, e le idee che contiene sono diventate punti accademici per avvalorare sermoni e articoli. Così l’Evangelo è diventato una strada sicura per acquistar fama, titoli accademici e ammirazione mondana, anche se i fondamenti dell’Evangelo e la verità che contiene sono all’opposto della fama e della falsa sapienza del mondo, sono i nemici dell’ammirazione degli uomini. La chiesa subisce dunque una grave perdita quando abbandona l’insegnamento pratico della Bibbia e si occupa di quello accademico.

    Quanto alla meditazione pratica della Bibbia, essa si raggiunge accogliendo la verità divina attraverso la segreta obbedienza ai comandamenti e come risultato della fedele adesione del cuore a Dio, con dovuto timore e autentica umiltà. Questo è il fondamento di una relazione pratica e sicura con Dio.

    Ciò significa che la meditazione pratica edifica una vita interiore con Dio la quale infonde nelle parole, nei pensieri e negli insegnamenti dell’uomo la potenza divina. Così l’uomo può, con una sola parola, comunicare la verità all’ascoltatore, proprio come facevano i Padri, i quali vivevano l’Evangelo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze. Le loro parole non erano eloquenti o ripiene di ampollose meditazioni, ma trasmettevano il mistero, perché avevano il potere di conferire una vita nuova all’ascoltatore.

    Nei detti dei padri monastici del IV secolo, e di quelli successivi, questo era lo schema tipico in cui veniva data l’istruzione: un novizio andava da un anziano e diceva: “Dimmi una parola, che io possa vivere”. L’anziano gli diceva poco o niente, ma a causa della potenza della sua esperienza e della grazia contenuta in essa, questo poco bastava al novizio per vivere e superare tutte le difficoltà che incontrava. Questa è l’immagine più vera di come l’Evangelo deve essere compreso e predicato. Quanto appropriate sono per noi, oggi, le parole dell’Evangelo secondo Giovanni: “Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” (Gv 13,17).


    La  potenza  di  una  vita di  effettiva  semplicità

    Se guardiamo indietro agli albori della chiesa, siamo sorpresi della sua forza, soprattutto di quella delle chiese appena fondate. Nonostante si trattasse di persone semplici, che non conoscevano la Bibbia – perché solo raramente un singolo cristiano possedeva dei manoscritti – e nonostante la loro fede in Cristo fosse recente e i precedenti costumi pagani avessero una profonda influenza, la loro vita spirituale e la manifestazione di fede, amore e zelo erano chiaro esempio di una vita robusta vissuta in accordo con i precetti dell’Evangelo, modello per una comprensione concreta del significato della vita eterna del regno di Dio, del vivere per fede, del morire al mondo, della fedeltà a Cristo, dell’attesa della sua seconda venuta e di una fede viva nella risurrezione. Ancor oggi facciamo ricorso alla loro fede e alla loro tradizione e solo a fatica comprendiamo le lettere inviate loro, quelle lettere che essi comprendevano facilmente e mettevano in pratica. Il segreto di tutto questo è che vivevano di quello che ascoltavano: ogni comandamento cadeva in cuori fedeli, disposti ad agire sinceramente di conseguenza; tutte le parole di Cristo penetravano profondamente nel tessuto della vita quotidiana, l’Evangelo era tradotto in azione e vita.

    Queste persone semplici capivano l’Evangelo, capivano che era vita da essere vissuta, non principi da discutere, e rifiutavano di comprenderlo a livello puramente accademico. Fino a oggi quanti sono alla fedele sequela di Cristo traggono ancora vita per se stessi dalla sorgente viva della comprensione dei primi cristiani.

    Queste prime comunità, ardenti di amore per Cristo, non avevano alcun credo, né patrologia, né interpretazione della Scrittura, ma le poche parole di Cristo che raggiungevano le loro orecchie diventavano immediatamente il loro credo, senza bisogno alcuno di spiegazione o insegnamento o interpretazione, ma bisognose solo, come essi compresero, di essere sperimentate e vissute. Attraverso l’esperienza scoprivano costantemente la potenza delle parole e portavano alla luce i misteri in esse contenuti. E così il loro zelo, il loro amore e la loro fede in Cristo e nell’Evangelo crescevano costantemente.

    Quando ascoltavano: “Beati i poveri nello spirito” vendevano tutto e deponevano il denaro ai piedi degli apostoli.

    Quando ascoltavano: “Beati quelli che ora sono afflitti” non badavano alle sofferenze e alle fatiche nel servizio del Signore.

    Quando ascoltavano: “Beati i perseguitati a causa della giustizia” sopportavano le più crudeli umiliazioni, gli insulti e le aggressioni.

    Quando ascoltavano: “Vegliate e pregate” si riunivano nelle catacombe per vegliare e pregare tutta la notte.

    Poiché ascoltavano: “Amate i vostri nemici”, la storia non registra alcuna resistenza opposta dai cristiani, né attiva, né passiva, contro i loro persecutori. E piegarono il loro collo alla spada in umiltà e obbedienza per onorare le parole di Cristo.

    Questo significava per loro leggere l’Evangelo e comprenderlo. In loro era nata la fame e la sete per la giustizia di Dio ed è per questo che lo Spirito santo aveva piena libertà di operare con loro: da quel momento avrebbe conferito potenza alla parola, rinsaldato i loro cuori, li avrebbe sostenuti nelle debolezze, guidati nell’oscurità, nell’angoscia e accompagnati nel cammino fino a quando, con grande gloria, avrebbero consegnato lo spirito nelle mani del loro creatore.


    Lettura  senza  applicazione  pratica e  lettura  realizzata

    La lettura resta priva di utilità, la comprensione priva di forza, la memorizzazione una pura ripetizione di parole vuote se uno non si sottomette all’obbedienza del comandamento che legge e se la Parola non diventa una norma di vita, qualunque sia il sacrificio, il costo, la fatica o il disprezzo che ciò può generare. Il Signore Gesù dice anche molto di più, afferma che chiunque legge le sue parole e le capisce, ma non vi obbedisce, subirà distruzione e grande danno, come un uomo che fonda la sua casa sulla sabbia. “Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti, e la sua rovina fu grande” (Mt 7,26-27).

    Forse potete convenire con me che sarebbe stato meglio se non avesse costruito nulla, o ascoltato o conosciuto o imparato alcunché.

    La vita dei farisei, dei sadducei era di questo tipo: obbedienza minuziosa alla legge, spiegazione  ed esposizione qualificata dei comandamenti, pareri legali così dettagliati da oltrepassare la verità e la semplicità dello Spirito, il tutto riunito a opere morte e a una vita spiritualmente in rovina. “Ed ecco, un dottore della legge   si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene: fa’ questo e vivrai»” (Lc 10,25-28).

    Invece il Signore paragona chi ascolta le parole e vi obbedisce a un uomo che costruì la sua casa sulla roccia. Questo è segno che la potenza della Parola è interamente dipendente dall’esperienza pratica che uno ha di essa, poiché l’aiuto lo si può ricevere e lo si può conoscere solo nelle difficoltà e nel pericolo, e il misterioso soccorso dello Spirito santo solo attraverso l’obbedienza sincera ai precetti dell’Evangelo. Una parola posta sulle labbra di un uomo, se questi veramente vive di essa, è simile a una casa fondata sulla roccia; è salda e non deve temere alcun disastro: “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia; cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sulla roccia” (Mt 7,24-25).   A questo punto direte con me: “Oh, se solo la mia casa fosse fondata sulla roccia, e la mia lettura, la mia comprensione e la mia conoscenza dell’Evangelo fossero usate per vivere, e non come argomento su cui parlare e predicare, come soggetto di conversazione e di meditazione!”.


    Un  triste  esempio di  grande  conoscenza senza  realizzazione

    Balaam era un veggente, capace di vedere nel futuro e dotato di poteri profetici: era quindi in grado di ascoltare e parlare delle meraviglie di Dio. Ma fu rigettato e divenne un avvertimento terribile e un esempio di quelli che annunciano la parola di Dio, sono capaci di svelare misteri, di fare profezie autentiche, di pronunciare benedizioni e offrire sacrifici, come Balaam, mentre i loro cuori sono impuri perché vivono segretamente lontano da Dio. Ascoltate cosa dice di se stesso: “Oracolo di Balaam, figlio di Beor, oracolo dell’uomo dall’occhio penetrante, oracolo di chi ode le parole di Dio e conosce la scienza dell’Altissimo, che vede la visione dell’Onnipotente, e cade ed è tolto il velo dai suoi occhi” (Nm 24,15-16). Ma tutti questi doni non furono sufficienti per stornare il cuore di Balaam da una condotta malvagia. Balaam cadde in un grave errore, come dicono i santi apostoli: Giuda nella sua lettera (Gd 11), Pietro nella sua seconda lettera (2Pt 2,15) e Giovanni nel libro dell’Apocalisse (Ap 2,14).  Anche se esternamente benediceva il popolo di Dio, segretamente stava agendo contro di esso con un consiglio malvagio e si compiaceva di ricevere una ricompensa per quel peccato.

    Balaam raggiunse il massimo grado di conoscenza, di comprensione, di visione e profezia accessibile all’uomo spirituale, ma il suo comportamento non era migliore di quello del più malvagio e disonesto tra gli uomini. La sua storia mostra chiaramente che la comprensione e l’insegnamento delle cose spirituali, anche a livello della profezia, se non sono sorretti da una vita e una condotta sante, nell’integrità e nel timore di Dio, non ci possono salvare dalla maledizione e dalla morte che sigillarono la vita di Balaam.


    “Fate  attenzione  dunque  a  come  ascoltate”

    Prima di leggere la Bibbia o ascoltare la parola di Dio, guardate in voi stessi per vedere dove la parola di Dio andrà a posarsi. Torniamo a questo punto alla tanto amata parabola del seminatore.

    I semi caduti lungo la strada sono coloro che hanno ascoltato; ma poi viene il diavolo e porta via la parola dai loro cuori, perché non credano e così siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono con gioia la parola, ma non hanno radice; credono per un certo tempo e nell’ora della tentazione vengono meno. Il seme caduto in mezzo alle spine, sono coloro che dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a maturazione. Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza” (Lc 8,12-15). “Fate attenzione dunque a come ascoltate” (Lc 8,18).

    Di fronte all’annuncio dell’Evangelo ci sono quattro tipi di ascoltatori: non c’è bisogno di spiegazioni o chiarimenti, perché il Signore Gesù l’ha fatto lui stesso. Perciò guardate e vedete come il Signore dice che dovete ascoltare: con un cuore che trascorre la giornata al margine della strada? oppure con un cuore che non ha profondità, perché ha paura di sedersi in disparte a esaminare la propria vita? o con un cuore propenso a mettere da parte denaro come assicurazione per il futuro? o con un cuore sempre appesantito da preoccupazioni immaginarie?

    Fate attenzione a come dovete ascoltare l’Evangelo. Sembra che il Signore voglia dire che uno ascolta con il cuore più che con le orecchie, e che la sua vita interiore influisce sulla parola di Dio: o uccidendola oppure facendola vivere e crescere rigogliosa. Così chiunque vuol ascoltare bene la Parola, comprenderla e custodirla in un cuore integro e buono, deve preparare interiormente il suo cuore, in modo che la Parola possa mettervi radici senza correre rischi, trovando in esso fedeltà a Dio e veracità nelle parole e nelle promesse. È assolutamente impossibile che uno possa capire quel che ascolta della parola di Dio, se non è assolutamente onesto di fronte a Dio e non ha deciso di rinunciare alla propria vita, agli incarichi, agli interessi, al denaro, al futuro e all’amor proprio per deporli ai piedi di Dio.

    Infatti come può un uomo timoroso per il futuro comprendere questa parola del Signore: “Non affannatevi per il domani” (Mt 6,34) e “Non datevi pensiero per la vostra vita” (Lc 12,22)? E come può capire la croce chi si interessa del proprio onore? Come può comprendere la risurrezione chi ha paura della malattia e della morte?

    Chi chiede di leggere l’Evangelo sta di fatto cercando la vita eterna e chi cerca la vita eterna deve assumere una posizione chiara nei confronti della sua vita presente!


    La smemoratezza della Parola è un inganno psicologico

    Non c’è illustrazione migliore di quella dataci dall’apostolo Giacomo quando descrive l’uomo che ascolta la parola dell’Evangelo e la dimentica come uno che vede la propria faccia in uno specchio, ma non appena lascia lo specchio dimentica qual è il suo aspetto. Infatti, chiunque disprezza la Parola che ascolta, perde immediatamente la percezione di sé.

    Vi sono alcuni che porgono l’orecchio all’Evangelo, accolgono la Parola e la ripongono nel tesoro del proprio cuore. Sono sempre consapevoli dell’istruzione ricevuta e la pongono davanti a sé come uno specchio, servendosene continuamente per correggere le proprie azioni.

    Vi sono altri invece che porgono l’orecchio all’Evangelo, ma non una sola parola di quel che ascoltano resta nel loro cuore, perché sono smemorati, non sanno valutare il peso delle cose e sono preoccupati da questioni per loro più importanti dell’Evangelo e della vita eterna, quali possono essere il lavoro, le preoccupazioni, i piaceri, tutte cose che essi possono considerare come facenti parte del servizio di Dio. Oppure nel loro cuore può non esserci assolutamente nulla, e anche questo è un disastro, perché mentre leggono l’Evangelo possono essere così commossi da gemere e persino piangere, ma in seguito restano invischiati nei propri affari e dimenticano sospiri e lacrime. Persone di questo tipo possono pensare che la loro smemoratezza sorpassa le capacità di controllo che possiedono, ma questo è un inganno psicologico. La verità è che l’anima vuol dimenticare l’Evangelo, perché l’Evangelo non le piace.

    Uno può leggere l’Evangelo con regolarità ogni giorno, ma percepire una distanza incolmabile tra quello che ogni giorno legge e quello che ogni giorno fa. Questa distanza incolmabile è scavata dalla smemoratezza. Con il passare dei giorni la lettura dell’Evangelo è privata della sua potenza e efficacia, e non avviene alcun cambiamento di vita né alcun progresso nel cammino.

    Questa smemoratezza è quel che l’apostolo Giacomo chiama autoillusione: ”Accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime. Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché, se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena si è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era” (Gc 1,21-24).


    L’ orecchio incirconciso

    Questa espressione, così ricca di significato spirituale, fu pronunciata dal santo martire Stefano davanti al sinedrio riunito per giudicarlo, quando percepì che i membri di quell’assise stavano resistendo allo Spirito santo per assecondare i loro disegni.

    O gente testarda, incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito santo” (At 7,51).

    Lo Spirito santo parla a noi attraverso l’Evangelo, ma solo l’orecchio circonciso può sentire la sua voce, cioè l’orecchio dal quale è stato rimosso il prepuzio. Con prepuzio Stefano intende la mancanza di sottomissione a Dio e l’avere un cuore troppo lontano da Dio per ascoltarne la voce. Quelli che hanno le orecchie o i cuori incirconcisi sono stranieri in mezzo al popolo di Dio: non comprendono i suoi comandamenti o non vi si adeguano, perché guardano a se stessi come a persone che non devono obbedire ad alcun impegno.

    Colui il cui orecchio è incirconciso non ascolta lo Spirito, né viene da esso influenzato, né gli obbedisce. Di sua propria volontà, infatti, ha rifiutato di sottomettersi allo Spirito santo, senza provarne timore. Teme che lo Spirito possa chiedergli di rinunciare a cose, o posizioni, o principi, o relazioni che trova benefiche, o piacevoli e importanti per lui personalmente. Rinunciarvi sarebbe una perdita che egli non vuole accettare, così ha paura che lo Spirito santo possa chiedergli di agire contro se stesso e contro il mondo, perché il suo io gli è caro e il mondo è la sua delizia. L’uomo che ha l’orecchio incirconciso è colui che non ha reciso il prepuzio del suo io e non vuole recidere il prepuzio del mondo né dal suo cuore né dal suo orecchio. Non è mai disposto a sacrificare qualcosa o, per lo meno, non è disposto a sacrificare tutto per Dio. Ascolta lo Spirito santo ma non gli presta alcuna attenzione, cercando ogni volta di soffocare la voce della coscienza. Fin dall’inizio si è esonerato dalla responsabilità di ascoltare la voce di Dio.

    Questa situazione era già stata descritta dal profeta Isaia e il Signore stesso ne ha fatto un significativo commento: “Vedendo non vedono e ascoltando non ascoltano e non comprendono (…). Perché il cuore di questo popolo si è indurito, sono diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi, e non intendere con il cuore, e convertirsi, e io li risani” (Mt 13,13-15; Is 6,9).

    Qui il Signore denuncia l’intenzione dei suoi ascoltatori: facevano mostra di leggere e ascoltare i comandamenti di Dio, ma in realtà erano ben decisi a non lasciarsi influenzare. Così chiudevano i loro occhi e le loro orecchie in modo da non vedere e non sentire. Per questo il Signore denunciò le loro motivazioni: in realtà avevano paura che la voce di Dio risuonasse talmente chiara e che il biasimo dello Spirito santo diventasse così persuasivo da essere forzati a rinunciare alle loro posizioni errate e agli indebiti possessi, ai piani che avevano fatto per il futuro e alle peccaminose relazioni per le quali avevano venduto l’anima, e non solo l’anima, ma anche la vita eterna e persino Dio stesso. Essi, come molti di noi, non rifiutavano di leggere o ascoltare l’Evangelo, ma quando giungevano a certi passi, a certe frasi o a certi comandamenti, rimanevano confusi e li tralasciavano velocemente e chiudevano gli occhi, fuggendo ansiosamente lontano dalla voce dello Spirito santo. In questa situazione l’orecchio incirconciso rivela se stesso, poiché è disturbato dalla voce di Dio e la evita, proprio come il serpente chiude le orecchie per non ascoltare la voce dell’incantatore, per non obbedire né sottomettersi a lui: “O stolti Galati! Chi vi ha incantato affinché non aveste a obbedire alla verità?” (Gal 3,1; 5,7).

    Fermiamoci un momento e torniamo ai passi e ai versetti e ai comandamenti che abbiamo evitato deliberatamente con vile determinazione. I nostri cuori protestavano per la nostra caparbietà, tremavano e battevano in fretta e con dolore, poiché eravamo consapevoli di opporre resistenza allo Spirito santo, rischiando la morte e l’allontanamento da Dio con questo andare per vie traverse. Correggiamo in fretta il nostro atteggiamento nei confronti della voce di Dio! Forse è questa l’ora per impadronirci pienamente del nostro io, per spezzarne l’ostinazione e l’orgoglio, per troncarne i piaceri e le paure e volgerci a seguire la voce di Dio. “Ricorda da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Se non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto” (Ap 2,5).

    Può darsi che vi dispiaccia essere messi di fronte al vostro desiderio di grandezza e di comando, o alla vostra impurità e inimicizia, alla malizia e all’odio verso quelli che minacciano i vostri interessi, alla vostra slealtà o crudeltà, all’ingiustizia o ai vostri loschi giudizi, oppure alla vostra disonestà, al furto, all’illecito acquisto di beni, alla vostra mancanza di fiducia in Dio e al confidare nel denaro e nell’assicurazione per il futuro; oppure si può trattare di qualcosa di più di tutto questo, poiché state scappando con tutto il vostro essere lontano dal volto di Dio. Non avete alcun appoggio su terreno sicuro e state cercando ora di nascondere la vostra faccia da Colui che siede sul trono ”chiudendo i vostri occhi per non vedere!” (cf. Lc 8,10). In questa situazione, leggere l’Evangelo non è di alcuna utilità e ascoltarlo è solo causa di giudizio.

    All’orecchio circonciso, invece, il prepuzio è stato tolto e non c’è più alcuna barriera che gli impedisca di ascoltare la voce di Dio, come per l’orecchio del giovane Samuele, che viveva in purezza e umiltà nel santuario: “Parla o Signore, perché il tuo servo ascolta” (1Sam 3,10). L’orecchio è aperto all’autorità dell’Evangelo e gioiosamente sottomesso alla voce  di Dio, vigile alla sua chiamata, pronto a rispondere, qualunque cosa venga chiesta. Infatti chi ha l’orecchio circonciso è pieno di coraggio e capace di sostenere azioni contro se stesso in obbedienza alla voce dell’Altissimo. Il cuore che è pronto ad accettare le grandi richieste di Dio è capace di percepire ogni inflessione nella voce di Dio e non si lascia sfuggire nemmeno una parola.

    Se a questo punto qualcuno mi chiedesse: “Come posso acquistare un orecchio che ascolta la voce di Dio?”, risponderei: “Prepara innanzitutto te stesso ad accogliere le sue domande, le sue richieste e indicazioni, e sii pronto nel tuo cuore a portarle a compimento, qualunque ne sia il prezzo. Immediatamente avrai un orecchio che ascolta la voce dell’Altissimo!”.  “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come  gli iniziati. Il Signore  Dio mi ha aperto l’orecchio, e io non ho opposto resistenza” (Is 50,4-5).


    Onorare  la  lettura  e  l’ascolto  dell’ Evangelo

    L’uomo che è consapevole di Dio non permette che la parola dell’Evangelo gli sfugga o sia dimenticata. Egli invece con rispetto, venerazione e timore ne fa una corona per la sua testa e la pone al di sopra di tutta la sua vita.

    L’ardore degli uomini di fede è estremamente evidente quando ascoltano l’Evangelo: sembrano entrati alla presenza di Dio, o in piedi presso l’altare, in procinto di ricevere il corpo e il sangue di Cristo. Non è che abbiano semplicemente preso l’abitudine di onorare l’Evangelo, o che fingano di comportarsi così, come gli ipocriti: la realtà è che dall’ascolto dell’Evangelo ricevono potere su potere, come se stessero ascoltando la voce di Dio stesso.

    Tutto ciò era molto chiaro nella chiesa primitiva e la chiesa conserva ancora lo stesso zelo, rispetto e venerazione verso la lettura e l’ascolto dell’Evangelo. La tradizione della chiesa ha conservato alcuni gesti significativi, ed è per questo che il prete non potrà mai leggere l’Evangelo in chiesa senza aver prima innalzato una preghiera particolare perché lui e l’assemblea possano esser resi degni di ascoltare il santo Evangelo. Prima di incominciare a leggere, il diacono chiede a tutta l’assemblea di alzarsi in piedi nel timore di Dio per ascoltare l’Evangelo e tutta l’assemblea risponde alla sua richiesta e glorifica Dio. Inoltre il prete si toglie le scarpe per leggere l’Evangelo, perché sta alla presenza di Dio. Poi, dopo la lettura, l’intera assemblea passa in fila a baciare con gioia e lacrime l’Evangelo che il prete tiene aperto in mano. Nella chiesa primitiva la gente faceva questo spinta dallo zelo, dal timore e dall’amore per l’Evangelo ed esso è rimasto come un rito nella chiesa.

    Coloro che hanno sperimentato la potenza dell’Evangelo nella loro vita non considerano ciò eccessivo, ma vanno anche oltre nel mostrare la loro venerazione: ci sono alcuni che digiunano sempre prima di leggere l’Evangelo; altri, quando leggono l’Evangelo da soli, si inginocchiano; altri ancora lo leggono sempre con pianto e lacrime.

    Gli ammaestramenti di Dio all’uomo sono per lo più dati attraverso la lettura e l’ascolto dell’Evangelo, quando uno si trova in condizione di umiltà e preghiera, con un cuore aperto.


    La voce del Figlio di Dio

    Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Il Signore non solo bussa alla porta del cuore, ma anche chiama le sue pecore per nome, così che possiamo udire e aprire per lasciarlo entrare nelle nostre vite, affinché condivida con noi le lacrime che sono nostro cibo e condivida poi con noi il suo banchetto nuziale.

    Non abbiamo bisogno di andare alla ricerca di Dio, come se fosse nascosto lontano; in questo modo non faremmo altro che consumarci nella ricerca riflettendo, meditando e andando a investigare nei libri. In ogni momento egli sta davanti a noi, alla porta del nostro cuore e non se ne allontana mai. Colpi della sua mano alla porta sono le sue parole ed egli non cessa mai di bussare, ogni giorno della nostra vita, così che lo spirito può destarsi dal sonno e distinguere la voce dell’Amante.

    Non abbiamo bisogno di ricorrere ad ardenti suppliche, a lacrime e implorazioni commoventi, perché il Signore venga a noi: egli infatti è sempre presente e sta bussando anche in questo momento. E non smetterà, perché vuol entrare nelle nostre vite: è con noi infatti che egli trova riposo; condividere con noi la nostra croce e il buio della nostra notte è la sua gioia più grande, poiché egli ama ancora la croce.

    Siamo noi invece che non diamo il giusto peso alla sua voce, attribuendole erroneamente poca importanza e disprezzandola.

    Maria Maddalena subì la stessa tentazione quando sedette piangendo presso la tomba e credette che il Signore, che stava in piedi davanti a lei, fosse il giardiniere. Allora cominciò a implorarlo di darle il corpo di Gesù per poterlo avvolgere in un lenzuolo. Ma il Signore, non sopportando più a lungo il suo lamento, la chiamò per nome ed ella lo riconobbe immediatamente. Quante volte ce ne stiamo piangenti, guardando lontano verso il cielo, dove pensiamo che il Signore Gesù viva! Egli è presente e sta in piedi davanti a noi e tutto quello che ci impedisce di incontrarlo è la mancanza di percezione del nostro cuore!nulla ci impedisce di ascoltare la sua voce, se non la preoccupazione dei nostri problemi quotidiani. Quante volte ce ne siamo stati in preghiera davanti a lui, implorandolo di parlarci, sperando che potesse sentirci, ma era tutto inutile! Egli non smette mai di chiamarci per nome, e l‘errore che facciamo è quello di volerlo vedere nel tempo, nel mezzo degli eventi quotidiani che riempiono il nostro vuoto mentale ed emotivo. Ma in realtà il Signore è presente ora al di là di tutte queste cose, al di là del tempo e degli eventi, che egli governa secondo il suo piano sapiente. L’anima vigilante e semplice si accorge del tocco della mano del Signore, che scrive la storia della salvezza di ciascuno attraverso gli anni e la successione degli eventi. I nostri successi e i nostri fallimenti, guidati dall’Altissimo, cooperano positivamente alla nostra salvezza. Le sconfitte materiali non sono sconfitte spirituali; l’afflizione, la tristezza, la pena e la malattia sono il linguaggio della divina provvidenza, il suo codice segreto, che una volta decifrato nello Spirito, si traduce in risurrezione, gioia e gloria eterna.

    L’altro errore che commettiamo è che vogliamo ascoltare la voce del Figlio di Dio con il nostro orecchio fisico e sentirla parlare un linguaggio umano con la voce di un uomo: ma la voce del Figlio di Dio non può avere questi limiti! Essa è una potenza che trasporta l’anima, la fa risorgere e la ristora; è una profonda, incommensurabile pace, è quiete e consolazione; è la vita stessa nel suo sconfinato respiro e nella sua altezza. Dove trovare allora le parole per esprimere il suo linguaggio e la sua voce?

    Dio parla e ogni uomo sulla faccia della terra può ascoltare la sua voce, comprendere e rispondere, come se fosse chiamato personalmente per nome. La sua voce è la voce di tutte le età, non si affievolisce né muore allo spirare della brezza, né si smorza, né ritorna a lui vuota. E verrà l’ora in cui egli chiamerà e l’intera creazione risusciterà da morte.

    Se uno ascolta la mia voce...”.  Ma nessuno può ascoltare la voce del Figlio di Dio se non chi si è innalzato nello spirito al livello in cui Dio può guidarlo e chiamarlo, il livello del regno e della vita con Dio, il livello cioè al di sopra degli eventi quotidiani. Qui può ricevere da Dio l’istruzione per la sua vita e un piano per la sua salvezza e questo proprio attraverso gli eventi quotidiani, addirittura servendosene. Nessuno può ascoltare la voce del Figlio di Dio, se non chi apre il proprio cuore e la propria mente per comprendere il suo linguaggio. E le parole e i toni di questo linguaggio sono fatti di amore, tenerezza, pace, mitezza e continua attenzione paterna, per quanto dure possano apparire la vita e le sue condizioni.

    Se il vostro orecchio è così addestrato spiritualmente da comprendere i simboli del messaggio divino come si manifestano negli eventi temporali, quando leggerete le parole sentirete la mano di Dio che bussa alla porta. Egli a volte busserà alla porta con delicatezza, a volte forte, e voi ascolterete la sua voce nel clamore e nelle tempeste così come nella brezza leggera. Egli vi chiama perché gli apriate la porta, perché riceviate da lui il mistero del suo banchetto nuziale, dopo aver condiviso il pane delle vostre lacrime.

    Il Signore è vicino. Egli è umile e la sua voce sommessa, più sommessa di quella dell’uomo, ma profonda, più profonda dell’eternità stessa.

  • 18 Feb

    di p. Attilio Fabris 

     TRACCE DI STORIA

    Con la scoperta a fine ‘800 del mondo sino allora sconosciuto e inesplorato dell’inconscio della psiche umana si aprirono orizzonti nuovi di lettura ed interpretazione dell’uomo. Sembrò, alla luce delle teorie psicanalitiche, di poter finalmente far luce e chiarezza in quelle dimensioni che sino allora erano state per lo più riservate alla competenza della sfera religiosa.
    Si andava incontro a due equivoci fondamentali.

    Il primo equivoco stava nella confusione e identificazione della dimensione psichica con quella spirituale: parlare di anima equivaleva a parlare di psiche.  La conseguenza fu che lo psicanalista veniva a soppiantare il confessore o  “direttore spirituale” in quanto la cura dell’anima coincideva con la cura della psiche. Così il fenomeno religioso insito nella natura umana veniva totalmente e sbrigativamente ricondotto e ridotto a semplici dinamismi, tensioni e pulsioni umane.
    Orgogliosa di questa autonomia la psicologia si staccò nettamente e si contrappose nettamente ad ogni interferenza con la religione arrivando a infelici e reciproci rifiuti e condanne. Dopo questa prima fase si passò nei primi decenni del secolo scorso ad una sorta di compromesso basato per lo più su un reciproco disinteresse, una sorta di separati in casa.
    La religione a sua volta accusava la psicologia di operare un indebito riduttivismo, di inalberare lo stendardo della “psicologia senz’anima”.

    Il secondo equivoco stava nel fatto che da entrambe le parti si cadeva nel trabocchetto che conduceva al vicolo cieco e insolubile di un’inevitabile dualismo di stampo cartesiano.
    Da un lato – quello della psicologia – si voleva prendere in considerazione e ipotizzare un uomo chiuso in se stesso e tutto determinato dai suoi bisogni (e in questo caso non aveva senso parlare di un’insita apertura dell’uomo al Trascendente).
    Dall’altro lato – quello della religione – si cadeva in una rivendicazione, dettata per lo più dalla paura della critica distruttiva, di una vita spirituale estrinseca da tutti i fattori e dinamismi umani e psichici.Ovvio che tale dualismo costringeva come inevitabile conseguenza ad impossibilità di incontro e di dialogo.
    Ultimamente il panorama della ricerca psicologica (pensiamo alla logoterapia di V. Frankl, alla nascita di psicologie umanistico-esistenziali) e nello stesso tempo un cambiamento dell’orizzonte culturale dettato dalla crisi delle scienze umane sta lentamente portando sia il mondo degli psicologi come quello dei teologi e degli operatori pastorali ad un incontro e dialogo del tutto nuovi, sino a giungere in taluni casi ad una vera e propria collaborazione.
    La vera psicologia sta prendendo sempre più coscienza della sua impossibilità di offrire quelle risposte ultime e di senso che solo un discorso spirituale può affrontare: essa molto spesso giunge (o aiuta a giungere) ad un confine che non le appartiene più.
    La religione prende sempre più atto che nel fatto religioso intervengono necessariamente dinamismi psichici che possono sostenere o talvolta ostacolare una matura esperienza religiosa.

    Oltrepassata la contrapposizione o sovrapposizione indebita si inizia ad accettare da ambo le parti che l’uomo non può essere “ridotto” a puri bisogni e dinamismi biologici e psichici, e dall’altro che la vita spirituale agisce necessariamente nell’umano (gratia supponit naturam) e in quanto tale si incarna nello psichismo dell’uomo, ovvero proprio nei suoi bisogni e nelle sue dinamiche interiori.
    Non ha più senso perciò voler separare questi vari elementi quasi che l’uomo fosse una sorta di giustapposizioni di vari strati. L’uomo è un tutt’uno! (sarebbe da rivalutare in tal senso tutta l’antropologia biblica) e in quanto tale il fattore psichico e quello spirituale vanno intesi come “bipolarità”, nella quale i due poli non sono contrapposti, ma interagiscono dando vita ad una tensione in cui entrambi i fattori costituiscono un unico vissuto. Ed è ovviamente auspicabile che entrambi funzionino al meglio possibile!
    Si comprende allora che non si tratta più con supponenza da ambo le parti di voler ricondurre tutto allo psicologico o allo spirituale come se l’uomo fosse tutto angelo o tutto bestia. Il dualismo cartesiano, almeno in teoria, sembrerebbe e dovrebbe essere ormai decisamente superato. Dunque se si agisce con verità, correttezza e autentica professionalità il dialogo e la collaborazione sono di fatto possibili, anzi auspicabili se da entrambi le parti si riconoscono e accettano le reciproche competenze senza indebite invasioni di campo. 

    INTERAZIONE NECESSARIA 

    Si tratta ora di abbozzare alcune idee circa le linee concrete di dialogo e collaborazione tra i due campi di competenza.
    uesto dialogo e collaborazione tra i diversi operatori divengono in qualche modo necessari quando una persona domanda di essere accompagnata psicologicamente o spiritualmente, ovvero fa ricorso all’operatore psicologico o pastorale.
    Mi soffermo ovviamente su quest’ultima relazione. Un tempo essa si identificava con l’incontro col confessore o col cosiddetto “direttore spirituale”.  Oggi in verità si preferiscono altre denominazioni per indicare quest’ultimo ruolo, volendo togliere l’impressione di una sorta di indebita – e  rischiosa – “direttività” a cui forse un tempo si faceva fin troppo ricorso. Oggi si preferisce parlare perciò di di “accompagnatore spirituale”, “consigliere spirituale” o “guida spirituale”.
    Quali i punti di incontro e di competenza tra lo psicologo e la “guida spirituale”?
    Si tenga anzitutto presente che sia lo psicologo che la guida spirituale usano il medesimo strumento della parola e della relazione. Da qui la possibilità della confusione o di indebite interferenze. Ma pur usando il medesimo strumento i due ruoli e servizi possiedono caratteristiche molto diverse.
    La diversificazioni stanno:
    – nell’obiettivo che ci si prefigge, (per la psicologia è aiutare la persona a funzionare correttamente a livello psichico nel rapporto con sé, con gli altri. Per la religione sta nel favorire la persona ad aprirsi all’esperienza del trascendente e alla ricerca di senso nella propria vita)
    – sul tipo di rapporto tra i due interlocutori,(per la psicologia esso si struttura su una dinamica tra medico e cliente che retribuisce il servizio richiesto, per la religione esso si costruisce su una dinamica di tipo fraterno e gratuito)
    – nelle disposizioni interiori che li animano, (per la psicologia la disposizione è professionale medica per la religione cristiana essa è pastorale spirituale)
    – nell’ambito in cui il discorso si muove, (per la psicologia l’ambito è quello dell’esplorazione e guarigione del mondo immanente psichico; per la psicologia cristiana l’ambito è spirituale ovvero il vissuto interiore spirituale. E in tal senso l’incontro si struttura in una relazione non a due come con lo psicologo ma a tre in quanto sia la persona che richiede aiuto, sia l’operatore hanno come riferimento il Trascendente)
    – nel luogo stesso in cui si svolge l’incontro (per la psicologia l’ambito è quello clinico-ospedaliero-ambulatoriale per la religione cristiana l’ambito è generalmente quello ecclesiale).
    Tener sempre presente da ambo le parti queste diversificazioni è importante per non ingenerare deleterie confusioni che alla fine vanno a discapito della persona e del servizio da lei richiesto.
    Certamente quando la guida spirituale intraprende il suo servizio pastorale di ascolto e accompagnamento spirituale necessariamente entra – come si è sopra ricordato – anche nell’ambito dello psichico, non ne può rimanere fuori. In tal senso la sua azione ha sempre indirettamente un risvolto curativo sulla psiche umana se ben condotto. La stessa cosa dotrebbe avvenire anche in sano accompagnamento psicologico.
    La guida spirituale che accompagna la persona all’incontro con il Trascendente e a strutturare la vita tenendone conto non può ignorare tutte quelle componenti umane che interferiscono, facilitano od ostacolano questo obiettivo. Emergono in tal modo aspetti conflittuali o addirittura nevrotici nel qual caso si necessita – se gravi – la collaborazione e il supporto in ambito competente psicoterapeutico o psichiatrico.
    Non mancano poi casi (e sono la maggior parte!)  in cui si domanda alla guida spirituale la soluzione di problematiche che non sono di sua competenza: sofferenze psichiche e talvolta psichiatriche sono spesso comunicate al confessore o al sacerdote. Tali persone caricano spesso di significato religioso problemi e sofferenze che sono di tutt’altra natura ovvero legate al loro vissuto psicologico malato. Ovvio allora che l’operatore pastorale attento, trovandosi di fronte a tali situazioni, aiuti queste persone a rivolgersi alla competenza dello psicologo o dello psichiatra. In questi casi da parte dell’operatore pastorale non solo è saggio ricorrere alla psichiatria e/o psicoterapia, ma addirittura doveroso (il che purtroppo – occorre riconoscerlo non accade – provocando talvolta danni notevoli!).
    D’altro lato però accade, e forse più di quanto si vorrebbe ammettere, che delle persone facciano ricorso allo psicologo o allo psichiatra per problematiche che se ascoltate attentamente oltrepassano la sofferenza psichica, andando molto più in profondità e domandando risposte che le scienze umane non sono in grado di offrire: ricerca di senso, esperienza di vuoto, insoddisfazione… forse rappresentano sofferenze più spirituali che psichiche (se è vero come affermava Jung che “dopo i quarantenni ogni disagio psichico è in realtà un disagio spirituale”!). E come possono la psicologia e la psichiatria  offrire autentiche soluzioni e risposte a tali disagi che in realtà sono domande di natura essenzialmente spirituale?
    Non sarebbe allora altrettanto doveroso da parte dello psicologo-psichiatra demandare alla competenza del religioso l’aiuto su questo versante?
    In molti casi un auspicabile lavoro di èquipe faciliterebbe in tal senso sia gli operatori psichiatrici come quelli pastorali andando a beneficio della totalità della persona stessa alla quale i loro servizi sono diretti. Si tratterebbe in tal senso di ricercare una interdisciplinarietà capace di co-agire in vista della crescita ed equilibrio della totalità della persona e non solamente di un polo!.
    Questa interazione a mio parere è purtroppo ancora carente e vista in modo sospettoso. Occorrerà camminare e sperimentare molto in tale direzione anche se non mancano giù ora tentativi coraggiosi.
    Ci auguriamo in un futuro non troppo lontano che, pur attraverso una chiara e indispensabile distinzione di piani, si possa cooperare in sinergia al fine di aiutare l’uomo di oggi a recuperare tutte quelle necessarie dimensioni che atrofizzate portano solo a squilibri e dunque a sofferenza

    LA  CONDIZIONE. UN‘ANTROPOLOGIA CONDIVISA 

    Vi è comunque una condizione previa e fondamentale sulla quale non si può assolutamente sorvolare perché si possa attuare questa sinergia in modo positivo: è necessaria la condivisione sempre da ambo le parti di una fondamentale visione antropologica.
    Questo concretamente comporta da un lato che il medico riconosca l’apertura alla trascendenza come costitutivo alla pienezza dell’essere umano e dall’altro che l’operatore pastorale riconosca la validità e talvolta la necessità di un intervento previo o concomitante specificatamente medico nel suo intervento spirituale riconoscendo che esso si incarna anche nella psiche del paziente.
    Dove mancasse questa reciproca stima e riconoscimento si darebbe adito da entrambi le parti solo a doppi messaggi talvolta contraddittori che andrebbero a discapito, a volte in forma grave, della persona sofferente.
    Concludendo occorre poi accennare come non è più possibile parlare, in una cultura ormai variegata, di apertura al religioso in senso generico.
    Oggi il rischio della psicologia è di guardare alla religione in senso per lo più “funzionale” (Allport-Vergote), ovvero in un suo utilizzo pseudo-religioso di stampo new o nest-age.  Occorrerà perciò tenere presente che la proposta religiosa cristiana si caratterizza per una sua antropologia ben specifica che la differenzia nettamente da altre proposte religiose. Lo psicologo che desidera operare in rapporto al fattore religioso non può tralasciare quest’aspetto nei confronti della persona che domanda il suo aiuto.
    Ma qui il discorso si amplia ulteriormente aprendosi su un orizzonte di riflessione molto vasto forse ancora tutto da esplorare.

     Bibliografia

     S. Fromm-Reichmann F.: Principi di Psicoterapia, Feltrinelli, Milano  1976
    Catalan J.F., Esperienza Spirituale e Psicologia, Ed  Paoline, Cinisello B. 1993
    Cruchon G., Il sacerdote consigliere e psicologo, ed Marietti, Torino 1972
    Zavalloni R., Psicologia e Spiritualità, in “Dizionario di Spiritualità”, Ed Paoline, Cinisello B. 1970
    Avoy J.M., Direction Spirituelle et Psycologie, in “Dictionnaire de Spiritualité, ed Du Cerf III, 1143-1173, 1956
    Fassino S. et Alii, Manuale di Psichiatria BioPsicoSociale, CSE, Torino 2007
    Nathan T-Stengers, Magia, ed Boringhieri, Torino
    Massone A-Lanzini I, Valori e limiti della psicoterapia,  ed Salcom, BdB/VA, 1992
    Nathan T.-Stengers, Medici e stregoni, ed Boringhieri, Torino 1996
    Brenner, Beve corso di psicoanalisi, ed Martinelli, Firenze
    Freud S, Opere, ed. Boringhieri, Torino

  • 01 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

     

     

    Quando si parla di carità si è sempre, comunque, a priori, d’accordo!

    Ma in concreto ci accorgiamo di quanto essa avrebbe bisogno di verifiche e di purificazioni nella nostra vita: troppo spesso facciamo passare sotto il nome di carità ciò che non lo è (simpatie, bisogni, apostolato, servizi vari interessati….).

    Forse potremmo accorgerci che in tanta pseudo-carità siamo noi stessi che ricerchiamo e non l’altro.

     Da un altro la spesso si presenta un conflitto: devo dare la precedenza alla preghiera o alla carità?

    La scrittura domanda una preghiera incessante, continua. Ma ci è stato anche detto che il grande comandamento è la carità. Perché allora tanto tempo a pregare quando c’è tanto da fare? Forse che il lavoro non è già preghiera?

     

    Dobbiamo partire da un’umile constatazione: è nella nostra esperienza di ogni giorno che l’amore non è facile. Esso esige da noi un superamento non quantitativo ma qualitativo. Difatti vi è un’originalità cristiana nella carità di cui si tiene poco conto.

    Se prendiamo in considerazione la parabola del buon samaritano (Lc), ci viene detto che carità è rendersi prossimo. Per il N.T. se qualcuno non ti è prossimo, tocca a te farti prossimo a lui, cercando motivazioni profonde.

    Non si tratta affatto di solo “non mancare nella carità”: “Non ho fatto del male a nessuno!”. Al cristiano viene richiesto uno spostamento non indifferente: mettere l’altro al primo posto, davanti a me, con le sue sofferenze prima delle mie.

     

    Seconda legge della carità è: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34).

    Il nostro amore sarà cristiano nella misura in cui si conforma a quello di Cristo, sarà quello di Cristo. Questo suo amore è fatto di puro dono, offerta di sé, senza attesa di contraccambio; esso non condanna, non giudica.

    “E’ lui che ci ha amati per primo” (1 GV 4,19) “Avendo amato i suoi sino alla fine” (Gv 13,1).

    L’amore di Gesù è capace di far suscitare in chiunque quella parte di bontà, di speranza che erano nascoste. Il suo amore così ci rivela l’amore del Padre che dona e suscita la vita. Chi ama con l’amore di Gesù condivide la vita di Dio.

     Cristo si dona e lo annichilendosi, facendosi più piccolo di noi (povero, mendicante). Accetta di aver bisogno, non per strategia, ma per risvegliare in noi ciò che di più vero, buono e bello è nel profondo di noi stessi.

    “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha donato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,16)

    “Non c’è amore più grande di questo” (Gv 15,13).

     

    Tutto questo ci appare impossibile! Ci viene forse chiesto troppo. Richieste divine non umane? Tra l’amore umano e quello che ci propone Gesù ci appare un salto qualitativo troppo esigente:

    “Vi do un comandamento nuovo” (Gv).

     

    Scriveva s. Teresa del B.G.:

    “E’ solo l’amore che conta, ma per amare come tu mi ami mi occorre ricevere in prestito il tuo stesso amore, solo allora potrò riposarmi”

    La carità è dono che ci viene dall’alto. Essa, nella novità del comandamento, ci chiede di amare dello stesso amore della Trinità. La novità del N.T. non è nel fatto che Dio comandi d’amare (questo c’è già nel V.T.), ma che egli domandi d’amare con lo stesso amore con cui si ama e ama tutto ciò che egli ha creato.

     

    Tale è la ragione della misteriosa equivalenza, stabilita da Gesù tra ciò che è fatto agli “altri”, ai “piccoli” e ciò che è fatto a Lui stesso. Come per una misteriosa reciprocità di rapporti Dio attenda che diveniamo testimoni e delegati della sua stessa paternità.

    E’ qui che si coniugano inscindibilmente preghiera e carità, ben lontani dall’opporsi esse si compenetrano, interagiscono, si sostengono.

    La carità è impossibile senza preghiera e la preghiera è impossibile senza carità:

    “Preghiera e vita cristiana sono inseparabili, perché si tratta del medesimo amore e della medesima abnegazione, che scaturisce dall’amore. La medesima conformità filiale e piena d’amore al Disegno d’amore del Padre. La medesima unione trasformante nello Spirito Santo, che sempre più ci configura a Cristo Gesù. Il medesimo amore per tutti gli uomini, quell’amore con cui Gesù ci ha amati.

    “Tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome ve lo concederà. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri” (Gv 15,16s).

    “Prega incessantemente colui che unisce la preghiera alle opere e le opere alla preghiera. Soltanto così noi possiamo ritenere realizzabile il principio di pregare incessantemente” (Origine)” (CCC 2745).

    Come amare il fratello “come Dio lo ama” se non conosco questo amore? Ciò che implica? Per amare realmente devo scoprire come io stesso sono amato, ora e in questo momento e luogo. Questo amore mi è rivelato contemplando l’amore di Cristo per me, un amore crocifisso.

    La preghiera mi mantiene nella costante memoria di ciò che Dio ha fatto e del prezzo che ha pagato amandomi. Siamo chiamati a far continua memoria del suo amore.

     

    “Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo” (Gal 6,2). Non bisogna illudersi: avere pazienza, dolcezza, desiderio d’accoglienza e di ascolto, condizioni tutte per una autentica carità, è impossibile se, giorno dopo giorno, noi non facciamo la scoperta nella preghiera della pazienza, longanimità, tenerezza di Dio nei nostri riguardi.

    La carità, la comunione, non solo nella Chiesa, ma nell’intera umanità, è un mistero: è oggetto di fede. Non è infatti sull’immagine di qualsiasi sistema o comunità che l’umanità deve unirsi: ma ad immagine del legame che unisce il Padre e il Figlio, nello Spirito. E’ dal mistero di Dio che procede la carità. E’ lo Spirito che ci introduce a questo mistero d’amore.

    Io amo il mio prossimo nella sua relazione costitutiva che l’unisce al suo e mio Dio, con tutte le conseguenze che ne scaturiscono. La preghiera  fa sì che io possa porre sempre la mia carità sotto il sigillo dello Spirito.

     

    La preghiera ha la sua verifica nella carità, senza questa essa potrebbe inquinarsi troppo sino a divenire menzogna:

    “La preghiera è inseparabile dall’amore, a tal punto che le nostre preghiere saranno in certo modo la misura del nostro amore” (C. De Foucauld).

    Pregare è essere in relazione con la volontà di Dio, e questa è: “Amatevi gli uni gli altri, da questo conosceranno che siete miei discepoli” (Gv 13,35).

     

    Preghiera o carità? La questione è falsa. La preghiera è dire col cuore: Sia fatta la tua volontà. Compiere nel quotidiano questa volontà di amore, perdono, misericordia.

  • 01 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

     

     

    Gesù agli apostoli ormai disperati per il mare in tempesta che sta affondando la loro barca dice: “Uomini di poca fede, perché dubitate?”.

    La risposta alle nostre invocazioni è certa: “qualsiasi cosa domanderete al Padre nel mio nome, egli ve la darà”. La semente anche tra i sassi e i rovi troverà un pezzetto di buona terra. Il nemico potrà seminare zizzania di notte, ma non potrà impedire il raccolto. Una tempesta può sconvolgere il mare, ma la barca arriverà al porto.

    Dio ci sorprende per la sua sicurezza, e Gesù insiste sulla certezza della risposta divina.

    Ciò cosa vuol dire se non che attraverso la nostra preghiera entriamo in possesso dell’onnipotenza divina?

    “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Gal)

    Non si tratta di una promessa con buone possibilità di realizzazione, ma di una promessa certa che non può non realizzarsi: l’efficacia della preghiera infatti non dipende anzitutto da noi, ma riposa sulla fedeltà e amore di Dio:

    “non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia” (Rm 9,16).

    Pregando realmente noi penetriamo nel disegno di Dio, nei suoi pensieri e nelle sue vie, gli ricordiamo il suo “patto santo”. Facciamo esperienza che non siamo noi che attendiamo Dio, ma è lui che mi attende:

    “La preghiera non tende ad avvicinare noi a Dio: “Dio è più intimo di noi stessi” (s. Agostino). La preghiera è un avvicinamento di noi a Dio, prendendo coscienza della sua vicinanza” (O. Clement).

     

    Nella preghiera è sempre Dio che mi precede, dandomi occasione di aprirmi a lui. E’ questa speranza viva: quella che riposa in Dio.

    “Dio vivo e vero chiama incessantemente ogni persona al misterioso incontro della preghiera. Questo passo d’amore del Dio fedele viene sempre per primo nella preghiera; il passo dell’uomo è sempre una risposta. Man mano che Dio si rivela e rivela l’uomo a se stesso la preghiera appare come un appello reciproco, un evento di Alleanza. Attraverso parole e atti, questo evento impegna il cuore” (CCC 2567).

    Il movimento autenticamente cristiano della speranza è: mi abbandono a Dio, affinché egli si dia a me. Dunque il bene sperato è Lui stesso. E’ questa l’Alleanza:

    “L’orazione è un rapporto di alleanza concluso da Dio nella profondità del nostro essere” (CCC 2713)

    “La preghiera cristiana è una relazione di Alleanza tra Dio e l’uomo in Cristo. E’ azione di Dio e dell’uomo; sgorga dallo Spirito santo e da noi, interamente rivolta al Padre in unione con la volontà umana del Figlio di Dio fatto uomo” (CCC 2564).

    Dio mi offre la sua Alleanza per portarmi a poco a poco al desiderio della visione del regno.

    Dio promette sì anzitutto la ricompensa: “Non temere, la tua ricompensa sarà grande” (Gn 15,1). Ma non si scoprirà che più tardi che: “IO sarò la tua ricompensa”; “Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi, la mia eredità è magnifica” (Sal 39).

    Allora limite, difetto della preghiera sarà insistere nel domandare a Dio solo dei beni limitati. La speranza che attende il miracolo non è virtuosa se non nella misura in cui ha di mira la meta finale ed essenziale, l’unica che rimane in eterno.

    Se Dio non risponde subito alle nostre richieste immediate è per educarci ad una speranza più grande, per aprirci al suo mistero:

    “Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri” (Gc 4,2-3). Se noi chiediamo con un cuore diviso, adultero, Dio non ci può esaudire, perché egli vuole il nostro bene, la nostra vita… Entriamo nel desiderio del suo Spirito e saremo esauditi: “Non rammaricarti se non ricevi subito da Dio ciò che gli chiedi; egli vuole beneficiarti molto di più, per la tua perseveranza nel rimanere con lui nella preghiera” (Evagrio P.). “Egli vuole che nella preghiera si eserciti il nostro desiderio, in modo che diventiamo capaci di ricevere ciò che egli è pronto a darci” (s. Agostino”” (CCC 2737).

     

    Potremmo quasi affermare: più la risposta di Dio è oscura, più essa è certa; perché l’efficacia della preghiera è trascendente. Solo al termine della pesca o della semina, o della mietitura avremo modo di constatare la fedeltà di Dio:

    “Che egli dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce, come neanche lui lo sa” (Mc 4,27).

    Durante la nostra esistenza siamo come delle sentinelle che attendono i primi barlumi dell’aurora:

    “Sulle tue mura, Gerusalemme, ho posto sentinelle; per tutto il giorno e tutta la notte non taceranno. Voi che rammentate le promesse al Signore non prendetevi mai riposo e neppure a lui date riposo” (Is 62,6s).

    Come ogni sentinella possiamo vedere sino ad un certo punto, non più in là. Vediamo poco, intravediamo, intuiamo “come in uno specchio”. Ma con una certezza nel cuore: ciò che sarà lo sarà in modo infinitamente più grande di quando riusciamo ora a sperare.

    “A colui che in tutto ha potere di fare molto di più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che già opera in noi” (Ef 3,20).

    Il figliol prodigo al suo ritorno è esaudito ben al di là delle sue attese. La manna, la pesca miracolosa, la moltiplicazione dei pani: sempre Dio risponde “al di là”. Egli sconcerta i nostri desideri.

     

    Da quanto detto si potrebbe tirare una conseguenza errata: dobbiamo allora disinteressarci, rinunciare al nostro impegno?

    Se l’autentica preghiera ci rivela il reale motivo della nostra speranza, e se la preghiera ci conduce a scoprire che è Dio che vuole essere efficace in noi, allora comprendiamo come essa salvaguardi nel medesimo tempo il radicarsi umano del nostro desiderio e della nostra speranza, perché essa sola lo rende possibile, reale. Infatti essa non conserva soltanto in noi Dio, ma conserva altresì noi stessi.

    E’ questo uno degli effetti più importanti della preghiera: rendere reale, vero, il desiderio che noi esprimiamo tramite essa.

    Ma non soltanto essa rende reale il desiderio, ma è in grado di modificarlo, di renderlo più autentico: “Sono sbalordito di come le mie idee cambiano quando le metto dinanzi a Dio” (Bernanos).:

    “La trasformazione del cuore che prega è la prima risposta alla nostra domanda” (CCC 2739).

    Unendoci alla preghiera di Gesù: il nostro desiderio, le nostre attese vengono non soppresse ma purificate:

    “La preghiera di Gesù fa della preghiera cristiana una domanda efficace. Egli ne è il modello, egli prega in noi e con noi. Poiché il cuore del Figlio non cerca se non ciò che piace al Padre, come il cuore dei figli di adozione potrebbe attaccarsi ai doni piuttosto che al Donatore?

    Gesù prega anche per noi, al nostro posto e in nostro favore… Se la nostra preghiera è risolutamente unita a quella di Gesù, nella confidenza e nell’audacia filiale, noi otteniamo tutto ciò che chiediamo nel suo Nome; ben più di questa o quella cosa: lo Spirito santo, che comprende tutti i doni” (CCC 2740-1).

    Il ritardo di Dio, il suo silenzio non è dunque da leggersi come un metterci alla prova, ma come spinta affinché il nostro desiderio si affini, si identifichi sempre più con quello di Cristo.

    E’ questo un sommo rispetto di Dio per la nostra libertà: Dio non vuole la nostra gioia senza la nostra collaborazione, egli vuol farla scaturire dall’interno di noi stessi:

    “Siamo convinti che “nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Rm 8,26)? Chiediamo a Dio “i beni convenienti?” Il Padre nostro sa di quali cose abbiamo bisogno, prima che gliele chiediamo, ma aspetta la nostra domanda perché la dignità dei suoi figli sta nella loro libertà. Pertanto è necessario pregare con il suo Spirito di libertà, per poter veramente conoscere il suo desiderio” (CCC 2736).

    Dio non può tener conto di questo desiderio che Egli stesso ha posto in noi al fine d’essere complice del suo dono.

     

     

  • 31 Gen

    Possibile accompagnamento spirituale per una guarigione interiore dopo l’interruzione volontaria della gravidanza

     

     

     

    La donna che fa riferimento all’operatore pastorale (sacerdote, religioso/a…) lo chiede generalmente per il forte disagio, talvolta devastante, dovuto al senso di colpa che vive interiormente. Sente di non poter ricevere perdono da Dio (es. confessioni reiterate), teme per la perdita definitiva del bambino rifiutato in un  disperato tentativo di riappropriazione (“che ne è di lui?”), vive un senso di vuoto e dunque di “di-sperazione”: “Ma tu credi che mio figlio si sia salvato???.. Dio potrà perdonarmi?”[1]

    Se dovessimo riassumere il significato dell’itinerario proposto esso si può riassumere come un cammino della rieducazione della coscienza in vista di una libertà “per” e non semplicemente e distruttivamente solo “da”. È questa l’urgenza psico-spirituale al giorno d’oggi nella nostra società. Per la donna significa intraprendere per se stessa la gestazione faticosa di una “nuova nascita” della sua identità.

    Parto dal presupposto che esista nella donna che ha abortito, come d’altronde in ciascuno di noi, un profondo bisogno di riconciliazione con la vita stessa e con le ferite subite come per quelle da noi stessi inferte.

    La violenta esperienza dell’IVG rappresenta un vero e proprio trauma sotto tutti gli aspetti della persona che necessita a questo punto di essere riascoltata, interpretata, guarita.

    “Al risveglio dall’anestesia l’infermiere mi disse: “Signorina, è tutto finito!”…..Non dimenticherò mai queste parole, che crearono in me sollievo per aver finalmente concluso un capitolo della mia vita, ma amareggiata per come era stato concluso…non aspettandomi MAI che il dopo sarebbe stato tragico…più di prima….da allora non sono più la stessa ragazza, quella ragazza che anche con mille problemi amava, era felice, aveva mille ideali….ora sono una che tenta di sopravvivere all’angoscia profonda di aver distrutto un essere umano….un figlio!”

    La necessità di riconciliazione emerge più o meno in modo dirompente e drammatico, mettendo prima o poi fine ad uno status quo stazionario in cui il conflitto era solo rimosso: “Posso distrarmi, impegnarmi, fare di tutto per non pensarci, posso fare di tutto per far cicatrizzare una ferita…ma questa, purtroppo, non potrà mai essere cancellata!”

    Qualsiasi ferita, la ferita interiore provocata dal IVG, provoca sempre una destrutturazione nella persona. La donna che ha negato la sua maternità non solo ha rifiutato la vita nascente ma anche parte del proprio Sé. Questo rifiuto comporta come conseguenza appunto una destrutturazione che conduce talvolta la donna a non cogliere più il senso del suo esistere e del suo agire con le conseguenze devastanti di cui psichiatri e psicologi si trovano spesso ad aver a che fare (cfr psicosi, stress e sindromi post abortivi).

    Il bisogno di riconciliazione diviene richiesta pressante al fine di porre fine ad un vivere “divisi” dentro di sé, ad una solitudine che generalmente la donna che ha abortito ha sperimentato drammaticamente prima e dopo l’intervento.

    L’aborto è quasi sempre l’esito di una solitudine e di un abbandono in cui la donna è stata lasciata: “Arrivai in sala operatoria piangendo e chiedendo all’infermiera di pregare per il mio bambino, le altre ragazze, come me offuscate dal falso perbenismo di parenti e amici mi sostenevano dicendo: “non ti preoccupare…l’operazione è semplice e dura poco!!” Cosa poteva in quel momento interessarmi dell’operazione, in quel momento pensavo solo al mio bambino e chiesi di pregare per lui..sperando che almeno lì, dove credo sia ora l’avrebbero accolto e amato, cosa che io non sono stata in grado di fare”

    Quando si intraprende un cammino di “riconciliazione”  si entra necessariamente nell’area conflittuale della persona e delle sue ferite.

    Nei confronti della donna che ha vissuto il trauma dell’aborto volontario significa entrare in ascolto e in dialogo con aree esistenziali sofferte bisognose di guarigione:

             il rapporto con se stessa e la propria storia

             il rapporto con il bambino rifiutato

             con gli altri (partner, famiglia, società …)

             l’immagine di Dio quasi sempre distorta

    Queste aree esistenziali spesso necessitano di un ascolto specialistico in quanto in esse sono contenuti aspetti clinici, psicodinamici con ampi risvolti inconsci e altamente conflittuali. Il rapporto e l’interazione con il medico e/o lo psicoterapeuta risulta in questi casi necessario tenendo presente che agli interrogativi più profondi che scaturiscono dall’esperienza dell’IVG non si può rispondere solo in termini tecnici o farmacologici: il dramma dell’aborto va ascoltato molto al di là nelle sue più o meno immediate conseguenze psico-patologiche investendo quella serie di interrogativi espressi in modo più o meno consapevole che vanno a collocarsi nella direzione del senso dell’esistenza stessa.

    Provo ora ad elaborare alcune possibili tappe verso una riconciliazione-guarigione da far compiere alla donna che ha abortito: lo strumento elettivo è l’ascolto attento e profondo, l’empatia nei confronti della sua sofferenza, e un dialogo capace di riaprirla progressivamente alla speranza. Tutto questo all’interno di una fondamentale esperienza di perdono ricevuto e dato.

     

    La prima fase è rappresentata dall’ascolto empatico della sofferenza che emerge dal vissuto della donna che ha ricorso all’IVG aiutandola in questo a giungere ad una coscienza corretta del male compiuto

     

    Si tratta di una presa di coscienza dolorosa. La donna ha fatto una scelta vissuta allora come esperienza liberatoria e positiva per sé.

    Quella scelta si è rivelata al contrario devastante in quanto in modo più o meno improvviso e drammatico la donna ha preso coscienza che ha fatto e si è fatta del male in modo oggettivamente irrimediabile. In questo vissuto segnato quasi sempre da un senso di colpa di stampo nevrotico la donna si pone dinanzi ad un debito insolvibile: non gli è possibile tornare indietro.

    Questo dolore investe diverse fasce che si compenetrano:

    – quello della ferita emotiva che ne è scaturita

    – quello conflittuale legato alla negazione dell’essere donna e madre

    – quello per la responsabilità negata nella relazione col figlio

    – quello di un peccato imperdonabile

    Generalmente la donna che domanda un ascolto o un accompagnamento spirituale sta già vivendo questa fase in modo drammatico sperimentando in se stessa un’incapacità di riconciliazione: “ho cominciato a piangere, urlare, gridare a squarciagola”.

    Niente di peggio in questa prima fase del minimizzare, anestetizzare questo “grido”: i facili e comodi  riduzionismi non sanno ascoltare veramente e profondamente il dolore che vuole emergere dalle ferite anche “se fa male da morire”: “Ero consapevole dell’omicidio….certo alcuni medici hanno tentato anche con varie teorie e pseudo teorie scientifiche di dimostrarmi che quello non era un bimbo, ma un semplice agglomerato di cellule, compreso mio padre e mio fratello lo sostenevano…(in cuor mio so che in realtà non lo credevano)….queste teorie convincevano la mia mente e soffocavano il mio cuore e la mia coscienza che urlava e piangeva…il cuore di una mamma sa benissimo che quel embrione è un figlio! E le mamme che lo negano a se stesse è perché non vogliono ascoltare il loro cuore e la loro coscienza….perchè fa male, fa davvero tanto male, fa male da morire!”

    L’operatore pastorale deve fare attenzione in questa fase ad aiutare, in concomitanza all’aiuto specialistico medico, la donna a non continuare a vivere scelte di “depistamento” quali potrebbero essere ad esempio atteggiamenti di ripiegamento su di sé e soprattutto di vissuti autopunitivi dai molteplici risvolti ad esempio cadendo nel vortice di pensieri ossessivi in cui teme un “castigo” che se da un lato teme dall’altro spera.

    In tutti i casi non si parte mai dal presupposto di un sano senso di colpa: questo esigerebbe una maturità affettiva che vi è legittimamente da domandarsi  possa esistere in una donna che abbia ricorso “consapevolmente” all’aborto: “Io credente ed amante dei bambini quando si parlava di aborto, affermavo che Mai l’avrei fatto…mai…..ed invece quando dovevo prendere la decisione,….entrai nel panico più totale, sentivo che Dio era vicino a me e che nonostante tutto mi stava facendo un regalo, un dono…quel figlio che da tanto desideravo, anche se in situazioni diverse, era lì…”.

    L’ascolto che non giudica e l’esperienza di essere accolta nel suo dramma segna per la donna un primo passo verso la riconciliazione.

     

    La seconda fase può essere rappresentata come un aiutare la donna a “rientrare in se stessa” al fine di rielaborare il “lutto” e trovando di conseguenza nuove interpretazioni della realtà.

     

    In questa fase si cerca di aiutare la donna a rileggere la propria storia e la propria vicenda scoprendovi un appello per una libertà nuova gestita “per” la vita e non contro di essa come purtroppo ha drammaticamente e ora consapevolmente fatto:  ….a tutti pensavo fuorché a quell’esserino che era dentro di me e che se anche la mia mente rifiutava, non voleva pensarci, il mio cuore ed il mio essere non poteva negare ciò che c’era, ciò che era venuto al mondo, attraverso me, ciò che era nel mio ventre, colui che era lì e già mi amava e chiedeva solo che io facessi in modo che gli eventi della vita continuassero e che non spezzassi quel cordone unico che lo teneva legato alla vita, la mia volontà… Cercavo in continuazione e inesorabilmente qualcuno e qualcosa che legittimasse la mia scelta….”.

    Si colloca qui il fondamentale e faticoso passaggio caratterizzato dalla rielaborazione del lutto. Questo che essa è chiamata a rielaborare ha connotazione tutte sue; infatti è duplice: si tratta non solo di una perdita di sé in rapporto all’oggetto (la vita rifiutata), ma anche della perdita simultanea e concreta di una parte del Sé (l’essere donna e madre): “da quel 21 febbraio, la mia vita è cambiata, mi sento orfana, orfana di un figlio conosciuto per soli  2  mesi e rifiutato”.

    Un aspetto importante è aiutare la donna a non cogliere nel “fantasma” del bambino rifiutato un nemico, ma un possibile alleato per il proprio futuro e le proprie scelte diverse. Il confronto/incontro interiore con lui è utile: non bisogna ignorarlo, evitarlo con la falsa scusa di non voler rinnovare una dolorosa consapevolezza e un dolore. In questo caso la guarigione sta nell’accogliere e leggere questo dolore. L’invito che faccio è di rapportarsi con il bambino (in un’ottica cristiana e di fede) dandogli un nome: “In quel momento sentivo l’amore di Dio, sentivo l’amore del bambino, sentivo l’amore per la vita e solo dopo…..dopo aver abortito che ho sentito, sempre più forte col tempo, un senso di vuoto, un senso di inesistenza di tutto…..di Dio, dell’Amore,…del mio bambino! Cerco disperatamente qualcosa o qualcuno che mi dia nuovamente ciò che ho perso…il senso della vita”.

    Questo processo comprende il riconoscere effettivamente ed affettivamente la perdita senza negarla. In definitiva si tratta di rieducare la donna al desiderio di essere donna e madre: “La donna ha bisogno di essere aiutata, sorretta e consigliata nel migliore dei modi in quei giorni…ha bisogno di grande aiuto, vive dei momenti indescrivibili di indecisione e di scelta, io ho incontrato medici e psicologi che mi hanno illustrato la facilità di scelta..come fosse semplice rinunciare ad un figlio… e secondo loro, a volte giusto…bastavano 10 minuti di intervento per eliminare un problema…si 10 minuti che intervengono a condizionare la donna per sempre… ho sbagliato a rivolgermi a loro, avrei tanto voluto conoscere in quei momenti ragazze madri e ragazze che avessero già vissuto la tragica scelta dell’aborto, avrei voluto consultarmi con loro, mi avrebbero aiutato a decidere e scegliere ciò che è giusto, più loro, che i “dottori”, che non avevano vissuto sulla propria pelle l’aborto, ma parlavano secondo teorie, statistiche, pensieri …ecc..ecc.. Perchè nei consultori non fanno entrare il Movimento per la Vita? Perchè??”

    Gli scogli da evitare sono rappresentati da un irrigidimento nei confronti di nuove possibilità di lettura del proprio essere e della propria identità, con il derivante negarsi il pensiero di nuove prospettive.

    Questa fase è la più lunga e laboriosa: può durare molto a lungo e varia da persona a persona.

     

                                                           

    La terza fase è aiutare la donna ad assumersi nuove decisioni.

     

    Questo comporta  la capacità di farsi carico di sé e della propria storia ferita, e il coraggio di mettere in atto operativamente scelte e gesti concreti  che non devono essere interpretati come una sorta di “riscatto” (si farebbe ancora il gioco contorto dell’autopunizione) ma come scelta di vivere la propria libertà in termini diversi da quelli usati precedentemente: “ Ora non mi resta che pregare ed augurarmi che sempre meno mamme vivino l’incubo di un figlio mai nato per propria scelta…Sono laureata in Giurisprudenza e dovrei difendere la legge se considerata giusta, ma la Legge 194 non posso condividerla…non posso…perchè si soffre troppo con l’aborto, se mi soffermo a pensare a quello che ho fatto, scoppio a piangere, la donna soffre per l’aborto, anche quella che lo condivide, anche quella che crede di avere fatto la scelta più giusta…la donna sa di avere avuto un figlio in grembo e che gli ha negato la vita, lo sa, anche se vuole adombrare e nascondere, spesso anche a se stessa, questa atroce verità!”

    Gli scogli qui sono rappresentati da possibili e infiniti rimandi e attendismi che hanno lo scopo di impedirsi la prospettiva di scelte concrete diverse.

     

     

    La quarta tappa, o meglio lo sfondo che sta al cammino di riconciliazione, è un sempre maggior confronto realistico con l’immagine di sé che porta come conseguenza una riconciliazione che si pone a più livelli: non solo con se stessa, ma anche con gli altri e con Dio.

     

    Questa fase consiste nel coraggio di lasciarsi amare, e amarsi, anche nei propri errori accettando il bisogno di riconciliazione che proviene dall’ “Altro”. E’ un vero e proprio disarmo, un arrendersi e un riconsegnarsi alla vita, alla propria libertà, rendendosene responsabili costruttivamente. E’ un rifare un vero e proprio patto con la vita. Questo è possibile nella misura in cui si è capaci di rinuncia alle proprie difese, aggressività.

    L’itinerario spirituale proposto vuole alla fin fine aiutare la donna a passare dal rimorso al pentimento, dal senso di colpa alla confessione del peccato: a questo punto finalmente è possibile annunciare un perdono possibile che ha come frutto una riconciliazione con sé, con l’ “altro” e con Dio.

    Riconciliazione che non è da intendersi come un colpo di spugna che cancelli l’irrimediabilità di un male compiuto verso se stessi e l’altro. E ancora non è frutto di un pentimento che cavalchi il senso di colpa, che esiga un pagamento del danno che in questo caso è insolvibile: il pentimento vero nella visione cristiana è riconoscere in verità il proprio peccato ma nella consapevolezza/esperienza di poter essere accolti, amati gratuitamente e gratuitamente riconsegnati alla responsabilità della propria libertà nei confronti della vita, di se stessi e degli altri. La riconciliazione sacramentale è quasi il sigillo di questo cammino di riconciliazione e di apertura nuova al futuro.

    Un aspetto a cui si dovrebbe accennare è che l’IVG non dovrebbe interpellare solo la donna ma anche tutte le persone che attorno a lei hanno fatto sì che ella arrivasse a tale scelta. Il partner spesso delega la donna scaricando la sua responsabilità, i genitori scelgono spesso di consigliare la strada che appare più facile e meno compromettente… questo lascia strascichi “rivendicativi” difficili talvolta da sanare. Anche il rapporto con i figli avuti e successivi potrebbe essere ulteriormente disturbato: questo appunto porta a considerare il dramma del “non nascere” in un orizzonte più vasto di quello a cui generalmente si pensa. Un cammino di riconciliazione e di guarigione interiore sarebbe a questo punto auspicabile per tutti ma sappiamo quanto poco vi sia di disponibilità a “cambiare la vita”, ciò che in termini cristiani si chiama “conversione”.

      

    Bibliografia

     

    S. Gindro e S. Mancuso (a cura di): Aborto volontario: le conseguenze psichiche, CIV ediz., Roma 1996

    Kellerhals, Pasini: Perché l’aborto?, Mondandori 1977

    Gius: Maternità negata, Piccin 1978

    G. Sovernigo, Senso di colpa, peccato e confessione: aspetti psicodinamici, EDB, Bologna 2001

    G. Davanzo, Aborto, in “Dizionario enciclopedico di Teologia Morale”, Paoline, Roma 1976


    [1] Riporto in corsivo la testimonianza diretta di una donna di 27 anni dopo la drammatica esperienza dell’IVG.

  • 31 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

    “Nel suo cammino quaggiù la nostra vita non può sottrarsi alla prova, dal momento che il nostro progresso si realizza attraverso la prova; nessuno conosce se stesso senza essere stato messo alla prova, può essere coronato senza aver vinto, può vincere senza aver combattuto” (s.Agostino, Enarr. in Ps. 60,3)

    Ogni vita spirituale conosce la prova del deserto. Basterebbe ripercorrere la storia dei grandi protagonisti nella S. Scrittura (cfr Abramo, Mosé, i profeti, lo stesso popolo d’Israele … Gesù, gli apostoli ecc…), e dei grandi santi senza alcuna eccezione.

    Sono questi dei periodi in cui Dio sembra lontano, talvolta drammaticamente assente.

    Mentre nei periodi di fervore ci si sentiva attirati dalla preghiera e dalle cose di Dio, durante i periodi di aridità non si sente più nulla, la preghiera non attrae, sembra di aver perso ogni gusto di Dio.

    “Un’altra difficoltà, specialmente per coloro che vogliono sinceramente pregare, è l’aridità. Fa parte dell’orazione nella quale il cuore è insensibile, senza gusto  per i pensieri, i ricordi e i sentimenti anche spirituali. E’ il momento della fede pura, che rimane con Gesù nell’agonia e nella tomba: “Il chicco di grano se muore produce molto frutto” (Gv 12,24)” (CCC 2731).

    Subito allora sorge spontaneo l’interrogativo: E’ colpa mia? Perché Dio si è allontanato da me? Vuole forse punirmi per qualche mia mancanza? Sorge allora purtroppo in noi l’immagine di un Dio severo, esigente che non si lascia sfuggire nulla.

    Ecco allora correre ai ripari cercando di fare ogni sforzo di buona volontà, oppure ci si lascia andare sfiduciati cercando sfoghi nell’attività, sperando che almeno così gli si possa dimostrare il nostro amore.

     

    CAUSE

     

    Un’aridità può subentrare per mancanza di generosità, allontanamento da Dio, insufficienza di contatti con Lui.

    “Un’altra tentazione, alla quale la presunzione apre la porta, è l’accidia. Con questo termine i Padri della vita spirituale intendono una forma di depressione dovuta al rilassamento dell’ascesi, ad un venir meno della vigilanza, alla mancanza di custodia del cuore” (CCC 2733).

    Può essere effetto di un’attività eccessiva, di una lavoro intellettuale troppo intenso, di stanchezza fisica.

    E’ sempre importante vedere se non si ha qualche responsabilità in questa aridità che si instaura.

    “Se l’aridità è dovuta a mancanza di radice, perché la Parola di Dio è caduta sulla pietra, il combattimento rientra nel campo della conversione” (CCC 2731).

    Ma la prova del deserto può avere anche altre cause.

    Dio può agire in modo meno sensibile in noi. La sua azione, benché sempre presente, è tuttavia non colta dall’individuo.

    Oppure potrebbe essere conseguenza dello stesso avanzamento nel mistero di Dio. Raggiunto un livello profondo si ha il tempo di gustarlo, viverlo ma presto si rivelerà insufficiente perché il mistero di Dio sarà ancora al di là. Si avrà perciò l’impressione di non sentire più nulla. Le stesse cose non producono più gli stessi effetti. Si tratta in questo caso di un deserto solamente a livello sensibile, perché invece la persona è stata resa capace di percepire più profondamente Dio sempre presente: è un deserto abitato.

    Un attaccamento eccessivo alle consolazioni di Dio invece che al Dio delle consolazioni può rendere la prova del deserto molto più arida e sofferta. Ciò accade spesso agli inizi del cammino spirituale. Il nostro itinerario conoscerà molteplici “notti” per usare le note espressioni di s. Giovanni della Croce: E’ facile cadere  nel nulla, perciò risulterà sempre importante cadere ai piedi del crocifisso disceso agli inferi, identificarsi col Cristo agonizzante: “Dio mio perché mi hai abbandonato?” “Padre nelle tue mani affido il mio spirito”.

    Attraverso la prova Dio vuole che il nostro io venga purificato, che si renda sempre più capace di accogliere la sua grazia:

    “La volontà propria – l’Io – viene distrutta solo per mezzo delle contrarietà inviate da Dio per turbare la falsa quiete dell’Io e abbattere i monumenti di illusione che questi innalza a propria gloria dinanzi agli uomini” (Matta El Meskin, Consigli per la preghiera).

    La liberazione dalla “filoautia” , l’amore di sé, rende l’essere umano più accordato a Dio: meno ancorato certo al sensibile, ma profondamente in pace alla presenza costante a Dio.

     

    RICONOSCERE DIO NEL DESERTO

     

    E’ di capitale importanza riconoscere Dio nel deserto, fin dall’inizio del nostro cammino spirituale.

    Tre segni ci permettono di assicurare che i legami con Dio non sono tagliati, e che perciò egli è sempre presente benché nascosto:

    – La pace profonda

    – L’apertura ad ogni eventuale manifestazione della sua volontà

    – La fedeltà alla sua volontà così come viene colta in quel momento preciso.

    Quando questi segni sono tutti presenti, possiamo essere sicuri che Dio è presente in noi, ci abita, ci muove, ci trasforma.

    Rendendoci attenti a questa realtà interiore da noi vissuta nella fase del deserto, cammineremo ancora nella fiducia e nella perseveranza non scossi più di tanto dal fatto che la nostra sensibilità non vibri sempre di gioia ed entusiasmo.

     Potremmo tuttavia sempre domandarci: E’ Dio che mette alla prova? Molti autori spirituali affermano che è Dio che vuole, in questi momenti di aridità, purificarci, provare la nostra fedeltà.

    Una spiegazione di tal genere non può essere comunque assolutizzata infatti se affermiamo che Dio è Amore e Vita, il presentare un Dio che vuole la prova sofferta è un riaffiorare dell’immagine falsa di un Dio esigente e spietato, che non corrisponde alla rivelazione fattaci da Gesù di Dio come Abbà, padre.

    Occorre elaborare un nuovo linguaggio per parlare della prova dell’aridità.

    Dio abita l’uomo e vuole contribuire alla sua crescita e alla sua felicità. Se l’uomo si allontana da lui, la sua crescita si arresta, la felicità viene ricercata in molteplici e infruttuose direzioni.

    Mentre quando l’uomo si apre all’azione divina, la vita scaturisce rendendolo felice in tutto il suo essere.

    Dio può prendere l’iniziativa di rinforzare la sua azione e la felicità, attraverso la prova, aumenta:

    La prova “agisce in noi quale il timone di profondità per l’aeroplano, o meglio ancora, quale la potatura per la pianta. Esso convoglia la nostra linfa interiore, libera le “componenti” più pure del nostro essere, tanto da farci balzare più alti e più diritti” (T. De Chardin, Ambiente divino).

    Dio allora può anche rendersi meno sensibilmente presente, senza cessare per questo di essere lì. E’ una prova che infligge? Preferiamo dire che Dio è libero e considerare il fatto che Egli è sempre lì, piuttosto che il fatto che non ci sia più come prima. Certo è una prova per noi, perché restiamo un po’ sconcertati e bisogna imparare e tener duro senza essere apparentemente sostenuti da lui. Ma Dio non vuole la prova, può volere solo la nostra felicità.

    Dio è Abbà, Papà.

  • 30 Gen

     

    “Un uomo vide un giorno un bambino che teneva in mano una lampada accesa. “Dove hai preso questa luce?” gli domandò. Il bambino soffiò sulla fiamma e disse: “Dimmi dove è andata e ti dirò dove l’ho presa””.

    La volontà di Dio è come quella lampada nella nostra vita: una realtà estremamente semplice e tuttavia dinanzi alla quale possiamo domandarci: da dove viene? Dove mi porta? L’esperienza di ogni giorno di dovrebbe dimostrare che questo cammino con Dio, che è la santità, conosce dei punti fissi, dei riferimenti costanti. La santità domanderà sempre una cooperazione attiva da parte nostra con la grazia di Dio. Si tratta di una cooperazione che assume per la maggior parte il tenore di una purificazione.

    Di che cosa è fatto il terreno della nostra collaborazione se non da ciò che di più vero ed umano troviamo in noi? i nostri desideri, aspettative, la nostra capacità di amare e di essere amati.

    La preghiera è la possibilità dataci ogni giorno per collaborare con Dio. E’ attraverso essa che prepariamo il terreno affinché Egli possa compiere la sua opera.

    Ma saremmo in grave errore se dicessimo che è sufficiente pregare. Si potrebbe infatti dimenticare che il non porre ostacoli alla grazia richiede in realtà altrettanto impegno libero, una iniziativa da parte nostra.

    Occorre tener presente sempre che la nostra natura umana è stata ferita dal peccato, e che perciò in essa troviamo già degli impedimenti. La vita divina incontra, quando tenta di entrare in noi attraverso la preghiera, un’altra legge chiamata da s. Paolo la “legge del peccato” (Rm 7).

    “Dio concede la preghiera a chi, vincendo la ribellione o l’assopimento della propria natura, si impone di pregare, e attinge così il profondo impulso del proprio essere creato a immagine di Dio. Perché l’immagine è calamitata dal suo modello” (O. Clement).

    Dobbiamo allora dedurre che anche il “non porre ostacoli” è privilegio della santità.

    Per giungere a questa meta bisogna lavorare con ogni forza onde preparare le vie, creare il terreno ed offrirsi al dono di Dio. La semente è ottima, è il terreno che occorre preparare.

    L’illusione sarebbe credere che “non porre ostacoli” sia facile, poiché si tratterrebbe solo di accogliere. L’accogliere liberamente è invece opera difficile, attiva, sofferta.

     

    SPERANZA E PREGHIERA

     

    Ognuno di noi cerca la felicità, siamo fatti per essa. La cerchiamo sempre ma spesso non dentro di noi ma al di fuori.

    Questa speranza di trovare la nostra felicità è minacciata da due pericoli:

    – l’impazienza

    Sia per formazione, sia per tanti altri motivi più o meno profondi, non crediamo di poterci mettere dinanzi a Dio se non quando abbiamo l’impressione di “aver fatto o fare qualche cosa”. Ci è stato spesso ripetuto che non bisogna contentarsi di bei pensieri, e in nome di questa convinzione, noi crediamo che il “soprannaturale” ce lo possiamo fabbricare attraverso i nostri sforzi. Prendiamo l’abitudine di agire in base ai nostri progetti, scelte, aspirazioni.

    Ci ricerchiamo, vogliamo dominare, secondo schemi prettamente adolescenziali, malgrado che gli avvenimenti, le circostanze ci mostrino che la strada è un’altra.

    Rimaniamo allora sbalorditi e disorientati il giorno in cui la via di Dio non sembra più coincidere con la nostra.

    All’opposto dell’impazienza troviamo la rinuncia:

    In nome dello spirituale si rinuncia ad un esame e critica della nostra coscienza, dei nostri errori. Ci si scorda del necessario sforzo “ascetico”.

    Si rinuncia all’azione e all’impegno, con la pretesa di acquisire la vita spirituale mediante l’abdicazione delle proprie responsabilità.

    Il problema non è se utilizzare o no le realtà terrene, ma è credere che possiamo assicurarci con le nostre sole forze la felicità che queste realtà promettono.

    Non credo che questa tentazione si presenti solo in rare e specifiche situazioni, nei momenti di importanti decisioni. Ogni minimo atto di scelta ci pone nuovamente la domanda: devo decidere in base di un bene che mi supera tenendo conto di una chiamata che mi giunge dall’esterno oppure devo stabilire da me stesso le regole della felicità, facendo,mi dio a me stesso?

    Il peccato di di-sperazione è di continuamente domandare alle creature di assicurarci una promessa che non possono mantenere.

    La sottile e tremenda tentazione è di voler essere dio, di essere padroni e origine di se stessi, di non aver bisogno di nessuno, di essere.

    Questa tentazione si può infiltrare anche nella nostra preghiera.

    Dobbiamo perciò far attenzione a non usare la preghiera per i nostri scopi, siano essi apparentemente i più spirituale.

    Se così fosse ci renderemmo insensibili alla speranza, all’attesa di un qualcosa che ci verrà donato da qualcun Altro. La preghiera allora scomparirebbe.

    “Lo spirito santo, che ci insegna a celebrare la Liturgia nell’attesa del ritorno di Cristo, ci educa a pregare nella speranza. A loro volta, la preghiera della Chiesa e la preghiera personale alimentano in noi la speranza. In modo particolarissimo i salmi, con il loro linguaggio concreto e ricco, ci insegnano a fissare la nostra speranza in Dio: “Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato ha dato ascolto al mio grido” (Sal 40,2). “Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rm 15,13)” (CCC 2657).

     

  • 30 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

     

    Scriveva il Surin: “Come gli animali attaccati ad un piolo, che non possono spingersi se non fino a dove la corda può tendersi e non possono far altro che girare con noia… questo è simile a colui che prepara i suoi tre punti senza osare uscirne”.

    Occorre rimanere in guardia contro l’eccesso di ogni metodo. Niente è più contrario alla fantasia dello Spirito santo che il voler sottomettere tutti ad una identica ginnastica interiore:

    “Lo Spirito santo… è il maestro interiore della preghiera cristiana. E’ l’artefice della tradizione vivente della preghiera. Indubbiamente, vi sono tanti cammini di preghiera quanti sono coloro che pregano, ma è lo stesso Spirito che agisce in tutti e con tutti” (CCC 2672).

    La nostra reticenza dinanzi ad un metodo è legittima: i diversi temperamenti, le diverse storie, i desideri di ciascuno, le aspirazioni, devono trovare il massimo rispetto nel nostro rapporto con Dio.

    Dobbiamo aver sempre presente una certezza di base: l’essenziale non è il metodo di preghiera ma è l’incontro tra me e Dio, si tratta di un dialogo fatto per nutrire un’amicizia.

    “Un metodo non è che una guida; l’importante è avanzare, con lo Spirito santo, sull’unica via della preghiera: Gesù Cristo” (CCC 2707)

     

    Tuttavia, dinanzi all dispersione della nostra vita, dinanzi alla nostra pigrizia e ai nostri alti e bassi, sperimentiamo l’insufficienza di una  reazione puramente negativa dinanzi al problema del metodo. Inoltre non è sufficiente evitare le divagazioni e sollecitazioni, la mancanza di silenzio, le illusioni, ecc… Occorre nutrire il nostro desiderio profondo di incontro con Dio, per approfondirlo e dilatarlo sempre più.

    Vero ostacolo alla nostra vita di preghiera è un amore disordinato per noi stessi, e non si rimpiazza un amore se cono con un altro amore.

    E’ perciò che saremo contenti in certi giorni di poter contare sull’aiuto di un metodo, semplice, facile, vero.

     

    In ogni metodo occorre tener presenti due qualità: anzitutto la sua flessibilità. Deve lasciare in noi lo spazio della libertà. Non sia un fine ma semplice mezzo.

    Poi che abbia la capacità di introdurci al dialogo cristiano: quello di Cristo con il Padre, e della Chiesa con Cristo.

    In questo rapporto troveremo subito delle prime difficoltà: si tratta di passare dal piano astratto a quello della vera relazione personale.

    Come in ogni amicizia vi è un periodo in cui non siamo completamente sicuri dell’altro, in seguito questo cambia. Si diventa capaci di fiducia illimitata e capaci di accettare le inevitabili divergenze. Si accetta ovvero la reciprocità.

    Così il valore di ogni metodo di preghiera si può giudicare non dalla quantità di idee astratte che può far nascere in noi, ma da questa domanda basilare: è un aiuto o un ostacolo per lo sviluppo dell’autentico dialogo di Cristo in noi?

     

    Esistono alcune regole per pregare (cfr Gasparino, Primi passi nella preghiera).

     

    1. entrare in rapporto “io-tu” con Dio.

    La preghiera è un calarmi nella realtà di Dio: Dio vivo, presente, vicino, persona. La preghiera diviene pesante, difficile quando non avviene l’incontro tra due persone. Io rimango assente, vuoto, mentre Dio è lontano, una realtà con cui non comunico.

    E’ importante nella mia preghiera che io usi poche parole, povere, ma ricche di contenuto. Possono bastare parole come: Padre, Gesù salvatore, Spirito d’amore, Gesù via verità, vita…).

     

    2. Instaurare una comunicazione affettuosa con Dio.

    La preghiera non è uno svolazzo della fantasia. La mente ed il cuore sono gli strumenti diretti per comunicare con Dio. Se fantastico, se mi ripiego sui miei problemi, se dico parole vuote, se leggo, non comunico con Lui. Comunico quando penso e amo nello Spirito santo.

    E’ importante nella preghiera che lo sguardo sia rivolto più a lui che a noi. Poche parole, molto cuore, tutta l’attenzione tesa a lui, ma nella serenità e nella calma. Non lasciare cadere il contatto con Dio col pensiero. Se succede tornare con calma e pace a Lui. Iniziare la preghiera sempre invocando lo Spirito che suggerisca in noi “i pensieri di Dio”.

     

    3. Imparare a ringraziare.

    Siamo sommersi dai doni di Dio dal mattino alla sera: ogni cosa è dono di Dio. Dobbiamo allenarci alla gratitudine. Non occorrono cose complicate: basta aprire il cuore al grazie sincero.

    E’ importante interrogarsi sovente sui doni più grandi che Dio ha fatto. La vita, l’intelligenza, la fede. Abituarci a ringraziare per tutto, anche per chi non ringrazia mai.

     

    4.Fare della preghiera un’esperienza di amore.

    Esistono tante gradualità nella preghiera, ma essa è soprattutto esperienza di amore. Se è solo un discorrere con Dio, è preghiera ma non la migliore. Finché a Dio parliamo soltanto, diamo ben poco, non siamo ancora nella preghiera profonda. Così, se ringraziamo, se imploriamo, è preghiera, ma la migliore consiste nell’amare.

    Legare spesso la preghiera a questa domanda: Signore che cosa vuoi da me? Signore, sei contento di me? In questo problema quale è la tua volontà?

    Abituarci a scendere sempre nella concretezza: lasciare la preghiera con qualche decisione ben precisa, per migliorare qualche dovere.

    Preghiamo quando amiamo, amiamo quando diciamo qualcosa di concreto a Dio, qualcosa che lui attende da noi, o che gradisce in noi. La preghiera vera comincia sempre dopo la preghiera, dalla vita.

     

    5.Far scendere la potenza di Dio nelle nostre viltà.

    Pregare è amare Dio nelle nostre situazioni concrete. E ciò significa specchiarci nelle nostre realtà quotidiane (doveri, difficoltà, debolezze) confrontandole con schiettezza con la volontà di Dio; significa poi chiedere con umiltà e fiducia la forza di Dio, per portare avanti i nostri Doveri come Dio vuole.

    E’ bene iniziare sempre la preghiera dai punti che scottano, cioè dai problemi che urgono di più. Riflettere, decidere, implorare: sono questi i tre tempi della nostra preghiera, se vogliamo sperimentare la forza di Dio nelle nostre difficoltà.

     

    6.Passare dalla preghiera di semplice presenza alla concentrazione profonda.

    Gandhi diceva: “E’ meglio una preghiera senza parole, che tante parole senza preghiera”. Se la preghiera di semplice presenza è mettersi davanti a Dio senza parole, pensieri o fantasie, essa avvia alla concentrazione che predispone alla preghiera profonda.

    Questo esercizio viene fatto dinanzi all’Eucaristia o ad un’icona, ad occhi chiusi, immersi nel pensiero della presenza di Dio che ci avvolge. Occorre curare la compostezza e la calma: E’ utile ripetere qualche semplice parola, ritmata col respiro (Preghiera del Nome).

     

    7. Mettersi in ascolto.

    Il centro della preghiera non siamo noi, ma è Dio. L’ascolto è attesa di Dio, della sua luce; l’ascolto presuppone il nostro desiderio che la nostra volontà aderisca alla sua.

    L’ascolto si può fare interpellando umilmente Dio su un problema che ci assilla, oppure cercando luce di Dio attraverso la Scrittura. E’ bene impostare la preghiera su qualche domanda che inchiodi ogni evasione: Signore cosa vuoi da me? Cosa mi dice attraverso questa pagina del Vangelo?

    La preghiera che va diritto alla ricerca della volontà di Dio, dà nerbo alla vita cristiana, abitua alla concretezza.

     

    8. Pregare con il corpo.

    E’ importante cominciare la preghiera dal corpo, chiedendogli una posizione che aiuti la concentrazione. La posizione non è la preghiera, ma aiuta o ostacola la preghiera.

     

    9. Valorizzare il luogo, il tempo, il fisico.

    E’ utile crearsi un angolo di preghiera nella propria casa, o camera. Abituarsi ad un’ora fissa : l’abitudine crea la necessità, e crea il richiamo alla preghiera.

     

     

  • 30 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

     

    “La tradizione della Chiesa propone ai fedeli dei ritmi di preghiera destinati ad alimentare la preghiera continua. Alcuni sono quotidiani: la preghiera del mattino e della sera, prima e dopo i pasti, la liturgia delle ore. La Domenica, al cui centro sta L’Eucaristia, è santificata soprattutto mediante la preghiera. Il ciclo dell’anno liturgico e le sue grandi feste rappresentano i ritmi fondamentali della vita di preghiera dei cristiani” (CCC 2698).

    Nei confronti della preghiera liturgica, ufficiale della Chiesa, possiamo trovare in noi un duplice atteggiamento: la possiamo infatti assolutizzare come unica e valida forma di preghiera oppure scartare come impedimento alla libera e personale crescita spirituale.

    Possiamo però partire da un dato di fatto: ogni essere vivente necessita di un determinato ambiente per crescere. Così anche la vita spirituale. Non si può respirare in qualsivoglia clima: ma esistono dei luoghi in cui la vita può crescere rigogliosa e altri in cui essa deperisce fino a morire.

    La liturgia vorrebbe, dovrebbe essere un luogo privilegiato, un’atmosfera ideale affinché la vita divina possa svilupparsi nel cuore.

    Vogliamo vedere nella liturgia una scuola, un sostegno, un’illuminazione per la vita cristiana.

    Io non posso inventarmi la vita, ma la ricevo. Così anche la mia fede: io la posso soltanto ricevere dalla Chiesa (Nei primi secoli questo veniva sottolineato attraverso il rito della Traditio Simboli).

    Non ho da inventare la mia preghiera,  io ricevo tramite la Chiesa la preghiera di Cristo (consegna del Pater nel battesimo):

    “La Liturgia è anche partecipazione alla preghiera di Cristo, rivolta al Padre nello Spirito Santo. In essa ogni preghiera cristiana trova la sua sorgente e il suo termine. Per mezzo della Liturgia, l’uomo interiore è radicato e fondato nel “grande amore con il quale il Padre ci ha amati” (Ef 2,4) nel suo Figlio diletto. Ciò che viene vissuto e interiorizzato da ogni preghiera, in ogni tempo, “nello Spirito” (Ef 6,18) è la stessa meraviglia di Dio” (CCC 1073).

    Liturgia non sono i riti, il folclore, le usanze. Si tratta di molto di più, si tratta di una realtà vitale: essa è il luogo, la condizione perché io possa respirare, nutrirmi spiritualmente.

    Il senso della liturgia potrebbe essere riassunto in questo: la Chiesa mi propone la preghiera di Cristo, e mi accoglie in un ambiente vitale, nella comunità, dove questa preghiera può nascere e crescere.

    Siamo cristiani nella misura in cui siamo membra di Cristo, e non è membro di Cristo se non colui che accoglie la sua vita attraverso la comunione di fede e di preghiera dei suoi fratelli.

    Allora potremmo interrogarci su certe reticenze che possiamo trovare in noi nei confronti della preghiera liturgica. Pigrizia, presunzione (quella di credere di bastare a noi stessi, che si possa far da soli), oppure una non conoscenza e approfondimento della preghiera liturgica.

     

    La preghiera liturgica è fatta sì per condurre alla preghiera personale, interiore, ma anche per esprimerla.

    Non bisogna infatti ridurre l’insieme dei gesti esteriori che accompagnano la preghiera ad un fine esclusivamente pedagogico, formativo. Il ruolo della liturgia non è solo di luogo di “tradizione”, ma anche e senza dubbio ancor prima, deve essere luogo di incarnazione visibile della mia piena adorazione interiore.

    Senza questa realtà la liturgia sarebbe solamente semplice coreografia.

     

    La Liturgia, preghiera della Chiesa che esprime l’adorazione di ogni suo membro, si apre agli orizzonti di quella che è la liturgia del cielo. E’ un’unica, grande, solenne, eterna preghiera di lode (cfr. Ap 4-5; Ebr 9-10).Non siamo noi che “saliamo in cielo” ma è il cielo che durante la divina liturgia discende si fa visibile sulla terra: qui l’uomo scopre la sua vocazione di liturgo. Il farsi voce della preghiera di tutte le cose.

     La preghiera di Cristo ha servito da modello alla preghiera della Chiesa, la preghiera della Chiesa serve da modello e metodo alla  nostra preghiera personale: questa è continuazione e preparazione alla preghiera liturgica.

    Non vi è così che un’unica preghiera, quella di Cristo vivente nelle sue membra.

    Ogni contrapposizione non ha più alcuna ragione di esservi.

     Cristo si rivela in tal modo la chiave di lettura di tutta la Liturgia della Chiesa:

    “Questo mistero di Cristo la Chiesa annunzia e celebra nella sua Liturgia, affinché i fedeli ne vivano e rendano testimonianza nel mondo: “La Liturgia infatti, mediante la quale, massimamente nel divino sacrificio dell’Eucaristia, si attua l’opera della nostra redenzione, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il Mistero di Cristo, e la genuina natura della vera Chiesa” (SC2)” (CCC 1068).

    Quindi i tempi (il ciclo liturgico), i testi (salmi, preghiere…), i simboli(acqua, fuoco, pane….): tutto questo ci spinge a cercare Cristo, penetrare nel suo mistero:

    “E’ in lui che noi pronunciamo la preghiera, è in noi che lui pronuncia la preghiera del salmo che ha per titolo: Preghiera di Davide. Che nessuno dica, udendo queste parole: Cristo qui non parla!. Che non dica: Non sono io qui che parlo! Ma che ciascuno creda di essere nel Corpo di Cristo, e dica di conseguenza: E’ il Cristo che parla, sono io che parlo.

    Senza di lui non dirai nulla e Lui senza di te non potrà dire nulla” (s.Agostino).

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