• 07 Mar

    10 

    PASSAGGIO DALL’EGOISMO ALL’AMORE

     

     Il progetto di Dio sull’uomo è di farlo entrare in comunione con lui, nella dignità di figlio nel Figlio:
    Benedetto sia Dio
    Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
    che ci ha benedetti
    con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo.
    In Lui ci ha scelti
    prima della creazione del mondo
    per trovarci al suo cospetto
    santi e immacolati nell’amore.
    Ci ha predestinati
    ad essere suoi figli adottivi
    per opera di Gesù Cristo,
    secondo il beneplacito del suo volere (Ef 1,3ss).
    Questa scelta e predestinazione è preannunciata già nel racconto della creazione allorché JHWH crea l’uomo “a sua immagine e somiglianza” (Gn 1,26). Ciò implica una partecipazione alla vita divina.
    Il peccato ha rotto, e rompe questo progetto di Dio, e l’immagine ne è continuamente infranta e deturpata. L’uomo infrange l’immagine e la somiglianza divine quando vuole costituirsi lui stesso Dio, origine di se stesso. Il peccato è distacco da Dio, fonte dell’esistenza e della grazia.
    La partecipazione alla natura divina pur non potendo mai essere interrotta, viene tuttavia in qualche modo bloccata, inespressa, mortificata, e ciò a scapito della crescita non solo umana bensì anche spirituale.
    Il cammino spirituale, l’ascesi, è lo sforzo umano unito alla forza dello Spirito per ristabilire l’ordine originale. Far riemergere quella “immagine e quella somiglianza” tante volte deturpata in noi dal peccato.
    I mezzi che la tradizione spirituale e biblica ha sempre indicato consistono in sintesi nella parola “conversione”.
    Potremmo definire la conversione come il ristabilimento dell’ordine naturale iniziale stabilito da Dio per l’uomo.
    Convertirsi equivale a rettificare.
    Conversione indica il ritorno: un ritorno che comporta un avanzamento dell’uomo verso Dio.
    Si tratta di un incessante passaggio pasquale dalle strutture di morte dell’uomo vecchio, alle strutture dell’uomo nuovo, creato ad immagine di Cristo:
    “Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici, e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,22-23).
    Questo rivestirsi dell’uomo nuovo, anche se sacramentalmente si è attuato in germe nel nostro battesimo, deve essere attuato continuamente nella nostra vita.
    Nei detti dei padri più di una volta ricorre l’ammonimento: “C’è una voce che grida all’uomo fino al suo ultimo respiro: Oggi convertiti!”.
    Se ora ci domandiamo in che direzione deve muoversi questa nostra rettificazione, la risposta è molto precisa: si tratta del cammino percorso da Gesù, quello della carità perché Dio è amore:
    Carissimi amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore (1Gv 4,7).
    L’amare è proprio dei figli di Dio perché è proprio di Dio:
    Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore: chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui  (1Gv 4,16).
    Ancora la parola ci indica un piano più concreto con cui attuare il comandamento: è il discorso della montagna.
    Ogni beatitudine è via di liberazione dall’egoismo e dalla violenza verso l’amore.
    Ogni esigenza o presunzione idolatrica dell’io vi è rifiutata: le energie purificate vengono utilizzate al servizio dell’amore, un amore sempre più esigente: superamento della legge del taglione, necessità dell’amore per un retto culto, l’amore per i nemici…
    La vera penitenza-conversione è un incessante “passaggio” dall’egoismo all’amore.
    Questo amore che per noi cristiani è comandamento, di fronte al quale non può esistere scelta ma aut-aut: amore o odio.
    Il comandamento ci evita di intendere l’amore come sentimento emotivamente instabile, esso nasce dalla volontà dell’essere fedeli alla parola.
    In questo senso è possibile ricavare l’asserzione che la nostra capacità di amare è l’unica verifica e la migliore espressione del nostro cammino spirituale.
    Un amore che non è possessivo, ma è fatto di rispetto, servizio, affetto disinteressato che non esige di essere ricambiato, fatto di com-passione. Un amore aperto al mistero dell’altro, alla sua interiorità profonda quanto la mia, ma differente e voluta tale da Dio.
    Gesù richiama e invita i discepoli a questo “passaggio” di morte-risurrezione, in vista della liberazione: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo” (Gv 12,24-26).
    Gesù chiaramente ci propone un programma esigente (=morire), capovolgente (=essere servo).
    Per vivere bisogna morire come il chicco di grano. La croce è via obbligata per la risurrezione, esse sono inseparabili. Il risorto mantiene nella gloria quelle piaghe gloriose della crocifissione, non le ha cancellate. 

    MORTIFICAZIONE

     La conversione implica la cosiddetta mortificazione. Dunque non si equivalgono ma una è complementare all’altra.
    Non vi può essere conversione senza mortificazione, né la mortificazione avrebbe alcun senso se non in rapporto con la conversione.
    Oggi la parola mortificazione è caduta in disuso ed appare quanto mai sospetta.
    In una società dettata dalla logica del consumismo parlare di “rinuncia” appare se non assurdo almeno un non senso.
    In campo spirituale la mortificazione, la rinuncia a determinate realtà di per sé buone sono l’affermazione concreta che facciamo anzitutto a noi stessi, della grande stima in cui teniamo e viviamo i valori spirituali nel loro rapporto con gli altri.
    Essi vengono posti al primo posto. Sono i più importanti.
    In ogni mortificazione prendiamo posizione in favore della preminenza di tali valori, su quelli che possono essere i bisogni immediati dell’esistenza.
    Si può rinunciare positivamente a qualcosa solo per amore, gli altri motivi indicherebbero realtà più o meno problematiche o addirittura patologiche.
    Nell’amore la privazione apporta un senso di completezza, infatti più compensazioni e gratificazioni infantili ci concediamo più ci sentiremo vuoti e insoddisfatti. Uno sguardo attorno a noi (e in noi): mai come oggi abbiamo tante soddisfazioni, non ci manca nulla e nello stesso tempo quanto ci si sente insoddisfatti, vuoti con un senso di amarezza e insoddisfazione.
    Un pozzo infinito non si può riempire di cose finite, solo l’infinito lo può riempire! Così è il nostro cuore. “Solo Dio basta” ammonisce santa Teresa d’Avila.
    Dobbiamo “allenarci” all’amore (l'”arte di amare”) e ciò avviene attraverso forme di rinuncia volontaria,, esercizi di amore oblativo.
    Solo in quest’ottica la mortificazione non può identificarsi con forme sottili di masochismo, o altro…
    Scriveva Cassiano nelle sue Conferenze: “Niente ci gioverà una rinuncia soltanto carnale e locale, somigliante alla partenza degli Ebrei dall’Egitto. Quella che conta è la rinuncia del cuore: quella sola è sublime e utile”

    SOSTITUZIONE O SOLIDARIETA’

     Il tema della mortificazione si collega al tema della sofferenza. Rimane pur sempre vero tuttavia che il dolore, soprattutto innocente, può essere una grande ostacolo per la fede, come può divenire al contrario il trampolino di lancio. Perché il male? Perché la sofferenza? Perché il dolore dei buoni, dei semplici? Perché la sofferenza dei bambini?
    A volte ci rendiamo conto dell’esistenza di persone che si direbbero nate per soffrire, e nei modi più disparati fisicamente e psichicamente. Entriamo in quel delicatissimo e misterioso tema dell’espiazione.
    La  potremmo intendere e cercare di capire alla luce della vocazione-necessità della solidarietà profonda, misteriosa, ma concreta, con una umanità che soffre e che è peccatrice.
    L’espiazione è il mistero di comunione che lega tutti gli esseri tra loro.
    La figura del Servo di JHWH è quanto mai significazione della solidarietà che lega l’uomo, ogni uomo, all’altro, nel bene e nel male:
    Uomo dei dolori che ben conosce il dolore… egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori, e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo guariti” (Is 53,4-5).
    La sofferenza del servo è vicaria, espiatrice. Acquista un senso anche se difficilissimo da comprendere e accogliere: “E’ così misterioso il paese delle lacrime” (A. De S: Exupey).
    Potremmo qui affermare che è tragico soffrire, ma è disperazione e angoscia ancor maggiore soffrire senza un significato.
    Il riuscire a dare un senso, un perché al dolore fa’ sì che a questi venga tolto il suo veleno mortifero e amaro.
    Il soffrire inevitabile, simile a quello del Servo schiacciato, abbattuto può allora trasformarsi in chiamata, appello ad una missione trascendente e redentrice.
    Sarebbe spontaneo allora a questo punto domandarsi se non sia una ingiustizia che alcuni debbano soffrire al posto di altri, o almeno molto più di tanti altri.
    Tentiamo, in punta di piedi e tentennando nel buio, di cercare una possibile risposta.
    Dio cerca sempre la collaborazione dell’uomo per la sua opera salvifica (“completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo“: afferma san Paolo), occorre stabilire un equilibrio tra profitti e perdite, tra bene e male.
    All’interno dell’umanità non siamo dei semplici soci, bensì membra gli uni degli altri di un unico corpo:
    “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme: e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” 1Cor 12,26-27.
    Esiste nella Chiesa e di riflesso nel mondo una intercomunicazione di bene e di male (il mio peccato non riguarda mai solo me e Dio) di salute e di infermità, di grazia (“Cerca la pace interiore e migliaia troveranno salvezza in te: ammoniva san Serafino di Sarov).
    Non è indifferente perciò che io sia santo o peccatore… La mia indifferenza, il mio peccato ricade oltre che su di me, sempre sugli altri, su qualche innocente “chiamato” a compensare la mia perdita.
    Una forte coscienza ecclesiale ha potuto formare santi che si sono offerti “vittime”.
    Nella vita di san Domenico del XIII sec. Si legge: “Dio gli aveva dato una grazia speciale per i peccatori, i poveri, gli afflitti. Egli portava i loro dolori nel santuario intimo della sua compassione e le lacrime che gli uscivano gorgogliando dagli occhi manifestavano l’ardore del sentimento che divorava il suo cuore. Egli pensava che sarebbe stato veramente membro di Cristo soltanto quel giorno in cui avrebbe potuto offrirsi interamente, con tutte le sue forze, per conquistare il mondo” (Cronache domenicane).
    Ai nostri giorni insieme a tanti testimoni troviamo ad esempio il beato Luigi Orione il quale scriveva: “La perfetta letizia non può essere che nella perfetta donazione(=sacrificio) di sé a Dio e agli uomini, a tutti gli uomini, ai più miseri come ai più fisicamente, moralmente deformi, ai più lontani, ai più colpevoli, ai più avversi. Ponimi, Signore, sulla bocca dell’inferno perché io, per la misericordia tua, la chiuda. Che il mio segreto martirio per la salvezza delle anime, di tutte le anime, sia il mio paradiso e la suprema beatitudine. Amore delle anime, anime, anime. Scriverò la mia vita con le lacrime e con il sangue”.
    E’ forse questo l’atteggiamento più vero da assumere quando domandiamo a Cristo sacerdote di rendere il nostro cuore simile al suo: sacerdotale, sacrificio, offerta, espiazione per  il mondo intero.
    E’ una preghiera terribilmente esigente, da vertigini!
    Forse spesso non ce ne rendiamo conto, e ci accontentiamo di annacquare il tutto fino al renderlo insipido.

    sintesi di: I. Larranaga, Mostrami il tuo volto

  • 06 Mar

    VERSO LA LIBERAZIONE

     

     Può succedere che l’orazione, il nostro “stare” con Dio, non sia esente da imperfezioni.
    Anzi può succedere che si trasformi in evasione egoistica, senza peraltro che ce ne accorgiamo.
    Questo accade quando il nostro cercare Dio non è dettato da una retta intenzione, da gratuità e amore, ma dal tentativo di fuggire dalla propria responsabilità, da una ricerca di un piacere spirituale fine a se stesso.
    Inutile dire quanto sia illusoria questa direzione del cammino spirituale, minato alla base da una subdola inautenticità.
    Domadiamoci come mai tante persone che hanno pregato molto, dedite alla vita spirituale, sono però rimaste immature, aggressive, fredde, critiche…
    Quasi sicuramente invece di dialogare con l’Altro, con Dio, non si sono accorte di essersi ripiegate, di aver dialogato sempre e solo con se stesse. Il Dio invocato non era il vero Dio, ma una proiezione di se stessi, la divinizzazione della propria immagine.
    La preghiera autentica deve provocare, mettere in discussione la vita, e la vita deve sfidare l’orazione. Se questo interscambio tra preghiera e vita non avviene vi è buona probabilità che siamo indirizzati nella direzione errate, nell’illusione spirituale, nella proiezione di noi stessi in Dio.
    Il Dio che si rivela nella storia del popolo eletto è un Dio liberatore. E’ un Dio che chiama il suo popolo ad alzarsi e ad intraprendere un cammino.
    E’ un Dio che scomoda continuamente, che non vuole lasciare l’uomo seduto nelle sue false sicurezze, comodità, nei suoi scoraggiamenti, rassegnazione, morti.
    Quando ci troviamo in queste situazioni rischiamo di ridurre Dio a “nostra misura”, a nostra immagine e somiglianza: è un Dio illusorio, che dobbiamo far morire. Dio è morto! Ma quale dio?
    Il vero Dio è un Dio che celebra con l’uomo eternamente pasquale il passaggio ad una vita sempre più piena ed intima.
    Egli ci spinge continuamente a rivedere e riprogrammare la nostra esistenza in base al suo progetto di liberazione.
    E’ un Dio che non ci fa restare bambini, ma che ci prende per mano spingendoci con amore a divenire persone adulte: umanamente e cristianamente.
    Egli rende l’uomo responsabile della sua storia personale e collettiva.
    Allora constatiamo che Dio non è “oppio”, non aliena l’uomo da se stesso e dalla storia, ma è “liberatore” che chiama a libertà e maturità la sua creatura. 

    SALVARSI ALLE RADICI

     Non dovremmo mai parlare solo di “salvezza dell’anima”: la salvezza che ci è donata da Dio abbraccia e coinvolge tutto l’uomo.
    Si tratta di una salvezza integrale.
    Ma questo dono della salvezza è ostacolato dalla presenza del peccato nell’uomo: la sua pretesa di essere lui “Dio a se stesso”, la sua origine.
    E da questa pretesa origine di ogni altro peccato, sorga la divisione, l’inimicizia, la guerra, la menzogna, la schiavitù, lo sfruttamento.
    Alla chiamata alla libertà corrisponde il più spesso il soggiacere alla schiavitù del peccato, schiavo delle sue passioni.
    In questa situazione il bisogno di liberazione si fa sentire quanto mai urgente. 

    DARE A DIO UN LUOGO

     Se la schiavitù consiste allora nella “egolatria”, il problema della liberazione sta nel rimuovere il Dio-Io, affinché lasci lo spazio al Dio unico e vero.
    Ciò vuol dire smantellare tutto il mio piccolo angolo di mondo che mi sono costruito e mai misura, smantellare il mio idolo che mi sono costruito a mia immagine.
    Questo cammino è verso la verità, la liberazione poiché comporta spoliazione da tutto ciò che in noi è falsità, schiavitù:
    Il povero che è nudo sarà vestito, e l’anima che si sarà spogliata dei suoi appetiti, che tu voglia o no, la vestirà Dio della sua purezza, diletto e volontà  (s. Giovanni della Croce).
    Secondo la terminologia mistica solo il sentiero doloroso del “nulla”, la liberazione assoluta, ci conduce alla cima del Tutto che è Dio: Da tutto ciò che non è Dio si deve liberare l’anima per andare a Dio (s. Giovanni di Dio).
    Comprendiamo che se la liberazione consiste nel fatto che Dio sia Dio in noi, e se l’unico “altro Dio” che può impedire l’adorazione all’unico Dio è il Dio-Io, giungiamo alla conclusione che o regnerà Dio o regnerà al suo posto il nostro uomo vecchio “corrotto dalle passioni ingannatrici”, con il suo desiderio egoistico di dominare, di possedere, di godere. In tutto questo Dio non può trovare posto.
    11 L‘uomo abbasserà gli occhi orgogliosi,
     l’alterigia umana si piegherà;
    sarà esaltato il Signore, lui solo
    in quel giorno.
    12 Poiché ci sarà un giorno del Signore degli eserciti
    contro ogni superbo e altero,
    contro chiunque si innalza ad abbatterlo;
    13 contro tutti i cedri del Libano alti ed elevati,
    contro tutte le querce del Basan,
    14 contro tutti gli alti monti,
    contro tutti i colli elevati,
    15 contro ogni torre eccelsa,
    contro ogni muro inaccessibile,
    16 contro tutte le navi di Tarsis
    e contro tutte le imbarcazioni di lusso.
    17 Sarà piegato l’orgoglio degli uomini,
    sarà abbassata l’alterigia umana;
    sarà esaltato il Signore, lui solo
    in quel giorno
    18 e gli idoli spariranno del tutto.
    19 Rifugiatevi nelle caverne delle rocce
    e negli antri sotterranei,
    di fronte al terrore che desta il Signore
    e allo splendore della sua maestà,
    quando si alzerà a scuotere la terra.
    20 In quel giorno ognuno getter�
    gli idoli d’argento e gli idoli d’oro,
    che si era fatto per adorarli,
    ai topi e ai pipistrelli,
    21 per entrare nei crepacci delle rocce
    e nelle spaccature delle rupi,
    di fronte al terrore che desta il Signore
    e allo splendore della sua maestà,
    quando si alzerà a scuotere la terra.
    22 Guardatevi dunque dall’uomo,
    nelle cui narici non v’è che un soffio,
    perché in quale conto si può tenere?  (Is 2,11-22).
    La liberazione avanza per la via della povertà interiore ed esteriore.
    Dio si rivela Dio realmente per gli anawim, i poveri del Signore, coloro che si abbandonano completamente a JHWH.
    Il povero è proprietà di Dio e Dio è l’eredità del povero. 

    LIBERI PER AMARE

     Essere liberi, ovvero poveri, è condizione indispensabile per amare in modo adulto ovvero oblativo, gratuito, un amore che si dona senza l’ansia di essere contraccambiato.
    E’ condizione per creare autentica fraternità. Il desiderio di possesso induce alla difesa, il difendersi induce alla violenza, e la violenza (sotto mille forme) è distruttrice della comunità. Al contrario la liberazione da sé stessi e dalle cose conduce al vero amore vissuto nella gioia della libertà.
    Accettare di non essere ciò che non si è e di non avere ciò che non si ha.
    La nostra povertà, riconosciuta ed amata, ci pone in un atteggiamento di verità nei confronti di noi stessi. Riusciamo ad intravvederci in modo “abbastanza” realistico.
    E’ necessario che ci liberiamo dalle false sicurezze, maschere, dietro le quali ci nascondiamo, ed accettare la realtà della nostra contingenza, precarietà, indigenza e limitazione.
    Solo allora avremo la sapienza, la maturità e la salvezza.
    Il povero, l’anawim, del vangelo è un “aristocratico dello spirito”. Niente e nessuno, né la gloria né il vituperio, può turbare la sua pace, poiché egli non si lega né si appropria di nulla.
    Nei detti dei padri del deserto si legge: “Un fratello si recò dal padre Macario l’Egiziano e gli chiese: Padre dimmi una parola, come posso salvarmi? Gli dice l’anziano: Va al cimitero e insulta i morti. Il fratello vi andò, li insultò e li prese a sassate. Quindi ritornò a dirlo all’anziano e questi gli disse: Non ti hanno detto nulla?. Ed Egli: No! Gli dice l’anziano: Ritorna domani a lodarli. Il fratello vi andò e li lodò, chiamandoli apostoli santi e giusti. Quindi ritornò dall’anziano e gli disse: Li ho lodati. Ed egli: Non ti hanno risposto nulla?. “No” rispose. Tu sai quanto li hai insultati – dice l’anziano – e non hanno risposto nulla, e quanto li hai lodati, e non ti hanno detto nulla: diventa anche tu morto in questo modo, se vuoi salvarti. Non far conto né dell’ingiuria né della lode degli uomini, come i morti; e potrai salvarti”.
    Come il morto, se niente abbiamo e niente vogliamo essere né avere, che cosa ci può turbare?
    Povertà è liberazione, e liberazione è pace e gioia nel profondo di noi stessi. 

    UN CIRCUITO VITALE

     Il processo di liberazione si attua nell’incontro con Dio in un circuito che va dalla vita a Dio e da Dio alla vita.
    Quando mi metto alla presenza di Dio, lo faccio con tutto il mio carico di limiti, sofferenze, insuccessi, successi, doni gioie.
    A Dio domanderò luce, il dono dello Spirito per il discernimento.
    Con questo Dio che ho conosciuto e amato devo scendere a contatto con al vita, con la storia degli uomini.
    “L’incontro con lui è come un motore che genera forza. Quando l’uomo di Dio vive in profondità l’incontro con lui, sente che il TU prende, estrae, assorbe il suo IO: allora sperimenta la libertà assoluta nella quale scompaiono la timidezza, l’insicurezza, il ridicolo, i complessi. Mai nessuno sentirà un altro modo una così intensa pienezza di personalizzazione. Questa sensazione equivale esattamente a quella onnipotenza inebriante e sfidante di cui parlava san Paolo: Se Dio è per noi chi sarà contro di noi (Rm 8,31).
    Il problema sta nello sperimentare che Dio è con me. Chi lo ha sentito veramente, sa cosa è la liberazione assoluta”
    Troviamo nella scrittura l’esperienza di Geremia:
    4 Mi fu rivolta la parola del Signore:
    5 «Prima di formarti nel grembo materno, ti <conoscevo,
    prima che tu uscissi alla luce, ti avevo <consacrato;
    ti ho stabilito profeta delle nazioni».
    6 Risposi: «Ahimè, Signore Dio, ecco io non so <parlare,
    perché sono giovane».
    7 Ma il Signore mi disse: «Non dire: Sono giovane,
    ma va’ da coloro a cui ti manderò
    e annunzia ciò che io ti ordinerò.
    8 Non temerli,
    perché io sono con te per proteggerti».
    Oracolo del Signore.
    9 Il Signore stese la mano, mi toccò la bocca
    e il Signore mi disse:
    «Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca.
    10 Ecco, oggi ti costituisco
    sopra i popoli e sopra i regni
    per sradicare e demolire,
    per distruggere e abbattere,
    per edificare e piantare».
    “Il Signore è alla mia destra di chi avrò timore?”. Con Dio, nella fiducia e nell’abbandono torno alla vita desideroso di immettere quelle forze di vita, di liberazione che ho sperimentato.
    Potremmo concludere dicendo che per liberazione possiamo intendere l’abbandono di ciò che non si è e non si ha. E’ accettare la propria realtà a volte con sofferenza, facendo lutto ma senza rancori o amareggiamenti, aggressività.
    La liberazione si apre sempre al perdono, dimentica i torti, è capace di accettare ed accogliere le persone antipatiche e difficili, non porta alla suscettibilità, allo scatto improvviso e violento, non è ipersensibilità emotiva la quale non lascia posto alla libertà. La liberazione è un cammino di acquisizione di dominio su se stessi.
    “La liberazione non si attua in modo magico o meccanico con il passare del tempo… ma con l’apertura decisa e coraggiosa dell’uomo alla possibilità del nuovo e del  gratuito contro tutti i determinismi che alimentano la rassegnazione e la passività” (Rinaldo Fabris).
    Il discepolo chiese al maestro:
    Come posso ottenere la liberazione?
    Rispose: Scopri chi ti ha imprigionato.
    Il discepolo tornò una settimana e disse:
    nessuno mi ha imprigionato
    Il maestro disse: Allora perché chiedi di essere liberato.
    Quello fu il momento d’illuminazione per il discepolo che improvvisamente divenne libero. (A. De Mello).
    “Il Signore ha liberato la vita del povero” (Gr 20,13)
    “Siamo liberati dal peccato e fatti servi di Dio” (Rm 6,22) 

    TESTI

    Is 14-15
    Is 1,10-17
    Sal 105
    Mc 5,1-13

    Sintesi di: I. Larranaga, Mostrami il tuo volto

     

  • 05 Mar

    L’ESERCIZIO DEL RACCOGLIMENTO

     di Romano Guardini

    Abbiamo cercato di conoscere la natura del bene e della coscienza. Abbiamo com­preso il bene anzitutto nella sua pura essenza, come infinito nel suo contenuto e semplice nel­la sua struttura. La coscienza poi come quel­l’organo interiore, mediante il quale io co­nosco che vi è un bene; del quale questo bene si serve per spingermi ad attuarlo; il quale mi fa sentire la responsabilità, che il bene venga attuato. Siccome però questo bene è infinito e semplice ad un tempo, io non posso comprenderlo immediatamente come dovere pratico. Bisogna che si specifichi; che si scomponga in singoli doveri di contenuto parziale, affinchè io possa attuarlo. Ora que­sto avviene nella situazione, nell’intreccio del­le realtà e degli avvenimenti, quale si rinno­va continuamente intorno a me, e a me guar­da, e da me vuoI ricevere interpretazione e forma.
    Quello che di volta in volta mi viene indi­cato come giusto dalla situazione oggettiva ­questo è il bene. Coscienza poi significa la ca­pacità di riconoscere quello che ci vien presen­tato come tale e di dargli un’ impronta per l’azione.
    Già a questo stadio il concetto della coscien­za aveva qualche cosa di profondo e di inte­riore. Lo abbiamo espresso nella proposizione: “io ho cognizione, con me stesso, intorno al bene”. Questa interiorità proveniva dal fatto che il bene coinvolge il s.enso ultimo di tutto, compreso il senso ultimo della mia esistenza. La salvezza dunque, l’eterno destino. E pre­cisamente il mio destino, di cui nessuno può sgravarmi e che nessuno può rapirmi.
    Questo carattere d’interiorità si è approfon­dito maggiormente nella seconda conferenza. In essa abbiamo seguita la coscienza giù giù fino al suo fondo religioso. “Coscienza” non significa affatto soltanto un organo etico; a ciò l’ha ridotta appena l’età moderna e più che altrove, a quanto sembra, nei paesi di lingua tedesca. In sè e per sè “coscienza” significa l’organo per il dovere in genere, per ciò che è degno di essere, con manifesta ten­denza alla religione. Si può dimostrare storica­mente che parola e significato di “coscienza” stanno in nesso con gli ultimi strati della co­scienza religiosa:col “fondo dell’anima” e col “filo dello spirito”.
    Vedemmo inoltre, che il bene, in fon­do, è la vivente santità di Dio stesso; aver co­gnizione del bene quindi e della sua esigenza, è aver cognizione della santità di Dio e della sua legge. L’organo ne è la coscienza. E la situazione, dalla quale il bene viene speci­ficato, è disposizione dello stesso Iddio, il gua­le con il suo comando preme sul cuore, affin­chè questo voglia accogliere in sè ed attuare il bene-santità. Fin dall’eternità il mondo è nelle mani di Dio. Dall’eternità Egli coordina il tutto e il singolo. Il singolo, affinchè con al­tri singoli costruisca il tutto; questo tutto poi, perchè diventi piattaforma, contenuto, com­pito per il singolo. Noi abbiamo rassomi­gliato il rapporto di ogni singolo con l’uni­verso ad un’ elisse. Essa ha due fuochi: uno sta in me, l’altro nel tutto, davanti e intorno a me. Ogni qual volta v’è un uomo che dice « io », si tende un nuovo rapporto fra i due fuo­chi. Che in tal modo l’universo e l’individuo entrino in vicendevoli rapporti, che l’ evolu­zione dell’universo e il mio sviluppo siano po­sti in relazione strettissima, per disposizione della sapienza e dell’amore di Dio, – questo non è altro che la Provvidenza. E la Provvi­denza di Dio entra in azione, continuamente, nella situazione. In essa si specifica l’infinita esigenza della sua santità. 

    La coscienza poi è la cognizione di questo rivelarsi e specificarsi del volere divino nella disposizione della Provvidenza.
    lo non sono un “caso” fra i tanti, ma qualche cosa di unico. Non sono soltanto indi­viduo, ma anche persona. Non porto in me soltanto un’ essenza generica, ma un’ essenza che ha l’impronta dell’unicità: un nome. Que­sto nome l’ho da Dio. Sono nel mondo, ma non mi confondo con esso. Con ciò che ho di più intimo vengo immediatamente da Dio e sto in rapporto diretto con Lui. Egli mi ha creato come questo tal dei tali. Questo nome che mi ha imposto non è racchiuso nel­la natura generica “uomo”. Non è affatto incluso nella compagine del mondo, e Dio solo lo sa. Per cui io posso conoscere il mio nome, conoscere cioè quello che ho di più mio, solo ricavandolo di là, dove è custodito, cioè da Dio. I vari strati del mio essere possono diventar realtà cosciente con più o meno facilità. Quanto più nobili e più profon­di, tanto più difficilmente. L’ultimo diventa reale soltanto nell’ incontro con Dio. Questa cognizione intorno a Dio; questa cogni­zione di ciò che intercede tra Lui e me sol­tanto; questo rivelarmi a me stesso al suo cospetto, è la coscienza nella sua ultima pro­fondità religiosa. lo debbo fare la mia parte nel mondo in corrispondenza al nome che da Lui ho ricevuto. E tale divento solo a patto di compiere la volontà di Dio a mio riguardo. Ma questa volontà mi vien presentata, di volta in volta, dalla situazione.
    Ciò trova la sua piena espressione cristiana nella rivelazione della nostra dignità di figli di Dio. Come questo tal dei tali io vengo crea­to e ricevo un nome; come questo tal dei tali vengo rigenerato e ricevo un nuovo nome; vengo battezzato per divenir figlio del padre. L’Apocalisse esprime ciò che qui mi viene dato, che rimane ancora occulto, ma un giorno diverrà manifesto, nella proposizione: «Voglio dargli un sasso bianco con su scritto il nuovo nome, che nessuno conosce, se non colui che lo riceve».
    Ora dobbiamo domandarci: Tutto questo è forse la cosa più naturale del mondo? È cosa ormai attuata e assicurata? che procede auto­maticamente?
    Evidentemente no; come risulta da tutta la nostra considerazione. Più d’una volta abbia­mo rilevato che la coscienza non è un appa­rato perfetto che funzioni senza bisogno d’al­tro, bensÌ qualche cosa di vitale, che diviene e cresce, come tutto quello che vive in noi. Noi stessi vi siamo dentro, con tutte le nostre manchevolezze. Perciò essa può divenir quel­lo che deve essere solo a poco a poco.
    Di qui la nostra odierna domanda: Que­sto divenire procede da sè? Ovvero possiamo contribuirvi in qualche modo? Che se lo pos­siamo, in tal caso anche lo dobbiamo. 
    Vorrei fissare un primo concetto: Ciò che ha ragione di termine e di proprietà in­trinseca non può venir fatto. Il perfeziona­mento intrinseco dena coscienza, dal punto di vista naturale, è cosa degli anni e dell’ espe­rienza; dal punto di vista della fede, è cosa della grazia.
    Anche per la coscienza si tratta in fondo di un processo di maturazione. Che il nostro sentimento per il bene diventi più robusto e più chiaro; che la coscienza della responsabi­lità in questo riguardo diventi più precisa; che il nostro fiuto del diverso valore della situa­zione si affini; che lo sguardo per il suo defi­nitivo significato e la capacità di ridurne il mol­teplice contenuto all’ unità della sua esigen­za e la forza di decidere e di mantenere la decisione presa diventino più sicuri – il progresso in tutto ciò è cosa della maturazione interiore, è cosa dell’esperienza. Poichè quan­to importante è l’aumento della sensibilità in­teriore, il raccoglimento e il consolidamen­to interiore, altrettanto lo è che noi rinno­viamo continuamente il nostro contatto con la molteplicità delle cose e degli avvenimenti. Con ciò noi veniamo in possesso di una gran quantità di imagini, immagazziniamo dei fat­ti e allarghiamo le possibilità di confronto. I nostri criteri di misura, i nostri punti di vi­sta, le nostre abitudini, attraverso la nostra esperienza, vengono passati continuamente al vaglio della critica, analizzati e corretti.
    Maturazione interiore ed esperienza este­riore si aiutano a vicenda. Lo stesso vale anche per la vita cristiana: l’avvicinarsi a Dio; la disposizione a lasciarci istruire da Dio; la serietà dell’intesa con Lui; il comprender sempre più profondamente se stessi nel dovere, che ci è imposto – tutto que­sto è frutto di maturazione e dell’ esperienza ad un tempo. Frutto di incremento naturale di vita, ma sovrattutto cosa della grazia. E la grazia dobbiamo tenerci pronti a riceverla e ad impetrarla con incessante preghiera. E non dimentichiamo che vi è un sacramento della coscienza cristiana: la Cresima. Nella Cresima veniamo dichiarati maggiorenni nel regno di Dio – la gotata è appunto l’antico simbolo giuridico, col quale il giovane veniva liberato dalla tutela. E i doni dello Spirito Santo ci vengono dati, amnchè nel mondo in­gaggiamo la nostra responsabilità per il regno di Dio.
    Che cosa dobbiamo fare dunque, da que­sto punto di vista? Dobbiamo purificare il no­stro interno. Dobbiamo diventare attenti e pronti. Dobbiamo fare il nostro dovere. In­terpretar la situazione e corrispondervi nel modo migliore possibile. Dobbiamo tener l’à­nima aperta all’esperienza. Vivere bravamen­te la nostra vita. Non isfuggir l’evento che ci viene incontro; a meno che la nostra co­scienza non ci dica che in questo caso la solu­zione della situazione consiste appuntò nella fuga. Dobbiamo accettare i casi lieti e tristi; anche i tristi e proprio quelli. In poche parole dobbiamo aprir le braccia alla vita, come Dio ce l’ha destinata. Dobbiamo trar profitto da questa vita – dalla nostra vita; dilatando, correggendo, illuminando noi stessi.
    E non stancarci mai di impetrare la chia­rezza della coscienza. Così pregava Newmann:
    “Ho bisogno che Tu m’istruisca, giorno per giorno,
    su ciò che è l’esigenza e la ne­cessità di ogni giorno.
    Concedimi, o Signore, la chiarezza della coscienza,
    la quale sola può sentire e comprendere la Tua ispirazione.
    I miei orecchi sono sordi; non posso percepire la Tua voce.
    I miei occhi sono offuscati; non posso vedere i Tuoi segni.
    Tu solo può affina­re il mio orecchio, acuire il mio sguardo
    e purificare e rinnovare il mio cuore.
    Insegna­mi a star seduto ai Tuoi piedi
    e a prestare a­scolto alla Tua parola. Amen».
    E allora l’una cosa riceverà luce dall’altra. Oltre a questo è però possibile un’altra cosa: l’esercizio.Sull’argomento ci sarebbe molto da dire.
    Tutto il problema della formazione della co­scienza, il problema della formazione della vita interiore, sta qui.
    Tutte le questioni: come render l’occhio capace di distinguer la varia moltiplicità del reale e dei suoi valori? Come svegliare e irrobustire la forza di pe­netrare e d’improntare la situazione? Come educarmi alla larghezza e nello stesso tempo alla precisione? Come prosciogliere a poco a poco gli strati profondi del mio essere, affin­chè diventino liberi ed entrino in azione?
    Qui si tratta dei compiti più importanti del­l’educazione. Da questo vasto campo scegliamo una cosa sola: l’esercizio del raccoglimento.
    Tutti i maestri della vita interiore ne par­lano. Si può dire che, sotto un certo aspetto, tutta la formazione morale e spirituale si rias­sume nell’esercizio del raccoglimento. Su che si basa quest’esercizio?
    Si basa sul fatto che il nostro essere vivente è costruito in due direzioni: dall’ interno al­l’esterno e viceversa. Sulla cognizione dunque che vi è in esso superficie e profondità, moto di espansione verso il largo e di concentra­mento verso il mezzo. Sulla cognizione inoltre, che quello che è interiore, profondo, al cen­tro, è più importante; che l’uomo però in­clina all’ esteriorità, alla superficialità, alla di­strazione; che perciò il compito più urgente sta dalla parte, dove maggiore è il pericolo. E si tratta di un compito veramente gran­de, che decide di interessi supremi. Di che si tratti qui possiamo forse esprimerlo nei termi­ni seguenti:
    Si tratta anzitutto della cella interiore.
    Questa cella interiore esiste; la sfera inte­riore, nella quale posso ritirarmi, nella quale mi posso occupare degli oggetti, e dove sono, da solo a solo, con me stesso; là dove vengon prese le decisioni vitali, dove mi trovo con Dio, alla Sua presenza, sotto il Suo sguardo… Questa cella esiste e può diventare più am­pia, più profonda, più viva, più tranquilla, più sicura.
    Tutto ciò non è così naturale, come potrebbe apparire. Se ci chiedessimo con since­rità: Ho io in me una tal « cella interiore»? Ho io questa sfera opposta alla semplice este­riorità, nella quale posso esistere e vivere? ­credo che dovremmo spesso rispondere nega­tivamente. Dovremmo confessare di avere la sensazione che in noi tutto sia chiuso, concre­sciuto e impenetrabile. Comunque non riconosceremmo certo il caso nostro in ciò che i maestri dicono del mondo interiore: della sua segretezza e tranquilIità, della sua gradazione in profondità, della pienezza della sua vita in­tima, della su potenza; della grandezza del­le sue decisioni… Ecco qui dunque un com­pito da assolvere. Bisogna creare, ampliare, munire di volta la cella interiore. Il mondo in­teriore deve venir dischiuso.
    Quello che abbiamo detto della cella inte­riore include già un secondo concetto: la profondità.
    Che cosa significa il dire: un uomo è « pro­fondo”? Non vuoI dire che i suoi pensieri sia­no complicati e difficili da capire; nemmeno che i motivi del suo agire siano occulti e le sue mete nascoste, o aIcunchè di simile. La profondità è una proprietà specifica. Possia­mo esprimerla soltanto metaforicamente, ma abbiamo la sensazione precisa di che si tratta. Profondità significa una dimensione speciale, diversa da « quantità», o « estensione», o « complicazione». È una stratificazione verso l’interno, e precisamente in maniera, che gli strati, quanto più interni, tanto più diventano preziosi, nostri, delicati, viventi. Il pensiero più semplice può esser profondo, e i senti­menti più complicati, superficiali; il sentimen­to più forte può esser superficiale e la più lie­ve impressione, profonda. Anche questa pro.­fondità va conquistata, e chi l’ha ricevuta in dono deve coltivarla. Quando conosciamo un uomo da bambino e poi lo seguiamo nella sua gioventù e così avanti secondo che procede negli anni; se egli vive onestamente e fa il suo dovere, allora notiamo che la qualità. Di cui si è parlato sopra, si afferma in tutto il suo carattere, nelle sue parole, nelle sue azioni.
    Facciamo un passo innanzi: l’interna vi­gilanza.
    La sensibilità e la perspicacia per ciò che è giusto; per la pienezza e la varietà dell’essere ,e della situazione; per le gradazioni e le sfu­mature della realtà e dei valori. Di nuovo an­che qui una cosa che non è cosÌ naturale, come potrebbe sembrare. Quasi quasi può dir­si naturale il suo contrario: la cecità e l’an­gustia dello sguardo, l’ottusità del senso inte­riore, l’indolenza del cuore. Quella vigilanza importa, che si avverta la potenza e la pie­nezza dell’esistenza, che si abbia in sè la pas­sione per il bene e per il dovere, che si soffra sotto il peso dell’ imperfezione; significa che interiormente qualche cosa sia sempre pronto a scattare verso ciò che è giusto e buono… Anche questa piena chiarezza, sensibilità, pron­tezza è un compito. 

    Ed eccoci al raccoglimento nel senso più stretto :
    Che tutta la molteplicità delle forze venga energicamente disciplinata da un punto inte­riore; che tutta l’attività abbia un solo punto di partenza e, per vie spesso nascoste, ad esso ritorni; che la vita abbia un centro e con ciò un ritmo… Anche qui, se ci chiediamo: «Ho io ciò? Ha la mia vita qualche cosa che assomigli a un centro? Ed è ordinata verso questo centro?” – la risposta difficilmente sarà soddisfacente. La nostra vita è tutta esterio­rità. Nella nostra vita domina il caso. Le cose esteriori, secondo che ci si avvicinano, ci attirano a sè. Noi siamo in balia di quello che ci tocca di bene e di male. Le nostre forze si disperdono in mille oggetti. Anzi molti uomini non hanno nemmeno la più lontana sensazione di un centro. L’ esperien­za del proprio centro è ben determinata c non vive certo in molti, altrimenti la nostra cultura avrebbe un altro aspetto. Dunque un altro compito anche qui.
    E finalmente si potrebbe accennare anche alla spiritualizzazione:
    Che in noi si irrobustisca lo spirito; lo spi­rito, che è qualche cosa di diverso dalle cose materiali; di diverso da ciò che è solamente corporeo; di diverso dalla vita puramente sen­sitiva. Quello che sta in rapporti speciali col bene, con ciò che deve essere, con la verità, con l’amore, con la purità, con Dio. Che que­sto spirito cresca nell’ uomo, è ciò che de­termina il nostro valore umano. Che lo spirito tutto compenetri; signoreggi la vita dell’istin­to e la passione; che si esprima in tutto – se guardiamo attentamente, è proprio da ciò che dipende tutto quello, di cui testè abbiamo par­lato. Cella interiore, profondità, vigilanza, rac­coglimento e centro – sono espressioni diverse per dire che in noi lo spirito è robusto. Anche questo però non è cosa che venga da sè. Pro­nunciamo una volta attentamente la parola « io »! Se da questo io, da quello che io ho e sono venissero eliminate le cose che posseggo, gli organi del mio corpo, le sensazioni dei miei sensi; se cancellassi i miei concetti, le mie co­gnizioni, le mie abilità – al di fuori di tutto questo resterebbe ancora qualche cosa? La do­manda è fatta molto all’ingrosso, ma il senso è chiaro. Se cancello tutto questo, mi rimane ancora quel resto, per il quale tutto il sopra­detto è soltanto materia strumentale e mezzo di manifestazione? Quella tal cosa intima che in tutto ciò vive, che in ciò raggiunge il suo de­stino, decide della sua sorte, si afferma o fallisce? Ciò, da cui, in definitiva, dipende la mia dignità e la mia salvezza? Certo, lo so, questa cosa la c’è è lo spirito, la mia anima spi­rituale… Ma non è vero forse per l’appunto che per lo più ciò lo so soltanto, ma non lo vivo? Che l’anima spirituale dorme con quello che ha di più intrinseco? Deve pur esser così, altri­menti gli uomini sarebbero diversi da quelli che sono.
    Molto di quello che possiamo fare, per tra­durre in atto tutto questo, è espresso nella pa­rola: esercizio del raccoglimento.
    Vogliamo parlarne alquanto a lungo, pren­dendo le mosse dall’esterno, per addentrarci poi sempre più verso l’essenziale. Ma qui poco ci gioverebbe, se’ dovessimo limitarci a pen­sieri generali. Al principio del nostro ritrovo ci siamo accordati di voler parlare di « ciò che dobbiamo fare». Perciò vorrei venire al pratico. Spetterà poi a voi di prender posizione in questo campo. Vorrei però ricordarvi che qui si tratta di cose dell’esperienza, delle quali, a sua volta, si può giudicare soltanto in base all’ esperienza. Che dunque premessa per un retto giudizio è il fare.
    La forma più ovvia del raccoglimento sa­rebbe certo l’ordine. Ordine della vita e del lavoro quotidiani, degli oggetti in camera e in casa, delle occupazioni nel corso della gior­nata e dei giorni; della lettura, dei pensieri e così via. L’ordine raccoglie.
    Ma di ciò basti un cenno.
    Più profonda è l’efficacia di quella che si po­trebbe chiamare l’educazione dei sensi e del­l’attenzione.
    Socrate ad un padre, che veniva a chiedergli consiglio a cagione di un suo figliuolo, disse una volta, sembrargli strano che gli uomini” mentre si guardan bene dal mangiar cibi gua­sti, sapendo che non è indifferente quello che introducono nello stomaco, non si facciano poi alcuno scrupolo di riempirsi l’anima di pen­sieri perversi. Questo è strano davvero. Noi abbiamo un’igiene del mangiare, ma non du­bitiamo neppure, che vi possa essere anche una igiene del vedere, dell’ ascoltare, del leggere. Dobbiamo lasciar entrare in noi proprio tutto? Facciamo una volta ]a prova: dopo aver attra­versata ]a città, passando per vie frequentate, davanti a persone e a vetrine, esaminiamo il nostro interno per vedere che aspetto abbia. Che guazzabuglio di impressioni! Che disordine di pensieri! Che altalena di emozioni e di desi­deri! Che inquietudine e che malcontento! Ed anche quante brutture! È proprio necessario che sia così? Qui è al suo posto ciò che l’ ascetica chiama la «custodia dei sensi», la disciplina dell’ attenzione.
    Esercitare il raccoglimento vorrebbe dunque dire che qui si intervenga. Che non si lasci en­trare tutto quello, che batte alla porta dei sensi e dell’attenzione; che si sappia distinguere fra il bene e il male, fra ciò che è nobile e ciò che è ignobile, fra quello che ha valore e ciò che non vaI nulla, fra quello che porta consapevolezza e ordine e ciò che crea soltanto confusione e trascina in basso. Un simile esercizio potrebbe dunque essere, a mo’ d’esempio, questo:
    Quando vado per le vie voglio rimanere pa­drone di me stesso e non permetto che ogni affisso attragga il mio sguardo. Conservo la mia indipendenza e non mi lascio attirare da ogni vetrina. Mi rendo interiormente indipendente da tutto quel tramestio di gente, di veicoli, di figure, di chiasso e di calca, e non permetto che il mio interno venga distratto da ogni cosa che abbia dell’insolito. In ciò mi esercito, e torno ad esercitarmi continuamente. Con tale esercizio apprendo l’arte di compiere un giro in città senza danno e di arrivare alla mia meta con coscienza incolume e tranquilla.
    Esercizio del raccoglimento sarebbe anche il non permettere che un giornale riversi nel mio interno tutto quel guazzabuglio di ciar­pame politico, di cenciume spirituale, di cro­naca nera e sensazionale, di vero e di falso, di bello e di volgare, di pettegolezzo e di al­tro ancora! Dovrei dunque apprendere a sce­glier dal giornale solo quello che mi riguarda, con rapidità e con sicurezza, e non appena esso mi ha reso questo servizio tutt’ altro che importante, buttarlo via e metter mano a qualche cosa che meriti maggiormente il nostro scarso tempo e le nostre scarse energie.
    Si potrebbe così esemplificare a lungo. Eser­cizio del raccoglimento significherebbe dun­que che di fronte al disordine del caso, alle pressioni dti destra e da sinistra, alla folla del­le impressioni e delle vicende, a tutto ciò che ci turba, ci eccita e ci inquina, sappiamo di­ventare indipendenti. Che di fronte a tutto im­pariamo a conservar la nostra calma. Che sap­piamo passare al vaglio le nostre impressioni. Che troviamo un piacere, anzi uno sport molto nobile, nell’ingaggiar la lotta contro la pre­potente barbarie chc ci circonda; la lotta per non essere lo zimbello del caos culturale che ci attornia, e per diventare al contrario liberi padroni di noi stessi.
    E non soltanto col vagliare le cose e col­l’eliminare di tutto ciò che non è nè utile nèbuono. Ma anche e innanzi tutto col rivolge­re la nostra attenzione interiore a qualche cosa di essenziale: ad un pensiero che va ap­profondito, ad una questione che va chiarita; ad un uomo, o ad una cosa che vogli~!mo ca­pire… Ma di ciò diremo di più fra poco.
    Ora facciamo un passo avanti e più adden­tro: eccoci alla solitudine ed al silenzio.
    Noi siamo schiavi non soltanto delle im­pressioni, ma anche degli uomini. Abbiamo istinti da mandra. So che esiste anche la misantropia e, certo, non è il caso di coltivarla. C’è il destino della solitudine, che non trova nessuno con cui possa convivere. Nemmeno di questo intendiamo parlare. Parliamo di qual­che cosa che non ha nulla di tragico, ma è invece estremamente miserabile, dell’istinto da mandra, troppo diffuso fra gli uomini; di quel bisogno di sentire intorno a sè sempre del chiasso; di dover sentir sempre chiacche­rare; di non saper riservar nulla per noi soli e di non saper da noi stessi venir a capo di nulla.
    Il raccoglimento sarebbe qui l’esercizio del­ la solitudine e del silenzio. Come sarebbe dunque a dire: Che non si corra subito da altri, ma si sappia rimaner soli. E non per altro motivo che per cavarsela Una buona volta da soli. Che si sbrighi una fac­cenda da soli, pur avendo alla mano qualcu­no da poterne discorrere; e ciò all’unico sco­po di acquistare una maggiore indipendenza di giudizio e di deliberazione. Esercizio del raccoglimento sarebbe il tener per sè una sto­ria o un avvenimento, o una trovata spiritosa, o un’ osservazione calzante, che corra alla men­te. Tutto ciò può costare del bel sacrificio. Ma superando questo istinto sfrenato di correr da altri, di parlare o di ascoltare a parlare, si gua­dagna in profondità interiore.
    Poi la ricerca della quiete e della solitudi­ne: scegliere la via più modesta, anzichè quel­la ricca di vetrine e di lampioni, fare un pas­seggio da solo, anzichè in compagnia; rima­nersene una sera tranquilli a casa, invece che andare in visita; rimaner soli una giornata in­tera, a casa, oppure, ciò che è particolarmen­te bello, all’ aperto. Forse addirittura alcuni giorni di ritiro. Tali periodi portano refrigerio e concentrazione. Se ne esce del tutto puri­ficati.
    E, a sua volta, che questa quiete sia ricm­pita con qualche cosa di positivo: con un buon pensiero, con un buon libro, con un proble­ma. Teniamo presente tutto questo. Torne­remo sull’argomento, per spiegarne il signi­ficato.
    Al di là di quello che si è detto conduce la tacita attenzione rivolta al proprio interno.
    Essa non è altro che un’inclinazione gene­rale a. sostare di tanto in tanto e a riflettere sulla portata delle cose, a sottrarsi talvolta all’incalzante tumulto delle cose che passano, e a tender l’orecchio a ciò che sta avvenendo. È un assuefarsi a dar degli sguardi retrospettivi, per esaminare il proprio operato; a ri­guardare il passato non come defÌnitivamente liquidato, per la sola circostanza esteriore ch’è trascorso, ma di farlo agire su di noi dai suoi strati più profondi…­
    Guglielmo Raabe dice una volta quali let­tori egli desideri per sè: «Ecco, egli dice, che si sta fabbricando una casa, e la gente che os­serva fa i suoi commenti. L’uno critica, l’al­tro loda, un terzo pensa come l’ ammobilie­rebbe se fosse sua. Ognuno considera la fab­brica in pietra e in legno e la valuta dal gu­sto e dall’utile che potrebbe cavarne. Ma c’èanche uno, il quale pensa qual vita si svolge­rà in quelle camere, qual destino, quali dolo­ri, quali gioie vi passeranno. Costui – dice il grande novelliere – che vede le cose in tal modo, è il lettore che mi desidero).
    Qualche cosa di simile intendiamo espri­mere anche qui. Una specie di gravitazione, vorremmo dire, verso l’interno; la quale non deve però ostacolare un’ energia consapevole, ma solo dare all’energia e all’azione un valore e un legame con l’interno.
    In altri termini si potrebbe dire: una spe­cie di attenzione rivolta all’ al di là. Rainer Maria Rilche esce una volta in questa profonda invocazione: « Dio, tu, mio vicino… « Sono in continuo ascolto, dammi un segno, « Ti sono assai vicina. « Solo una parete sottile ci separa…».
    Anche questo serve a render chiaro quello che intendiamo dire. Si può viver senza dub­bio anche altrimenti. Si può vivere assorbiti nell’attualità che si tocca con mano, affidati aUe sue ben note forze, nella chiusa èerchia delle cose visibili e dei fatti dell’ esperienza, e con ciò punto e basta. Si può però anche man­tener vivo in noi il pensiero che non è tutto qui. Che attiguo a noi, separato da una sola parete, abita l’Altro. Che lungo tutta la fron­tiera del nostro essere Dio ci è d’accanto. Si può tener desta la consapevolezza che nel no­stro proprio interno, là dove confiniamo col nulla, sta il Dio vivente.
    Quì non c’è nulla di particolare da « fare,,; non riflessioni e non sforzi speciali. Basta lo star sempre e tranquillamente in ascolto, un esser presenti a se stessi e un mantenere lieve­mente i contatti.
    Fin qui si trattava di premesse del racco­glimento. Veniamo ora al suo esercizio nel senso più rigoroso della parola. Esso può as­sumere varie forme, che però in fondo rie­scono tutte alla stessa cosa.
    E
    sso può consistere in quanto segue: Nelle nostre azioni e aspirazioni di tutti i giorni noi siamo trasportati dalla corrente im­petuosa degli avvenimenti. «Raccoglimento» significa qui l’uscire da questo vortice e metter­si in pace. Portar calma nel nostro essere, nelle nostre forze, nella nostra volontà. Far pene­trare la pace sempre più profondamente in noi stessi. Noi facciamo sempre questo o quello, siamo sempre in attività, progettiamo, voglia­mo, organizziamo, esercitiamo. Quando non facciamo niente, diventiamo nervosi e intorno a noi sentiamo il vuoto. La voce ha come un’eco cupa; ci si sente a disagio e ci si an­noia. E a forza di fare e di agire ammazziamo la nostra esistenza. Idolatriamo l’attività e perdiamo l’uomo.
    Raccoglimento significa qui che sappiamo, una buona volta, non tanto fare, quanto vi­vere. Avere un’ esistenza tranquilla. Un’esistenza piena, libera dall’ ossessione del fare e del volere.
    Noi tendiamo sempre ad una meta, poi ad un’altra ulteriore, e così di seguito. Sempre verso qualche cosa che non esiste. Sbrighiamo una cosa e la gettiamo dietro le spalle. Vivia­mo gli avvenimenti, rapidamente, e già essi non sono più. Così viviamo sempre scivolando fra quello che non è più e quello che non è ancora.
    Raccoglimento significa qui creare il pre­sente, sostare e divenir presenti. Presenti in noi stessi, realizzare l'”oggi” per quanto è concesso alla nostra instabilità; almeno averne l’intenzione e la disposizione. Vivere tranquillamente l’attimo fuggente è appunto raccoglimento.
    Le nostre forze sono disperse fra molti og­getti. La nostra attenzione viene attratta da mille cose. La nostra volontà e i nostri desi­deri sono incatenati in mille modi. Non siamo in possesso di noi stessi, ma in balia delle cose. La molteplicità delle cose è anzi penetrata in noi stessi, come ne fanno fede la varietà dei nostri pensieri, il contrasto dei nostri desideri, l’irrequietudine dei nostri sentimenti.
    Raccoglimento significa che richiamiamo noi a noi stessi; le nostre forze dalla disper­sione all’unità. Che superiamo la confusione e ristabiliamo una tranquilla semplicità. Che sgombriamo il guazzabuglio, per attenerci a pochi, forti e buoni pensieri. Che semplifi­chiamo i nostri desideri; impariamo a ripo­sare in noi stessi senza brame, a diventar tran­’luilli e sereni. Che apprendiamo ad esser pa­-droni di noi stessi.
    Il nostro interno è spesso oppresso da preoc­cupazioni, agitato da passioni e accascÌato dal. le contrarietà e dalle sofferenze.
    Quì il raccoglimento significa che interior­mente torniamo a noi stessi. Che in noi si levi qualche cosa di profondo, che a tutte que­ste cose per noi ripugnanti dica: « Questo ve­ramente non mi appartiene. Devo sopportar­lo e lo farò lealmente, ma non sono tutt’uno con esso. C’è in me qualche cosa al di là di tutto questo. Questo qualche cosa è sereno, è forte, è l’essere vivente del mio spirito. Que­sto vive in sè, realmente, nella sua indistrut­tibile sostanzialità. Raccoglimento significa che io cerchi il contatto con questo centro spiri­tuale vivente, il contatto da me stesso a me stesso. E che di lì attinga l’energia e la fiducia per rinnovarmi. Il Vangelo parla della luce interiore che. è in noi e può « rischiarar tut­to ». Questa non è immagine, è realtà. Lo spi­rito è luce sostanziale. E chi sa liberare lo spio rito, ne rimane illuminato. « Tutto il corpo illuminato», dice il Signore.
    Di questo passo si potrebbe continuare un pezzo…
    Ma non ci rincresca di venire al concreto.

    Come possiamo compiere quest’esercizio?

    La sera, quando abbiamo fornita la nostra opera quotidiana, potremmo ritirarci. Potrem­mo metterci a sedere; Meglio ancora se in gi­nocchio; perchè lo stare in ginocchio esprime quiete e insieme contegno. Poi potremmo crea­re il silenzio; intorno a noi e in noi. Potrem­mo poi dirci: “Ora sono tranquillo; perfet­tamente tranquillo; fino nel più intimo della mia anima”. Potremmo cercar di sgombrare del tutto il nostro interno e di metterci in una calma assoluta. Quando facciamo così, ci ac­corgiamo, e solo allora adeguatamente, quan­to sia profonda l’irrequietudine dei nostri ner­vi. Mille cose si affacciano e vogliono esser fatte. Cose dimenticate chiedono riparazione, preoccupazioni si affacciano, progetti si incal­zano… Via tutto questo! Bisogna acquistar la calma e non con uno sforzo di volontà, ma con una lenta liberazione interiore. E lasciar discendere il silenzio, sempre più giù, nel pro­prio io. I pensieri di tutte le specie – via! I desideri senza pace – via! Non con un atto im­perioso della volontà, bensì mettendoli silenzio­samente e insieme però anche risolutamente alla porta. Non pensare nè all’ieri, nè al domani. Essere del tutto presente, del tutto qui. E così sostare un po’; questo solo porta già risveglio interiore, padronanza di sè, ristoro e rinno­vamento.
    Ma poi, a misura che la nostra padronanza interiore diventa più sicura, dobbiamo portare in questo silenzio, in questa presenza a noi stessi, in questo raccoglimento, qualche cosa che venga dalla sfera del bene. Riflettiamo al significato di una nostra azione passata: che senso può veramente aver avuto? E vi abbia­mo fatto buona prova? O avremmo dovuto agi­re altrimenti? L’azione cattiva può venir ri­parata, in certo modo rigenerata, nel penti­mento e nella sincerità della conversione. Op­pure in questo silenzio portiamo qualche cosa che è ancor da fare: un dovere, un problema. Apriamoci al bene: « Lo voglio, sono pronto, sinceramente, fino nel più profondo delle mie viscere. Che debbo fare? ». In certe per­plessità, nelle quali non si sa a che santo votarsi – quando internamente ci si mette in calma” e si supera la ribellione contro il bene, non con la violenza, ma con una liberazione inte­riore e ci si mette in buone disposizioni – allo­ra, spesso tutto d’un tratto, si sa che cosa con­venga fare. Poichè quello che cagionava l’incer­tezza, non erano in fondo solidi argomenti in contrario, ma cattiva volontà. Oppure portiamo con noi nella nostra quiete una parola profon­da, un pensiero sostanziale, una buona lettura.
    Questa è la cella conveniente sovrattutto alla Sacra Scrittura: la cella della meditazione. Qui è la «dimora» per Iddio. Quando mi metto in pace e dico: lo sono qui, piena­mente presente – allora si affaccia quasi spon­taneo il pensiero: È qui Dio, il Dio vivente. Pregare significa elevare il cuore a Dio, signi­fica cercare il cospetto di Dio, con lo sguardo interiore, affinchè il movimento del nostro cuore e la parola del nostro spirito trovino il loro posto. Questa cosa profonda, che consiste nell’orientamento verso Dio, nel muoversi ver­so di Lui, e nel giungere presso di Lui, nel parlarGli a tu per tu – tutto ciò è frutto di un tal raccoglimento. « Quanto tu preghi, prepara il tuo cuore, e non essere come un uomo, che tenta Dio», dice la Scrittura. Chi si prepara in tal modo, sente sgorgare quasi spontanea la preghiera dal suo cuore.
    Quì convien far attenzione ad una cosa im­portante. Dell’ esercizio del raccoglimento si può anche abusare. Qui si tratta di realtà, di forze reali, di profondità reali. Queste forze possono venire evocate e cagionare anche dei guai; le profondità possono venir spalancate ed esporre a dei pericoli. Ciò può avvenire per­chè tali forze non vengono dirette ad uno scopo e allora cagionano rovina, come avviene di una sorgente che si faccia scaturire, senza poi incanalarla. Ovvero perchè tutto vien fat~ to per vanità; per dilettantismo, per capriccio, per avidità di sensazione, per qualche deside­rio di potenza. Le correnti occultistiche e pa­rapsicologiche sono spesso un criminoso gioco con tali forze. Quello che qui facciamo, dob­biamo farlo con moderazione e con calma. E – ciò che è di importanza decisiva – tarlo con intenzioni rette e pure. Quello stesso rac­coglimento, che rivolto, ad esempio, ad una parola della Scrittura, è sorgente di vita santa, cagiona gravi malanni, quando è ozioso e vano, oppure ha mire false e capricciose. La stessa concentrazione, che è fattore di ordine e di risveglio, quando, ad esempio, è unita al pentimento per un errore commesso e alla sin­cera disposizione di compiere un dovere futu­ro, crea invece della confusione, quando mira a qualche scopo perverso o fantastico.
    Questo raccoglimento è proprio il vero luo­go per la parola di Dio, la quale deve appun­to essere ascoltata in silenzio e in adorazione, accolta nella quiete profonda del cuore. Per­chè la parola di Dio non è una semplice co­municazione, ma anche una forza genera­trice di vita santa.
    Il raccoglimento è la dimora per Dio stesso. Così possiamo fare la sera. Così anche al mattino. Qui dieci minuti possono far molto. Tutto quello che si fa e si sopporta durante il il giorno riceve l’impronta di tutt’altra fiducia e purezza, quando promana da un tal racco­glimento.
    Così al mattino è bene riflettere: « Eccomi qui! Proprio io; colle mie forze; colla vigi­lanza del mio spirito; col calore e colla pron­tezza del mio cuore. Dio pure è qui presente. lo vengo da Lui ed ho la Sua grazia in me. La sua chiamata alla santità mi incalza nel mio interno, perchè la traduca in atto… lo so che mi accadrà questo o quello… ed ora af­fronto la mia giornata armato di quella forza interiore. Voglio far bene la mia parte ».
    Poi a sua volta, la sera, la resa dei conti in­nanzi al bene vivente, al Dio Santo: « Come ho passata la giornata? Ho dato ascolto alla voce del bene? Vi ho corrisposto? »… Rendi­conto, pentimento, rinnovamento del cuore… E poi abbandono totale nelle mani di Dio, che è il padrone di ogni riposo.
    E sarà bene che anche durante la giornata si torni a prender contatto, di tanto in tanto, con l’ ambiente interiore, che si rinnova ogni mattina e ogni sera. Anteo, figlio della terra, era invincibile, perchè, ogni qual volta toccava la madre, acquistava nuove forze. Così è an­che dello spirito. Sia come un tocco leggero alle porte di quel mondo interiore; special­mente quando ci si imbatte in qualche cosa di difficile e di imbarazzante, che esige il massi­mo sforzo. Ciò porta ogni volta ad un rinno­vamento del nostro slancio e delle nostre e­nergIe.
    Altre cose di questo genere rimarrebberò ancor da dire. Tuttavia quanto si è detto po­trà bastare. Tutto questo – e aggiunto a que­sto ancora ciò di cui abbiamo parlato al prin­cipio: l’interno e segreto processo di matura­zione del nostro essere, l’incessante lavoro del­l’esperienza, l’accettazione coraggiosa della vita quotidiana e di ciò che essa ci porta – tutto questo fa sbocciare a poco a poco dentro di noi il centro vitale; fa sì che lo spirito si rinvigo­risca e compenetri tutto il nostro essere; che la cella interiore si apra; che il fondo del no­stro io si richiari; e l’energia si concentri e di­venti efficace. E cosÌ la «coscienza» diviene a poco a poco quello che deve essere secondo la sua es­senza: la voce vivente della santità di Dio in noi.

     

     

     

  • 05 Mar

    SILENZIO E PREGHIERA

     

    SILENZIO E SOLITUDINE

    Il nostro rapportarci con gli altri, e quindi anche con Dio è costituito soprattutto da parole.
    Ma esiste un rapporto, un dialogo, più profondo, ed è quello che fa a meno delle parole perché queste vengono rimosse dal silenzio pregno di significato.
    Nella misura in cui progrediamo nell’intimità di una persona, e perciò anche di Dio, spariscono le parole perché non più necessarie in vista dell’incontro: il dialogo si attua attraverso il volto, lo sguardo.
    L’incontro è permeato di una sola parola pregna di amore e di silenzio. E’ un silenzio non vuoto né sterile, ma estremamente fecondo.
    Purtroppo viviamo in un contesto culturale in cui prevale l’esteriorità che si vuole creativa, ma che è solo proliferazione di stimoli di immagini e parole perché l’interiore è vuoto e fa paura.
    Questa proliferazione rivela il disagio della persona a rimanere con se stessa nel silenzio.
    Ma nello stesso tempo occorre che prendiamo coscienza di come spesso viviamo in un silenzio sterile, vuoto, triste, carico di rancore e risentimento verso noi stessi, gli altri, l’ambiente.
    Si tratta di un silenzio negativo, che ci ripiega su noi stessi: è una fuga dalla realtà e rivela l’incapacità di dialogo.
    Il silenzio autentico e fecondo non ci spinge al ripiegamento su noi stessi, ma ci apre alla realtà di noi stessi, agli altri e a Dio.
    E’ un silenzio che parla, che si pone in dialogo e ascolto, è fatto soprattutto di amore.
    Ogni vera parola è avvolta dal silenzio meditativo, la vera parola non è mai solo esteriore, ma promana dal silenzio del profondo del cuore.
    Solo a questa condizione essa è feconda. Tanta predicazione è vuota perché la parola non attinge alla fecondità del silenzio.
    Comprendiamo che il silenzio è indispensabile alla vita spirituale ve desideriamo porci in ascolto autentico, dialogico con la Parola che nel silenzio ci raggiunge: “La ricerca dell’intimità con Dio porta con sé la necessità veramente vitale di un silenzio di tutto l’essere, sia per coloro che devono incontrare Dio perfino in mezzo allo strepito, sia per i contemplativi” (Ev. Test. 46). 

     CONTEMPLAZIONE E COMBATTIMENTO

    Di Mosè il libro dell’esodo dice: “Il signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro” (Es. 33,11).

    Mosè è la figura di colui che “contempla faccia a faccia” il mistero di Dio. Tra lui e Dio intercorreva un dialogo intimo di amicizia e amore.
    Potremmo affermare che ogni orante quando si lascia “prendere”, “afferrare”, “mettere in catene dallo Spirito” (cf At 20), dalla vicinanza con Dio che è sempre travolgente, si trasforma, viene trasformato in un essere forgiato dalla forza, dalla purezza e dal fuoco dello Spirito (cf Detti: “Diventa tutto di fuoco”). E di questo i santi sono tutti testimoni.
    E’ significativo di come Dio esiga nei suoi incontri con Mosè una solitudine assoluta:
    – “Mosè avanzerà solo verso il Signore” Es 24,2
    – “Mosè salì dunque sul monte e la nube coprì il monte. La Gloria di JHWH venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La Gloria del Signore appariva agli occhi degli israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti” Es 24,15-18
    Dall’incontro con questo “fuoco divoratore” Mosè esce col volto trasfigurato e abbagliante: è il segno dell’incontro avvenuto con l’inaccessibile: “Quando Mosè scese dal Monte Sinai… non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui” Es 34,35.
    La prima considerazione allora è data dal fatto che Mosè “estremamente impegnato” nella sua opera a favore del popolo fu un uomo che come pochi coltivò una contemplazione fatta di silenzio e di solitudine.
    Così Elia, il profeta di fuoco, fiamma devastatrice e purificatrice, dalla tradizione è chiamato l'”Uomo di Dio”. Anche per lui è indispensabile entrare nel silenzio e nella solitudine per incontrare JHWH: “Vattene di qui, dirigiti verso oriente, nasconditi presso il torrente Kerit” (1Re 17,6).
    Caratteristica sua sarà il non avere una dimora, una casa di pietra: sua abitazione è la solitudine del deserto come per san Giovanni battista.
    Ed è nel deserto del Monte Oreb che egli farà l’esperienza del Dio terribile che si manifesta nella brezza (cf 1Re 19,8-18).
    L’unica sua preoccupazione ed interesse è la gloria di Dio. Ed è per questo che la potenza, la forza, la determinatezza del Signore si manifestano nei suoi gesti e nelle sue parole.
    Profeta di JHWH diviene strumento docile nelle sue mani perché la sua vita è un continuo ritirarsi nella solitudine per dimorare con Dio, e un andare agli uomini per essere annunciatore della vera fede. 

    IL VERBO SILENZIOSO

    Anche la venuta del Verbo nel mondo contempla fasi di grande silenzio.
    – L’Incarnazione è il momento dell’umiltà, del nascondimento, del silenzio.
    – La sua nascita avviene di notte, “mentre il silenzio avvolgeva ogni cosa e la notte era a metà del suo corso”.
    – Nazaret: trent’anni di inspiegabile e sconcertante silenzio  e nascondimento (solo un versetto nel vangelo!)
    – Il suo ministero: un alternarsi di parole e di silenzio contemplativo e adorante.
    – La sua passione: Gesù accusato tace
    – la sepoltura: il silenzio della morte
    – la risurrezione: avviene nel silenzio del primo mattino. “Beata sei tu o notte che sola conoscesti l’ora” (Preconio pasquale).
    Possiamo aggiungere il silenzio del sacramento eucaristico: un povero segno che rimanda alla fede, all’apertura degli occhi del cuore come per i discepoli di Emmaus. 

    CONTEMPLAZIONE

    Nel silenzio consapevole che ci pone dinanzi a Dio e a noi stessi la nostra vita viene trasformata, rettificata. La presenza di Dio dissipa tutto ciò che vi si oppone.
    La contemplazione fa sì che tutto ciò che era oggetto di una fede, in un certo senso staccata da noi (quae creditur), diventi oggetto di un’esperienza vitale, totalizzante, misteriosa ma realissima (qua creditur).
    E’ a questo livello che si comprende. Si tratta di una comprensione del cuore più che di intelletto.
    Nella contemplazione ci rendiamo consapevoli di come la nostra stessa esperienza di Dio sia sempre parziale, mai posseduta: essa è spesso presentimento e pregustazione.
    Impariamo così a porci dinanzi al Padre nel silenzio umile e adorante limitandoci a guardare con amore sapendo di essere a nostra volta guardati con amore attraverso gli occhi del Figlio crocifisso.
    Potremmo definire la contemplazione come una operazione spirituale sintetica, totalizzante, affettiva e unificante. 

     CHIAMATI ALLA CONTEMPLAZIONE

     Ogni uomo è chiamato in forza della sua natura di creatura intelligente alla contemplazione. Afferma a questo proposito la Gaudium et Spes 18: ” Dio chiama l’uomo ad aderire a lui con tutta intera la sua natura, in una perpetua comunione con l’incorruttibile vita divina“.
    Chiamati ad aderire a Dio! E questo tramite l’amore, la conoscenza, l’impegno e l’abbandono in lui.
    E quando parliamo di contemplazione dovremmo sempre unire due termini: l’adesione del cuore e la conoscenza ella mente.
    Nella Scrittura  il “conoscere” non equivale al semplice sapere, ad una cognizione puramente intellettuale; esso esprime sempre una relazione esistenziale fra chi conosce e l’oggetto o la persona conosciuta.
    Conoscere Dio comporta l’entrare in relazione con lui, l’immergersi nella corrente della sua vita, che procede da Dio e a lui ritorna.
    Paolo VI in un discorso pronunciava queste parole: “Che Dio esiste, che è reale, che è vivente, che è personale, che è provvido, che è infinitamente buono, nostro creatore, nostra verità, nostra felicità; in tal modo che lo sforzo di fissare in lui lo sguardo e il cuore, ciò che chiamiamo contemplazione viene ad essere l’atto più alto e più pieno dello spirito, l’atto che oggi può e deve gerarchizzare l’immensa piramide dell’attività umana”.
    Nella contemplazione l’immagine di Dio è estremamente semplificata, riducendosi ads un accostarsi al suo mistero in purezza essenziale di fede.
    Le parole meditative, discorsive, della nostra preghiera portano con sé frammenti, particelle di dio, solo la contemplazione silenziosa che non si serve di parole, ma è puro sguardo totalizzante, può tentare di abbracciare l’infinito e l’incomprensibile.
    Il Siracide domanda: “Chi lo ha contemplato e lo descriverà? Chi può magnificarlo come egli è?” (43,32). 

    IN PIENEZZA

    Dio “chiama l’uomo ad aderire a Lui con tutta intera la sua natura” (GS).
    Il nemico della contemplazione è dunque ciò che vi è contrario, ovvero la dispersione, la molteplicità.
    Dispersione è il frantumarsi dell’io in mille direzioni contrastanti. Il suo contrario è la “con-centrazione”, l’essere tratto in un sol luogo, è ciò che permette di ritrovare se stessi, cosa impossibile nella dispersione.
    Attraverso la concentrazione ci è possibile incontrare Dio al centro di noi stessi, come nostra sorgente. Infatti l’uomo percepisce il suo essere, il suo esistere quando diviene consapevole di se stesso.
    Ma il più delle volte non siamo in noi stessi, perché spezzettati in mille direzioni.

    Sintesi di: I. Larannaga, Mostrami il tuo volto

  • 04 Mar

    7

     VERSO IL CENTRO

      

    5 Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». 6 Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. 7 Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». 8 Gli disse Filippo «Signore, mostraci il Padre e ci basta». 9 Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? 10 Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. 11 Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse. 

    Il nostro cammino spirituale non ci porterà mai a contemplare in pienezza, qui nella nostra vita terrena, il volto di Dio.
    Egli rimarrà sempre al-di-là, nascosto nella luminosa ed oscura nube.
    Infatti l’essenza di Dio è inoggettivabile, la rivelazione è dunque pura grazia, è “follia d’amore”, per usare un’espressione di san Massimo il confessore: Dio rimarrà sempre trascendente pur nella sua vicinanza, nascosto, ma non come tenebra interdetta, ma bensì per l’intensità della sua stessa luce.
    Ma è proprio questa inaccessibilità di Dio che permette la distanza positiva in cui può svilupparsi il dialogo, l’amore, il rinnovarsi della comunione e dell’alleanza.
    Quanto più sperimentiamo questo Dio nascosto tanto più lo desideriamo: “Quando vedrò il volto di Dio?” (Sal 41, 3): perché io non reggo più alla violenza del desiderio, ma cerco la bellezza immortale che tu mi avevi largito prima di questo fango” (Giovanni Climaco, Sc. Parad., 29,2).
    L’anelito che percorre la sacra scrittura è di vedere, contemplare, il volto così inafferrabile e misterioso di Dio: “Ascolta, Signore, la mia voce: Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. Di te ha detto il mio cuore: Cercate il suo volto. Il tuo volto Signore io cerco” (Sal 26,7-8).
    L’apostolo Filippo domanderà a Gesù durante l’ultima cena: “Signore, mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14,8).
    Il desiderio del volto di Dio è disseminato lungo la storia nella testimonianza dei santi: un’espressione lapidaria del teologo-mistico sant’Anselmo dice a tal proposito: “Io cerco il tuo volto. Eccomi davanti a te, come un povero, un mendicante e un cieco come tu mi vedi, io che non ti vedo“.
    Io che non ti vedo grido a te: Mostrami il tuo volto!
    E per volto intendiamo la presenza vivente, il volto è ciò che contraddistingue una persona dall’altra, è espressione del suo essere. E’ desiderio di comunione (cfr. la filosofia personalista di Levinas).
    Nei confronti di Dio tale presenza si stabilisce quando fede e amore rendono la relazione dell’anima con Dio più profonda e intima.
    Fede e amore uniti fanno sì che i lineamenti del dio che si è rivelato si percepiscano più chiari e più vivi, e per chiarezza non intendiamo alla “forma” di Dio, che è senza forma, ma alla densità e certezza della sua presenza.
    La nostra ascesi deve tendere a vivificare la presenza di Dio in noi, negli altri e nella realtà.
    Certi che “Dio è sempre presente, più intimo a noi di noi stessi” (S. Agostino).
    Il Salmo 139 potremmo definirlo la preghiera di colui che è giunto alla sconcertante presenza di Dio ovunque: inutile sfuggirgli. Dio è presente in lui, fuori di lui, a ovest e a est, nel sommo del cielo e nelle profondità oscure dello Scheol. Un testo del Corano potrebbe commentare così: “A Dio appartiene l’oriente e l’occidente, ovunque vi volgiate, ivi è il volto di Dio” (2,115).
    Dio si comunica a noi, comunica la sua grazia, le sue “energie”: è il dono della sua stessa vita che ci divinizza.
    Ma questa intimità di vita non è simbiosi, non è fusione o scomparsa di identità: si tratta di una presenza e comunione che vivifica ponendo nella libertà, in un continuo atto creatore verso ciascuno colto nella sua unicità.
    L’interiorità è lo stato in cui si può percepire l’inabitazione del divino in noi.
    Dio dimora in noi trasformandoci in suoi templi: “Indicibile è la tenerezza di Dio. Si offre da sé a coloro che, con tutta la loro fede credono che Dio può abitare il corpo dell’uomo e fare di lui la sua gloriosa dimora” (Pseudo Macario Omelia 69).
    Le persone che vivono non a un livello spirituale ma ad uno più superficiale, fisico, determinati come sono dai sensi non sono in grado di intraprendere una autentica esperienza religiosa.
    E’ solo col coraggio di penetrare nella “profondissima e amplissima” caverna del nostro cuore che potremo rintracciarvi il passaggio del volto di Dio.
    Al centro dell’anima vi è Dio; quando l’anima vi si sarà avvicinata secondo tutta la capacità del suo essere, e secondo la forza della sua operazione ed inclinazione, essa avrà raggiunto l’ultimo e più profondo suo centro in Dio, cioè quando con tutte le sue forze intende e ama e piace a Dio” (Giovanni della Croce, FVA, b1,1).
    La salita alla vetta dell’Oreb è la corrispettiva discesa nel profondo del nostro cuore: qui troveremo il misterioso roveto ardente, presenza umile e misteriosa dell’Assoluto.
    Più il nostro amore sarà vero e profondo, più potremo avvicinarci a piedi scalzi e col viso coperto a quello “strano spettacolo” che vive nel profondo di noi stessi: 

    UNO SCAMBIO DI AMICIZIA

              Nella nostra esperienza di “scambio di amicizia” con Dio non procediamo secondo conoscenze intellettive, bensì intuitive.
              L’incontro con l’andar del tempo tende a divenire sempre più semplice e profondo, nella semplicità e profondità di Dio stesso.
              Le nostre riflessioni, concetti, tendono a sparire per lasciare il posto ad una conoscenza amorosa.
             L’autentico contemplativo non è colui che è in grado di innalzare la sua mente mediante riflessioni teologiche e spirituali di alto grado, ma è colui che nella più grande semplicità di cuore e unità di mente, in modo totale, si pone e si sente in Dio e con Dio: noi in lui e lui in noi.
             E’ conscio della verità di quella parola della Scrittura che dice: “In Dio viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28).
             Non occorre più “immaginarsi” Dio: poiché egli è qui con me e in me. Si tratta di una esperienza immediata, di fede, di cui parla san Giovanni della Croce.
             Nell’incontro con Dio non rischiamo, come nelle religioni orientali di perderci o confonderci in lui: nell’incontro con il Dio biblico l’uomo avverte in modo vivissimo la coscienza della diversità tra lui e Dio (l’uomo si sente sempre “miserabile peccatore“).
             Frutto dell’incontro con Dio è l’esperienza dell’unificazione. Intesa come forza di un amore che tende ad abolire ogni ostacolo.
    Negli scritti di santa Teresa di Gesù Bambino troviamo magnificamente espressa questa esperienza: “Non eravamo più due. Teresa era sparita come la goccia d’acqua si perde nel fondo dell’oceano. Soltanto rimaneva Gesù, Signore e re“.
    “L’unificazione, che è opera della povertà nella solitudine rimargina tutte le ferite dell’anima e le risana” (Thomas Merton, Pensieri nella solitudine).
    Ma come già detto tale unificazione che si opera in noi al momento dell’incontro favorisce la chiara distinzione tra noi e Dio. 

    TRASFIGURAZIONE

     L’incontro profondo contemplativo opera in noi un’azione trasformante: la teologia orientale parlerebbe qui di divinizzazione.
    Questa trasformazione-trasfigurazione-divinizzzazione dona sapienza, verità e pace al nostro essere, poiché veniamo trasformati ad immagine di Cristo Dio.
    Ci rendiamo allora conto che tutto ciò che ritenevamo importante, decisivo, degno di stima a confronto di tale chiamata da “ritenere come spazzatura”.
    L’incontro con Dio, con la sua parola che è spada a doppio taglio, ci purifica, ci spoglia, annienta i piccoli e i grandi idoli, fa rilucere la vera ed eterna realtà, ci introduce nello spazio della libertà dei figli di Dio.
    Il più grosso ostacolo è il nostro “ego”, inteso come immagine distorta ma spesso adorata di noi stessi e della realtà.
    Continuamente siamo tentati di trasformare questa immagine in idolo, il quale domanda tanti sacrifici:
    Durante la nostra vita il compito più arduo e faticoso consiste in questa contrastante lotta di desiderio di idolatrare l’immagine di noi stessi e di temere che questa “statua” venga abbattuta (ma ci pensa Dio prima o poi a disintegrarla, non fosse altro che al momento della morte…).
    Una forte esperienza di Dio spezza questa illusione.
    Dio è geloso, non vuole dinanzi a se nessun altro idolo:
    Sono io il Signore tuo Dio”
    “Ascolta Israele, il Signore Dio è uno”
    “Non avrai altri dei dinanzi a me”
             Dio è fuoco, vento impetuoso, tempesta e terremoto, sconvolge e fa sussultare gli abissi e le fondamenta della terra: così il Signore smantella ogni nostro falso idolo quando lo incontriamo in verità.
    I vangeli apocrifi raccontano che quando Cristo bambino entrò nell’Egitto in fuga da Erode le statue degli idoli pagani furono divelte e abbattute, frantumandosi a terra.
    L’esperienza di Dio fa cessare al falso Io di esistere, di ergersi quale dio dinanzi al vero Dio. Smantellando la falsa immagine il Signore ci restituisce alla libertà dei veri figli.
             E’ questo l’inizio della trasfigurazione: quando Dio strappa via le maschere, spoglia l’io dei suoi paludamenti menzogneri, e il figlio si scopre puro, libero, vuoto, trasparente, nutrito di pace, ricolmo di ricchezza.
    E’ l’esperienza di chi, mediante l’azione della grazia, ha raggiunto la riconciliazione con se stesso, gli altri, il mondo e Dio. È la pacificazione di cui tanti santi danno la loro testimonianza (Serafino di Sarov, Francesco d’Assisi…).
    Tutte le cose riacquistano la purezza originale: sparisce ogni motivo e forma di angoscia e tristezza. Nel cuore regna la pace, la luce: l’esichia.
             La contemplazione di Dio fa sì che nella persona si avvii un processo di semplificazione  e unificazione, ad immagine di Dio che è estremamente semplice e “uno”: si diventa ciò che si contempla.
    L’unione con Dio ci fa partecipi di questi attributi divini.
    Nella semplicità e unità di vita vengono superate tutte le angosce e tutte le paure.
    Ogni timore è nella fede superato
    La sofferenza è affrontata nella speranza.
    Se per Aristotele il “tempo è misura del movimento delle cose”, nell’incontro con Dio cessa il movimento, cessa in un certo senso lo scorrere inesorabile e ansioso del tempo, si è già nella dimora luminosa della quiete ed eternità di Dio.
    La contemplazione è un assaporare in anticipo l’eternità, è un pregustare il regno.
    Una quiete ed una eternità che non sono statiche, immobili, impassibili ma permeate, vibranti, del meraviglioso dinamismo d’amore della vita trinitaria che si diffonde in ogni istante e in ogni esistente. 

     TESTI

    Gv 16,6-11
    Sal 139
    Sal 42

    sintesi di: I. Larranaga, Mostrami il tuo volto

  • 04 Mar

    L’INCONTRO

     

     9 Elia entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco il Signore gli disse: «Che fai qui, Elia?». 10 Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita». 11 Gli fu detto: «Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore». Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. 12 Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. 13 Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: «Che fai qui, Elia?». 14 Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita». (1 Re 9, 9-14) 

    P. Charles de Foucauld nel silenzio e nella solitudine del deserto scriveva: “Signore Gesù… pregare è guardarti, e poiché tu sei sempre là non posso forse io, se ti amo veramente, guardarti sempre senza interruzione? Colui che ama può fare diversamente dall’avere i suoi sguardi rivolti a Colui che ama? Insegnami ad adorare mio Dio, in questa solitudine, in questo raccoglimento”.
    Nella vera adorazione scompare tutto il mondo, e si rimane soli: Dio e me. I miei occhi puntati unicamente sul mistero.
    Nell’atto vero di adorazione si è soli. E’ questa la condizione affinché si attui un vero incontro.
    Continua C. De Foucauld, da vero esperto di adorazione: “Non conosco niente di più dolce delle ore passate davanti al tabernacolo, in profonda solitudine esteriore. Sentire Dio così vicino a sé, e sentirsi soli con lui nell’immensità e bellezza della sua creazione che riflette la sua bellezza“.
    E’ indubbio che ogni incontro fra due persone esiga intimità, un “recinto chiuso”. Nel vangelo troviamo l’invito di Gesù: “Quando pregate non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini… Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera, e chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto” (Mt 6,5-6).
    Questa camera, questa porta chiusa designano uno spazio nuziale ove avviene l’incontro, nell’intimità.
    Ogni realtà decisiva avviene nella solitudine: nella solitudine ogni uomo è chiamato a rispondere personalmente; le grandi decisioni si prendono da soli, si soffre da soli, il peso di una responsabilità è il peso di una solitudine, si muore da soli e… così anche l’incontro col Signore avviene nella solitudine: “La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,16).
    Ma come arrivare a questo incontro nell’intimità? 

    Al di là dell’evocazione

     Il Signore è sempre più in là di ogni evocazione che risveglia la mia memoria.
    Ovvero Dio non corrisponde mai all’immagine che ci siamo fatti di lui, questa sarà sempre e solo un’evocazione.
    Si racconta che una volta ad un santo venne dato il dono di parlare la lingua delle formiche. Egli si avvicinò a una che aveva l’aria della studiosa e chiese: “Com’è fatto l’Onnipotente? E’ in qualche modo simile alla formica?”. La studiosa riflettè un attimo e poi disse: “L’Onnipotente?… Certamente no! Noi formiche, vedi, abbiamo un solo pungiglione. Ma l’Onnipotente invece, Lui ne ha due!”.
    Questo è quanto accade anche a noi quando vogliamo far corrispondere l’evocazione alla realtà.
    Devo pormi nell’atteggiamento nell’incontro di saper far scomparire ogni mia immagine affinché l’Evocato appaia nel suo mistero, nella sua nube oscura. Dio è sempre al di là di ogni nostra immagine riduttrice, tipica della ricerca religiosa infantile.
    A motivo della trascendenza di Dio, della sua inconoscibilità, e a causa della nostra debolezza, noi rivestiamo Dio di immagini e di concetti.
    Unitamente alla tradizione esicasta potremmo affermare che la trascendenza di Dio è dovuta alla debolezza dell’uomo e alla natura stessa di Dio.
    Dio è inconoscibile per essenza, Dio è più di “Dio”. Un testo classico del V sec., di Dionigi Areopagita commenta: “Esercitati incessantemente nelle contemplazioni mistiche, abbandona le sensazioni, rinuncia alle operazioni intellettuali, respingi tutto ciò che appartiene al sensibile e all’intelligibile, spogliati totalmente del non-essere e dell’essere, e innalzati, per quanto puoi, fino ad unirti nell’ignoranza a colui che è al di là di ogni essenza e di ogni sapere” (Teologia Mist., I,1).
    La rivelazione ci invita a fare adorazione in ogni luogo in Spirito e verità (Gv 4,23), questo comporta lo smantellare tutti gli orpelli di cui siamo tentati di rivestire il Signore, che, se non sono falsi, sono certamente sempre imperfetti e ambigui: “E’ qui o su di un altro monte che dobbiamo adorare il Signore?“.
    Ecco allora che possiamo giungere ad una tappa fondamentale nel cammino spirituale: rivestire il nostro incontro con Dio di silenzio.
    Ogni parola ha sempre il peso di un tradimento. Il silenzio dinanzi al Mistero è atteggiamento sapienziale: “Sta in silenzio davanti al Signore” (Sl 36,7).
    Si tratta del silenzio di ogni nostra immagine. E’ il silenzio nel quale Dio rifulge come luce assoluta. Silenzio è allora andare al di là di ogni visione della mente e del corpo, è penetrare nella notte silenziosa: “O notte beata che vedesti congiungersi l’amato con l’amata” (N.O.) Notte che è simbolo ed esperienza di una presenza vicina ma inafferrabile, notte in cui l’inaccessibile si dona e intanto sfugge. Comunione notturna del Dio nascosto e dell’uomo nascosto in Dio. Questa tenebra è “più luminosa” del sole, tenebrosa per eccesso di luce.
    E la tenebra, pur non escludendo la Parola, raggiunge il silenzio nel cuore stesso della Parola.
    Nella notte divina entriamo “chiudendo gli occhi, rinunciando ai nostri sguardi dispersivi, oggettivanti, possessivi, imparando a guardare dentro, con gli occhi chiusi nell’abbandono dell’amore” (O. Clement). 

    L’ultima stanza

     La solitudine non è l’isolamento. Questo è negativo e da evitare. La solitudine al contrario è percepire e accogliere il mistero della mia esistenza alla luce del più grande mistero.
    Ed è nel silenzio che mi è dato di percepire il mistero della mia solitudine: “L’amico del silenzio si avvicina a Dio. In segreto si intrattiene con lui e riceve la sua luce” (G. Climaco, Sc. Par., XI,5).
    E’ fondamentale per la nostra maturazione umana e spirituale percepire ed accogliere (non sempre è così facile… ) la propria solitudine, ovvero la nostra unicità. Ma senza questo fondamentale passaggio di differenziazione l’incontro con il Tu risulta quanto mai problematico.
    E’ condizione inalienabile porsi soli dinanzi a Dio, ma se non lo si vuole? O meglio quante volte fuggiamo o fingiamo? Ma facendo questo non solo fuggiamo dal mistero di Dio ma dal nostro stesso mistero, ne abbiamo paura o tuttalpiù non lo abbiamo ancora scoperto.
    E’ un dato di fatto che siamo in cammino, un cammino nel deserto verso il Monte di Dio. Non potremo mai sederci e dirci: Sono arrivato finalmente! Un altro tratto di strada mi si apre sempre inaspettatamente dinanzi. Ciò è un appello alla mia libertà; scelgo se camminare (=crescere) o sedermi, rifiutando la fatica (= ripiegamento, regressione).
    Si tratta di un cammino che per salire a Dio deve prima discendere in noi, nel cuore. La salita di Mosè al monte Sinai è la discesa nostra nel cuore. E questo perché rechiamo lì l’immagine e la somiglianza con Dio (cf Gn 2), in noi vi è la scintilla del divino, nella nostra interiorità-solitudine. Ed è qui perciò il “luogo” dell’incontro con il Signore: “Nel deserto parlerò al suo cuore” (Os 6).
    E’ importante allora che questo luogo di solitudine, per poter essere luogo di intimo incontro, non sia popolato da altre realtà estranee a Dio: l’incontro potrebbe non avvenire mai!
    Questo luogo di incontro, il nostro cuore, chiede di essere naturalmente “riempito” di Dio, al contrario si avvertirà una solitudine vuota, un isolamento tragico e tremendo nemico all’uomo.
    Dio attende ciascuno in questo spazio di solitudine, in questo abisso del cuore, il “fondo dell’anima” dei mistici renani.
    Il cuore è la tenda, il santuario, il tempio, nel quale abita la Presenza (Sekinäh) e dove la Gloria (Kabod) si posa come la nube. In esso sta il vero tesoro: dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Jacques Serr).
    E’ da prendersi in considerazione che nell’uomo esistono  diversità di livelli di interiorità.
    Ma al di là di tutti questi livelli l’uomo spirituale percepisce l’esistenza di una “caverna nel cuore”, di un fondo dell’anima, di un’ultima stanza, di un intimo recesso del proprio cuore: qui nessuno può entrare eccetto Colui che entrando a porte chiuse non occupa alcun spazio.
    La filosofia medievale definiva l’uomo come “l’ultima solitudine dell’essere“. E’ percezione di ciascuno di essere unico, di essere solo, differente dagli altri. Questa percezione che costituisce un fattore di crescita continua che parte dall’infanzia, deve essere sempre più coscientizzata facendo zittire tutto l’essere esteriore che spesso vorrebbe sfuggire a questa constatazione.
    Potremmo allora affermare che: la percezione di noi stessi come solitudine è il risultato di una ricerca di autentico silenzio.
    Scriveva s. Bernardo: “Sono molte le scienze coltivate dagli uomini; ma nessuna è migliore della scienza con cui l’uomo conosce se stesso. Per questo ritornerò al mio cuore e mi renderò familiare il dimorarvi, in modo da esaminare la mia vita e conoscere me stesso”.
    P. Evdokimov dice: “Il silenzio è l’avvento, il tempo (e il luogo) dell’attesa benché scenda la notte. Nell’attesa dell’inatteso un immenso sospiro di silenzio avvolge la terra di pace: tutto è tuo, Signore, io sono tuo, accoglimi”

    Entra e chiudi la porta

      Perché ci possiamo predisporre all’incontro con Dio ci è necessaria un’attenzione aperta e pura, purificata da tutte le realtà che ci distolgono e disperdono.
    Quanto più le creature tacciono, quanto più è spopolata la nostra mente, tanto più puro e profondo potrà essere l’incontro.
    Il grande mistico dell’incontro, s. Giovanni della Croce ci ricorda: “Imparate a starvene vuoti di tutte le cose, le interiori e le esteriori e vedrete come io sono Dio” (SMC 1,II,15.5). Un detto della tradizione indù invita ad un’esperienza simile: “Diventa come una canna di bambù, cava, vuota dentro. E non appena sei diventato come una canna di bambù cava, vuota dentro, le labbra divine ti si accosteranno, la canna di bambù diventa un flauto e la canzone ha inizio“. 

    Testi

    1 Re 19,1-18
    Mt 6,5-6
    Os 2,16-25
    Es 24,12-18; 33,7-23

    sintesi da: I. Larranaga, Mostrami il tuo volto

  • 03 Mar

    5 

    IL TEMPO DI DESERTO

     Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato,
     il Signore mi ha dimenticato».
    Si dimentica forse una donna del suo bambino,
     così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?
     Anche se queste donne si dimenticassero,
    io invece non ti dimenticherò mai.
    Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani,
    le tue mura sono sempre davanti a me.
    (Is 49,14-16)

    Quando la distrazione non è un atto passeggero bensì una impossibilità completa di concentrarsi nel Signore, e se questa si prolunga per un certo tempo allora si chiama aridità spirituale.
    Questa aridità produce spesso depressione, tristezza e desolazione. E per superare e vivere questi periodi occorre più coraggio che per altri lavori prestigiosi di questo mondo.

    Cause

    1.       Un attivismo incontrollato che scompone l’unità interiore.
    2.       La natura stessa dell’orazione che è fatta di momenti di aridit�
    3.       Situazioni patologiche e fisiche e psichiche
    4.       Squilibri emozionali
    5.       Una prova permessa dal Signore.

    Sono convinta che il Signore, prima di arricchire le anime coi suoi grandi tesori, mandi loro questi tormenti e tutte le altre tentazioni che si soffrono, per provare se lo amano davvero e vedere se potranno bere al suo calice e aiutarlo a portare la sua croce” (s. Teresa d’A., Vita, XI,11).

    Rimedi

    L’aridità non si vince a forza di braccia: “Se in queste circostanze si insiste a fare per forza è peggio, e il male dura di più” (s. Teresa d’A.).
    Che cosa allora occorre?
    Pazienza:            accettare i nostri limiti. L’aridità la si vince abbandonandisi. Si tratta in questa situazione di perseverare nella preghiera, facendo del nostro meglio, non preoccupandoci dei risultati o delle emozioni.
    Speranza:            essa ci dice che la nostra situazione non è definitiva, ma sempre transitoria (senza preoccupandoci della sua durata), che nulla è eterno. Impareremo a guardare con fiducia al domani sicuro che ogni nuovo giorno può ed è sempre diverso dai precedenti.
    Perseveranza:     è l’atteggiamento più importante. Perseverare quando i risultati splendono alla vista non è merito; mantenersi in piedi quando infuriano le tempeste e ci avviluppano le tenebre, avanzare quando la nebbia impedisce di vedere a due metri, ecco l’essenza della perseveranza.
    Siamo poco disposti alla perseveranza, vogliamo i risultati tutti e subito.
    In tutto questo, lo comprendiamo bene, occorre appoggiarsi al sapere della fede

    L’atrofia spirituale

     L’atrofia è segno di morte e produce morte. Scrive Larranaga:
    “A molte anime succede la stessa cosa. Per anni non fecero uno sforzo ordinato, metodico, paziente e perseverante per entrare in comunione profonda e frequente con il Signore. Fecero per un lungo tempo un’orazione sporadica e superficiale. Inventarono mille pretesti per giustificare questa situazione dicendo che colui che lavora già prega, che Dio bisogna cercarlo nell’uomo… Con ciò tranquillizzarono la loro coscienza, almeno fino ad un certo livello. Sostituirono la riflessione all’orazione e le chiacchiere come contropartita della meditazione. A poco a poco andarono perdendo il senso di Dio e il gusto dell’orazione. Nella loro intimità successe questo: quelle energie, che i mistici chiamano potenze e facoltà, non venendo più attivate, lentamente perdettero elasticità. Perdendo vigore vennero utilizzate sempre meno. Non venendo utilizzate, finirono pian piano per estinguersi”.
    Può anche capitare che queste persone non abbiano difficoltà a trattare e a parlare di teologia o di pastorale. Ma tutto questo sarà sentita come realtà esterna, asettica e fredda. Il problema inizia quando queste persone prendono coscienza che non riescono più a vivere personalmente ed interiormente questa stessa fede.
    Occorre allora ricominciare con pazienza ed umiltà dai primi passi: orazione vocale, salmi, meditazione… 

     Il deserto di Dio

     L’aridità è una prova di impotenza ed impedisce il contatto con Dio, quello che in altri momenti procurava tanta gioia e emozione. Generalmente si abbatte su quelle anime che hanno intrapreso sul serio l’ascensione verso Dio.
    Sant’Ignazio parla di desolazione. Giovanni della Croce di ripugnanza. In effetti l’anima non trova più gusto nelle cose spirituali e Dio sembra terribilmente assente.
    La prima purificazione o notte è amara e terribile per il senso… La seconda non ha paragone, perché è orrenda e spaventosa per lo spirito” (NO 1,I,8,2).
    Mentre distrazione e accidia sono fenomeni naturali e per lo più di natura psico-somatica, l’aridità è una prova inviata espressamente da Dio, come purificazione. L’aridità è fondamentalmente una sensazione di assenza. L’anima è sconfortata non sapendo nemmeno il perché. “Psicologicamente parlando la sensazione di aridità è forse equiparabile a ciò che gli antichi chiamavano il “taedium vitae””.
    Generalmente poi essa è accompagnata da incomprensioni, calunnie, accuse ingiuste, solitudine: “Dio fa convergere distinte casualità per sdradicare l’anima dai mille legami che la trattengono a se stessa. Non c’è anima scelta che sia libera da queste prove purificatrici”.
    L’aridità è il prolungamento dell’agonia di Gesù nel Getsemani.
    All’anima è richiesto di proseguire umilmente, sperando contro ogni speranza.
    Non crediate – scrive ad una sorella – che io nuoti in mezzo alle consolazioni. Oh no! La mia consolazione è non averne sulla terra. Senza mostrarsi, senza farmi udire interiormente la sua voce, Gesù mi istruisce in segreto, non per mezzo di libri, io non intendo ciò che leggo” (s. Teresa di L.)
    Prima di partire, sembra averle domandato il suo fidanzato in quale paese vuole andare e quale via seguire… La piccola fidanzata ha risposto che non aveva che un desiderio: quello di raggiungere la cima della montagna dell’amore. Per arrivare ad essa le si offrivano molte vie..Allora Gesù mi prese per mano e mi fece entrare in quel sotterraneo dove non fa freddo né caldo, dove non splende il sole, dove non arrivano pioggia né vento. Un sotterraneo dove non vedo altro che una chiarezza semivelata, la chiarezza che intorno  me diffondono gli occhi abbassati dal volto del mio fidanzato… non mi accorgo di avanzare verso la cima della montagna, il nostro viaggio si fa sottoterra; tuttavia mi sembra che ci avviciniamo e non so come” (s. Teresa di L., Lettere a M. Agnese, sett. 1870)

     Testi

    Is. 49, 14-26
    1 Re 19, 1-18
    Mc 15, 33-37
    Sl. 13

  • 02 Mar

    Dall’abbandono alla pace

     

     12 La sapienza è radiosa e indefettibile,
     facilmente è contemplata da chi l’ama
    e trovata da chiunque la ricerca.
    13 Previene, per farsi conoscere, quanti la desiderano.
    14 Chi si leva per essa di buon mattino non faticherà,
     la troverà seduta alla sua porta.
    15 Riflettere su di essa è perfezione di saggezza,
    chi veglia per lei sarà presto senza affanni.
    16 Essa medesima va in cerca di quanti sono degni di lei,
    appare loro ben disposta per le strade,
    va loro incontro con ogni benevolenza.
    17 Suo principio assai sincero è il desiderio d’istruzione;
    la cura dell’istruzione è amore;
    18 l’amore è osservanza delle sue leggi;
    il rispetto delle leggi è garanzia di immortalit�
    19 e l’immortalità fa stare vicino a Dio.
     

    Nel cammino di incontro con Dio ci accorgiamo spesso, ma tante volte questo purtroppo non accade, come noi stessi frapponiamo molti ostacoli che rendono la fatica ancora più improba e sofferta.
    Questo soprattutto per quella che potremmo chiamare la nostra “alienazione spirituale”: nelle nostre giornate ci muoviamo superficialmente, “fuori di noi stessi”. Non troviamo o non vogliamo trovare il tempo per scendere dentro di noi, nel nostro intima, nella realtà che ci circonda: non siamo coscienza di quel mistero in cui siamo avvolti e nel quale viviamo.
    Se non ci apriamo al nostro mistero è impossibile aprirci al mistero di Dio. Quanto spesso i mistici insistono sul fatto che luogo dell’incontro con Dio è il cuore, il centro, l’intimo…
    Purtroppo siamo incatenati da così tante ansie, inquietudini, dispersione, superficialità che questo atteggiamento che ritengo fondamentale in un cammino spirituale viene ad essere soffocato. Potremmo quasi considerare questi ostacoli come i nuovi vizi che, insieme agli antichi, dobbiamo imparare a combattere.

    Nella nostra vita spirituale abbiamo dunque bisogno di:
    –  purificazione: dai nostri egoismi, tristezze, frustrazioni, antipatie, insicurezze, aggressività… ovvero da tutti quei sentimenti che sono velenosi in noi.
    riconciliazione: con noi stessi, i nostri fratelli, con Dio
    meditazione: disponibilità a scendere più in profondità di fronte alla realtà.
    Il frutto di un costante cammino di purificazione, riconciliazione, meditazione sarà la nostra pacificazione. 

    L’origine delle nostre tristezze

     Nei confronti della realtà esterna siamo propensi a re-agire in modo istintivo, infantile.
    Questa modalità di rapporto potrebbe essere suddivisa in tre categorie:
    – con le realtà gradevoli che soddisfano i nostri desideri abbiamo una reazione di possesso
    – con le realtà minacciose reagiamo con la paura
    – con le realtà sgradevoli si reagisce con il rifiuto, la distruzione, l’aggressività.�
    Ecco l’origine delle nostre tristezze:
    -il possesso
    -la paura
    -l’odio 

    I nemici dell’uomo

     Il nostro cammino di ascesi dovrebbe comportare un lavoro su noi stessi. Uno strappare le erbacce cattive dal nostro giardino. Sostituirle con i fiori di opposti atteggiamenti:
    il distacco
    – la fiducia
    – l’amore
    Così dinanzi a noi si aprono due strade, due possibilità, due stili di vita:
    – La strada della follia: il voler resistere a tutto ciò che non è possibile eliminare. Il coltivare autodistruttivamente dentro di noi sentimenti velenosi.
    – La strada della sapienza: l’imparare a discernere ciò che si può cambiare da ciò che non si può. La pazienza di coltivare in noi emozioni costruttive e positive.
    La sapienza della vita ci insegna che di fronte alle difficili realtà non dobbiamo reagire in modo istintivo, infantile. Ma ad essere consapevoli delle nostre emozioni sapendole gestire in modo costruttivo.
    Quanto è fondamentale questo per entrare in quella pace interiore, profonda che nulla può sconvolgere: è la quies, l’esichia, la pace del cuore.
    Certo esige la capacità di saper perdere, ma il guadagno è oltremodo vantaggioso.
    Tale atteggiamento esige la resa, l’abbandono dei nostri stili infantili, un guardare la realtà, le persone, gli avvenimenti in un’ottica gratuita, paziente, benevola, fiduciosa, empatica, distaccata. Una visione sapienziale di fronte alla vita che apre alla fede in un Dio che è Padre di misericordia.

     Porsi in spirito di fede 

    A volte è difficile questo abbandono. In noi esistono forti resistenze, pur soffrendo siamo attaccati al nostro dolore, temiamo di perderlo. Oppure il dolore è talmente grande che sembra schiacciarci e toglierci quella libertà e quella pace che desidereremmo.
    Fu l’esperienza di Giobbe.
    Dopo, Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. Prese a dire: Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: E’ stato concepito un uomo! Quel giorno sia tenebra, non lo ricerchi Dio dall’alto, né brilli mai su di esso la luce. Lo rivendichi tenebra e morte, gli si stenda sopra una nube e lo facciano spaventoso gli uragani del giorno” (Gb 3,1-5).
    E’ un dato di fatto che la sofferenza rappresenti uno scandalo per la fede. Possiamo infatti affermare che nulla possa allontanare di più da Dio quanto l’esperienza del dolore, soprattutto innocente.
    Già il filosofo greco Epicuro (sec. IV a.C.) dichiarava: “O Dio vuol sopprimere il male e non può, e allora è impotente, oppure non vuole e non può, e allora è un niente. Oppure può sopprimere il male e non vuole, e allora è malvagio, o infine, può e vuole, e allora dove è questo Dio e da dove viene il male?”.
    Per noi cristiani è un dato di rivelazione che Dio non può volere il male, poiché egli è il Bene per essenza: “Dio è amore” afferma san Giovanni nella sua lettera. Allora occorre riconoscere che egli lo permetta, in quanto chiama e l’uomo e il cosmo alla piena libertà di cui ha fatto dono.
    Giobbe  di fronte al mistero insondabile di Dio e di fronte al mistero della sua sofferenza di cui non riesce a capirne la ragione, non troverà altro che proferire parole di totale abbandono, le parole che dirà Gesù nel Getsemani: “Padre se è possibile… Sia fatta la tua volontà”.
    “Giobbe rivolto al Signore disse: Ecco son ben meschino: Che ti posso rispondere? Mi metto la mano alla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, ho parlato due volte, ma non continuerò” (40,3-5).
    E’ il silenzio adorante e contemplativo, fiducioso, abbandonato: non risolve nulla apparentemente ma apre uno spiraglio alla speranza, il bene più prezioso che l’uomo può attendere. Se Dio ha permesso tutto questo, tutto deponiamo fiduciosi nella sue mani: “Padre nelle tue mani affido il mio spirito”. L’esperienza dei santi ci dice che questo atteggiamento porta con sé il dono della pace. 

    Abbandono

     Una cattiva interpretazione dell’abbandono è la passività, la rassegnazione amara… il lasciare che le cose vadano così perché: tanto a che serve?
    L’abbandono cristiano non è rassegnazione, non è un subire passivo.
    Possiamo invece leggere l’abbandono come un atteggiamento dello “scegliere”, nell'”integrare”, del far proprio ciò che nella vita è spesso inevitabile (un “volere ciò che accade”).
    La rassegnazione non è atteggiamento cristiano, ma pagano (il “destino”). Purtroppo certe correnti spiritualistiche, soprattutto in questi ultimi tre secoli, hanno se non insegnato, almeno suggerito in termini ambigui la rassegnazione. La rassegnazione pagano è il consegnarsi ad un destino senza nome, il Fato, senza volto, cieco. Forza impersonale alla quale è inutile resistere, per cui tanto vale rassegnarvisi.
    L’autentico abbandono è al contrario atteggiamento che scaturisce dal vangelo.
    Alla sua base vi si colloca un atto di fede in un Dio che non è destino o fato, ma Padre che ha cura dei propri figli, che veste i gigli del campo e nutre gli uccelli del cielo (cf Mt 6).
    A questo Padre, con la fiducia del bimbo nella madre, posso dire di “sì”.
    “Per tutto quello che è stato, grazie. Per tutto ciò che sarà. Sì”.
    Un grazie e un sì a tutto ciò che Dio ha permesso, voluto permetterà o vorrà.

     Di fronte all’impossibile 

    Di fronte alla vita dobbiamo assumere un atteggiamento sapienziale.
    Più vorremo resistere alla realtà che ci fa soffrire, in noi e fuori di noi, più essa ci muoverà guerra, creando in noi un’inesorabile situazione di sofferenza e rifiuto.
    Vi sono difficoltà, limiti, inesorabilmente legati alla nostra esistenza. Sono essi l’origine della nostra sofferenza, del nostro disagio dovuto all’inappagamento di ciò che riteniamo essenziale alla nostra vita (e che guardato in profondità spesso non lo è!). 

    Accogliere

     Cosa possiamo fare dinanzi a queste situazioni?
    La parola è semplicissima. E’ realmente una “chiave magica”: accettare.
    Accettare noi stessi. Il corpo, la psiche, la nostra storia, i nostri talenti, e i nostri difetti, accettare lo scarto che scopriamo tra gli ideali e la concretezza.
    Accettare la realtà che ci circonda. Non vivere in un mondo in cui l’affezione a ciò che immaginiamo abbia il sopravvento sulla realtà, dato che diamo sempre per scontato che l’immaginato sia di per sé la cosa migliore per noi.
    Accettare l’irreversibilità del tempo. Guardare al passato, saper guardare al passato senza legarvisi, guardando al Padre che ha condotto avanti la nostra storia, nonostante tutto, attraverso i momenti di gioia ed entusiasmo, stanchezze e tristezze, sofferenze e anche i nostri peccati.
    Un Padre che conduce la nostra storia verso il bene e la vita… nonostante tutto.
    Ricordiamo che questa accoglienza di noi stessi, della realtà, della storia, porta con sé una grande capacità di guarigione delle nostre ferite. Prendiamo coscienza che, se non guariamo le nostre ferite, continueremo a respirare soltanto risentimento attraverso esse.
    Siamo chiamati per vivere nella pace a saper assumere l’abbandono in tutte le direzioni della nostra esistenza. Nei confronti del:
    passato: è riconciliazione con ciò che è stato e non è più possibile modificare
    presente: è accoglienza di ciò che è, senza rammaricarsi perché diverso dalle nostre aspettative.
    futuro: è speranza: il saper desiderare sempre più il bene e la vita, l’incamminarsi verso di essi.

    RIASSUMENDO

    L’abbandono, l’accettazione, l’accoglienza è un rinunciare a se stessi, alle proprie illusorie immaginazioni, per affidarci totalmente ed incondizionatamente al Dio della vita e della storia.
    E’ un cammino sicuro e straordinariamente semplice: rende bambini atti ad entrare in possesso del regno.
    E’ cammino di purificazione di una fede vissuta, forse con troppa paura, difese, proiezioni.
    E’ cammino di amore perché ci insegna ad abbandonarci ad un Dio scoperto come Padre che ci ama.
    E’ cammino che insegna a vivere in uno stato di preghiera continua, di attenzione al passaggio e alla presenza di Dio: insegna il cammino sapienziale del leggere spiritualmente la vita.
    Non ci preoccupiamo più dei risultati, lasciamo che dipendano unicamente da Dio. Siamo resi liberi anche da questa preoccupazione. Tenderemo sì al massimo, ma nella pace: non pretenderemo che ai nostri sforzi debbano sempre e immancabilmente corrispondere i risultati che immaginiamo debbano seguire. 

    Testi

    Sap. 6,12-19; 7,1-14
    Sl 131
    Mt 6,25-33

  • 01 Mar

    3

    Mostrami il tuo volto

     

    “Mostrami io tuo volto”: Mosè, l’amico di Dio, lui che parlava “faccia a faccia” con l’Altissimo, desidera contemplare nella sua pienezza il suo volto: “Mostrami la tua gloria”.
    18 Gli disse: «Mostrami la tua Gloria!». 19 Rispose: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia». 20 Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo».  21 Aggiunse il Signore: «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: 22 quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. 23 Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere».
    Nella condizione terrena non è possibile contemplare faccia a faccia la gloria di Dio. Fu privilegio di pochi contemplare il Cristo trasfigurato dal Tabor, ma avvolto da densa nube. A noi è possibile intravedere la gloria dell’Altissimo solo di rispecchio, nella penombra, ovvero nell’espressione biblica solo “di spalle”.
    Giovanni della Croce nella sua “Salita al monte Carmelo” annota: “La fede è sostanza delle cose che si sperano, e sebbene l’intendimento le colga con fermezza e certezza, non sono cose che si scoprono con l’intendimento perché, se le si scoprissero, non sarebbe fede. La quale sebbene faccia certo l’intendimento, non lo fa chiaro bensì oscuro” (1,II,6.2)
    Il nostro autore suggerisce dunque che la nostra esperienza di fede è una certezza oscura. Dio non lo si può catturare, restringere con i nostri normali procedimenti intellettivi usati per comprendere la realtà che ci circonda. Dio rimane sempre al-di-là (ganz-andere diceva Barth). Dio non si può né analizzare né sintetizzare, in quanto non può assolutamente essere ridotto ad un oggetto sperimentabile e speculativo fosse anche di tipo filosofico o teologico.
    Comprendiamo una cosa importante: Dio è realtà trascendente il mondo e noi stessi, Egli può essere scorto e riconosciuto sì anche dalla ragione ma soprattutto da quel senso interiore che è il dono della fede. Accetteremo che Egli rimanga sempre è comunque mistero che ci spinge all’umiltà e all’umile ricerca. In Giappone, a Kyoto precisamente in un fiabesco giardino shinto, sporgono dal terreno 15 obelischi. Essi sono disposti in modo tale che, da qualunque parte il visitatore si ponga, se ne vedono solo e sempre quattordici. Il significato del giardino è chiaro e profondo: la realtà non si esaurisce in quel che noi possiamo cogliere, catturare. E’ un’illusione crederlo. Ci sarà sempre una parte che non riusciremo a possedere.
    Dobbiamo entrare nel mistero di Dio come nel giardino di Kyoto, consapevoli che ancor più in questo caso, vi è un’infinita realtà che i nostri occhi non potranno mai carpire. Dio rimarrà inaccessibile e inespugnabile ad ogni prometeica pretesa di comprensione.
    La pretesa dell’uomo di catalogare Dio lo porta inevitabilmente a costruirsi idoli a sua immagine.
    Si racconta che vi era in Persia una città i cui abitanti erano tutti ciechi. Venne a passarvi un re con il suo esercito, e vi piantò le tende. A fare pompa del suo prestigio, metteva in mostra un grosso e imponente elefante.
    Venne alla gente il desiderio di accostare quell’elefante, di conoscere quel mostro. E molti di quei ciechi si recarono dall’elefante per rendersi conto, alla maniera dei ciechi della sua forma e figura. E non potendolo vedere con gli occhi, lo palparono con le mani.
    Chi gli toccò la proboscide, chi la coda, chi le zampe e così ognuno ne conobbe soltanto una parte. E ognuno se ne formò un’idea assurda, ognuno legò la sua mente a un’immagine fantastica.
    Quello a cui la mano era caduta sull’orecchio, interrogato dagli altri disse: “E’ una forma paurosa, ruvida e larga come un tappeto”. Quello che aveva toccato la proboscide disse: “L’ho conosciuto bene! E’ come un tubo vuoto, una cosa terribile, uno strumento di distruzione”.
    Colui che aveva toccato le zampe invece disse: “E’ come una colonna ben tornita”.
    Tutti avevano visto solo una parte e tutti avevano visto male. Così è degli uomini nei confronti di Dio. (Fiaba persiana).
    Di fronte all’insondabile profondità senza fondo dell’Assoluto, come Giobbe dovremmo porre una mano alla bocca e non proferir parola. La corrente teologica detta apofatica parte da tale presupposto. Qui la negazione di ogni affermazione e di ogni negazione significa che la trascendenza di Dio sfugge addirittura alla stessa nozione di trascendenza. Il rappresentante di questa corrente, Dionigi Aereopagita, in un testo un po’ sconcertante per le nostre orecchie dice: “Il mistero che è al di là di Dio stesso, l’Ineffabile, Colui che da tutto è nominato, l’affermazione totale, la negazione totale, l’al di là di ogni affermazione e di ogni negazione” (Nomi Divini 2,4).
    Dinanzi al mistero abbagliante l’atteggiamento  vero è l’umile contemplazione: la meraviglia, il silenzio.
    Questa contemplazione ci permette di cogliere un senso più profondo nelle cose, persone, noi stessi. La meditazione ci apre a un ascolto silenzioso della vita che lascia intravedere la presenza del Creatore.
    Si racconta che il grande scienziato e astronomo Newton disse un giorno: “Mi faccio spesso l’effetto di un bambino che gioca sulla spiaggia. Talvolta una conchiglia mi sembra più bella, una pietra più levigata del solito. Ma davanti a me, l’oceano della verità continua a fronteggiarmi, inesplorato”.
    Possiamo aggiungere l’esperienza di Agostino il grande ricercatore della verità. Nelle sue Confessioni scrive: “Che sei dunque Dio mio? Che altro, dimmi, se non il Signore Dio? Chi è infatti il Signore altri che il Signore nostro  , o chi è Dio altri che il Dio nostro? O sommo, ottimo, potentissimo, onnipotentissimo, misericordiosissimo e giustissimo; lontanissmo e presentissimo; o bellissimo, o fortissimo, stabile ed incomprensibile, immutabile e muti tutte le cose; non mai nuovo, non mai vecchio e tutto rinnovi e a vecchiezza adduci i superbi ed essi non lo sanno; sempre in attività, sempre in quiete; raccogli e non hai bisogno, porti e riempi e proteggi; crei, nutri e rechi a compimento; cerchi e nulla ti manca. Ami senza passione, sei geloso senza turbamento, ti penti senza dolore, ti adiri nella tua tranquillità, cambi opere ma non disegno; riacquisti ciò che trovi e non l’avevi mai perduto; non mai povero, godi degli acquisti; non mai avaro eppure esigi ad usura; doniamo a te perché>é tu possa rendere,  nessuno ha cosa non tua; paghi e debiti e non sei debitore; condoni e debiti e nulla perdi. Che è mai quanto ho detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? Che cosa mai può dire uno quando parla di Te? Eppure guai a chi tace, perché quelli che di te  parlano sono muti”. (I,4).  

    Qual è il tuo nome?

     Conoscere una persona per il mondo biblico equivale a possederne il segreto del nome. Troviamo così, sia all’interno della Scrittura che nella Tradizione ebraica e cristiana, un profondo rispetto del “sém” di Dio. Nominare, chiamare, è in un certo senso possedere l’essenza della persona; per tal motivo JHWH sfugge ad ogni nome (cf Es, 3,14; Gn 32,30: Gdc 13,18). Il nome teofanico rivelato a Mosè non veniva mai pronunciato se non una volta all’anno, dal solo sommo sacerdote, all’interno del santo dei santi.
     “Io sono colui che sono”: Dio non rivela il suo nome, tuttavia rivela se stesso come l’Esistente, colui che è la vita e dà la vita. Pur nella sua trascendenza Dio assicura la sua presenza accanto all’uomo. Egli rimane dunque trascendente nella sua vicinanza, nascosto non come tenebra interdetta ma a causa della stessa intensità della sua luce.
    Questa distanza che permette all’amore e alla conoscenza di svilupparsi nella libertà. 

    “E’ apparsa la grazia di Dio”

     Dio si rivela per grazia, o per “follia d’amore” (Massimo Conf.). Per noi cristiani il mistero di Dio ha preso un Nome e un Volto: Gesù di Nazareth, il bambino nella mangiatoia, l’artigiano, il rabbì, il crocifisso. Egli è l’icona del Dio invisibile. “Dio nessuno l’ha mai visto, il Figlio suo unigenito ce l’ha rivelato” (Gv 1); “Egli è l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15a).
    Ma ciò non toglie che anche nei confronti del mistero stesso di Cristo dobbiamo ancora continuare a procedere a tentoni, riflettiamo sì la gloria di Dio trasfusa nei nostri cuori dallo Spirito del risorto, purtuttavia questa gloria e riflessa confusamente come, direbbe Paolo, in un specchio” (2Cor 3,18).
    Gli apostoli entrarono nel mistero di Cristo faticosamente(cf il Tabor), sempre le loro attese furono disilluse: Gesù prospettava loro di continuare a camminare senza stancarsi avendo come punto di arrivo la rivelazione scandalosa del Calvario, dinanzi alla quale tutti fuggirono.
    Questa rivelazione del mistero che si attua sulla croce ci sbalordisce ancor più, e ancor più ci cala in un silenzio adorante e contemplativo. Ancora una volta il mistero sfugge alla comprensione, all’analisi e alla sintesi. Dio è ancora al-di-là in una nube oscura (Tenebrae factae sunt).
    “In Cristo il mistero è nello stesso tempo svelato e velato. Poiché si rivela nel Crocifisso il Dio inaccessibile è con ciò stesso un Dio nascosto, incomprensibile, che sconvolge le nostre definizioni e le nostre attese. Il vero approccio “apofatico” (L’apofasi indica la salita verso il mistero) non consiste soltanto, come spesso si immagina, nella teologia negativa: questa non ha altro scopo che di aprirci ad un incontro, ad una rivelazione, ed è questa stessa rivelazione, ove la gloria è inseparabile dalla kenosi, ad essere propriamente impensabile. L’apofasi sta dunque nell’antinomia, nella dilacerata identità dell’Abisso e della Croce, del Dio inaccessibile e dell’uomo dei dolori, manifestazione quasi folle dell’amore di Dio per l’uomo, sollecitazione umile e discreta del nostro proprio amore” (O. Clement).
    Non siamo dunque chiamati ad una certezza di tipo solo e anzitutto raziocinante. Ma ad una conoscenza dettata dalla contemplazione e dall’amore. Dionigi Aereopagita parlerà di un “raggio tenebroso”, di una “oscura certezza”, la certezza della fede. “Accogliendo la luce della verità come attraverso una feritoia, tutto nelle anime sembra allargarsi” (Gregorio Naz) 

    Analogie-vestigia-simboli

     La sacra scrittura usa numerose immagini e simboli per parlarci di Dio e della sua presenza: fuoco, luce, tempeste, tuoni, avvenimenti…
    Anche nel nostro cammino possiamo ritrovare molte “impronte” lasciate dal sigillo di Dio.
    Un mistico dell’Islam, Husayn Al-Hallay (875-922) descrive in poesia la sua esperienza: “La tua immagine è nel mio occhio, il tuo ricordo sul mio labbro, la tua dimora nel mio cuore: ma dunque, dove ti nascondi?”.
    Anzitutto in noi stessi. Abbiamo sete di vita, di conoscenza, di infinito, siamo sempre alla ricerca di senso, di significato, di uno scopo. Tutto questo è uno “sprazzo di divinità” (Clement) che ci trasporta, ci attira, ci “lavora”, ci impedisce di identificarci totalmente con la terra di cui siamo impastati. Tutto questo ci apre ad una presenza dello Spirito in noi che ci chiama. Questo “senza fondo” del cuore dell’uomo è l’impronta lasciata dal sigillo del Creatore.
    Ne deduciamo che un luogo privilegiato per scoprire Dio è guardare dentro di noi, alla domanda che è in noi, la nostra perenne insoddisfazione che ci rimanda sempre al di là.
    Siamo inoltre chiamati a guardare e a scoprire Dio nella realtà che ci circonda, nella bellezza maestosa, armoniosa della creazione. Dietro alla bellezza e all’armonia dei cieli stellati deve esistere “la” Bellezza, “l’Armonia, “La” Vita.
    Una bellissima poesia di Valverde canta, o meglio, prega così:
    “Tu ci dai il mondo perché lo gustiamo.
    Tu ce lo offri perché lo facciamo parola.
    Tu non hai fatto la tua parola per affogarla nel silenzio,
    nel silenzio fuggevole della gente affannata,
    solo per viverla senza fermarsi a contemplarla…
    Se noi non esistessimo, perché tante cose inutili e belle Dio avrebbe creato,
    tanti tramonti rossi e tanti alberi senza frutti,
    e tanti fiori e uccelli vagabondi?
    Soltanto noi percepiamo il tuo regalo,
    e te ne ringraziamo con estasi di gioia.
    Tu sorridi, Signore, sentendoti appagato
    per la nostra adorazione di venerazione e di meraviglia”.

     Così andiamo salendo dalle creature al Creatore, dagli effetti alla causa, ma sempre per una via oscura, condotti per mano da analogie e deduzioni, a tentoni, tra penombre, verso la fede (Larranaga). 

    Testi

     Es 33,18-23
    Gb  37,14-24
    Sl 8
    Col 1,15-20

     

    sintesi di Larranaga, Mostrami il tuo volto, Ancora 

  • 28 Feb

    2

    Il silenzio di Dio

     

     

    35 In quel medesimo giorno, verso sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». 36 E lasciata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. 37 Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. 38 Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che moriamo?». 39 Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. 40 Poi disse loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». 41 E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?».
    Il nostro cammino di fede appare quanto mai faticoso soprattutto per l’esperienza che facciamo dell’assenza e del silenzio di Dio.
    Il poeta spagnolo Unamuno dice a proposito: “Dio è colui che sempre tace dal principio del mondo: ecco il fondo della tragedia”.
    Questa tragedia non è solo nostra esperienza ma è pure quella dei grandi personaggi della Scrittura:
    “Non restare in silenzio mio Dio” Sl 28,1
    “Dio non gli rispose” 1 Sam 14,37
    “Vagheranno per cercare la parola del signore” Am 8,11
    “Il Signore ci ha abbandonati” Gd 6,13 

    Dove ti nascondesti? Vogliamo spesso appagare il vuoto e il silenzio che è in noi col possesso di realtà raggiungibili dai nostri sensi.
    Ma questo appagamento di singole e limitate realtà lascia sempre il nostro cuore incolmabile e insoddisfatto.
    Questo significa che il nostro cuore è chiamato a riempirsi di un’altra realtà, di un di più, che non può essere la risultante della somma di tante limitate realtà.
    La nostra  esistenza trova la sua fonte nel dono di Dio, nella sua stessa vita, essa nasce da quell’abisso incolmabile che è il mistero di Dio.
    Di conseguenza, l’uomo porta in sé la nostalgia, il desiderio struggente, di quell’abisso, che le creature non potranno mai colmare.
    Fu l’esperienza questa della ricerca di Agostino, che alla fine dovette riconoscere che: “Tu ci hai fatto per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (Confessioni).
    Così per noi, pur nella nostra debolezza, spesso cecità e inconsapevolezza, tendiamo a Dio, al suo infinito. Lo scrittore francese Blondel scrive: “Per la sua incoercibile espansione, la volontà umana, anche a sua insaputa, ha esigenze divine. Il suo desiderio risiede nel raggiungere e conquistare Dio; va avanti a tentoni, alla cieca, per toccarlo… Eppure Dio… rimane fuori delle nostre reti. Che dobbiamo dunque fare?”.
    Qui tocchiamo il nostro problema: in noi c’è il desiderio che vorrebbe essere possesso.
    Ci si sente impotenti nel nostro desiderare Dio. Perché questo?
    Potremmo partire da una duplice constatazione. La prima è che il silenzio di Dio nasca dalla limitatezza della nostra natura umana, legata alla leggi dello spazio e del tempo. La seconda è che la natura di Dio è misteriosa, in-comprensibile, infinita, eterna.
    Ne scaturisce che il nostro camminare nel tempo e nello spazio rimane necessariamente segnato da una costante presenza-assenza di Dio; ma questo diviene spinta a camminare avanti, a cercare sempre più in là dal punto in cui siamo arrivati.
    Il grande mistico della “notte oscura”, s. Giovanni della Croce nel suo linguaggio poetico dice: “Dove ti nascondesti, Amato, e mi lasciasti gemere? Come il cervo fuggisti, avendomi ferito. Ti corsi dietro invocandoti: Eri fuggito!”. E’ la “divina caccia”, o il “gioco d’amore” tra Dio e la sua creatura.
    Ancora potremmo richiamare il delicato racconto riportato da M. Buber, nei suoi “Racconti dei Chassidim”: “Yekiel, nipotino di rabbi Baruk, giocava un giorno a nascondino con un suo compagno. Si infilò in un nascondino speciale e attese che egli venisse a scoprirlo. Ma attese invano. Uscì e non lo ritrovò. Si rese allora conto di non essere stato cercato e pianse a lungo. Corse dal nonno singhiozzando e lamentandosi del compagno cattivo che non l’aveva cercato, mentre era così ben nascosto. Il nonno stesso, non riuscì a trattenere le lacrime pensando: E’ esattamente quello che dice Dio: Io mi nascondo e nessuno vuole cercarmi”.
    “Veramente tu sei un Dio nascosto” affermano le parole di Isaia (45,15a). E il Sl 13,2: “Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?”.
    Questo volto di Dio che l’uomo desidera contemplare e che sfugge continuamente. Vi è sempre una nube nelle teofanie che esprime questa inaccessibilità: il Sinai come il Tabor e come il monte dell’ascensione.
    Unitamente all’assenza vi è il silenzio di Dio. Quante volte egli sembra tacere: “Perché taci e non rispondi?” (Ab 1,13). Dio sembra tacere sempre: sia che ci doniamo a lui sia che cadiamo nel peccato…
    Sì è vero ogni realtà può evocare il Creatore. Ma il Dio creatore tace. “Tutto l’universo è un’immensa e profonda evocazione del Mistero, ma il Mistero svanisce nel silenzio” (Larragnaga).
     Il silenzio di Dio raggiunge il sua apice drammatico di fronte al dolore, all’ingiustizia soprattutto dell’innocente. “Perché taci mentre l’empio ingoia il giusto?” (Ab 1,13).
    E’ questo lo scandalo della fede!
    “Muto e sordo al grido delle tue creature se il cielo ci lascia come un mondo abortito il giusto opporrà lo sdegno all’assenza e non risponderà che con un freddo silenzio al silenzio eterno della divinità” (A. De Vigny, Monte degli Ulivi). 

    Sentire e sapere

     A questo punto occorre chiarire, o meglio operare, una benefica distinzione tra due aspetti del nostro percepire la realtà spirituale.
    Distinguiamo tra sentire e sapere.
    – sentire: è il percepire emotivamente la realtà di Dio. Questo subito entusiasma, ma il rischio è di cadere nell’illusione affettiva, ovvero il pretendere che Dio si faccia sempre presente a livello emotivo.
    – sapere: è il sapere della fede, ovvero la certezza della presenza di Dio colta a livello più profondo di quello emotivo. 

    Una fede che vorrebbe collocarsi a livello del sentire è molto fragile e infantile. La vera fede matura e consistente si colloca a livello del sapere.
    Questo ci permetterebbe di dire nei momenti della prova, del dolore, della malattia, nella morte sperimentata in noi e negli altri: “Padre non ti sento, non ti vedo. Tutto sembra dirmi che tu sei lontano, ombra sfuggente e insensibile. Tuttavia, contro ogni evidenza, contro ogni speranza (cf Rm 4,18), so che tu sei presente qui ed ora. Se non cade un capello senza che tu lo sappia, se non cade a terra un passero senza che tu lo voglia, allora so con certezza che ora sei qui con me”.
    Facciamo nostra l’esperienza dolorosa di Gesù sulla croce: affidando la nostra vita nelle mani di quel Padre che sembra aver abbandonato il Figlio suo nell’ora più tragica della sua vita:
    “Elì, Elì lamà sabactani ?”
    “Padre nelle tue mani affido la mia anima”.
    Questo comporta lo spiccare un grande salto nel vuoto, sapendo, pur non sentendo che al di là ci aspettano le braccia del Padre. Ancora una volta si tratta di abbandonarsi come bambini.
    Si tratta di accettare che la dinamica della fede prescinda dalla “Pretesa” di un segno. Gesù dinanzi a questa pretesa dell’uomo di manovrare Dio si rifiuterà sempre di lasciarsi ingabbiare, risponderà con il silenzio e l’impossibilità di operare miracoli.
    La fede autentica è purificazione da questa pretesa.
    Ciascuno di noi nel suo cammino di fede fa esperienza di questa assenza e di questo silenzio. Diversi saranno gli atteggiamenti con cui possiamo reagire a questa constatazione. 

     Gli sconfitti

     Sono coloro che hanno abbandonato una seria vita spirituale regolandosi ormai praticamente come se Dio non esistesse, pur magari mantenendo un’apparenza di religiosità.Tali persone affermano sì categoricamente che Dio esiste, tuttavia in loro vivono la sensazione (“sentono”) che egli è come morto.
    Ci sono alcuni sintomi che denotano la presenza di questa malattia spirituale: soprattutto l’aggressività che è derivata dalla frustrazione, si critica continuamente tutto e tutti, si è scontenti di tutto.
    La rigidità e la stretta osservanza delle forme esterne: diventano sostitute di Dio.
    L’abbandono progressivo da tutto ciò che è legame con Dio…

    I disorientati 

    E’ un dato di fatto che i primi tempi di vita religiosa o sacerdotale siano una sorta di luna di miele.
    Ma è inevitabile come detto che sopraggiunga la notte. Scompare l’entusiasmo, si cade nella routine di ogni giorno, la vita sembra sfuggire di mano inutilmente. E’ l’esperienza del “disincanto”, dell’impotenza, dell’insuccesso: è il disorientamento totale. E’ il momento in cui potremmo dire col salmo 29: “Nella mia prosperità ho detto: Nulla mi farà vacillare!… Ma quando hai nascosto il tuo volto io sono stato turbato. A te grido Signore, chiedo aiuto al mio Dio” (vv 7-9).
    E’ inevitabile cadere nello sconforto che conduce lentamente a quel vizio di nome accidia: la noia e il disgusto.
    Il vuoto di Dio viene cercato di riempire inutilmente da tante cose, fossero pure tutte le nostre attività “apostoliche”.
    Rimane nel fondo una certa nostalgia, il rimpianto della tenerezza e della gioia di Dio…Questa nostalgia agisce nel nostro cuore come uno stimolo a non disperare e ad attendere in silenzio la salvezza del Signore (cf Lam). 

    I confermati 

    “Una lunga e dolorosa storia pesa sulle spalle dei confermati” (Larranaga). Nonostante le dure prove, (“ci hai fatto passare per il fuoco e l’acqua” Sl 76) essi non hanno perso la speranza e la fiducia in Dio.
    Cosa ha permesso ciò?
    Ciò che diede speranza, radicando questi credenti nella fede, è stato un profondo e totale spirito di abbandono, come quello di Abramo mentre conduceva al sacrificio il figlio unico Isacco. Non si sgomentarono di fronte al silenzio di Dio, ma in silenzio adorante a loro volta, si offrirono al Signore giorno dopo giorno.
    Lasciarono che Dio tagliasse tante false sicurezze, i calcoli, le pretese, abbandonarono l’esigenza di spiegazioni che non spiegano e di evidenze che non acquietano.
    In un atto di pura fede si affidarono al “Totalmente Altro”, come Cristo sulla croce, dicendo: Non la mia, ma la tua volontà sia fatta”.
    Un proverbio orientale afferma: “Tu credi che ora, al disperdersi delle nuvole, sia apparsa la luna. Ti sbagli: la luna brillava dietro le nuvole da lunghe eternità”. 

    Testi

     Sl 13; 28; 29
    Is 45, 15-19
    Ab 1
    Mc 15, 34-37; 4, 35-41

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