• 23 Gen

    OSIAMO DIRE: PADRE

    di p. Attilio Franco Fabris

    NELL’ANTICO TESTAMENTO

    Numerosi erano i popoli antichi che usavano chiamare Dio con il nome di “Padre”. Ad esempio Zeus era denominato “padre degli dei e degli uomini”; e nel secondo millennio a.C. troviamo un’invocazione sumerica al Dio Sin: “O Padre, misericordioso e clemente, che hai nelle tue mani la vita del mondo intero, o Padre generatore degli dei e degli uomini…”.

    Ma occorre fare attenzione; non tutti coloro che chiamano Dio col nome di Padre si rivolgono allo stesso Dio; anche Assur il dio sanguinario di Ninive era chiamato “Padre”. Non basta fermarsi al titolo, ma occorre guardare la realtà che esso indica.

    E’ una constatazione che può far sorgere meraviglia quando prendiamo atto sfogliando  l’Antico Testamento, che l’appellativo  Padre riferito a Dio sia usato pochissime volte (15 in tutto).

    Israele infatti ha imparato a chiamare JHWH “Padre” molto tardi. Perché? Occorre pensare che nelle mitologie pagane dei popoli confinanti con Israele, la paternità di Dio era intesa in senso fisico-materiale. E questa era una visione incompatibile con l’altissima concezione spirituale che Israele aveva di Dio.

    L’uso del termine “padre” poteva suggerire ad Israele, facendole infiltrare, concezioni pagane ripudiate sin dall’inizio (Gs 24,23).

    Quando Israele inizierà a chiamare Dio “Padre”, e lo dovrà fare per non tralasciare la ricchissima simbologia che l’attributo conteneva, non lo farà come nei popoli pagani i quali con le loro mitologie designavano Dio come progenitore “padre del mondo”.

    La scrittura userà la simbolica del padre in un primo tempo per sottolineare il dovere dell’obbedienza del figlio-Israele al proprio padre (“Voi siete figli di JHWH, vostro Dio” Dt 14,1), oppure per fondare e consolidare una prospettiva universalistica delle fede ebraica (“Non abbiamo noi tutti un unico padre? Non ci ha creati un solo Dio?”Ml 2,10).

    E’ interessante ad esempio notare che la grande e tardiva religione monoteistica mussulmana tra i novantanove nomi dati a Dio non contiene quello di “padre”.

    Troppo forte è per i mussulmani  la concezione della assoluta trascendenza di Allah per potergli applicare una simbolica che fa troppo riferimento all’esperienza umana.


    AL TEMPO DI GESU’

    I rabbini al tempo di Gesù insegnavano: “Come il nostro padre è misericordioso nei cieli, così anche voi dovete essere misericordiosi sulla terra”.

    Nelle “Diciotto Benedizioni”, preghiera che certamente Gesù recitava quotidianamente, leggiamo: “O Padre nostro, facci tornare alla tua legge” (V ben.); “O Padre nostro perdonaci perché abbiamo peccato” (VI ben.)

    Nella preghiera dello Shemà troviamo: “O Padre nostro, tu hai pietà di noi… Padre nostro, padre di misericordia, il misericordioso, abbi pietà di noi”

    Così nel Qaddish: “Che le preghiere e le suppliche di Israele siano accolte dal loro Padre che è nei cieli. Amen!”

    La setta essenica che aveva trovato rifugio sulle sponde del Mar Morto nella sua preghiera recitava: “Mio padre non mi conosce e, in confronto a te, mia madre mi ha abbandonato. Eppure tu sei padre di tutti i tuoi fedeli e ti compiaci di essi come una madre amorosa nel suo piccolo, e come un padre premuroso tu stringi al petto tutte le tue creature”.

    Raccontavano i rabbini commentando Es 14,19 (“L’angelo del Signore che andava innanzi al campo di Israele si mosse e andò dietro a loro”) “Un uomo camminava per la via insieme al suo bambino. Il bambino lo precedeva, ma ad un certo punto giunsero i briganti a rapire il fanciullo. Il padre allora lo tolse davanti a sé e se lo pose dietro. Ma un lupo apparve in quella direzione ed egli tolse il fanciullo di dietro e di nuovo se lo pose dinanzi. E vennero poi i briganti dinanzi e lupi di dietro, sì che egli dovette sollevare il bambino e portarselo in braccio. Il bambino cominciò a soffrire per l’ardore del sole. Il padre lo coprì con la sua veste. Il bambino ebbe fame: il padre lo nutrì; ebbe sete e il padre gli diede da bere. Così fece Dio con Israele quando fu liberato dall’Egitto” (Mech 30a)

    Riportiamo ancora una parabola tratta dall’insegnamento rabbinico contemporaneo a Cristo: “Il figlio di un re aveva preso una cattiva strada. Il re gli inviò il suo precettore con questo messaggio: “Ritorna figlio mio!”. Ma il figlio gli fece rispondere: “Con che faccia posso tornare? Mi vergogno a comparirti dinanzi”. Il padre allora gli mandò a dire: “Può un figlio vergognarsi di tornare da suo padre? E se tu torni, non torni da tuo padre?” (Dt R. 2,24).

    Ma anche in questo caso chiamare Dio “Padre” non significa ancora chiamarlo “Abbà-Papà”: parola con cui i bambini si rivolgevano al loro papà.

    Dicevano i rabbini: “Quando un bambino inizia ad assaporare il frumento, impara a dire Abbà e Immà”. Un termine dunque che fa riferimento all’intimità familiare,ai rapporti affettuosi e confidenziali che il bambino ha col proprio papà e mamma. Ed è il termine abitualmente usato da Gesù nel descrivere il suo rapporto con Dio, con il Padre.

    Eppure Gesù lo usa abitualmente: tutte le sue preghiere iniziano con questa invocazione. Il che sta ad indicare un tipo di rapporto con Dio fatto di assoluta confidenza e fiducia, un rapporto profondamente filiale.

    In Gesù possiamo ardire (Nella liturgia questo è espresso con le formule introduttive: “osiamo dire”, “Rendici degni di”…) rivolgerci a Dio chiamandolo a nostra volta Abbà. Paolo dirà: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre!” (Rm 8,15

    E’ questa la parresia del cristiano: la semplicità schietta, la fiducia filiale, la gioiosa sicurezza, l’umile audacia, la certezza di essere amati (cfr CCC 2777).


    TRE OSSERVAZIONI

    1.     Se per gli israeliti Dio è anzitutto l’Altissimo, il Giudice e il Legislatore, in Gesù ritroviamo l’immagine di un Padre Buono che ha cura dei suoi figli.

    A lui ci si rivolge con la semplicità del bambino (Mt 5,15)

    Egli ha cura di ogni sua creatura (Mt 6,25-31)

    Conta i capelli del nostro capo, e conosce ogni nostra necessità (Lc 12,6).

    Di lui non si deve e non si può avere paura. ).

    2.     Il rapporto che Gesù ha con il proprio Padre appare peculiare a lui solo. Gesù non prega mai con i discepoli dicendo “Padre nostro”. Vi è sempre in lui una chiara distinzione (“Padre mio e Padre vostro” Gv 20,27).

    E’ possibile essere figli di Dio solo in lui, accogliendo il dono del suo Spirito: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27).

    3.     Il Padre nostro può essere recitato da tutti? La paternità di cui parla Gesù è riservata a coloro che hanno ricevuto il suo Spirito. E’ una figliolanza che deriva dal dono gratuito della vita stessa di Dio.

    Per cui a buon diritto esso può essere pregato in verità e consapevolezza solo da coloro che nella fede hanno accolto Gesù, la sua Parola e il dono del suo Spirito.


    IL PATER OGGI

    Psicologi e sociologi affermano che la nostra società ha rifiutato la presenza e il ruolo del padre.

    Questa figura è stata sentita come presenza bloccante e frenante della spontaneità della vita. Si è presentato come un avversario-padrone da combattere in quanto rappresenta tutti i condizionamenti e le alinazione.

    Si è rivendicato, in una società improntatata su un’ideologia radicale, il diritto di ognuno di costruire se stesso senza nessun “padre”. Ciascuno è autonomo, indipendente, creatore di se stesso.

    L’uomo si è ritrovato solo, sperduto. Incapace di darsi risposte. Ma questo invece di spingerlo al ritorno alla casa del padre lo ha spesso spinto in un parrossistico tentativo di spegnere la sua angoscia in direzione del raggiugimento di piccoli orizzonti individuali, piccole altre case che però non riscaldano mai a sufficineza il cuore.

    Il padre diventa una realtà insignificante, un ornamento di cui si può fare benissimo a meno.

    La religione del Padre è stata rifiutata o quel che è peggio lascia ora completamente indifferenti.

    Lo scrittore E. Hemingway scriveva in uno dei suoi 49 Racconti una parodia del Padre Nostro: O nulla nostro che sei nulla, / sia nulla il tuo nome / nulla il regno tuo / e sia nulla la tua volontò / così in nulla come in nulla/. Dacci oggi il nostro nulla quotidiano / Ave, nulla, pieno di nulla, / il nulla sia con te.

    Sono parole estremamente drammatiche, ma quanto mai rappresentative di un ‘epoca.

    Lo spauracchio di Dio, o il “buon Dio”al massimo è utile per le donne e i bambini. Il giovane, l’adulto non ha bisogno di un Padre, può rischiare in proprio la vita.

    Tuttalpiù è meglio far riferimento a uno spirito universale, ad un cosmo divinizzato, ecc… in cui non mi sento minacciato nella mia libertà (cf New Age)

    Qui  si impone un’importante riflessione. Che Padre è quello rivelatoci da Gesù? Possiede le caratteristiche frustranti che vengono rifiutate e perseguitate dalla nostra cultura? Non è che forse si è rifiutata un’immagine caricaturale che di Dio era stata data e che forse la stessa Chiesa in tanti modi coscienti o incoscienti ha avvallato allontanandosi dalla rivelazione biblica?

    Quanto le esperienze negative che tanti hanno fatto nell’ambito delle relazioni familiari hanno e stanno influenzando nel loro rapporto con Dio Padre per cui egli diviene il giudice, il castigatore, colui che pretende sempre, il controllore….?

    A questo proposito lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica fa un commento illuminante: Prima di fare nostro questo slancio iniziale della Preghiera del Signore, non è superfluo purificare umilmente il nostro cuore da certe false immagini di “questo mondo”. L’umiltà ci fa conoscere che “nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” cioè “ai piccoli” (Mt 11,25-27).

    La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio. Dio nostro Padre, trascende le categorie del mondo creato. Trasporre su di lui, o contro di lui, le nostre idee in questo campo equivarrebbe a fabbricare idoli da adorare o da abbattere. Pregare il Padre è entrare nel suo mistero, quale egli è, e quale il Figlio ce lo ha rivelato” (2779)

    Gesù ci rivela al contrario un Padre che è garante e fonte di liberazione; pensiamo solo alla rilettura che Gesù fa della Legge! E’ un Padre che ci proietta ad un futuro da costruire con lui nella solidarietà con i nostri fratelli; pensiamo alla parabola del Padre misericordioso.

    Non è certo l’Abbà di Gesù un padre-padrone geloso dell’autonomia dei figli.

    Questa visione negativa di Dio si incuneò nell’esperienza umana al momento della tentazione di Adamo ed Eva quando il serpento insinuò il sospetto di un Dio geloso delle sue prerogative divine.

    Giovanni Paolo II scrive nella sua enciclica Dominus et Vivificantem 38: Lo spirito delle tenebre (Ef 6,12) è capace di mostrare Dio come nemico della propria creatura e prima di tutto come nemico dell’uomo, come fonte di pericolo e di minaccia per l’uomo. In questo modo viene innestato da Satana nella psicologia dell’uomo il germe dell’opposizione nei riguardi di colui che “sin dall’inizio” dev’essere considerato come nemico dell’uomo e non come Padre. L’uomo viene sfidato a diventare l’avversario di Dio.

    Terminiamo con un episodio tratto dalla vita di Teresa di Lisieux, una piccola del Regno, che hasperimentato nella sua vita un abbandono totale e fiducioso nelle mani del Padre.

    Un giorno, racconta Celina sorella di Teresa, entrando nella cella della nostra cara sorella rimasi sorpresa dalla sua espressione di grande raccoglimento. Cuciva con slancio e tuttavia sembrava perduta in una profonda contemplazione. “A che pensi?” le chiesi. “Medito il Pater noster” mi rispose “ è così dolce chiamare Dio Padre Nostro!”. E le spuntarono le lacrime agli occhi. Teresa amò Dio come un bambino vuole bene al babbo con incredibili manifestazioni di tenerezza. Durante la sua malattia accadde che, parlando di lui, prese una parola per un’altra e lo chiamò papà. Noi ridemmo ma lei riprese tutta commossa: “Oh sì, è proprio mio papà, e quanto mi è dolce dargli questo nome (Consigli e ricordi)

    San Pietro Crisologo nei suoi Sermoni scrive: “La consapevolezza che abbiamo della nostra condizione di schiavi ci farebbe sprofondare sotto terra, il nostro essere di terra si scioglierebbe in polvere se l’autorità dello stesso nostro Padre e lo Spirito del Figlio suo non ci spingessero a proferire questo grido: “Abbà, Padre!”. Quando la debolezza di un mortale oserebbe chiamare Dio suo Padre se non soltanto allorché l’intimo dell’uomo è animato dalla potenza dall’alto?” (Ser. 71).

  • 19 Gen

    Padre nostro che sei nei cieli

    Da J. Ratzinger, Gesù di Nazaret

    Il Padre nostro nell’evangelista Matteo

    Il Discorso della montagna delinea un quadro completo della giusta umanità. Vuole indicarci come si fa a essere uomini. Le sue concezioni fondamentali si potrebbero riassumere nell’ affermazione: solo a partire da Dio si può comprendere l’uomo e solo se egli vive in relazione con Dio, la sua vita diventa giusta.

    Dio però non è un lontano sconosciuto. Egli ci mostra il suo volto in Gesù; nel suo agire e nella sua volontà riconosciamo i pensieri e la volontà di Dio stesso.

    Se essere uomo significa essenzialmente relazione con Dio, è chiaro allora che ne fa parte il parlare con Dio e l’ascoltare Dio. Per questo il Discorso della montagna comprende anche un insegnamento sulla preghiera; il Signore ci dice come dobbiamo pregare.

    In Matteo la preghiera del Signore è preceduta da una breve catechesi sulla preghiera, che vuole metterci in guardia soprattutto contro le forme errate del pregare. La preghiera non deve essere un’esibizione davanti agli uomini; esige quella discrezione che è essenziale in una relazione di amore. Dio si rivolge a ogni singolo, chiamandolo col suo nome che nessun altro conosce, ci dice la Scrittura (cfr. Ap 2,17). L’amore di Dio per ogni individuo è totalmente personale e ha in sé questo mistero dell’unicità che non può essere divulgata davanti agli uomini.

    Questa essenziale discrezione della preghiera non esclude la dimensione comunitaria: lo stesso Padre nostro è una preghiera alla prima persona plurale, e solo entrando a far parte del «noi» dei figli di Dio possiamo superare i confini di questo mondo ed elevarci fino a Dio. Questo «noi» risveglia, tuttavia, la parte più intima della mia persona; nell’atto del pregare, l’aspetto esclusivamente personale e quello comunitario devono sempre compenetrarsi, come vedremo più da vicino nella spiegazione del Padre nostro. Come nella relazione tra uomo e donna esiste la sfera totalmente personale, che necessita dello spazio protettivo della discrezione, e allo stesso tempo il rapporto a due nel matrimonio e nella famiglia per sua essenza include pure una responsabilità pubblica, così è anche nella relazione con Dio: il «noi» della comunità orante e la dimensione personalissima di ciò che si può comunicare solo a Dio si compenetrano a vicenda.

    L’altra forma errata di preghiera, da cui il Signore ci mette in guardia, è il chiacchiericcio, il profluvio di parole, in cui lo spirito soffoca. Tutti conosciamo il pericolo di recitare formule abituali, mentre lo spirito è altrove. Raggiungiamo il massimo grado di attenzione quando chiediamo qualcosa a Dio spinti da un’intima pena o quando Lo ringraziamo con il cuore colmo di gioia per un bene ricevuto.

    La cosa più importante al di là di tali situazioni momentanee – è però che la relazione con Dio sia presente sul fondo della nostra anima. Perché ciò accada, è necessario tener sempre desta questa relazione e ricondurvi in continuazione gli avvenimenti quotidiani. Pregheremo tanto meglio quanto più nel profondo della nostra anima è presente l’orientamento verso Dio. Quanto più esso diventa la base portante di tutta la nostra esistenza, tanto più saremo uomini di pace. Tanto più saremo in grado di sopportare il dolore, di capire gli altri e di aprirci a loro. Questo orientamento che segna totalmente la nostra coscienza, la silenziosa presenza di Dio sul fondo del nostro pensare, meditare ed essere, noi lo chiamiamo «preghiera continua». Ed è anche questo, in fondo, che intendiamo quando parliamo di «amore di Dio»; allo stesso tempo è la condizione più intima e la forza trainante dell’ amore del prossimo.

    Questa autentica preghiera, il silente, interiore stare con Dio ha bisogno di nutrimento, ed è a questo che serve la preghiera concreta con parole, immaginazioni o pensieri. Quanto più Dio è presente in noi, tanto più potremo davvero stare presso di Lui nelle preghiere orali. Ma vale anche il contrario: la preghiera attiva realizza e approfondisce il nostro stare con Dio. Questa preghiera può e deve sgorgare soprattutto dal nostro cuore, dalle nostre pene, speranze, gioie, sofferenze, dalla vergogna per il peccato come dalla gratitudine per il bene ed essere così preghiera del tutto personale.

    Ma noi abbiamo sempre bisogno anche dell’ appoggio di quelle preghiere in cui ha preso forma l’incontro con Dio dell’intera Chiesa, come in essa delle singole persone. Senza questi sussidi, infatti, la nostra preghiera personale e la nostra immagine di Dio diventano soggettive e finiscono per rispecchiare più noi stessi che il Dio vivente. Nelle formule di preghiera emerse dapprima dalla fede di Israele e poi dalla fede degli oranti della Chiesa, impariamo a conoscere Dio e a conoscere noi stessi. Sono una scuola di preghiera e così stimolo a mutamenti e aperture della nostra vita.

    Nella sua Regola san Benedetto ha coniato la formula «mens nostra concordet voci nostrae» – il nostro spirito concordi con la nostra voce (Reg 19,7). Di solito il pensiero precede la parola, cerca e forma la parola. Ma nella preghiera dei Salmi, nella preghiera liturgica in generale, avviene il contrario: la parola, la voce ci precede, e il nostro spirito deve adeguarsi a questa voce. Noi uomini, infatti, non sappiamo da soli «che cosa sia conveniente domandare» (Rm 8,26) – troppo lontani siamo da Dio, troppo misterioso e grande è Lui per noi.

    E così Dio ci è venuto in aiuto: ci suggerisce Egli stesso le parole di preghiera e ci insegna a pregare, ci dona, nelle parole di preghiera provenienti da Lui, di metterci in cammino verso di Lui e di conoscerlo a poco a poco attraverso la preghiera con i fratelli che ci ha dato, di avvicinarci a Lui.

    In Benedetto la frase appena citata si riferisce direttamente ai Salmi, il grande libro di preghiera del popolo di Dio nell’ Antica e nella Nuova Alleanza: queste sono parole che lo Spirito Santo ha donato agli uomini, sono Spirito di Dio divenuto parola. Così noi preghiamo «nello Spirito», con lo Spirito Santo. Naturalmente, questo vale ancora di più nel caso del Padre nostro: quando lo recitiamo, preghiamo Dio con parole date da Dio, dice san Cipriano. E aggiunge: quando recitiamo il Padre nostro, in noi si compie la promessa di Gesù riguardo ai veri adoratori, che adorano il Padre «in spirito e verità» (Gv 4,23). Cristo, che è la Verità, ci ha donato queste parole, e in esse ci dona lo Spirito Santo (cfr. De domo or. 2). Così qui diventa evidente anche un elemento proprio della mistica cristiana. Essa non è anzitutto un immergersi in se stessi, ma incontro con lo Spirito di Dio nella parola che ci precede, incontro con il Figlio e lo Spirito Santo e così un entrare in unione con il Dio vivente, che è sempre sia dentro sia sopra di noi.

    Il Padre nostro nell’evangelista Luca

    Mentre in Matteo il Padre nostro è introdotto da una piccola catechesi sulla preghiera in generale, in Luca lo troviamo in un altro contesto – sulla strada di Gesù verso Gerusalemme. Luca introduce la preghiera del Signore con la seguente osservazione: «Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare… “» (11,1).

    Il contesto è dunque l’incontro con il pregare di Gesù, che desta nei discepoli il desiderio di apprendere da Lui a pregare. Questo è assai caratteristico in Luca, il quale nel suo Vangelo riserva alla preghiera di Gesù una rilevanza del tutto particolare. L’insieme dell’operare di Gesù scaturisce dalla sua preghiera, è da essa sostenuto. Così avvenimenti essenziali del suo cammino, nei quali si rivela via via il suo mistero, appaiono come eventi di preghiera. La confessione di Pietro su Gesù come il Santo di Dio è in rapporto all’incontro con il Gesù in preghiera (cfr. Lc 9,19ss); la trasfigurazione di Gesù è un evento di preghiera (cfr. Lc 9,28s).

    È quindi significativo che Luca metta in relazione il Padre nostro con la preghiera personale di Gesù stesso. Egli ci rende così partecipi del suo pregare, ci introduce nel dialogo interiore dell’ Amore trinitario, solleva per così dire le nostre umane necessità fino al cuore di Dio. Questo però significa anche che le parole del Padre nostro indicano la via verso la preghiera interiore, rappresentano orientamenti fondamentali per la nostra esistenza, vogliono conformarci a immagine del Figlio. Il significato del Padre nostro va oltre la comunicazione di parole di preghiera. Vuole formare il nostro essere, vuole esercitarci nei sentimenti di Gesù (cfr. FiI2,5).

    Per l’interpretazione del Padre nostro questo ha un duplice significato. Da un lato è molto importante ascoltare con la maggior precisione possibile la parola di Gesù, così come ci è stata tramandata nella Scrittura. Dobbiamo cercare di riconoscere davvero, come meglio possiamo, i pensieri di Gesù, che Egli voleva trasmetterci con queste parole. Ma dobbiamo anche tener presente che il Padre nostro proviene dalla sua preghiera personale, dal dialogo del Figlio con il Padre.

    Ciò vuol dire che esso raggiunge una grande profondità al di là delle parole. Comprende tutta la vastità dell’ esistere umano di ogni tempo e perciò non può essere scandagliato con un’interpretazione meramente storica, per quanto importante essa sia.

    I grandi oranti di tutti i secoli, per la loro unione intima col Signore, hanno potuto scendere nelle profondità al di là della parola e sono così in grado di dischiudere ulteriormente la ricchezza nascosta della preghiera. E ognuno di noi, con il suo rapporto del tutto personale con Dio, può trovarsi accolto e custodito in questa preghiera. Sempre di nuovo egli deve con la sua mens – con il proprio spirito – andare incontro alla vox – alla parola che viene a noi dal Figlio, deve aprirsi a essa e da essa lasciarsi guidare. Così si aprirà anche il suo stesso cuore e farà conoscere a ciascuno come il Signore voglia pregare proprio con lui.

    Il Padre nostro ci è stato tramandato da Luca in una forma più breve, da Matteo nella forma accolta dalla Chiesa e utilizzata nella sua preghiera. Il dibattito su quale testo sia più vicino all’ origine non è superfluo, ma nemmeno decisivo. Nell’una come nell’altra redazione noi preghiamo insieme con Gesù e siamo grati che nella forma matteana delle sette domande si presenti chiaramente sviluppato ciò che in Luca sembra in parte solo accennato.

    Prima di addentrarci nell’interpretazione delle singole parti, vediamo ora brevemente la struttura del Padre nostro, così come ci è stata tramandata da Matteo. Consiste di un’invocazione iniziale e sette domande. Tre di queste sono alla seconda persona singolare, quattro alla prima persona plurale. Le prime tre domande riguardano la causa stessa di Dio in questo mondo; le quattro che seguono riguardano le nostre speranze, i nostri bisogni e le nostre difficoltà. Si potrebbe paragonare la relazione tra i due tipi di domande del Padre nostro con quella tra le due tavole del Decalogo che, in fondo, sono spiegazioni delle due parti del comandamento principale – l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo -, parole guida nella via dell’amore.

    Così anche nel Padre nostro viene affermato dapprima il primato di Dio, dal quale deriva da sé la preoccupazione per il retto modo di essere uomo. Anche qui si tratta innanzitutto della via dell’ amore, che è allo stesso tempo una via di conversione. Perché l’uomo possa chiedere nel modo giusto, deve essere nella verità. E la verità è: «prima Dio, il regno di Dio» (cfr. Mt 6,33). Dobbiamo innanzitutto uscire da noi stessi e aprirci a Dio. Niente può diventare retto, se noi non stiamo nel retto ordine con Dio. Perciò il Padre nostro comincia con Dio e, a partire da Lui, ci conduce sulle vie dell’essere uomini. Alla fine scendiamo sino all’ultima minaccia per l’uomo, dietro cui si apposta il Maligno – può affiorare in noi l’immagine del drago apocalittico che fa guerra agli uomini «che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù» (Ap 12,17). Ma sempre resta presente l’inizio: «Padre nostro»sappiamo che Egli è con noi, ci tiene nella sua mano, ci salva. Padre Hans- Peter Kolvenbach, nel suo libro di Esercizi spirituali, racconta di uno staretz ortodosso a cui premeva «di far intonare il Padre nostro sempre con l’ultima parola, per diventare degni di terminare la preghiera con le parole iniziali: “nostro Padre”». In questo modo, spiegava lo staretz, si percorre il cammino pasquale: «Si inizia nel deserto con la tentazione, si ritorna in Egitto, si ripercorre poi la via dell’ esodo con le stazioni del perdono e della manna di Dio e si giunge grazie alla volontà di Dio nella terra promessa, il regno di Dio, dove Egli ci comunica il mistero del suo Nome: “nostro Padre”» (p. 65s).

    Possano entrambi i cammini, quello ascendente e quello discendente, ricordarci che il Padre nostro è sempre una preghiera di Gesù e che essa si dischiude a partire dalla comunione con Lui. Noi preghiamo il Padre celeste, che conosciamo attraverso il Figlio; e così sullo sfondo delle domande c’è sempre Gesù, come vedremo nelle singole spiegazioni. Infine, poiché il Padre nostro è una preghiera di Gesù, è una preghiera trinitaria: con Cristo mediante lo Spirito Santo preghiamo il Padre.

    Padre

    Iniziamo con l’invocazione «Padre». Nella sua interpretazione del Padre nostro Reinhold Schneider scrive a questo proposito: «Il Padre nostro inizia con una grande consolazione; noi possiamo dire Padre. In questa sola parola è racchiusa l’intera storia della redenzione. Possiamo dire Padre, perché il Figlio era nostro fratello e ci ha rivelato il Padre; perché per opera di Cristo siamo tornati ad essere figli di Dio» (p. 10).

    L’uomo di oggi, però, non avverte immediatamente la grande consolazione della parola «padre», poiché l’esperienza del padre è spesso o del tutto assente o offuscata dall’insufficienza dei padri.

    Così dobbiamo imparare, a partire da Gesù, innanzitutto che cosa «padre» propriamente significhi. Nei discorsi di Gesù il Padre appare come la fonte di ogni bene, come il criterio di misura dell’uomo divenuto retto («perfetto»): «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni...» (Mt 5,44s). «L’amore sino alla fine» (cfr. Gv 13,1), che il Signore ha portato a compimento sulla croce pregando per i suoi nemici, ci mostra la natura del Padre: Egli è questo Amore. Poiché Gesù lo pratica, Egli è totalmente «Figlio» e ci invita a diventare a nostra volta «figli» – a partire da questo criterio.

    Prendiamo ancora un altro testo. Il Signore ricorda che i padri non danno una pietra ai loro figli che chiedono un pane e continua: «Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!» (Mt 7,9ss). Luca specifica le «cose buone» che dà il Padre, dicendo: «Quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!» (Le 11,13). Ciò vuol dire: il dono di Dio è Dio stesso. La «cosa buona» che Egli ci dona è Lui stesso. A questo punto diviene sorprendentemente palese che cosa è in gioco quando si prega: non si tratta di questo o di quello, ma di Dio che vuole donarsi a noi questo è il dono dei doni, la «sola cosa di cui c’è bisogno» (cfr. Le 10,42). La preghiera è una via per purificare a poco a poco i nostri desideri, correggerli e conoscere pian piano di che cosa abbiamo veramente bisogno: di Dio e del suo Spirito.

    Quando il Signore insegna a conoscere la natura di Dio Padre a partire dall’ amore per i nemici e a trovare in ciò la propria «perfezione» così da diventare noi stessi «figli», allora la relazione tra Padre e Figlio è perfettamente manifesta. Allora diventa evidente che nello specchio della figura di Gesù noi conosciamo chi è e come è Dio: attraverso il Figlio troviamo il Padre. «Chi ha visto me ha visto il Padre», dice Gesù nel Cenacolo a Filippo in risposta alla sua richiesta: «Mostraci il Padre» (Gv 14,8s). «Signore, mostraci il Padre», ripetiamo in continuazione a Gesù e la risposta, sempre di nuovo, è il Figlio: attraverso di Lui, solo attraverso di Lui impariamo a conoscere il Padre. E così diventa poi evidente il criterio della vera paternità. Il Padre nostro non proietta un’immagine umana nel cielo, ma a partire dal cielo – da Gesù – ci mostra come dovremmo e come possiamo diventare uomini.

    Ora, però, dobbiamo guardare ancora meglio, per renderci conto che, secondo il messaggio di Gesù, in Dio l’essere Padre presenta per noi due dimensioni. Dio è innanzi tutto nostro Padre in quanto è nostro Creatore. Poiché Egli ci ha creato, noi apparteniamo a Lui: l’essere come tale viene da Lui e perciò è buono, è partecipazione di Dio. Ciò vale per l’uomo in modo tutto particolare. Il Salmo 33,15, secondo la traduzione latina, dice: «Egli che ha plasmato i cuori di tutti […] fa attenzione a tutte le loro opere». Il pensiero che Dio ha creato ogni singolo essere umano fa parte dell’immagine biblica dell’uomo. Ogni uomo, individualmente e come tale, è voluto da Dio. Egli conosce ciascuno singolarmente. In questo senso, già in virtù della creazione l’essere umano è in modo speciale «figlio» di Dio, Dio è il suo vero Padre: che l’uomo sia immagine di Dio è un altro modo di esprimere questo pensiero.

    Questo ci conduce alla seconda dimensione della paternità di Dio. Cristo è in modo unico «immagine di Dio»(cfr. 2 Cor4,4; Col 1,15). In base a ciò i Padri della Chiesa dicono che Dio, quando creò l’uomo «a sua immagine», guardò in anticipo a Cristo e creò l’uomo a immagine del «nuovo Adamo», dell’Uomo che è il canone dell’umanità. Soprattutto, però, Gesù è «il Figlio» in senso proprio – è della stessa sostanza del Padre. Egli vuole accoglierci tutti nel suo essere uomo e così nel suo essere Figlio, nella piena appartenenza a Dio.

    Così la filiazione è divenuta un concetto dinamico: noi non siamo già in modo compiuto figli di Dio, ma dobbiamo diventarlo ed esserlo sempre di più mediante una nostra sempre più profonda comunione con Gesù. Essere figli diventa l’equivalente di seguire Cristo. La parola che qualifica Dio come Padre diviene così un appello per noi: a vivere come «figlio» e «figlia».

    «Tutte le cose mie sono tue», dice Gesù al Padre nella preghiera sacerdotale (Gv 17,10), e la stessa cosa ha detto il padre al fratello maggiore del figlio prodigo (cfr. Lc 15,31). La parola «Padre» ci invita a vivere sulla base di questa consapevolezza. Così viene superata anche la smania della falsa emancipazione che stava all’inizio della storia del peccato dell’umanità. Adamo, infatti, sulla parola del serpente, vuole essere lui stesso dio e non aver più bisogno di Dio. Diviene evidente che «essere figli» non significa dipendenza, ma quel rimanere nella relazione di amore che sostiene l’esistenza umana, le dà senso e grandezza.

    Rimane infine ancora la domanda: Dio non è anche madre? Il paragone dell’amore di Dio con l’amore di una madre esiste: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Is 66,13). «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). In modo particolarmente toccante appare il mistero dell’amore materno di Dio nella parola ebraica rahamim, che originariamente significa «grembo materno», ma poi diventa il termine per il con-patire di Dio con l’uomo, per la misericordia di Dio. Nell’ Antico Testamento, organi del corpo umano vengono spesso impiegati per indicare atteggiamenti fondamentali dell’uomo o anche i sentimenti di Dio, così come «cuore» o «cervello» sono ancora oggi impiegati per esprimere qualche aspetto della nostra esistenza. In questo modo l’Antico Testamento illustra gli atteggiamenti fondamentali dell’ esistenza non con termini astratti, ma con il linguaggio di immagini tratte dal corpo. Il grembo materno è l’espressione più concreta dell’intimo intreccio di due esistenze e delle attenzioni verso la creatura debole e dipendente che, in corpo e anima, è totalmente custodita nel grembo della madre. Il linguaggio figurato del corpo ci offre così una comprensione dei sentimenti di Dio per l’uomo più profonda di quanto permetterebbe un qualsiasi linguaggio concettuale.

    Se nel linguaggio plasmato a partire dalla corporeità dell’uomo l’amore della madre appare inscritto nell’immagine di Dio, è tuttavia anche vero che Dio non viene mai qualificato né invocato come madre, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. «Madre» nella Bibbia è un’immagine ma non un titolo di Dio. Perché? Solo a tastoni possiamo cercare di comprenderlo. Naturalmente Dio non è né uomo né donna, ma appunto Dio, il Creatore dell’uomo e della donna. Le divinità-madri, che circondavano il popolo d’Israele come anche la Chiesa del Nuovo Testamento, mostravano un’immagine del rapporto tra Dio e mondo decisamente antitetica rispetto all’immagine biblica di Dio. Esse includevano sempre e forse inevitabilmente concezioni panteistiche, nelle quali la differenza tra Creatore e creatura scompariva. Partendo da questo presupposto, l’essere delle cose e degli uomini appare necessariamente come un’ emanazione dal grembo materno dell’Essere che, entrando nella dimensione del tempo, si concretizza nella molteplicità delle realtà esistenti. Al contrario, l’immagine del padre era ed è adatta a esprimere l’alterità tra Creatore e creatura, la sovranità del suo atto creativo. Solo mediante l’esclusione delle divinità-madri l’Antico Testamento poteva portare a maturità la sua immagine di Dio, la pura trascendenza di Dio. Ma anche se non possiamo dare delle ragioni assolutamente cogenti, resta per noi normativo il linguaggio della preghiera di tutta la Bibbia, nella quale, come detto or ora, nonostante le grandi metafore dell’ amore materno, «madre» non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo così preghiamo nel modo giusto.

    Nostro

    Da ultimo dobbiamo ancora riflettere sulla parola «nostro». Solo Gesù poteva dire «Padre mio» a pieno diritto, perché solo Lui è davvero il Figlio unigenito di Dio, della stessa sostanza del Padre. Noi tutti dobbiamo invece dire: «Padre nostro». Solo nel «noi» dei discepoli possiamo dire «Padre» a Dio, perché solo mediante la comunione con Gesù Cristo diventiamo veramente «figli di Dio». Così questa parola «nostro» è decisamente impegnativa: ci chiede di uscire dal recinto chiuso del nostro «io». Ci chiede di entrare nella comunità degli altri figli di Dio. Ci chiede di abbandonare ciò che è soltanto nostro, ciò che separa. Ci chiede di accogliere l’altro, gli altri – di aprire a loro il nostro orecchio, il nostro cuore. Con questa parola «nostro» diciamo «sì» alla Chiesa vivente, nella quale il Signore ha voluto raccogliere la sua nuova famiglia. Così il Padre nostro è una preghiera molto personale e insieme pienamente ecclesiale.

    Nel recitare il Padre nostro noi preghiamo totalmente col nostro cuore, ma preghiamo allo stesso tempo in comunione con l’intera famiglia di Dio, con i vivi e con i defunti, con gli uomini di ogni estrazione sociale, di ogni cultura, di ogni razza. Il Padre nostro fa di noi una famiglia al di là di ogni confine.

    Che sei nei cieli

    A partire da questo «nostro» comprendiamo ora anche l’ulteriore aggiunta: «che sei nei cieli». Con queste parole noi non collochiamo Dio, il Padre, su un qualche astro lontano, ma affermiamo che noi, pur avendo padri terreni diversi, proveniamo tutti da un unico Padre, che è misura e origine di ogni paternità. «lo piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome», dice san Paolo (Ef 3,14s). Sullo sfondo udiamo la parola del Signore: «Non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo» (Mt 23,9).

    La paternità di Dio è più reale della paternità umana, perché ultimamente il nostro essere lo abbiamo da Lui; perché Egli ci ha pensati e voluti fin dall’ eternità; perché è Lui che ci dona l’autentica casa del Padre, quella eterna. E se la paternità terrena separa, quella celeste unisce: cielo significa dunque quell’altra altezza di Dio, dalla quale tutti noi veniamo e verso la quale tutti noi dobbiamo essere in cammino.

    La paternità «nei cieli» ci rimanda a quel «noi» più grande che oltrepassa ogni frontiera, abbatte tutti i muri e crea la pace.

  • 14 Gen

    Riflessioni sul Salmo 50

    card. Carlo M. Martini

    1

    Il punto di partenza

    Dal Vangelo secondo Luca: 15, 1-10

    Si avvicinarono a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro ». Allora Gesù disse loro questa parabola: « Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.
    O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova?
    E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduto. Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte ».

    Il tema su cui ci proponiamo di riflettere, facendoci aiutare dalla lettura del Salmo «Miserere », si può intitolare: cammino di riconciliazione.

    La scelta del tema

    1. C’è un nesso inscindibile tra la riconciliazione sociale e politica e la conversione del cuore.

    a. Non ci può essere una vera, duratura, stabile riconciliazione sociale e politica tra gli uomini, i popoli, le nazioni, senza conversione del cuore.

    b. Come pure non c’è conversione del cuore – e quindi anche cammino di penitenza cristiana – senza che ci sia un irradiamento, una risonanza nella riconciliazione sociale e politica.

    2. Esiste un itinerario penitenziale. La conversione del cuore non è una realtà semplice, puntuale: comprende delle tappe che non si possono disattendere o saltare a piacere. C’è un itinerario che è fatto secondo il cuore dell’uomo e che noi siamo invitati ad imparare, per ripercorrerlo.

    3. C’è una missione ecclesiale verso il mondo. Essa grava su di noi e si precisa, prendendo contorni via via più chiari, mentre percorriamo il cammino penitenziale. Attraverso questo cammino chiediamo a Dio di renderci maggiormente attenti e responsabili circa i problemi della riconciliazione umana e cosmica.

    Per tutti questi motivi mi è sembrato importante riflettere, insieme con voi, sul cammino di riconciliazione.

    Il Miserere

    Il Salmo 50 (o 51 secondo l’enumerazione ebraica) è di una ricchezza inesauribile.
    Esso attraversa tutta la storia della Chiesa e della spiritualità: costituisce lo schema interiore delle Confessioni di Agostino; è stato amato, meditato, commentato da Gregorio Magno; è divenuto segnale di ardente difesa dell’immagine di Dio nelle infuocate prediche del Savonarola e motto di speranza dei soldati di Giovanna d’Arco; è stato studiato intensamente da Martin Lutero che vi ha dedicato pagine indimenticabili; è lo specchio della coscienza segreta dei personaggi di Dostoevskij e una chiave di lettura dei suoi romanzi. Esso è quindi il Salmo dei grandi uomini di Dio. Musicisti come Bach, Donizetti e altri più vicini al nostro tempo l’hanno ripensato in musica. Celebri pittori l’hanno descritto con meravigliose incisioni.

    È soprattutto il salmo che ha accompagnato le preghiere, le lacrime, le sofferenze di tanti uomini e di tante donne che vi hanno trovato conforto e chiarezza nei momenti oscuri e pesanti della loro vita. Il Miserere è la preghiera dell’uomo di sempre, appartiene alla storia dell’umanità, non solo alla storia dell’Oriente ebraico e della civiltà occidentale cristiana. Meditandolo noi entriamo nel cuore dell’uomo e nel cuore della storia dell’umanità.

    Possiamo ripetere, facendola nostra, la preghiera di Charles de Foucauld:

    Grazie, mio Dio, per averci dato questa divina preghiera del Miserere. Questo Miserere che è la nostra preghiera quotidiana. Diciamo spesso questo salmo, facciamone spesso la: nostra preghiera; esso racchiude il compendio di ogni nostra preghiera: adorazione, amore, offerta, ringraziamento, pentimento, domanda. Esso parte dalla considerazione di noi stessi e della vista dei nostri peccati e sale fino alla contemplazione di Dio, passando attraverso il prossimo e pregando per la conversione di tutti gli uomini.

    L’iniziativa divina

    I primi versetti del Salmo 50 ci introducono con queste parole: .

    Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
    nel tuo grande amore cancella. il mio peccato.
    Lavami da tutte le mie colpe,
    mondami dal mio peccato
    .

    Il punto di partenza del cammino di conversione del cuore è l’iniziativa divina di misericordia: Dio è sempre il primo a dare la mano, il piatto della bilancia pende sempre dalla parte della sua bontà.

    I vocaboli che la versione italiana usa per indicare ciò che l’uomo ha fatto – il peccato, le colpe – non rendono adeguatamente la lingua originale. Infatti, nel testo ebraico sono tre parole diverse che andrebbero lette così: «…cancella la mia ribellione, lavami da ogni mia disarmonia, mondami, “tirami fuori” da ogni mio smarrimento ». Il peccato è uno sbaglio fondamentale dell’uomo, una distorsione, una disarmonia, una ribellione, una volontà di progetto alternativo e contrastante il progetto di Dio.

    Alle parole che indicano lo sbandamento dell’uomo fanno riscontro tre appellativi divini: « Pietà… misericordia… amore ». C’è il peccato dell’uomo, pur se declinato con termini diversi, e ci sono tre attributi di Dio. Questa sproporzione indica che l’insistenza non è sull’uomo peccatore, sulla povertà di ciò che noi siamo, ma è sull’infinità di Dio.
    Cerchiamo di riflettere brevemente sui vocaboli che definiscono il Dio della misericordia e della bontà.

    Chi è Dio

    La prima parola è racchiusa in un verbo ma, in realtà, è la radice di un sostantivo. Quello che in italiano traduciamo con: « Pietà di me, o Dio », in ebraico è semplicemente: «Grazia, fammi grazia, riempimi della tua grazia». Si chiede dunque a Dio che sia per noi grazia, che prenda interesse a chi sta male, a chi si trova in difficoltà, che ci dia una mano. È l’esperienza di Maria che canta: « Signore, tu hai guardato alla povertà della tua serva e mi hai fatto grazia, mi hai riempito della tua grazia».

    Dio è dono gratuito, è l’essenza della gratuità. Quando noi diciamo che Dio non può aver alcun interesse a pensare a noi, ad occuparsi di noi, riveliamo di avere un’idea falsa di Dio. Abbiamo di Lui, per dirlo con una parola tecnica, un’idea farisaica, che cerca cioè di capire Dio partendo dalle categorie del calcolo. Dio gode nel poter donare qualcosa a chi ha bisogno di essere sostenuto, a chi non si sente nessuno, a chi si sente in basso. Egli vuole versare il suo valore in noi e non giudica il nostro.

    La seconda parola è « misericordia ». È interessante notare che l’espressione è: « secondo la tua misericordia » e non « nella tua misericordia» o « perché sei misericordioso ». Il salmista sottolinea la sproporzione infinita, che l’uomo intuisce senza comprenderla, della misericordia divina. In ebraico il termine è hésed ed ha una lunga storia ricca di significato. Indica, infatti, l’atteggiamento tipico di Dio verso il suo popolo, che comporta lealtà, affidabilità, fedeltà, bontà, tenerezza, costanza nell’attenzione e nell’amore.
    Si potrebbe anche tradurre con « gentilezza», nel senso di tenerezza, che non si smentisce, che non svanisce mai. Dio è colui che io non conosco, ma per il quale sono importante, per il quale è importante – secondo la parola di Gesù – ogni capello del mio capo. Nulla avviene in me senza un’attenzione della tenerezza di Dio.
    Noi traduciamo hésed con « misericordia» perché la gentilezza di Dio si fa più tenera quando noi siamo deboli, fragili, peccatori, incostanti, strani, poco attraenti e forse pensiamo che Dio fa bene a non ricordarsi di noi, farebbe bene a castigarci.

    La terza parola è « nel tuo grande amore ». In ebraico si dice «rahammìm» e significa «il cuore, le viscere». È un vocabolo profondamente materno e indica la capacità di portare qualcuno dentro, di immedesimarsi in una situazione così da viverla nella propria carne, da soffrirne o goderne come di cosa propria. Questo attributo di Dio è qualcosa che può capire chi ha amato un’altra creatura con un amore totale, viscerale, coinvolgente, appassionato. Potremmo quasi tradurre: « secondo la tua grande passione per l’uomo, abbi misericordia, o Dio ».

    Questi tre attributi di Dio ci danno il tono del Salmo 50, che è un inno a incontrare Dio così com’è. Partendo dalla contemplazione dell’iniziativa divina per l’uomo, ci invita prima di tutto ad avere una grande e giusta idea di Dio.

    Domande per noi

    Nascono per noi alcune domande.

    Ho una giusta idea di Dio? Lo incontro così com’è? È importante questa prima domanda perché chi non ha una giusta idea di Dio non ha neanche una giusta idea di sé, né degli altri.

    Nel cap. 15 del Vangelo secondo Luca, leggiamo che « i farisei e gli scribi mormoravano» di Gesù perché riceveva e mangiava con i peccatori (cfr. Lc. 15, 1.10). È questo il tipico atteggiamento di chi non ha una giusta idea di Dio, di chi considera Dio vendicativo, permaloso, irritabile. E spesso, non accettando noi stessi, finiamo col credere che Dio non ci accetta fino in fondo. È vero che a volte ostentiamo una grande sicurezza, quasi una spavalderia, asserendo che non abbiamo alcun bisogno di Dio. Tuttavia in altri momenti sorge in noi quella profonda insicurezza che è alla radice di ogni uomo e che è il segno della sua creaturalità. Nell’ambito religioso essa si esprime appunto con il senso di un Dio un po’ cattivo, di un Dio che non mi dà giustizia, che richiede troppo da me, che mi ha messo in circostanze troppo difficili oppure che è troppo difficile Lui stesso e non si lascia raggiungere. Al fondo di tutti questi sentimenti c’è, probabilmente, la persuasione che Dio non mi ama così come sono, che non è contento di me.

    La grande rivelazione del Salmo 50 è, invece, che Dio mi ama come sono, che mi accetta fino in fondo, che è adesso gentile con me, cortese, attento, premuroso e tenero.
    Tutto questo l’ha compreso bene il pastore della parabola lucana là dove si legge: «Ritrovata (la pecora perduta), se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta» (15, 5-6). L ‘ha compreso la donna che, ritrovata la dramma smarrita, invita le amiche e dice: « Rallegratevi con me» (15, 9). Gesù conclude la parabola: « Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte» (15, 10).
    Ciascuno di noi dovrebbe poter dire: Dio ha gioia in me, ha gioia per me, io rappresento qualcosa di molto importante per lui. Ecco che cosa significa avere un’idea giusta di Dio, partire col piede giusto nel cammino della riconciliazione.

    Seconda domanda: ho qualche idea sbagliata su Dio?

    Abbiamo già detto che i farisei e gli scribi che mormoravano di Gesù avevano un’idea sbagliata di Dio. Emerge in noi, con frequenza, qualche lamentela profonda, che magari non osiamo dire a nessuno e di cui ci vergogniamo? Ci ribelliamo contro Dio, abbiamo dentro di noi qualche conto aperto con Lui?

    Terza domanda: che cosa posso fare per correggere l’idea sbagliata che ho di Dio? Per correggere quei sentimenti deformati della mia coscienza a suo riguardo?

    Uno dei modi è certamente l’ascolto della sua Parola, la lettura meditata della Scrittura che riporta a verità i sentimenti spesso rattrappiti nell’espressione spirituale della lode a Dio. Cercherò allora di tradurre le parole del Salmo: «Fammi grazia, o Dio, secondo la tua grande passione per l’uomo. Nella tua tenerezza cancella le idee sbagliate che ho su di te! Mi dispiace, o Padre, di averle coltivate: Tu solo puoi darmi l’idea giusta perché come posso conoscerTi se non Ti riveli e se il Tuo Figlio non apre in me la conoscenza di Te? ».

    Infine, l’ultima domanda: ho qualche idea sbagliata sul prossimo? Come posso fare per correggerla?

    L’idea sbagliata che possiamo avere su Dio si ripercuote in idea sbagliata sul prossimo. Questo avviene non quando lo critichiamo, perché qualche volta il prossimo è criticabile (lo siamo un po’ tutti!), ma quando ci lamentiamo all’infinito di qualcuno, quando non ci va mai bene una persona o una situazione. Allora vuol dire che non abbiamo assunto l’atteggiamento giusto, quello che Dio ha verso di noi e che è comprensivo, creativo, capace di guardare con occhio nuovo, tenero, positivo, la situazione.
    Spesso si creano tra le persone dei blocchi emotivi per cui tutto ciò che un altro fa è sbagliato: talora le nostre stesse confessioni sono lamentele su altri. Se avessimo un’idea giusta di Dio, essa opererebbe in noi in modo di farci guardare i difetti degli altri con occhio diverso, capace di abbracciarli positivamente in una visuale creativa, come Dio fa con noi. Perché non imitare Dio mettendoci alla sua scuola? Invece di domandarci all’infinito perché l’altro mi ha trattato casi, perché mi ha fatto quella tal cosa, proviamo a chiederei: che cosa posso fare per lui, come posso cambiare il cuore, l’animo, la vita, il sorriso di questa persona?


    2

    Il riconoscimento della situazione

    Dal Vangelo secondo Luca,: 15,11-32

    Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso sud padre.
    Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
    Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso.
    Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato ».

    Riconosco la mia colpa,
    il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
    Contro di te, contro te solo ho peccato,
    quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.
    Ecco, nella colpa sono stato generato,
    nel peccato mi ha concepito mia madre.
    Ma tu vuoi la sincerità del cuore
    e, nell’intimo m’insegni la sapienza.

    Le parole dei primi versetti del Salmo, su cui ci siamo soffermati, ci introducono nella sezione centrale di questo Salmo che si può, utilmente, dividere in tre parti.

    La prima parte è il riconoscimento di una situazione. I verbi sono tutti all’indicativo ed espongono, sottolineano dei fatti: riconosco la mia colpa, contro di te ho peccato, sei giusto quando parli, mi insegni la sapienza.

    La seconda parte esprime la supplica. Il brano cambia di tono e quasi tutti i verbi sono all’imperativo: purificami, lavami, fammi sentire gioia, distogli lo sguardo, cancella, crea in me, non respingermi, non privarmi, rendimi la gioia, sostieni in me.

    La terza parte è il progetto per l’avvenire. I verbi sono al futuro: insegnerò, la mia lingua esalterà.

    Con termini a noi più abituali possiamo chiamare: 1. esame di coscienza il riconoscimento della situazione; 2. richiesta di perdono la supplica; 3. proposito il progetto per l’avvenire. Sono tre momenti chiaramente distinti nella lettura, anche semplicemente nella differenza dei verbi.

    Verso la verità di noi stessi

    Tre sono i soggetti che vengono presentati in azione.

    Il soggetto che appare più di frequente è la stessa persona: l’io. Io riconosco la colpa, io ho peccato contro di te, io ho fatto quello che è male.

    Un altro soggetto, in terza persona, è il peccato. Il peccato e la realtà del peccato in cui l’uomo si sente inserito: nel peccato sono stato generato, nella colpa mi ha concepito mia madre.

    Il terzo soggetto dell’azione, quello determinante, la chiave per capire tutto il significato del brano è il Tu: ovvero Dio stesso.

    C’è quindi l’io che riconosce, c’è una determinazione generale della situazione di colpa, c’è il Tu con cui termina questa prima parte e che è il punto focale: Tu vuoi la sincerità del cuore, Tu, nell’animo mi insegni la sapienza.

    Cerchiamo di riflettere innanzi tutto sulle parole che hanno per soggetto il Tu, per poter poi comprendere meglio quelle che precedono.

    Nel testo ebraico l’espressione « Tu vuoi la sincerità del cuore» è più difficile: «Tu ami la verità nell’oscuro», cioè Tu ami la verità, che è la luce, anche là dove l’uomo è perduto nei meandri della sua coscienza.

    «Tu mi insegni sapienza nel segreto.» La sapienza è una delle realtà più alte e più; profonde dell’Antico Testamento: essa è ordine, proporzione, luminosità, calore creativo, progetto divino di salvezza.

    Ecco la chiave della prima parte del Salmo: Dio, nella sua iniziativa di amore e di misericordia, proietta nell’oscurità della mia psiche, nel profondo della coscienza, la luce del suo progetto. Così facendo mi porta a scoprire la verità di me stesso, mi dà respiro, mi aiuta a cogliermi rispetto a ciò che sono chiamato ad essere, a ciò che avrei dovuto essere, a ciò che posso essere con la sua grazia. La verità e la sapienza di Dio sono luce autentica, benefica, amichevole che, entrando nelle pieghe dell’anima dove neppure io stesso mi rendo conto di ciò che succede, mi istruisce e mi sospinge alla sincerità e all’autenticità di quello che io veramente sono.

    Il dialogo con il Tu

    Se abbiamo inteso, almeno un poco, la forza di queste parole, possiamo meglio leggere quelle che si trovano all’inizio: « Contro di te, contro te solo ho peccato ». Ho fatto ciò che non va davanti a te.

    A prima vista ci appare strana questa espressione, soprattutto se la riferiamo a colui che, storicamente, è ritenuto l’emblema della vicenda raccontata nel Salmo, cioè a Davide e al suo peccato. Altro che peccare contro Dio soltanto! Davide ha peccato contro un suo fratello, un amico; lo ha fatto morire slealmente, gli ha preso la moglie, è stato dunque omicida e traditore oltre che adultero.

    Eppure l’insistenza è sul rapporto con Dio, che attraverso quelle azioni si è instaurato. E forse qui si vuole esprimere qualcosa che emerge dalla storia di Davide. In realtà, nessuno conosceva il peccato di Davide, tanto bene era riuscito il suo tessuto di imbrogli, ed è solo il profeta Natan che gliela rinfaccia. Tuttavia, quando gli vengono apertamente detti gli intrighi che ha fatto, Davide è posto di fronte alla verità terribile della sua coscienza.
    Peccando contro l’amico con il tradimento, con l’infedeltà e con l’adulterio, Davide si è messo contro Dio e contro tutti coloro che Dio difende come cosa sua: «Contro di te, contro te solo ho peccato». L’espressione è molto simile alla parola centrale della parabola evangelica del figlio prodigo: « Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te ». Tutto ciò che il figlio ha fatto riguarda tante altre cose: la sua vita dissoluta, il suo sperpero, tutti gli errori, tutte le soperchierie da lui commesse, gli illeciti vissuti. Tutto questo però viene riassunto nel suo rapporto col Padre; nel suo rapporto con Dio (cfr. Lc. 15, 11-32).
    L’uomo, istruito da Dio, entra nel fondo della propria verità, riconosce in dialogo che il suo sbaglio, in sé e attorno a sé, piccolo o grande che sia, ha leso l’immagine di Dio, ha leso il suo rapporto con Dio.

    Il richiamo è importante per noi che siamo giustamente abituati oggi a sottolineare gli aspetti sociali del peccato: il peccato cioè non è soltanto contro Dio, tocca la Chiesa, disgrega la società, ferisce la comunità. Qui ci viene ricordato che Dio sta dietro ad ogni uomo, ad ogni persona che noi trattiamo male, che inganniamo o disprezziamo. Ci mettiamo contro Dio tutte le volte che respingiamo il fratello o la sorella che ci stanno vicino e che attendono da noi un gesto di carità o di giustizia. Tutti i problemi della storia, il problema etico, il problema della giustizia, della pace, il problema dei giusti rapporti familiari, personali, sociali sono il problema dell’uomo nel suo dialogo con Colui che lo ama, lo conosce e lo aiuta a conoscersi nella sua verità. Non viene, infatti, detto: ho peccato, ho sbagliato. Viene detto: «Contro di te ho peccato ».

    La personalizzazione della colpa è insieme un atto di profonda verità e un atto di estrema chiarezza perché questo riconoscimento dell’uomo che parla così, che è educato a parlare così, non ha nulla a che fare con il senso deprimente e avvilente del senso di colpa.
    Tutti noi siamo soggetti a momenti di tristezza senza uscita, di ira, di sdegno, di vendetta contro noi stessi: sofferenze inutili generate dal senso di colpa che non è vissuto in un dialogo con Dio, sofferenze che non possono renderci migliori. Le parole del Salmo ci rivelano la differenza tra l’esame di coscienza fatto in dialogo con Dio e tutta l’analisi della colpa, delle debolezze, delle bassezze che ciascuno riconosce in se stesso e che arrivano a deprimere profondamente lo spirito rendendolo ancora più stanco e incapace di lottare.

    In questo Salmo, scritto più di duemila anni fa, noi cogliamo l’uomo che ha trovato la via giusta per il pentimento, la via del riconoscimento di colpe gravissime ma espresso davanti a Colui che cambia il cuore dell’uomo. Notiamo anche il carattere personale, affettivo, delle parole: «Quello che è male ai tuoi occhi». Ai tuoi occhi, al tuo amore che mi ha creato, fatto, amato, progettato.

    Come ‘è diversa questa realtà da quella dei cosiddetti «pentiti » giudiziari! Il pentimento giudiziario può certamente produrre vantaggi umani per la collaborazione a cui induce, ma non ha la forza di purificare la coscienza dal sangue versato. Il «pentito»dovrà ancora dire: Il mio peccato mi sta sempre dinanzi. A meno che non entri in quel misterioso processo di trasformazione del cuore umano che fa l’uomo totalmente diverso: Crea in me, o Dio, un cuore nuovo!; il processo di trasformazione che è affidato alla potenza di Dio e che permette un’esistenza nuova.

    Domande per noi

    Abbiamo visto che l’esame di coscienza è il lasciare emergere quella verità di noi stessi che Dio, nella sua bontà, ci insegna. Le parole del Salmo possono rinnovare dentro di noi il senso religioso, forse stanco di atti ripetuti e non capiti fino in fondo.
    Vi propongo allora due domande semplicissime e utili per prepararsi al Sacramento della Riconciliazione:

    Che cosa non vorrei avere sulla coscienza? Che cosa mi pesa, mi avvilisce, mi opprime, mi fa essere quello che non vorrei? Lasciamo che emerga ciò che ci viene come risposta a questa domanda con semplicità, senza ricorso immediato a formule imparate. È infatti la verità di noi stessi che sta nascendo come supplica, come desiderio, come immagine giusta o sbagliata di noi.

    Come avrei voluto essere e non sono stato? Come avrei voluto comportarmi nelle situazioni che ora mi pesano? Da qui comincia il dialogo, che chiarisce le motivazioni e i giudizi, ricostruendoci dall’interno, in quell’opera di creazione, esaltata nella seconda parte del Salmo, su cui mediteremo in uno dei prossimi incontri.

    Dopo queste domande, suggerisco quattro riflessioni:

    Quando ho fatto l’ultima volta l’esame di coscienza? L’esame di coscienza mi dà noia, mi disturba oppure mi lascia contento? Per capire meglio il significato di questo interrogativo vi può aiutare la lettura del seguente testo che traggo dall’autobiografia di S. Ignazio di Loyola:

    Pensando alle cose del mondo provava [il Santo scrive in terza persona, pur parlando di se stesso] molto piacere, ma quando, per stanchezza, le abbandonava, si sentiva vuoto e deluso. Invece, andare a Gerusalemme a piedi nudi, non cibarsi che di erbe, praticare tutte le austerità che aveva conosciute abituali ai santi, erano pensieri che non solo lo consolavano mentre vi si soffermava, ma anche dopo averli abbandonati lo lasciavano soddisfatto e pieno di gioia. Allora non vi prestava attenzione e non si fermava a valutare questa differenza. Finché una volta gli si aprirono gli occhi; meravigliato di quella diversità cominciò a riflettervi; dall’esperienza aveva dedotto che alcuni pensieri lo lasciavano triste, altri allegro, e a poco a poco imparò a conoscere la diversità degli spiriti che si agitavano in lui: uno del demònio, l’altro di Dio.

    È quindi importante chiedersi se l’esercizio dell’esame di coscienza ci pesa oppure se ci lascia contenti.

    Considero l’esame di coscienza un’iniziativa divina di dialogo, cioè un colloquio con un Tu? Oppure lo ritengo una fastidiosa e faticosa analisi della psiche? Mi abituo a considerarlo un dialogo in cui parlo, ascolto, mi esprimo con fiducia, con la gioia di essere accettato, accolto e riabilitato a partire da ciò che sono?

    – Se trovo difficoltà nell’esame di coscienza, che esprime un modo di essere irrinunciabile dell’uomo che vuole prendere coscienza di sé, mi lascio aiutare dalla Chiesa nel dialogo penitenziale? La viva tradizione della Chiesa ci parla a lungo del cammino di conversione necessario ad ogni uomo, ad ogni comunità. Ci parla anche dei momenti di questo cammino, di cui fa parte la capacità di riconoscere autenticamente ciò che c’è in noi e di viverlo limpidamente davanti a colui che, in nome di Dio, ci ascolta in un dialogo paterno.

    Il Signore è pronto a trasformare la nostra, vita se la mettiamo nelle sue mani e auguro a ciascuno di vivere questa esperienza, che è una delle più belle che l’uomo possa fare.

    3

    Il dolore dei peccati

    Dal Vangelo secondo Luca: 22, 54-62

    Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Siccome avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno, anche Pietro si sedette in mezzo a loro. Vedutolo seduto presso la fiamma, una serva fissandolo disse: «Anche questi era con lui ». Ma egli negò dicendo: «Donna, non lo conosco! ». Poco dopo un altro lo vide e disse: «Anche tu sei di loro! ». Ma Pietro rispose: «No, non lo sono! ». Passata circa un’ora, un altro insisteva: «In verità, anche questo era con lui, è anche lui un Galileo ». Ma Pietro disse: « O uomo, non so quello che dici ». E, in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. All’ora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte». E uscito pianse amaramente.

    Sei giusto quando parli,
    retto nel tuo giudizio.

    Per completare la riflessione sulla prima parte della sezione centrale del Salmo 50, meditiamo sulle parole: « Sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio ». Esse ci permettono di entrare nel tema del dolore dei peccati.

    La parola « dolore », pronunciata nel contesto del Sacramento della Riconciliazione, può evocare in noi una sensazione di disagio o di insoddisfazione. È il ricordo di sentimenti talora spremuti a fatica; l’incertezza che ci può prendere se abbiamo avuto o non abbiamo avuto veramente il dolore in qualche nostra confessione; il senso di colpa per non riuscire, almeno ci sembra, a provare un dolore vivo dei peccati commessi e il ritardare forse, per questo, la confessione.

    Eppure, nel campo delle esperienze corporee, il dolore è la più inevitabile, la più evidente, la meno artificiale delle sensazioni: sento un dolòre nel corpo, malgrado non lo voglia.
    Gli stessi dolori morali sono qualcosa di molto reale dentro di noi: a volte ci opprimono fino a toglierei il sonno. Che cos’è dunque il dolore dei peccati che sembra avere poco in comune con la sensazione, tanto viva e presente, del dolore fisico o morale?

    Il giudizio su di sé

    Vorrei cominciare da qualche riflessione generale. Ci sono degli atti, più o meno gravi, che ciascuno vorrebbe non avere compiuto. Ci sono dei comportamenti, magari poco appariscenti, che non corrispondono a come ciascuno vorrebbe essere: modi di fare, di pensare, di rispondere, di agire. Talvolta ci accorgiamo che non dipendono nemmeno da noi e sono piuttosto il frutto di precedenti abitudini, di sorpresa, di inavvertenza. Tuttavia hanno qualche aspetto di cui interiormente sentiamo di non poterci vantare.

    Questa capacità di giudizio su di sé non è ancora il dolore dei peccati: ne è la premessa. Infatti non posso pentirmi se non di qualcosa che insieme è mio e non va, l’ho fatto e non l’approvo. Il cammino della purificazione cristiana presuppone la capacità di giudizio su di sé, implica una dissociazione da qualche aspetto di noi che non approviamo.

    Saper fare questo è un segno di libertà in cammino, è un segno di maturazione umana e morale. C’è da dubitare di una persona che accusa sempre gli altri e che è soddisfatta di sé in tutto. Se, nelle nostre confessioni, siamo portati ad accusare gli altri ed a scusare noi, riveliamo di non aver compiuto nemmeno il primo passo verso il pentimento cristiano.

    E d’altra parte è vero che, forse per una certa abitudine al Sacramento della Riconciliazione, il nostro pentimento è a volte bloccato dal fatto che non siamo convinti fino in fondo di dover imputare a noi stessi qualcosa che in noi non va. Non ci sentiamo di ammettere del tutto che la colpa è nostra. Più di frequente il pentimento è bloccato perché non siamo affatto convinti che quello che abbiamo fatto non andava fatto: magari la tradizione e la dottrina dicono che è sbagliato ma interiormente sentiamo che non è vero.

    In questo caso il dolore, il pentimento diventa faticoso, superficiale, artificiale.
    Che cosa dobbiamo fare se ci accorgiamo che il nostro pentimento non si scioglie, che è bloccato da questi motivi che riguardano il giudizio preliminare su noi stessi?

    È chiaro che il cammino da fare è il passaggio da una valutazione frettolosa di noi ad una valutazione più realistica e ponderata, attraverso la riflessione e la preghiera.
    Invece di cominciare subito con la confessione propriamente detta, può essere opportuno cominciare ad instaurare un semplice colloquio amichevole che permette di esprimere la difficoltà di fondo, di dare voce a questa difficoltà e di farci aiutare a chiarirla. Sarebbe errato fermarsi alla difficoltà lasciandosi ipnotizzare da essa.

    Con queste tre riflessioni, siamo ancora ai preliminari di quello che è il dolore cristiano dei peccati: esso scatta e prende forma ad un livello superiore di coscienza e vogliamo cercare di comprenderlo meditando le parole del Salmo 50.

    La parte lesa

    Che cosa vuol dire concretamente: « Sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio? ». Noi interpretiamo spontaneamente questo versetto mettendo Dio al posto di un giudice; vediamo idealmente due parti convenute in giudizio e Dio nel mezzo.
    Le due parti sono, nel caso del riferimento storico del Salmo, Davide e Uria, il marito di Betsabea ucciso proditoriamente per ordine di Davide. Dio sta nel mezzo come giudice imparziale che dà torto a Davide e lo condanna. Il re accetta la condanna e allora dice a Dio: Tu sei retto quando giudichi.

    Questa interpretazione non è cogente. Essa pone Dio come arbitro che condanna il peccatore alla morte, senza possibilità di appello. La realtà vissuta dal Salmo è molto più profonda. Dio non è giudice: è parte lesa. Egli, che è il principio di ogni fedeltà e di ogni amore, è stato leso mortalmente da Davide, è stato violentato nei suoi diritti. Per questo rimprovera Davide e questi accetta il rimprovero sapendo che il giudizio divino è giusto ed è quindi anche un giudizio di perdono. Dio, come parte offesa, redarguisce Davide perché vuole la sua vita e non la sua morte: se ha tentato di uccidere Dio, Dio lo vuole salvare.

    È propriamente a questo punto che scatta il pentimento biblico, il dolore dell’uomo: l’uomo si trova davanti a Colui che ha leso, di cui ha respinto la fiducia e che di nuovo gli offre la mano destra della sua fiducia.

    Se noi chiediamo in che maniera l’offesa fatta al prossimo raggiunge e lede Dio, Egli stesso ci risponderà dal libro dell’Esodo, nella visione del roveto ardente. Il Faraone opprime gli Ebrei e Dio, apparendo a Mosè, si costituisce patte lesa e inizia la sua azione contro l’oppressore con queste parole: « Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono disceso per liberarlo» (Es. 3, 7-8 ). Ci risponderà ancora il Vangelo di Matteo, nella scena del giudizio universale, dove Gesù si costituisce parte lesa ovunque un affamato non è nutrito e un carcerato non è visitato: «In verità vi dico… non l’avete fatto a me » (cfr. Mt. 25, 31-46).

    Il pianto di Pietro

    C’è un brano del Vangelo di Luca che ci può fare cogliere più profondamente l’esperienza del dolore del peccato che abbiamo meditato nelle parole di Davide. È l’episodio di Pietro che per tre volte ha negato di conoscere Gesù: « In quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte“. E uscito pianse amaramente» (Lc. 22,-54-62).

    Perché Pietro scoppia in pianto? Fino a quel momento aveva una certa coscienza, anche se un po’ annebbiata, di avere fatto una cosa sbagliata, di essersi disonorato; di avere tradito un amico. Ma è solo quando Gesù lo incontra e lo guarda che Pietro scoppia in pianto. In quel momento capisce una cosa sola: io ho rinnegato quest’uomo e lui va a morire per me! È la sovrabbondanza incredibile di fiducia e di attenzione a chi l’ha demeritata, che fa scattare il contrasto.

    Il dolore cristiano nasce dalla percezione di questo contrasto, nasce dall’incontro con Colui che, offeso in sé e nel suo amore per l’uomo, offre, come contraccambio, uno sguardo di amicizia.

    Domande per noi

    La rivelazione del nostro peccato con il dolore che ne consegue deriva dall’incontro con Cristo, con la sua Parola e con la sua Persona. Questo incontro sblocca la rigidità del giudizio su di noi, giudizio sempre incerto e impacciato, e la scioglie in un vero pentimento, nel dispiacere interiore per avere offeso Cristo nella sua persona; nel dispiacere per la scorrettezza del nostro rapporto di amicizia, per l’infrazione del codice di onore e di tenerezza, per la disattenzione e il disprezzo di un rapporto prezioso. .

    Possiamo chiederci:

    Per che cosa posso dire, in verità, dentro di me: « Contro di te, contro te solo ho peccato? ». Che cosa emerge nella mia coscienza quando rifletto su queste parole?

    Quali di queste cose che emergono sono lesioni dell’immagine di Dio in altri, sono rifiuto di attenzione, di ascolto, di aiuto, di stima? Ho colto, riesco a cogliere il rapporto tra la lesione di un altro e la lesione della mia amicizia e alleanza con Dio, che si è instaurata nel Battesimo e che vivo nell’Eucaristia?

    Sono consapevole della potenza riabilitativa del mio perdono? Anch’io, come Gesù, posso perdonare, posso fare rivivere, posso ridare fiducia e onorabilità.
    Riesco a farlo? Invoco lo Spirito Santo per essere, intorno a me, partecipe del potere riconciliatore di Cristo?

    E possiamo dire insieme:

    « Concedi, Signore, a noi che cerchiamo la via della penitenza, di entrare nel giusto cammino e concedi che questo entrare sia non soltanto per noi ma per tutta la città che spiritualmente è qui presente e cammina con noi. Tu, Signore, che hai donato il dolore del peccato a Davide e a Pietro, concedi la grazia di un dolore profondo a noi e alla nostra città per tutto ciò che ti offende».


    4

    La supplica

    Dal Vangelo secondo Giovanni: 8, 1-11

    Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici? ». Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: « Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei ». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Allora Gesù, alzatosi, le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? ». Ed essa rispose: «Nessuno, Signore ». E Gesù le disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più ».

    Crea in me, o Dio, un cuore puro,
    rinnova in me uno spirito saldo.
    Non respingermi dalla tua presenza
    e non privarmi del tuo santo spirito.
    Rendimi la gioia di essere salvato,
    sostieni in me un animo generoso

    Le parole costitutive della seconda parte del Salmo sono una supplica, una invocazione, una grande preghiera. Ne meditiamo solo alcune perché esprimono l’autentico grido di chi conosce Dio e impara a conoscere se stesso e vogliamo chiedere al Signore la grazia di poter condividere questo autentico grido.

    Sono le parole che troviamo alla fine della seconda parte: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso»

    L’epiclesi dello Spirito

    Cominciamo da una particolarità linguistica che non appare nella versione italiana: siamo di fronte a tre invocazioni di richiesta dello Spirito Santo; da parte dell’uomo. Il versetto tradotto con « sostieni in me un animo generoso », infatti, nel testo ebraico si legge: «rafforzami col tuo Spirito generoso », oppure: « Poni in me uno Spirito generoso ».
    La supplica domanda lo spirito saldo, lo Spirito santo, lo spirito generoso ed è una vera e propria epiclesi.

    L’epiclesi liturgica è la preghiera che nella celebrazione eucaristica si fa, al momento della consacrazione, allo Spirito Santo perché scenda in maniera creativa sul pane e sul vino, rendendoli Corpo e Sangue di Cristo. La liturgia, oltre a questa invocazione eucaristica dello Spirito, ha, in alcune preghiere del canone, un’altra epiclesi comunitaria in cui si chiede che lo Spirito scenda sulla comunità e ne faccia una cosa sola in Cristo.
    Qui siamo di fronte ad una epiclesi penitenziale, ad una invocazione dello Spirito perché scenda sulla persona che prega e la trasformi. È quindi il momento culminante del Salmo, come la consacrazione è il momento culminante dell’Eucaristia.

    Una nuova creazione

    Proviamo ora a riflettere su due domande parallele di cui una: «Crea in me, o Dio, un cuore puro» è all’inizio dell’epiclesi dello Spirito e l’altra: «Rendimi la gioia di essere salvato» è nel contesto dell’epiclesi stessa.

    Qual è la domanda fondamentale? Crea in me.

    Il verbo creare è il primo della Scrittura: « In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gn. 1, 1). È parola che la Bibbia riserva per Dio solo: non è mai usata per un’azione umana, è esclusiva dell’azione divina che dal nulla pone in essere, dell’azione divina che fa qualcosa di assolutamente nuovo.

    La domanda è quindi di un’ azione creatrice, di una novità che Dio solo può porre nell’uomo. E la parola « crea in me » è parallela con l’altra: « rendimi la gioia ». Nell’ebraico si legge: « Fa’ ritornare, fa’ risorgere in me la gioia ». Non si chiede qualcosa di assolutamente nuovo ma si chiede di far ritornare quel momento creativo originario che è il Battesimo. Il Sacramento della Riconciliazione è la richiesta di essere reimmersi nella forza creativa dello Spirito battesimale, è una nuova esperienza del Battesimo, che per nostra colpa abbiamo perduta.

    Per questo il Sacramento della Riconciliazione non può avere il suo pieno effetto se non abbiamo vissuto profondamente l’esperienza dell’annuncio evangelico, la forza del kerygma. Come si può restituire ciò che non c’è mai stato o che c’è stato in maniera fiacca, slavata e generica? Come è possibile ritrovare la forza del Battesimo se non è mai stata percepita in un atto di impegno personale e autentico?

    Il cammino di conversione penitenziale deve essere un cammino che ci permetta di ritrovare quella forza sorgiva del Battesimo che forse alcuni non hanno mai esperimentato perché non hanno espresso, in modo personale e coerente, la loro donazione a Dio. Quella donazione che siamo chiamati ad esprimere nel Sacramento dell’Eucaristia, nel Sacramento della Confermazione, nella professione di fede, in un corso di Esercizi Spirituali che ci faccia comprendere la forza del messaggio salvifico di Dio. Senza questa prima esperienza, la Confessione è privata del mordente che dovrebbe avere come nuova azione di Dio che riconduce l’uomo nella pienezza dell’immersione nello Spirito Santo, propria della grazia. del Battesimo e della Cresima.

    La gioia cristiana

    Qual è l’oggetto dell’atto creativo e restitutivo che si chiede a Dio di compiere? È un cuore puro, è la gioia.

    La Scrittura indica la gioia come l’esperienza fondamentale del cristiano, esperienza che corrisponde ad un cuore puro, pulito, ad un cuore che non si accusa perché è stato immerso nell’amore del Padre, perché ha visto Dio Padre buono che lo ha accolto e rifatto completamente.

    La gioia è l’esperienza fondamentale che dovremmo recepire in noi. Eppure tante volte, ripensando alla nostra esperienza cristiana, dobbiamo leggerla come esperienza che si trascina stancamente. Non perché la gioia non sia dentro di noi – in noi, infatti, c’è la forza dello Spirito Santo e tutti l’abbiamo – ma perché non la esprimiamo, non le apriamo la via e così resta nascosta, quasi impercettibile.

    Lo spazio alla gioia è il momento della preghiera, dell’adorazione, del silenzio, del canto, del dialogo sul Vangelo; è il momento del sacrificio, del dono di sé, della rinuncia; è il momento del canto interiore. In questi momenti la gioia, che non è nostra bensì dono gratuito di Dio, scoppia dentro di noi fino a sorprenderci. « Crea in me, o Dio, un cuore puro… rendimi la gioia di essere salvato.. » È la gioia della salvezza di Dio che mi accoglie, mi ama e mi salva.

    È la gioia della donna adultera di cui parla il Vangelo di Giovanni (8, 1-11). Questo brano non si trova in molti manoscritti dei Vangeli, pur essendo antichissimo e pur facendo parte della primitiva catechesi cristiana. Non vi si trova perché, probabilmente, è stato ritenuto pericoloso, dal momento che non mette abbastanza in luce lo sforzo penitenziale della donna adultera! Sembra un brano che faciliti la colpa, il peccato, la deviazione morale. Tuttavia chi lo ha letto in questo senso e lo ha poi tolto da molti manoscritti e codici delle Scritture, non ha capito il perdono creativo di Dio, la forza rinnovatrice del suo Spirito nel cuore dell’uomo, la capacità che Dio ha di fare un uomo diverso, non semplicemente come risultato dello sforzo della buona volontà umana ma per il potere creativo dello Spirito.
    La gioia, che la donna quasi non esprime a parole, è l’immagine di ciascuno di noi, salvato  realmente dalla morte da una parola di perdono di Cristo.

    La certezza del perdono

    Il proposito che possiamo fare non è semplicemente una scommessa sul futuro, non è una previsione di ciò che saremo perché nessuno è profeta su di sé, non è la certezza di riuscire a dominarsi pienamente.

    Il proposito è la certezza della forza che emerge dal condono di Dio. Se Dio mi ama, se Dio mi perdona, io posso chiedergli: Signore, fammi essere diverso! Desidero, e tu lo sai, essere altro da ciò che sono stato! Il proposito è in questa supplica che a poco a poco lasci spazio alla gioia e alla forza dello Spirito dentro di me. È l’esperienza di S. Agostino:

    Ma tu, o Signore, guardasti all’abisso della mia morte e, nel profondo del mio cuore, distruggesti l’abisso della corruzione… Come subito mi apparve soave l’essere privo di quelle false dolcezze che prima avevo paura di perdere ed ora invece mi era gioia il lasciarle! Eri tu che le allontanavi da me, tu, o dolcezza vera e somma; le allontanavi e penetravi tu al loro posto, tu più dolce di ogni voluttà ma non per la carne ed il sangue; tu più luminoso di ogni luce ma intimo più di ogni segreto; tu sublime più di ogni grandezza, non per quelli però che sono alti di se stessi. Ormai il mio spirito era libero dalle dolorose preoccupazioni dell’ambizione e del guadagno e della lebbra di passioni inquiete e libidinose. Balbettavo le prime parole a te, mia lucé, ricchezza e salvezza, o Signore Dio mio (Dalle Confessioni, IX, 1).

    Domande per noi

    Propongo tre domande per la riflessione:

    Ho fiducia che Dio possa creare in me un cuore nuovo? Oppure vivo rassegnato alla mia debolezza, dicendomi che non c’è niente da fare perché sono fatto così?
    Ho fiducia nella forza battesimale dello Spirito che è in me e che il Sacramento della Riconciliazione ricrea, con atto creativo, dentro di me? Qui possiamo pregare: « Signore, accresci la mia fede. È poca ed è per questo che sono sempre lo stesso. Mi rassegno troppo facilmente ad essere ciò che sono mentre Tu mi chiami ad accettare di essere molto amato da Te, chiamato da Te a qualcosa che io desidero dal più profondo di me stesso ».

    Ho fiducia che Dio possa creare cuori nuovi? Questa domanda concerne il modo con cui guardo gli altri. Spesso li guardo come incorreggibili e le loro azioni come ormai inevitabili e non faccio niente per aiutarli perché non ho fiducia nella forza creativa dello Spirito.
    Spesso mi lamento degli altri, non prego per loro, ritengo di aver subito dei torti e penso che, mentre io posso convertirmi, per loro non ci può essere il dono della conversione.

    Do spazio alla gioia della mia salvezza? Le permetto di esprimersi? In che cosa potrebbe esprimersi in me? Forse in un momento di riflessione silenziosa e quotidiana su una pagina del Vangelo; forse in un sacrificio affrontato con decisione; forse in una parola di perdono e di amicizia concessa francamente e senza reticenze.

    Preghiamo gli uni per gli altri perché il nostro cuore si apra alla gioia della salvezza che viene dal Signore, alla gioia di ciò che Dio opera in noi. Preghiamo perché il nostro cuore sappia credere alla forza divina di salvezza e possa avere la pazienza e l’amore di essere, se il Signore lo vuole, strumento di questa forza di salvezza.

    5

    La confessione dei peccati

    Dal Vangelo secondo Luca: 18, 9-14

    Disse ancora questa parabola per alcuni the presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come,gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermato si a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato ».

    Quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.

    A questo punto delle nostre. riflessioni sul Salmo 50 siamo in grado di comprendere meglio in che cosa propriamente consiste la « confessione» dei peccati. Il tema è molto importante per il nostro cammino di riconciliazione. D’altra parte l’accusa dei peccati che il penitente è chiamato a fare di fronte alla Chiesa suscita sempre un senso di disagio e pone diverse domande. Cerchiamo innanzitutto di specificare il disagio e le domande.

    Il disagio per il contenuto dell’accusa. Si crea non di rado, in noi, un impaccio perché non sappiamo cosa dire, ci pare di non avere niente da dire. Ci rivolgiamo allora al sacerdote dicendo: « Mi aiuti lei, io non ricordo, non so che cosa dire ». Altre volte, al contrario, non sappiamo come esprimerci: « Mi aiuti perché non so come dire, sono confuso, ho dentro qualcosa di grosso ma non so proprio come dirlo ».

    Il disagio che nasce dalla forma, dall’atmosfera che assume la confessione. Facilmente diventa un’autoaccusa: Ho commesso questo, ho fatto quest’altro, sono colpevole della tal cosa.

    In un quadro più psicologico, l’accusa sfocia in un’autocritica che rischia di scivolare verso l’autogiustificazione. Mi sono cioè autocriticato così bene da essere riuscito a chiarirmi a me stesso e praticamente non ho più bisogno del perdono di Dio: il perdono diventa accessorio, aggiuntivo e di fatto così si rinnega il Vangelo del perdono.

    Oppure si cade nell’eccesso opposto, nell’autolesionismo: ci si accusa allora senza fine, con una pervicacia, con una crudeltà verso se stessi che è segno di un non equilibrato senso della confessione dei peccati.

    Nascono quindi le domande sul valore: che valore ha l’accusa dei peccati? Quale valore costruttivo della personalità contiene? Perché è necessaria l’accusa? Non è meglio lasciare che ciascuno dica dentro di sé in maniera generica: ho peccato!? Oppure non è meglio che lo riconosca attraverso un gesto, battendosi il petto, senza entrare in un dettaglio faticoso e talora fastidioso come è la confessione dei peccati? Sono dunque problemi che riguardano il contenuto, la forma, il valore dell’accusa.

    Il contenuto della confessione

    Nella nostra riflessione ci lasciamo guidare dal versetto 6 del Salmo 50 che abbiamo già meditato e che dice: « Quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto ».

    La prima cosa che notiamo in queste parole è che siamo di fronte ad un movimento dialogico. Qui non c’è autocritica: ho fatto male, ho fatto ciò che non dovevo, ho sbagliato.
    Siamo piuttosto in un dialogo intimo e personale: ho fatto ciò che ai tuoi occhi è male. Non ho fatto male soltanto contro la tua legge ma quello che è male « ai tuoi occhi».
    L’ambito non è di un solipsismo accusatorio, di un autolesionismo chiuso in se stesso: l’ambito è di un dialogo filiale con Colui che mi ama.

    E tuttavia il dialogo appare generico. Ci sembra generico come generiche sono altre espressioni del Salmo: Riconosco la mia colpa (quale colpa?); il mio peccato mi sta sempre dinanzi (quale peccato?); contro di te, contro te solo ho peccato. Il Miserere, stranamente, non specifica la realtà della colpa e del peccato e suscita in noi la domanda: è necessario, è utile andare più in là? Non potremmo fermarci a questa dichiarazione generica che è, in fondo, anche quella del pubblicano del Vangelo: « Dio, abbi pietà di me peccatore! »?

    In realtà, la Sacra Scrittura ci dà, in altri passi, degli esempi di confessioni meno generiche. In alcune pagine abbastanza note, ad esempio nel cap. 9 del libro di Esdra, vediamo che, a partire da un peccato specifico che riguarda il costume sociale del popolo di Israele, segue prima un’accusa: Hanno profanato la stirpe santa con le popolazioni locali, i magistrati e i capi sono stati i primi a darsi a questa infedeltà. E poi nasce la preghiera di confessione: «Caddi in ginocchio, stesi le mani al mio Signore e dissi: Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare la faccia verso di Te, mio Dio, poiché le nostre colpe si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa» (9, 5-6) . Vengono quindi espresse tutte le conseguenze di queste colpe e infine si riprende la descrizione specifica di quanto è avvenuto: «Abbiamo abbandonato i tuoi comandi che avevi dato per mezzo dei tuoi servi… il paese di cui andate a prendere possesso è un paese immondo… noi non abbiamo obbedito ai tuoi comandi di purità, benché tu, Dio nostro, ci abbia punito meno di quanto meritavamo ». È un esempio, che sarebbe interessante esaminare particolarmente, di una confessione specifica di ciò che è avvenuto e di ciò di cui ci si pente.
    Un’altra celebre confessione delle ribellioni specifiche di Israele la troviamo al cap. 9 del libro di Neemia: Tu sei un Dio pronto a perdonare, pietoso e misericordioso… Anche quando si sono fatti un vitello di metallo fuso e hanno detto: Ecco il tuo dio che ti ha fatto uscire dall’Egitto, e ti hanno insultato gravemente, tu, nella tua misericordia, non li hai abbandonati nel deserto (9, 17-19).

    Ci sono dunque nella Scrittura, qui e altrove, degli esempi di confessione dove l’accusa esprime la realtà di cui ci si sente colpevoli davanti a Dio. Se noi, dopo aver riflettuto su questi esempi, ritorniamo al Salmo 50 e lo leggiamo nel contesto del Salterio in cui è posto, ci accorgiamo che siamo anche qui di fronte ad un’accusa specifica, ben determinata che si trova nel Salmo immediatamente precedente e che, con il 50, sembra costituire un’unità liturgica. I Salmi 49 e 50 (50 e 51 nella numerazione ebraica) erano, infatti, una liturgia penitenziale che iniziava con l’accusa circostanziata da parte di Dio e con l’accettazione di questa accusa da parte dell’uomo.

    Ascoltiamo la requisitoria che Dio fa nel Salmo 49:

    Se vedi un ladro corri con lui e degli adulteri ti fai compagno. Abbandoni la tua bocca al male e la tua lingua ordisce inganni, Ti siedi, parli contro il tuo fratello, getti fango contro il figlio di tua madre. Hai fatto questo e dovrei tacere?.. (vv. 18 ss.).

    Il Salmo 50 ‘emerge chiaramente come risposta: Riconosco la mia colpa… Contro di te, contro te solo ho peccato… sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio.

    E poi segue la preghiera:

    Purificami con issopo e sarò mondato… fammi sentire gioia e letizia.

    Da tutte queste parole della Scrittura, possiamo cogliere quanto sia la Parola di Dio che redarguisce l’uomo e lo interpella sul suo peccato.

    L’esame di coscienza – ora possiamo coglierlo meglio – è il mettersi di fronte alla Parola di Dio non come quadro etico di riferimento, ma come Parola che interpella, che rimprovera con quella forza d’amore che le è propria per fare emergere la scintilla della salvezza e la possibilità del perdono.

    Il contenuto dell’accusa non è un cercare a tastoni qua e là qualcosa da dire, non è il faticare nel dire, non si sa come, qualcosa che abbiamo dentro: è un rispondere all’interpellanza della Parola di Dio che ci illumina e ci rimprovera. Lasciandoci interpellare e rimproverare dalla Parola noi ci mettiamo nella condizione umile, semplice e chiara di confessare: Sì, è vero, questo l’ho fatto, Signore: hai ragione, ma tu crea in me un cuore nuovo!

    Questo non vuole evidentemente dire che l’accusa dialogica debba sempre riferirsi materialmente a una parola del Vangelo. È una risposta a Dio che si rivolge a noi con amore e con forza. Dio ci ama e per questo non ci blandisce, non ci lusinga con parole vane o vanamente consolatorie, ma ci interpella con la forza della Scrittura, del magistero della Chiesa, della parola di coloro che ci amano e ci parlano a nome di Dio.
    Il processo che cambia l’uomo in verità non è un giostrare con peccati fittizi o con atteggiamenti imprendibili: è un metterei nel quadro dell’Alleanza e riconoscere che l’Alleanza, come interpellanza di Dio, ci trova spesso mancanti in questo dialogo di amore e richiede un dialogo di pentimento e di riconciliazione.

    L’atmosfera della confessione: la « todà »

    Se leggiamo attentamente i Salmi 49 e 50, che abbiamo collegato in una unità liturgica, notiamo che la radice ebraica a cui si fa riferimento per indicare la confessione, è la parola todà oppure todarabbà, che vuol dire: grazie.

    Ogni volta che in Israele si chiede un favore o si va a comperare qualche cosa, la risposta è: todà, grazie; todarabbà, grazie tante. Questa è la parola-chiave dei due Salmi. Significa non solo «grazie» ma pure « lode», confessione di lode e ancora confessione di peccato. La parola è sempre la medesima.

    La riflessione sulle grandi preghiere di accusa e di confessione che troviamo nella Scrittura, come quelle di Esdra e di Neemia e poi quella del cap. 3 di Daniele, ci fa scoprire che c’è una sintesi di lode, di ringraziamento e di accusa:

    Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare la faccia verso di Te. Dal giorno dei nostri padri fino ad oggi siamo stati molto colpevoli. Ma nella nostra schiavitù Tu non ci hai abbandonato, Tu ci hai fatto rivivere, ci hai fatto grazia, hai liberato un resto di noi; il nostro Dio ha fatto brillare i nostri occhi, ci ha dato un po’ di sollievo nella nostra schiavitù (Esd. 9, 6-8).

    La confessione e la lode si alternano: l’atmosfera è quella della «confessio laudis» e della «confessio vitae», della confessione di lode e della confessione della vita, non quella dell’autolesionismo e dell’amarezza. Del resto, chi conosce bene il libro delle Confessioni di S. Agostino, sa come questo grande Santo ha potuto congiungere meravigliosamente, nella sua opera, la confessione di lode con la confessione dei propri peccati.

    Leggiamo un esempio ancora dalla preghiera di Neemia:

    Alzatevi, benedite il Signore vostro Dio ora e sempre! Si benedica il Suo nome glorioso, che è esaltato al di sopra di ogni benedizione e di ogni lode… Tu, Tu solo sei il Signore. Ma noi ci siamo comportati con superbia: i nostri padri hanno indurito la loro cervice, si sono rifiutati di obbedire. Ma tu sei un Dio pronto a perdonare, pietoso e misericordioso… hai concesso il tuo spirito buono. Ma poi sono stati disobbedienti, si sono ribellati. Al tempo della loro angoscia hanno gridato à Te e Tu li hai ascoltati (cfr. Ne. 9).

    Questa lunga preghiera è un continuo intreccio di lode, di ringraziamento, accusa e riconoscimento della colpa in cui l’uomo trova la sua verità, trova l’umiltà e la gioia di riconoscere la sua povertà davanti a un Dio grande e buono.

    Sarebbe anche bello soffermarsi a commentare, nello stesso senso, il cap. 3 del libro di Daniele là dove è riportata la preghiera di Azaria:

    Benedetto sei tu, Signore, Dio dei nostri padri, Tu sei giusto in tutto ciò che hai fatto. Noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da te; non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e lo spirito umiliato! (vv. 25 ss.).

    La preghiera è simile al nostro Salmo 50, ne riprende alcune espressioni ampliando il senso di lode e di confessione del peccato. Il confessarsi nella lode era talmente abituale agli Ebrei che persino il fariseo della parabola evangelica fa la sua confessione partendo dalla lode: « Ti ringrazio, mio Dio, perché non sono come gli altri uomini» (Lc. 18, 9-14).
    L’errore del fariseo, che pure inizia con la todà, sta nel congiungere la «confessio laudis » con la « confessio vitae » e nel non mettere davanti alla misericordia e alla bontà di Dio la sua povertà, quella povertà che invece riconosce il pubblicano, con semplicità e coraggio: «Dio, abbi pietà di me peccatore! », che vuol dire: Tu sei grande, misericordioso, potente e io sono povero. Tu mi salvi e io ti lodo per la tua grande potenza. Ecco dunque l’atmosfera, il tono, il ritmo che dovrebbe avere la nostra confessione: l’atmosfera della todà.

    Il valore del perdono

    Personalmente mi è stato molto utile, per chiarire i non pochi problemi riguardo al tema del perdono di Dio o del giudizio salvifico di Dio sull’uomo, distinguere, nel Nuovo Testamento, tre tempi. Nel linguaggio neo-testamentario si direbbe: tre « kairòi », tempi della Storia di salvezza, diversi l’uno dall’altro, in cui Dio esercita il giudizio sull’uomo peccatore.

    a) Un primo tempo è quello del perdono battesimale. È il perdono o condono esercitato sull’uomo che fa il primo passo per entrare nell’Alleanza chiedendo il Battesimo. È il primo grande perdono di Dio che si può chiamare meglio un condono « totale». Dio decide in assoluta gratuità di concedere grazia e misericordia: non pone alcuna condizione, neppure un minimo di buona condotta, perché tutti hanno peccato e tutti hanno bisogno della misericordia divina. Chiede soltanto la fede nel Figlio suo, Messia e Salvatore: se credi in Gesù Cristo, fatti battezzare e sarai salvo. Il peccatore è perdonato qui con un perdono fondamentale e viene creato così di nuovo, viene fatto figlio, entra nell’Alleanza. È un giudizio dall’Alto di assoluto condono rispetto alla condizione umana di peccato.

    b) Un secondo tempo è quello del perdono penitenziale o del giudizio salvifico di perdono nel dialogo. Una volta che l’uomo è entrato nell’Alleanza con Dio rinascendo come cristiano nella Chiesa mediante il Battesimo, se egli manca gravemente agli impegni della nuova Alleanza, ferisce Dio, Cristo, la Chiesa e il giudizio di salvezza gli è offerto in un colloquio. Mentre prima del Battesimo non occorre colloquio salvifico né accusa dei peccati, per chi è già entrato nell’Alleanza il giudizio salvifico postula il dialogo. La Parola di Dio redarguisce l’uomo che riconosce il suo torto specifico, si riconosce peccatore, chiede di essere rinnovato dalla potenza dello Spirito («Crea in me, o Dio, un cuore nuovo») e Dio ricrea il cuore del peccatore. C’è quindi l’accusa del peccato e l’atto di perdono in un dialogo tra Dio e l’uomo che si svolge nell’ambito della Chiesa, di quella comunità che è stata ferita dalla rottura dell’Alleanza.

    c) Un terzo momento è quello del giudizio retributivo. Il Nuovo Testamento vi accenna chiaramente e non dobbiamo trascurarlo se non vogliamo svilire il dono di Dio.
    Alla fine di una tappa storica, alla fine di una esistenza singola, alla fine della storia, il Messia verrà come giudice dei vivi e dei morti, per dare a ciascuno secondo la sua condotta. Nel giudizio retributivo non c’è più condono né dialogo: c’è il giudizio secondo verità.
    La serietà del dialogo penitenziale di accusa sta nel porsi giustamente, in maniera corretta, tra il condono battesimale globale, in cui l’uomo è salvato con la semplice adesione di fede a Cristo; e il giudizio finale in cui l’uomo viene, rigorosamente pesato secondo le sue opere.
    Il dialogo, il perdono del Sacramento della Riconciliazione sta in mezzo a queste due realtà e aiuta l’uomo a crescere verso quella maturità che gli permette di presentarsi con fiducia al giudizio di Dio. C’è quindi una grande serietà in questo dialogo penitenziale: in esso si rivela la bontà di Dio che, mediante la Chiesa, restituisce gradualmente l’uomo alla coscienza della sua dignità e lo prepara a un giudizio divino che svelerà il miracolo di amore che Dio ha fatto in ciascuno di noi, poveri peccatori.

    Domande per noi

    Propongo quattro domande per la riflessione personale.

    Mi lascio redarguire dalla Parola di Dio? Considero la Parola non soltanto come istruttiva, consolatori a ma anche come Parola che mi interpella e mi ammonisce, divenendo il punto di partenza del dialogo penitenziale?

    Vivo l’accusa dei peccati come vero dialogo con la Chiesa nell’ambito dell’Alleanza? O la vivo, invece, come monologo affrettato in cui faccio semplicemente un’autoaccusa, un autolesionismo che mi lascia freddo e amaro?

    So unire la «confessio vitae» con la «confessio laudis », sia nella preparazione alla confessione che, talora, nella confessione stessa, dicendo: desidero ringraziare Dio perché è stato buono con me e di fronte a ciò che Egli ha fatto per me risalta ciò che io non ho saputo fare per Lui o che ho fatto contro di Lui? So unire la « confessio laudis » con la « confessio vitae », in modo da rendere il mio dialogo ricco e vero come il dialogo del Salmista, come il dialogo delle preghiere penitenziali dell’Antico Testamento che abbiamo ricordato?

    So rimproverare altri? La domanda forse può stupire: in realtà deriva come conseguenza sociale di ciò che abbiamo detto, nell’ambito familiare, professionale e civile. Capisco che la Parola di Dio non è soltanto stimolo, consolazione ma è anche rimprovero, forte e pieno di amore? E non c’è cosa più difficile che fare un rimprovero vero e pieno di amore!
    Per questo molta gente, oggi, preferisce passare sopra, preferisce lamentarsi, criticare davanti o dietro le spalle, preferisce accusare vanamente e genericamente. Sono pochi coloro che hanno la forza di fare un rimprovero modellato sulla Parola di Dio, cioè vero, giusto, penetrante, capace di scuotere e, insieme, pieno di amore, capace di instaurare un dialogo di speranza, un riconoscimento che accoglie, che sa vedere ciò che si è fatto e quindi restituisce alla verità quella persona che, forse, noi ci accontentiamo solo di denigrare o di criticare perché non vogliamo veramente il suo bene. Nel tempo del Nuovo Testamento era molto comune la pratica della correzione fraterna, pratica che poi si diffuse nella Chiesa mentre oggi sembra un po’ dimenticata. « Se il tuo fratello ha qualcosa contro di te, va’ e correggilo da solo a solo e avrai guadagnato il tuo fratello. »
    Quante volte noi non facciamo così! Quante volte non affrontiamo il nostro fratello con amore, per aiutarlo! Abbiamo paura di amare così come Dio ci ama.

    Preghiamo allora gli uni per gli altri dicendo:

    « Signore, aprici gli occhi perché noi possiamo conoscere la ricchezza delle tue parole e possiamo esprimerla come a te piace. Donaci di ritrovare la gioia della tua presenza!
    Signore, aiutaci a fare una confessione sacramentale che ci riporti nella verità e ci dia la forza di partecipare alla tua Parola che ama, rimprovera e salva!
    ».

    6

    La penitenza

    Dal Vangelo secondo Luca: 19, 1-10

    Entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua ». In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È andato ad alloggiare da un peccatore! ». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto ». Gesù gli rispose: « Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo, il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto ».

    Allora gradirai i sacrifici prescritti,
    l’olocausto e l’intera oblazione,

    Vogliamo cercare il volto del Signore meditando su alcune delle parole finali del Salmo 50 là dove dice: « Allora gradirai i sacrifici prescritti, l’olocausto e l’intera oblazione » (v. 21).

    In realtà, gli esegeti si pongono il problema se questi ultimi versetti, a partire dal v. 17, e soprattutto il v. 20, appartengano o no al Salmo. Alcuni li ritengono un’appendice liturgica, di carattere nazionale, che a questo punto si aggiunge per trasformare un canto di supplica individuale in un canto collettivo. Si parla, infatti, di Sion, di Gerusalemme, delle sue mura e dei sacrifici: tutte realtà che riguardano il culto del tempio e la stessa vita civica. Nei versetti precedenti, invece, c’è una persona che dialoga con Dio in un crescente cammino di riconciliazione.

    Risonanze politiche del Salmo

    Ci troviamo dunque di fronte ad una visuale ampia, allargata, nella quale il cammino individuale va a sfociare nella vita liturgica dell’intera comunità di Israele, anzi dell’intera città.

    Potremmo dire che siamo chiamati a meditare sulle risonanze comunitarie e sociali del Salmo penitenziale e del cammino di riconciliazione che esso ci propone. Non c’è riconciliazione sociale, civile, politica senza la conversione dei cuore. E viceversa che non c’è conversione del cuore senza ripercussione sulla collettività.

    È su questo sfondo che desideriamo approfondire il momento del Sacramento della Riconciliazione che è chiamato appunto la «penitenza» o « soddisfazione ». Si tratta cioè di quei gesti, preghiere, azioni che il sacerdote confessore ci chiede di compiere quale segno, frutto ed espressione della nostra conversione.

    La penitenza

    Quando io, come ministro del Sacramento, quindi come confessore, penso alla « penitenza », sento certamente emergere qualche disagio: è forse uno dei momenti che maggiormente mettono in difficoltà il sacerdote. Egli, infatti, si domanda: Quale penitenza è veramente adeguata al cammino di questa persona che ho davanti? Come posso, in un tempo così breve, individuare la penitenza che per questa persona sia frutto di una specifica conversione, un suo momento di grazia? Che cosa le è veramente utile per esprimere, in modo specifico, il suo cammino storico? Ecco che allora il confessore spesso sfugge a questa difficoltà proponendo genericamente una preghiera o un atto di culto: cose molto belle, importanti, che tuttavia non sembrano avere sempre una rispondenza immediata al cammino che la persona sta compiendo. Questo è il disagio concreto del momento specificamente penitenziale del Sacramento, quando si vuole uscire dalla routine, dall’abitudine, dalla formalità e adattarsi alla persona.

    D’altra parte sono convinto – e lo siamo tutti – che quello è uno dei momenti in cui la Chiesa è più vicina, in forma concreta, a colui che compie un itinerario di penitenza. È vero che gli è vicina in ogni tappa del Sacramento: nell’esame di coscienza aiutando con le domande; nel momento del « dolore» suggerendo le parole; invitando al proposito con l’esempio dei santi; soprattutto facendosi trasparenza di Cristo misericordioso quando accoglie e assolve in nome del Signore. Nel momento di suggerire la « penitenza », però, la Chiesa vuole adattarsi in maniera tutta particolare, facendosi vicina al cammino di ciascuna persona nella sua irripetibile individualità.

    Dovrebbe quindi farsi maestra di itinerario penitenziale perché la persona esprima, secondo la parola di Giovanni Battista, «frutti. degni di penitenza », segno di un cuore che si vuole rinnovare. Abbiamo così individuato il problema emergente dalla lettura degli ultimi versetti del Salmo.

    L’uomo Zaccheo

    Tenendo ora presente la difficoltà che la « penitenza» pone al sacerdote che amministra il Sacramento, vi invito a meditare il brano evangelico che parla di Zaccheo (Lc 19, 1-10).
    Possiamo definirlo, infatti, un brano di incontro penitenziale tra l’uomo e Gesù: è un racconto storico singolare perché esprime una realtà permanente.

    In questo incontro, l’uomo Zaccheo compie delle azioni successive, interne ed esterne, che sono, alcune, la premessa e, altre, la conseguenza della parola di perdono di Gesù.

    a) L’azione interna che Zaccheo compie è il suo desiderio di vedere Gesù. È un desiderio forte, intenso, che potremmo quasi chiamare « estatico »,che fa’ uscire cioè Zaccheo fuori di sé. Non è infatti spiegabile che sia la semplice curiosità a farlo correre per vedere Gesù, ad imporgli di fare le cose che sta facendo! È un profondo desiderio che lo muove dal di dentro e che è già amore, un amore incoativo, incipiente per Gesù, che lo spinge a compiere un’azione esterna.

    b) L’azione esterna che compie Zaccheo è quella di mettersi a correre e di salire su un albero. Stupisce che un uomo come lui, un impiegato ben noto e odiato, si metta a correre per la strada, e salga poi su un albero, cosa che non avrebbe fatto in un momento ordinario. È una persona che sta vivendo un attimo di amore così forte da dimenticare le abitudini, le convenienze, il suo nome, il suo prestigio, la sua boria. Su questo amore intenso di Zaccheo ecco allora che cade la parola di amicizia di Gesù: «Oggi vengo a casa tua ».

    Questa parola di familiarità sorprende Zaccheo e suscita in lui alcune nuove azioni che non sono più di premessa ma di conversione.

    a)    L’azione esterna è che Zaccheo accoglie Gesù, pieno di gioia.

    b)   L’azione interna è che Zaccheo decide e comunica di voler dare ai poveri la metà di quello che ha e di riparare i torti in misura straordinaria. La parola di Zaccheo: «Signore, dò la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto» è la risultanza penitenziale, sociale, civile, comunitaria del cammino di Zaccheo. È il frutto di « penitenza» della sua riconciliazione.

    Gioia e proposta della penitenza

    Tuttavia ci sono ancora due sottolineature da fare in questo cammino di Zaccheo.

    Innanzitutto la gioia con cui compie le sue azioni, una gioia che lo rende straordinariamente, quasi, diremmo, sconsideratamente generoso, al di là di ogni calcolo. Gli si potrebbe fare osservare che se dà la metà dei suoi beni ai poveri, l’altra metà non gli basta per restituire il quadruplo! In realtà, Zaccheo ha, per così dire, perso il senso della misura, è stato trasformato dall’amicizia e dalla riconciliazione con Gesù e per questo ciò che gli importa è di lasciar risuonare intorno a sé la gioia con abbondanza, quale segno della sua conversione. Il primo frutto dell’incontro penitenziale è dunque la gioia, una gioia che deborda, trabocca intorno a noi e che ci fa compiere con facilità azioni anche difficili a cui non ci saremmo mai decisi prima di aver ascoltato la parola di Gesù.

    La seconda sottolineatura del cammino di Zaccheo è che lui stesso propone a Gesù la «penitenza» che vuoi fare e Gesù l’approva. Zaccheo propone ciò che è più adatto per un uomo avido, imbroglione, desideroso di possedere come è lui. Ha saputo cogliere il proprio punto debole e su questo si rinnova. Per lui il frutto di « penitenza» è la generosità verso i poveri, la prontezza nel riparare i torti che ha arrecato agli altri (non lunghe formule di preghiera, non pellegrinaggi, non gesti esteriori che non toccano). È la sua personale, storica, precisa penitenza.. Gesù l’approva e gli dice: « Oggi la salvezza è entrata in questa casa ».

    Possiamo ritornare alla nostra domanda iniziale: Quale penitenza adeguata al cammino di chi ho davanti posso dare come sacerdote che amministra il Sacramento della Riconciliazione? Come posso aiutare a fare frutti degni di penitenza? La risposta suggeritaci dal brano evangelico è molto semplice. Forse è il penitente che può aiutare me confessore, forse è colui che ha instaurato con me un dialogo penitenziale che può suggerirmi come aiutarlo a fare frutti degni di penitenza. Invece di chiedere a me stesso, a me sacerdote: « che cosa devo dare come penitenza? », posso chiedere a questa persona, a questa sorella, a questo fratello che è venuto da me: « quale penitenza credi che ti sarebbe utile? quale opera di giustizia, di pietà, di misericordia corrisponde in questo momento al tuo cammino? ». Ciascuno, quindi, è in grado di aiutare il confessore nello stabilire una penitenza che sia segno ed espressione di un autentico itinerario penitenziale. Anziché lamentarci che la «penitenza» è poco adatta, che è esteriore, formale, che è sempre la stessa, noi potremmo, in un dialogo più disteso e più aperto; suggerire qualche volta che cosa riteniamo importante come segno della conversione che abbiamo chiesto a Dio, come frutto dello Spirito Santo di purificazione, invocandolo nei nostri incontri con le parole del Salmo: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo… non privarmi del tuo Santo Spirito, rendi mi la gioia di essere salvato… ».

    Domande per noi

    Vorrei allora proporre due domande per la vostra riflessione silenziosa.

    La gioia di Zaccheo accompagna in me il Sacramento della Riconciliazione? E se non lo accompagna abitualmente, qual è la causa? Parlo evidentemente di una gioia profonda, non superficiale, di una gioia che potrà anche essere tenue nella sua risonanza sensibile e che però al fondo ci deve essere e deve muovere lo spirito alla generosità.

    Se non c’è questa gioia di fondo, il motivo va forse ricercato in qualche modo sbagliato di vivere il cammino di riconciliazione, a cui abbiamo accennato. Un’idea sbagliata di Dio, della sua misericordia, della sua iniziativa di amore; oppure un non affidarsi abbastanza alla Chiesa nel nostro cammino; o un dolore che non parte da un vero dialogo con Gesù, da una contemplazione interiore del Padre. Sono diversi motivi che ciascuno può evocare per comprendere come mai la gioia non accompagna abitualmente il Sacramento della Riconciliazione.

    – La seconda domanda richiede una riflessione silenziosa più lunga: se io dovessi suggerire al sacerdote confessore una penitenza adatta per me, in questo momento della mia vita, che cosa direi? Questa è una domanda esigente perché ci impegna ad individuare non solo le nostre mancanze, i peccati ma anche le inclinazioni negative, ad individuare quegli atti e quei gesti che possono colpire alla radice il male che c’è in me. Gesti di penitenza quindi che sono un frutto degno della conversione personale. Se mi accorgo, ad esempio, che i miei peccati, le mie mancanze derivano dall’egoismo, affiorerà come penitenza adeguata un atto di generosità autentico, che mi costa davvero. Se mi accorgo che alcuni miei peccati derivano da pigrizia, emergerà come penitenza una vittoria sulla mia pigrizia, sulla golosità, sulla curiosità, sulla morbosità, su tutto ciò che rende la mia vita pigra, pesante, neghittosa. Se mi accorgo che le mie mancanze derivano da antipatie; dalla non accettazione di alcune persone, allora emergerà come penitenza un gesto di attenzione per queste persone, un gesto semplice ma che mi coinvolga davvero.

    Preghiamo il Signore dicendo:

    « Signore, noi vogliamo offrirti frutti degni di penitenza non solo per noi ma per la Chiesa intera, per tutta l’umanità, per tutta questa città, perché ci sentiamo corresponsabili del cammino di conversione dell’umanità intera. Sciogli, o Signore, i nostri cuori, la nostra lingua, le nostre mani perché possiamo conoscere ciò che veramente è segno di un cammino nuovo, ciò che è un passo avanti deciso verso di Te! Non permettere che cadiamo nell’abitudine, nella pigrizia, nella monotonia: rendici santamente inquieti perché mediante un cammino serio ed autentico verso di Te possiamo ritrovare in noi la sorgente della gioia. Te lo chiediamo per noi e te lo chiediamo per ciascun uomo e per ciascuna donna che nella nostra città, vive ed opera ».

    7

    Testimoniare la misericordia

    Dal Vangelo di Giovanni: 4, 1-39

    Quando il Signore venne a sapere che i farisei avevan sentito dire: Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni – sebbene non fosse Gesù in persona che battezzava, ma i suoi discepoli -, lasciò la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea. Doveva perciò attraversare la Samaria. Giunse pertanto ad una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: « Dammi da bere ». I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. Ma la Samaritana gli disse: « Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana? ». I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani. Gesù le rispose: « Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: . “Dammi da bere! “, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva ». Gli disse la donna: « Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i ‘suoi figli e il suo gregge? ». Rispose Gesù: « Chiunque beve di quest’ acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna ». « Signore, gli disse la donna, dammi di quest’ acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua. » Le disse: « Va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui ». Rispose la donna: « Non ho marito ». Le disse Gesù: « Hai detto bene “non ho marito”; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero ». Gli replicò la donna: « Signore, vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite, che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare ». Gesù le dice: « Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità ». Gli rispose la donna: « So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa ». Le disse Gesù: « Sono io, che ti parlo ».
    In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli disse: « Che desideri? », o: « Perché parli con lei? ». La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: « Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia? ».
    Uscirono allora dalla città e andavano da lui. Intanto i discepoli lo pregavano: « Rabbì, mangia ». Ma egli rispose: «Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete ». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: « Qualcuno forse gli ha portato da mangiare? ». Gesù disse loro: « Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Non dite voi: Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché ne goda insieme chi semina e chi miete. Qui infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete. Io vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato, altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro ». Molti Samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: « Mi ha detto tutto quello che ho fatto ».

    Insegnerò agli erranti le tue vie
    e i peccatori a te ritorneranno.
    …la mia lingua esalterà la tua giustizia.
    Signore, apri le mie labbra
    e la mia bocca proclami la tua lode.

    Siamo giunti all’ultimo dei nostri incontri e vogliamo riflettere sulla necessità di essere testimoni della misericordia divina, di vivere la missione della misericordia. Ci ispiriamo ad alcune tra le parole della parte finale del Salmo 50, là dove viene espresso appunto il proposito di missionarietà: « Insegnerò agli erranti le tue vie..: la mia lingua esalterà la tua giustizia… apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode». Colui che ha percorso il cammino della penitenza sente questa missione come momento conclusivo di ciò che ha fatto e che ha vissuto.

    L’esperienza del salmista

    Notiamo innanzitutto che il salmista esprime il suo impegno missionario in una maniera precisa, che corrisponde all’itinerario da lui percorso: farò capire a chi è senza strada che una strada c’è, anzi che tu, o Signore, gli stai venendo incontro. Lo farò capire non come uno che fa una lezione o una esortazione ma come testimone di ciò che è avvenuto a me.

    Ecco allora la forza di questa testimonianza: chi ha percorso un genuino cammino penitenziale, può aiutare altri a capire che c’è una via d’uscita: e non semplicemente una via d’uscita generica o stoica o eroica ma una via d’uscita in cui Dio stesso viene incontro, in Gesù, come è venuto incontro a me. Più di una volta si verifica nella vita, infatti, che proprio chi è uscito da qualche tenebroso tunnel ha una singolare capacità di dire ad altri: coraggio, anche per te c’è sicuramente una via di uscita!

    Questa viene espressa dal salmista in modo aperto e libero, quasi gli fosse ridata la parola. Le tre realtà che segnano la parola umana – la lingua, le labbra, la bocca – vengono qui coinvolte nell’impegno di esprimersi missionariamente. Lingua, labbra, bocca si aprono non per una imposizione, non perché il testimone sente un dovere che grava sopra di sé, bensì per una effusione che gli viene dalla pienezza che ha dentro di sé. Sappiamo molto bene che una testimonianza a mezza bocca è poco efficace, talora è quasi una controtestimonianza. Quella invece che viene dall’esultanza della lingua, dal bisogno della bocca che si apre, dalle labbra che si muovono con gioia, è veramente degna di essere rispettata e di essere ascoltata.

    Possiamo subito domandarci: com’è la mia testimonianza? È una testimonianza a mèzza bocca, in cui le labbra si muovono a fatica e annaspo in cerca delle parole? In questo caso non nasce da una esperienza: nasce piuttosto da qualche cosa che non è ancora entrato dentro di me.

    Oppure, è una testimonianza spontanea, libera, gioiosa, in cui le parole vengono fuori da sole? In questo caso sta operando in me la tua grazia, Signore, è il tuo Spirito che mi apre la bocca perché io possa cantare le tue lodi con amore, perché io possa insegnare che c’è una strada a coloro che ritengono non ci sia più niente da fare. Apri sempre, Signore, la mia bocca soprattutto di fronte alle situazioni difficili nelle quali mi accade di rimanere muto, di non sapere cosa dire e addirittura mi sembra che davvero non ci sia speranza!

    L’esperienza della Samaritana

    Il Vangelo secondo Giovanni, al c. 4, ci presenta un altro esempio di una bocca che si apre alla testimonianza convinta e convincente: la donna samaritana.

    È un brano che si potrebbe commentare ripercorrendo, in qualche maniera, le tappe che hanno segnato i nostri incontri, perché anch’esso indica un cammino penitenziale, un momento in cui la persona giunge alla verità di se stessa di fronte a Cristo e alla verità di Cristo come salvatore e come amico.

    E alla fine del cammino, ritroviamo l’apertura del cuore e delle labbra: « La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia? ».

    Notiamo la finezza del particolare: « lasciò la brocca ». Questa donna era venuta per attingere acqua, la brocca era la sua ricchezza, ad essa era legata la sua vita quotidiana: eppure in questo momento tutto è dimenticato e la brocca slabbrata, abbandonata sul ciglio del pozzo, è come il segno di una esistenza da cui la donna è ormai uscita, è il segno di un incubo che ha lasciato dietro di sé. A somiglianza dei due discepoli di Emmaus, che interrompono la cena a metà, si alzano e corrono verso Gerusalemme, la Samaritana rifà la strada, corre in città e va ad annunciare quello che le è accaduto. Lo annuncia con parole piuttosto maldestre, in verità: «Che sia forse il Messia? ».

    Di per sé non è un annuncio molto efficace, almeno da un punto di vista teologico. Eppure queste parole sono una testimonianza efficacissima perché derivano da una esperienza vissuta. La gente ha davanti una persona che non parla con parole imparate, che non ripete una lezione, ma che parla quasi smozzicando le frasi e però con il cuore e l’affanno di chi ha avuto un’esperienza formidabile, che a fatica si può comunicare. Alla Samaritana si sono aperte le labbra, si è sciolta la lingua e, in una esplosione di gioia, parla con semplicità e con verità della misericordia di Dio verso di lei.

    Proclamare la misericordia

    Di fronte all’esperienza del salmista e della donna samaritana, noi dobbiamo domandarci quale sia la nostra testimonianza missionaria di misericordia. A noi, infatti, è chiesto di testimoniare quella grazia che ci ha attratto nel cammino penitenziale fatto insieme in questi esercizi.

    Nell’enciclica « Dives in misericordia », Giovanni Paolo II esprime questo dovere, che ci compete, in due momenti.

    In un primo momento parla del dovere generale della testimonianza:

    Occorre che la Chiesa del nostro tempo prenda più profonda e particolare coscienza della necessità di rendere testimonianza alla misericordia di Dio in tutta la sua missione, sulle orme della tradizione dell’antica e della nuova Alleanza e, soprattutto, dello stesso Gesù Cristo e dei suoi apostoli (Dives in misericordia, VII).

    Testimoniare la misericordia è dunque un dovere del nostro tempo. Il Papa sembra quasi avere l’impressione che la Chiesa abbia bisogno di essere esortata, soprattutto oggi, a prendere coscienza della necessità di rendere testimonianza alla misericordia di Dio.

    In un secondo momento indica come si deve dare testimonianza e sottolinea tre modi:

    Professandola in primo luogo come verità salvifica di fede e necessaria ad una vita coerente con la fede.

    Cercando di introdurla e di incarnarla nella vita, sia dei suoi fedeli, sia, per quanto è possibile, in quella di tutti gli uomini di buona volontà. I

    Infine la Chiesa… ha il diritto e il dovere di richiamarsi alla misericordia di Dio, implorandola nella preghiera (ibidem).

    È facile comprendere come noi possiamo rendere testimonianza alla misericordia di Dio professandola.

    Ogni volta, infatti, che ci accostiamo al Sacramento della Riconciliazione, noi facciamo anche una «confessio fidei », cioè proclamiamo che Dio è Signore della nostra vita, è più grande del nostro peccato, che la sua misericordia trionfa sulla fragilità dell’esistenza umana e sul buio dell’uomo: confessiamo quindi e proclamiamo la misericordia di Dio.

    Incarnare la misericordia

    Il secondo modo suggerito dal Papa per testimoniare la misericordia divina è più difficile. Non è cosa da poco incarnare nella vita la misericordia di Dio. Anzi, è talmente difficile che talora ci lascia perplessi e sgomenti, ci lascia davvero senza parole e senza capacità di muoverci in questo cammino di missione e di testimonianza. D’altra parte, se non riusciamo a dare testimonianza della misericordia di Dio, ne va della credibilità della Chiesa e della nostra vita di cristiani.

    Vorrei fare capire questa difficoltà riflettendo su tre situazioni nelle quali possiamo trovarci.

    a) Situazioni o casi ordinari. Che cosa vuol dire introdurre, incarnare la testimonianza della misericordia? Concretamente vuol dire mettere in pratica la domanda del « Padre nostro»: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori ». Vuol dire saper perdonare, saper comprendere, saper capire, voler perdonare settanta volte sette.
    E questo è già difficile, per tanti motivi che conosciamo bene. È così difficile che spesso noi lo emarginiamo, questo impegno di perdonare, anche dal nostro orizzonte morale e rimane quindi come qualcosa di inadempiuto a cui non guardiamo in faccia. Eppure è testimonianza necessaria, quotidiana, della misericordia ricevuta da Dio: «Se non perdonerete a chi vi ha fatto del male, neppure il Padre vostro perdonerà a voi» (cfr. Mt. 6, 15).

    b) Situazioni o casi più complessi. Sono i casi nei quali c’è in gioco la reciprocità. Dove, cioè, non basta perdonare, quasi fossimo noi soltanto a concedere il favore ad un altro, ma bisogna farsi perdonare, chiedere perdono, assumere l’atteggiamento di chi riconosce che se, è stato offeso ne ha però dato- occasione, che se è stato oggetto di qualche ingiustizia, anche lui però si è comportato in maniera non pienamente giusta. Tutto questo è molto difficile.

    C’è un altro caso di reciprocità assai difficile nella vita quotidiana ma che è assolutamente necessario pèrché forma, per così dire, il tessuto della vita. Ne abbiamo già accennato in un precedente incontro. Non basta cioè perdonare, ma bisogna saper camminare con un altro, bisogna saper correggere. La correzione fraterna, così importante per la comunità cristiana, e praticata nella Chiesa primitiva, richiede molto amore e molta umiltà. Tuttavia spesso noi la eliminiamo dal nostro orizzonte di agire perché ci appare troppo rischiosa, impossibile, inefficace e in tal modo non diamo sufficiente testimonianza alla misericordia di Dio.

    Vorrei che ciascuno, a partire da me, si interrogasse sinceramente: come viviamo queste occasioni di dare testimonianza, con i fatti, con le opere e non solo con le parole, alla misericordia di Colui che ci ha amato, che ci riabilita, che ci accoglie, che ci rifà dall’interno, che ha fiducia in noi?

    c)            Ci sono, infine, le situazioni o i casi conflittuali. Intendo per casi conflittuali quelli in cui ci sembra che la misericordia esiga un certo comportamento mentre l’ordine e la giustizia ne esigono un altro.

    Sono certamente situazioni estremamente difficili e non sempre riusciamo a trovare la soluzione soddisfacente: sono situazioni che causano nella Chiesa, nella società, ,nelle famiglie delle grandi sofferenze. Cercando di vivere la misericordia si arriva addirittura a temere di, fare torto o danno ad altri o al bene comune: nasce allora un conflitto tra i valori, almeno apparente, che ci costringe, nella nostra povertà storica; a non saper scegliere oppure a scegliere qualcosa che risulta insoddisfacente, in un caso o nell’altro.
    Chiunque vive in mezzo a delle responsabilità si imbatte in molti di questi casi che fanno soffrire nella misura in cui ci accorgiamo di quanto siamo lontani dall’essere lungimiranti e veri nella nostra misericordia. Questa sofferenza dobbiamo offrirla a Dio perché è la sola cosa che possiamo fare.

    Ci sono poi dei casi in cui il compiere un atto di misericordia comporta un uscire da quel minimo di possesso di noi, che pure è necessario, e allora non lo compiamo. Quante volte persone generose arrivano ad un limite e riconoscono di non poter andare oltre, di non potere fare di più! È il limite intrinseco alla nostra fragilità umana che addolora moltissimo. Andare oltre un certo limite equivarrebbe a spossessarsi di sé e si cadrebbe nell’opposto di quello che si, vorrebbe fare. Questa misura di prudenza necessaria ci fa cogliere come sia difficile dare storicamente una testimonianza pienamente luminosa della misericordia. Non ci resta allora che soffrire e implorare, per noi e per gli altri.

    Implorare la misericordia

    Il Papa, infatti, nella « Dives in misericordia », dopo aver detto di cercare di introdurre e di incarnare nella vita la misericordia, aggiunge che bisogna « implorarla di fronte a tutti i fenomeni del male fisico e morale, dinanzi a tutte le minacce che gravano sull’intero orizzonte della vita dell’umanità contemporanea ». Dobbiamo essere certi che questa implorazione è resistenza attiva e vera al male e che dispiace profondamente al nemico di Dio.
    Mi ha molto colpito un brano di Simone Weil là dove scriveva:

    Non è così difficile rinunciare a un piacere, pur inebriante, o sottomettersi a un dolore, pur violento. Lo si vede fare quotidianamente da gente molto mediocre. Ma è infinitamente difficile rinunciare anche a un leggerissimo piacere, esporsi a una semplicissima pena solo per Dio; per il vero Dio, per colui che è nei cieli e non altrove. Poiché, quando lo si fa, non si va alla sofferenza ma alla morte. Una morte più radicale della morte carnale e che fa orrore alla natura stessa.

    Invece, è proprio questo il momento di vincere il male: credere, cioè, al valore di una implorazione che non ha un’efficacia immediata connessa col suo esercizio. La nostra preghiera di implorazione, soprattutto nei casi-limite nei quali ci pare di non potere fare altro, è un vero modo di resistere al male. Non dobbiamo dunque avere paura della sterilità e abbandonare la preghiera, come spesso siamo tentati di fare, perché non ci riesce di scuotere immediatamente il male. È per questa nostra implorazione sofferta, che talora ci angoscia fino alle lacrime, che Dio ci darà modo di vedere come usare, anche in quei casi, la misericordia e l’amore e come aiutare veramente coloro che possiamo assistere con il dono di noi stessi.

    Conclusione

    Ecco che cosa significa e che cosa comporta nella vita essere testimoni della misericordia divina: « Insegnerò agli erranti le tue vie ». Riconoscendo che siamo tutti molto lontani da questa testimonianza seria della misericordia, dobbiamo ritornare alla preghiera creativa del Salmo 50:

    « Crea in me, o Dio, un cuore puro» perché non l’ho e tu devi crearlo in me come cosa nuova;

    « Rinnova in me uno spirito saldo» là dove il mio spirito si adagia nella fatica e nella paura;

    « Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me uno spirito pronto» a essere testimone della tua misericordia di fronte a tanti miei fratelli e sorelle che aspettano questa testimonianza di Te, Padre misericordioso, che mi hai amato e mi hai chiamato, che mi hai fatto camminare quest’anno insieme a molti altri in un cammino di conversione e di misericordia.

    Vorrei concludere con le parole di Charles de Foucauld che nel primo incontro abbiamo ripetuto facendole nostre. Dopo aver indicato il Miserere come preghiera in cui l’esperienza dell’uomo è spiegata a se stessa, preghiera quotidiana che innalza l’uomo verso Dio, diceva:

    [Questa preghiera] parte dalla considerazione di noi stessi e della vista dei nostri peccati e sale fino alla contemplazione di Dio, passando attraverso il prossimo e pregando per la conversione di tutti gli uomini. È dunque una preghiera universale da cui nessuno è escluso e da cui la storia umana, nella sua verità, riceve un coinvolgimento e una presenza degli uni negli altri. In questa preghiera, cioè, noi ci ricordiamo, ci perdoniamo, ci aiutiamo, ci sosteniamo nel cammino difficile della conversione evangelica, nella strada faticosa di chi vuol dare un volto storico credibile a Cristo. Recitando il Salmo 50 noi viviamo questa fatica e insieme la gioia immensa dello Spirito che si riversa nella nostra esistenza e cresciamo verso l’unità misteriosa di Dio, del Cristo nella storia.

    Chiedo al Signore che attraverso la recita del Salmo 50, attraverso il ricordo di questo Salmo che ciascuno di noi conserverà nel cuore, noi possiamo conservare anche la memoria dei momenti meravigliosi che abbiamo vissuto, di questa fraternità nella fede, di questa umiltà nella richiesta di perdono, della fiducia che Lui, il Signore, ci fa camminare illuminati dallo splendore del suo volto e sostenuti dalla grazia del suo Spirito.

  • 10 Gen

    San Romualdo: l’«esicasta d’occidente»

    La «solitudine aurea» e l’hesychia nella tradizione

    dei Padri del deserto

    Centro Studi Avellaniti: San Romualdo: Storia, agiografia e spiritualità

     


    Nella sua attività di riforma monastica, Romualdo riformò e fondò sia eremi che monasteri; ma è innegabile che le sue preferenze furono rivolte agli eremi. Tuttavia, egli non fu l’innovatore dell’ideale eremitico, giacché da secoli tale vita era praticata in misura notevole anche in Occidente. La sua specifica funzione fu quella di dare una regola ai vari eremiti isolati, i quali, vivendo senza controllo, quasi sempre finivano per giungere a degli eccessi nelle loro forme di ascesi. Perciò Romualdo venne chiamato «il padre degli eremiti razionali che vivono secondo una regola».

    La regola che egli proponeva ai suoi discepoli era prima di tutto la  Regola di Benedetto. Ma, per fortuna, Bruno ci ha anche lasciato una «piccola regola» che Giovanni ha ricevuto dal maestro Romualdo come guida della sua vita. Trovo una condensazione dell’ideale della «solitudine aurea», ossia il secondo bene del carisma romualdino, in tale «piccola regola»:

    Siedi nella tua cella come nel paradiso.
    Scordati del mondo e gettatelo dietro le spalle.
    Fa’ attenzione ai tuoi pensieri come un buon pescatore ai pesci.
    L’unica via per te si trova nei Salmi, non lasciarla mai.
    Se da poco sei venuto, e malgrado il tuo primo fervore
    non riesci a pregare come vorresti, cerca, ora qua ora là,
    di cantare i Salmi nel cuore e di capirli con la mente.
    Quando ti viene qualche distrazione,
    non smettere di leggere; torna in fretta al testo
    e applica di nuovo l’intelligenza.
    Anzitutto mettiti alla presenza di Dio
    come un uomo che sta davanti all’imperatore.
    Svuotati di te stesso
    e siedi come una piccola creatura,
    contenta della grazia di Dio;
    se come una madre Dio non te la donerà,
    non gusterai nulla, non avrai nulla da mangiare.

    La «piccola regola» di Romualdo è da studiare insieme al capitolo  della “Vita del Beato Romualdo”, dove s. Pier Damiano racconta l’episodio nel quale Romualdo ricevette il dono delle lacrime, della scienza spirituale, e della preghiera mistica. La “piccola regola” e il capitolo 31 della sua vita, io credo, situano saldamente Romualdo e i suoi discepoli nell’antica tradizione della “spiritualità esicasta”.

    Il termine «esicasmo» è da comprendere nel senso primitivo, che trova la sua origine presso i Padri del deserto ed è giunto al vertice nella spiritualità del monte Sinai, specialmente negli scritti diGiovanni Climaco  e di Esichio.

    È mia intenzione commentare la «piccola regola» e il capitolo 31, collocandoli nel contesto della spiritualità del deserto, specialmente attraverso gli scritti di Giovanni Climaco e di Cassiano.
    Mentre sappiamo che Romualdo leggeva il libro delle  Vite dei Padri e seguiva gli insegnamenti delle loro Conferenze trasmesse da Cassiano, non voglio affermare che Romualdo avesse letto gli scritti di Giovanni Climaco. Tuttavia, essendo La Scala del Paradiso di Giovanni Climaco un manuale di noviziato per i monaci orientali, è molto probabile che Romualdo avesse conosciuto indirettamente gli insegnamenti del maestro sinaitico grazie a contatti con monaci della tradizione greca.

    Il termine greco hesychia significa lo stato di silenzio, di quiete, e di tranquillità, che è il risultato della cessazione del disturbo e dell’agitazione, esterni e interni. L’espressione «purità di cuore» di Cassiano contiene l’aspetto di «tranquillità dell’anima» (tranquillitas mentis), e, perciò, l’idea di hesychia. Inoltre, il termine indica anche solitudine e ritiro. In quanto valore essenziale della vita monastica, l’hesychia è cercata sia dagli anacoreti che dai monaci cenobitici. Tuttavia, nelle fonti più antiche, il termine «esicasta» normalmente significa un monaco che vive nella solitudine, ossia un eremita, diversamente da un monaco cenobita, come osserva Kallistos Ware, uno studioso monaco ortodosso.

    Siedi nella tua cella

    La frase iniziale della «piccola regola» di Romualdo, «siedi nella tua cella», è un’indicazione fondamentale per gli esicasti che abitano nelle celle. Così il padre Mosè disse ad un fratello che si recò a Scete per chiedergli una parola: «Va’, rimani nella tua cella, e la tua cella ti insegnerà ogni cosa». Il padre Rufo diede la seguente spiegazione del senso dell’hesychia: «L’hesychia è il rimanere in cella con timore e conoscenza di Dio, tenendosi lontano dal ricordo delle offese e dalla superbia». Il legame stretto fra l’hesychia e la cella si trova anche in un detto famoso di Antonio il Grande: “Come i pesci muoiono se restano all’asciutto, così i monaci che si attardano fuori della cella o si trattengono fra i mondani, snervano il vigore dell’unione con Dio. Come dunque il pesce al mare, così noi dobbiamo correre alla cella; perché non accada che, attardandoci fuori, dimentichiamo di custodire il di dentro”.

    L’idea della cella come paradiso può ritrovarsi in Girolamo, che disse al monaco Rustico: «Fin quando rimani nel tuo paese, prendi la tua cella come paradiso». Nella tradizione del deserto, la cella è considerata luogo di riposo, casa di preghiera, e abitazione di Dio.

    Scordati del mondo e gettatelo dietro le spalle

    Prosegue la «piccola regola»: «Scordati del mondo e gettatelo dietro le spalle». La spiritualità esicasta distingue tra hesychia esteriore e interiore. Mentre l’hesychia esteriore si riferisce a un luogo remoto e quieto, in particolare la cella di un eremita, l‘hesychia interiore indica la calma interiore di un esicasta. L’hesychia esteriore serve come condizione favorevole per coltivare il silenzio interiore che è l’obiettivo cercato.  Perciò non basta rimanere nella propria cella; occorre coltivare la cella del cuore. A questo riguardo, Giovanni Climaco esorta gli esicasti a chiudere tre porte una dopo l’altra: «Chiudi fisicamente la porta della cella per il tuo corpo, ferma la porta alla lingua perché non parli, sbarra la porta dal di dentro contro gli spiriti».

    L‘hesychia interiore può essere disturbata dall’attaccamento agli uomini o alle cose di questo mondo, o dalle preoccupazioni per gli affari terreni. Nella tradizione del deserto, l’amerimnia, che significa libertà dalle preoccupazioni, è intimamente connessa all‘hesychia interiore. Sulla scia di tale tradizione Giovanni Climaco dichiara: «E’ proprio dell’hesychia il dono dell’amerimnia che guida tutte le nostre azioni in qualunque affare spirituale o materiale: poiché la preoccupazione per il primo conduce a quella per il secondo». L’ingiunzione categorica della «piccola regola» a dimenticare il mondo appartiene chiaramente a tale tradizione. Il motivo è che, mentre sta nella cella fisicamente, il monaco deve evitare di vagare per il mondo con la mente. Questo è anche il significato della descrizione classica che Giovanni Climaco fa di un esicasta: «L’esicasta è colui che lotta per circoscrivere dentro il corporeo l’incorporeo, cosa veramente straordinaria», ossia l’esicasta è colui che conserva lo spirito dentro il proprio corpo.

    Fà attenzione ai tuoi pensieri come un buon pescatore ai pesci

    La «piccola regola» continua: «Fà attenzione ai tuoi pensieri come un buon pescatore ai pesci». Per raggiungere e mantenere 1‘hesychia e l‘amerimnia, altri due termini sono usati dalla tradizione del deserto: nepsis (la vigilanza) e prosochè (l’attenzione).

    Secondo Giovanni Climaco, l‘hesychia e la vigilanza si trovano sempre insieme: «Ama l’hesychia il pensiero vigoroso e conciso, sempre vigile alla porta del cuore per eliminare o respingere quelli che dall’esterno vorrebbero in esso irrompere». E’ interessante notare che, prima di Romualdo, Giovanni Climaco aveva già usato l’immagine del pescatore a proposito della vigilanza: «Il monaco che veglia è come un buon pescatore che ripesca i pensieri della mente perché nella tranquillità della notte li può più facilmente recuperare».

    L’oggetto della vigilanza, per Romualdo come per Giovanni Climaco, sono i «pensieri» (logismoi), che sono le passioni viziose. A questo riguardo, Giovanni Climaco dimostra una dipendenza creativa dalla trattazione classica di Evagrio riguardo agli Otto «pensieri».

    L’hesychia non è un fine in sé, bensì è coltivata come un mezzo per ottenere un obiettivo nobile: la contemplazione o la preghiera incessante. Nella tradizione monastica, la preghiera e la contemplazione nascono come risposta alla parola di Dio.

    «L’unica via per te si trova nei Salmi – non lasciarla mai»

    Perciò, dopo l’esortazione a vigilare sui pensieri, la «piccola regola» spiega qual’è il lavoro principale del monaco quando dimora nella propria cella: «L’unica via per te si trova nei Salmi – non lasciarla mai». nei Salmi. Poiché i Padri, Atanasio e Cassiano in particolare, vedono i Salmi come la condensazione di tutta la Bibbia, la via dei Salmi si riferisce alla Bibbia tutta intera, e, in modo particolare, al Salterio come compendio della Bibbia. L’unica via indicata dalla «piccola regola» è

    La «piccola regola» continua a dare istruzioni sulla via dei Salmi: Se da poco sei venuto, e malgrado il tuo primo fervore non riesci a pregare come vorresti, cerca, ora qua ora là, di cantare i Salmi nel cuore e di capirli con la mente. Quando ti viene qualche distrazione, non smettere di leggere; torna in fretta al testo e applica di nuovo l’intelligenza.

    Qui la “piccola regola” ci presenta una visione integrale di come leggere e pregare i Salmi. Lectio, meditatio, oratio sono i diversi momenti di un’unica continua attività spirituale nella quale uno può passare liberamente da un momento all’altro senza seguire un ordine fisso. Anche se la parola non si trova, l’idea di «meditazione» (melete), nel senso antico di recitare un testo ripetutamente per capirne meglio il significato e per memorizzarlo, è sicuramente contenuta in questo brano.

    Esiste un intimo legame fra l‘hesychia, o il silenzio interiore, e l’assidua meditazione della parola di Dio. Secondo la «piccola regola», per poter seguire la via dei Salmi il monaco deve dimenticare il mondo e vigilare costantemente sui propri pensieri, cioè coltivare il silenzio interiore. A loro volta, la lettura e la meditazione assidua della Parola di Dio servono come strumenti che aiutano a mantenere ferma l’attenzione di una mente vagante: «Quando ti viene qualche distrazione, non smettere di leggere; torna in fretta al testo e applica di nuovo l’intelligenza.».  Quindi il silenzio interiore e l’assidua meditazione della Parola di Dio sono due elementi essenziali della spiritualità della cella, reciprocamente indispensabili.

    Un simile approccio già si trova in Cassiano, secondo il quale è impossibile dedicarsi alla lettura spirituale senza conservare il silenzio interiore o la purezza di cuore: Pertanto, se volete innalzare nel vostro cuore il tabernacolo santo della scienza spirituale, purificatevi dalla bruttura di tutti i vizi, spogliatevi di tutte le preoccupazioni di questo mondo. E’ impossibile che un’anima, anche moderatamente occupata nelle faccende del mondo, meriti il dono della scienza, o sia feconda nell’intelligenza spirituale, o ritenga fermamente le sante letture che ha fatto.

    D’altra parte, secondo Cassiano, la lettura e la meditazione sono i mezzi più efficaci per custodire la mente dai pensieri dannosi, nutrendo le sante  memorie e i pii sentimenti. La necessità di coniugare i due aspetti, silenzio e meditazione, è stata splendidamente formulata nelle Eremiticae Regulae del Beato Rodolfo, quarto Priore del sacro Eremo di Camaldoli: Seguono per ultimo il silenzio e la meditazione. Queste due cose, la regola del tacere e la vigile occupazione dei meditare, sono così unite indissolubilmente che nessuna senza l’altra è valevole a salute; poiché il silenzio senza la meditazione è morte e quasi tomba di un sepolto vivo; la meditazione senza il silenzio non viene a capo di nulla ed è come lo smaniare di un infelice chiuso in un sepolcro. Uniti in spirituale connubio, sono gran quiete dell’anima e culmine di contemplazione.

    Se seguiamo la suddivisione delle due tappe della vita spirituale: praktike e  theorìa, ossia ascesi e contemplazione, la via dei Salmi si trova in tutte e due le tappe, in quanto la lettura e la meditazione assidua conducono all’hesychia e aprono la porta alla contemplazione. Per questa ragione Cassiano colloca la lettura e la meditazione fra le pratiche ascetiche che conducono alla purezza di cuore. Allo stesso tempo la lettura e la meditazione portano il frutto della «scienza spirituale». ossia la contemplazione: Poi, dopo aver allontanato da voi stessi tutte le preoccupazioni e le ansietà terrestri, sforzatevi con tutte le forze di applicarvi assiduamente, anzi continuamente, alla lettura sacra, cosicché questa meditazione continua pervada la vostra anima e la formi, poi così dire, a sua immagine… La lettura allora farà dell’anima vostra una nuova arca dell’alleanza, che conserva in sé le due tavole di pietra, vale a dire l’eterna fermezza dell’uno e dell’altro Testamento. Farà di voi una nuova urna d’oro, simbolo d’una memoria pura e sincera, che conserva per sempre il tesoro nascosto dalla manna, vale a dire l’eterna e celeste dolcezza del senso spirituale e del pane degli angeli.

    Cassiano insiste sull’intima connessione fra ascesi, meditazione e scienza spirituale, ossia contemplazione. Questi elementi sono così inseparabili tra loro che il monaco li deve coltivare lungo l’intero cammino spirituale.

    L’esperienza di san Romualdo

    La  «piccola regola» di Romualdo contiene una breve sintesi di questi elementi. La via dei Salmi presuppone l’ascesi attraverso la vigilanza sui pensieri e allo stesso tempo prepara la strada alla contemplazione. Poiché la «piccola regola» è scritta per i principianti nel cammino monastico, parla poco della contemplazione, ma giustamente esorta i discepoli ad aspettare pazientemente la grazia di Dio. Per avere un’idea della grazia promessa nella «piccola regola», bisognerebbe rivolgersi alla Vita del Beato Romualdo. Nel capitolo 31, S. Pier Damiano racconta l’episodio nel quale Romualdo ricevette per la prima volta il dono delle lacrime della compunzione. Qui la compunctio va oltre il significato usuale di dolore penitenziale ed indica ogni esperienza estatica di gioia e di esultanza che si ha durante la preghiera. Insieme al dono delle lacrime fu concesso a Romualdo un altro dono importante, cioè la conoscenza spirituale, o la comprensione del senso nascosto delle Sacre Scritture. Così scrive Pier Damiano: Un giorno, mentre stava in cella a salmodiare, si imbatté in questo versetto: ‘Ti farò saggio, t’indicherò la via da seguire; con gli occhi su dite, ti darò consiglio (Sal 31, 8). Gli sopraggiunse improvvisamente una così larga effusione di lacrime, e la sua mente fu talmente illuminata nella comprensione delle Scritture divine, che da quel giorno in poi, finché visse, ogni volta che lo voleva, poteva versare con facilità lacrime abbondanti e il senso spirituale delle Scritture non gli era più nascosto.

    Secondo l’agiografo, in questa occasione Dio innalzò Romualdo al culmine della perfezione, tanto che, sotto l’ispirazione dello Spirito santo, Romualdo poté prevedere alcuni eventi futuri e penetrare con intelligenza molti misteri nascosti delle Scritture. Nello stesso capitolo leggiamo che tale esperienza mistica non restò un caso isolato nella vita di Romualdo, ma ebbe un effetto permanente su di lui. Da quel momento in poi le lacrime quasi sempre accompagnavano la sua preghiera estatica: Sovente, rimaneva così rapito nella contemplazione di Dio che si scioglieva quasi interamente in lacrime e bruciando di fervore indicibile per l’amore divino, usciva in esclamazioni come queste: ‘Caro Gesù, caro! Mio dolce miele, desiderio inesprimibile, dol­cezza dei santi, soavità degli angeli!’ Parole che, sotto il dettato dello Spirito santo, gli si tramutavano in canti di giubilo e che noi non sapremmo rendere compiutamente mediante concetti umani. Era come dice l’Apostolo: ‘Noi non sappiamo neppure come dobbiamo pregare, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili (Rm 8, 26).

    Le lacrime: «orazione infuocata»

    Le descrizioni di lacrime, di fervore ardente, e di giubilo che accompagnavano le preghiere estatiche di Romualdo ricordano la oratio ignita spesso menzionata da Cassiano. Nelle preghiere estatiche di Romualdo, che andavano oltre le immagini e le parole per sfociare in gemiti inesprimibili, si trova quasi un’eco dell’ «orazione infuocata» descritta da Cassiano:
    La preghiera di cui stiamo parlando non si fissa su qualche immagine, anzi non s’esprime neppure attraverso parole: nasce di balzo, da una mente infuocata, da un rapimento indicibile, da una insaziabile alacrità di spirito. L’anima, trasportata fuori dei sensi e delle cose visibili, si offre a Dio tra sospiri e gemiti inenarrabili.

    Cassiano adopera varie espressioni per descrivere la preghiera estatica: essa è infuocata, ardente, pura, ineffabile, esprimibile solo attraverso i gemiti e non con le parole… ecc.  Anche le lacrime sono segno della preghiera estatica. Mentre sia Evagrio che Cassiano parlano dell’ «orazione pura» che va oltre le immagini e le parole, è la presenza delle lacrime, del fuoco, e dei gemiti che distingue la descrizione di Cassiano da quella di Evagrio. Come Diadoco di Foticea, secondo Columba Stewart, Cassiano ha effettuato una sintesi fra l’approccio intellettuale di Evagrio e il misticismo affettuoso dello Pseudo-Macario nella sua presentazione dell’orazione pura.

    In modo simile, le lacrime di compunzione costituiscono un tema importante per Giovanni Climaco, anche se questi accentua di più la compunzione intesa come dolore e pentimento. Nel  capitolo sulla preghiera, Climaco raccomanda la semplicità della “preghiera con una sola espressione” (preghiera monologistos) per evitare le distrazioni. Inoltre, insegna che, quando uno è arrivato a possedere la presenza del Signore nel suo cuore, non deve più preoccuparsi di intessere la sua orazione con parole, perché allora lo Spirito intercederà per lui e in lui con gemiti inenarrabili. Ugualmente Giovanni Climaco esorta a tener lontana dalla mente ogni immagine sensibile che potrebbe turbare il nostro raccoglimento. In modo particolare dà grande importanza alla presenza del fuoco dello Spirito che «inabitante nel cuore del monaco orante, innalzando l’anima nella preghiera, ne sollecita lo slancio fino al cielo, rinnovando la sua discesa nel cenacolo dell’anima».  In tutti questi aspetti si percepisce una chiara consonanza con le esperienze delle preghiere estatiche di Romualdo così come sono presentate nel capitolo 31 della sua Vita.

    E’ molto significativo che Romualdo abbia ottenuto il dono delle lacrime, la scienza spirituale e l’esperienza della preghiera estatica, mentre stava recitando un Salmo. È quasi una conferma alla validità della  «via dei Salmi» indicata dalla «piccola regola» come l’unica via da seguire. Se ci volgiamo alla «piccola regola» e leggiamo le parole: «Se da poco sei venuto, e malgrado il tuo primo fervore non riesci a pregare come vorresti…», dobbiamo ricordare il capitolo più bello della Vita di S. Romualdo e possiamo consolarci con la convinzione che la grazia promessa dalla «piccola regola» sarà concessa a coloro che perseverano sulla via dei Salmi.

    Mettiti alla presenza di Dio

    Continuiamo la nostra riflessione sulla «piccola regola»: «Anzitutto mettiti alla presenza di Dio come un uomo che sta davanti all’imperatore». L’esortazione ad avere la consapevolezza della presenza di Dio è presente nella Regola di S. Benedetto. Il primo gradino dell’umiltà si basa sulla consapevolezza di essere sempre e ovunque sotto lo sguardo di Dio (RB 7, 10-30). Inoltre, la memoria della presenza di Dio deve ispirare il nostro comportamento soprattutto durante la preghiera comunitaria (RB 19,I 2.).

    La vigilanza (nepsis) e l’attenzione (prosoche) sono due aspetti indispensabili per l’hesychia: la vigilanza ci libera dall’agitazione dei pensieri perché possiamo conservare l’attenzione continua alla presenza di Dio. Nel capitolo sulla vigilanza Giovanni Climaco parla di stare costantemente in preghiera davanti a Dio nostro Re. Nel capitolo sull’hesychia si trova il famoso testo che invita ad unire il ricordo continuo di Gesù al proprio respiro: L’esichia consiste nello stare in continua adorazione del Signore, sempre alla sua presenza, con il ricordo di Gesù aderente al proprio respiro, allora potrai toccare con mano i vantaggi dell’hesychia.

    Svuotati di te stesso

    Finalmente, giungiamo all’ultimo paragrafo della «piccola regola»: «Svuotati di te stesso e siedi come una piccola creatura, contenta della grazia di Dio; se come una madre Dio non te la donerà, non gusterai nulla, non avrai nulla da mangiare».

    Per potersi sedere pazientemente in attesa della visita della grazia di Dio, senza agire di propria iniziativa, è necessario svuotarsi completamente. L’intero paragrafo ci ricorda il Salmo 131 che, con soli tre versetti, è uno dei più bei salmi di fiducia nel Signore. L’immagine di un pulcino in attesa di essere nutrito dalla mamma richiama il bimbo in braccio a sua madre del secondo versetto del Salmo: «Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia».

    L’ingiunzione a svuotarsi completamente, invece, corrisponde al primo versetto del Salmo: «Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze».

    Tutti e due i versetti sono citati nel capitolo sull’umiltà della Regola di S. Benedetto, come introduzione ai vari gradini dell’umiltà (RB 7, 3-4).

  • 07 Gen

    Elementi per una spiritualità del lavoro

    Enc. “Laborem exsercens”, di Giovanni Paolo II

    24. Particolare compito della Chiesa

    Conviene dedicare l’ultima parte delle presenti riflessioni sul tema del lavoro umano, collegate col 90° anniversario dell’Enciclica Rerum Novarum, alla spiritualità del lavoro nel senso cristiano dell’espressione. Dato che il lavoro nella sua dimensione soggettiva è sempre un’azione personale, actus personae, ne segue che ad esso partecipa l’uomo intero, il corpo e lo spirito, indipendentemente dal fatto che sia un lavoro manuale o intellettuale. All’uomo intero è pure indirizzata la Parola del Dio vivo, il messaggio evangelico della salvezza, nel quale troviamo molti contenuti – come luci particolari – dedicati al lavoro umano. Ora, è necessaria un’adeguata assimilazione di questi contenuti; occorre lo sforzo interiore dello spirito umano, guidato dalla fede, dalla speranza e dalla carità, per dare al lavoro dell’uomo concreto, con l’aiuto di questi contenuti, quel significato che esso ha agli occhi di Dio, e mediante il quale esso entra nell’opera della salvezza al pari delle sue trame e componenti ordinarie e, al tempo stesso, particolarmente importanti.

    Se la Chiesa considera come suo dovere pronunciarsi a proposito del lavoro dal punto di vista del suo valore umano e dell’ordine morale, in cui esso rientra, in ciò ravvisando un suo compito importante nel servizio che rende all’intero messaggio evangelico, contemporaneamente essa vede un suo dovere particolare nella formazione di una spiritualità del lavoro, tale da aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, Creatore e Redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell’uomo e del mondo e ad approfondire nella loro vita l’amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede una viva partecipazione alla sua triplice missione: di Sacerdote, di Profeta e di Re, così come insegna con espressioni mirabili il Concilio Vaticano II.

    25. Il lavoro come partecipazione all’opera del Creatore

    Come dice il Concilio Vaticano II, «per i credenti una cosa è certa: l’attività umana individuale e collettiva, ossia quell’ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde al disegno di Dio. L’uomo infatti, creato a immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene per governare il mondo nella giustizia e nella santità, e così pure di riportare a Dio se stesso e l’universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose, in modo che, nella subordinazione di tutta la realtà all’uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra».

    Nella Parola della divina Rivelazione è iscritta molto profondamente questa verità fondamentale, che l’uomo, creato a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all’opera del Creatore, ed a misura delle proprie possibilità, in un certo senso, continua a svilupparla e la completa, avanzando sempre più nella scoperta delle risorse e dei valori racchiusi in tutto quanto il creato. Questa verità noi troviamo già all’inizio stesso della Sacra Scrittura, nel Libro della Genesi, dove l’opera stessa della creazione è presentata nella forma di un «lavoro» compiuto da Dio durante i «sei giorni», per «riposare» il settimo giorno. D’altronde, ancora l’ultimo libro della Sacra Scrittura risuona con lo stesso accento di rispetto per l’opera che Dio ha compiuto mediante il suo «lavoro» creativo, quando proclama: «Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente», analogamente al Libro della Genesi, il quale chiude la descrizione di ogni giorno della creazione con l’affermazione: «E Dio vide che era una cosa buona».

    Questa descrizione della creazione, che troviamo già nel primo capitolo del Libro della Genesi è, al tempo stesso, in un certo senso il primo «Vangelo del lavoro». Essa dimostra, infatti, in che cosa consista la sua dignità: insegna che l’uomo lavorando deve imitare Dio, suo Creatore, perché porta in sé – egli solo – il singolare elemento della somiglianza con lui. L’uomo deve imitare Dio sia lavorando come pure riposando, dato che Dio stesso ha voluto presentargli la propria opera creatrice sotto la forma del lavoro e del riposo. Quest’opera di Dio nel mondo continua sempre, così come attestano le parole di Cristo: «Il Padre mio opera sempre…»: opera con la forza creatrice, sostenendo nell’esistenza il mondo che ha chiamato all’essere dal nulla, e opera con la forza salvifica nei cuori degli uomini, che sin dall’inizio ha destinato al «riposo» in unione con se stesso, nella «casa del Padre». Perciò, anche il lavoro umano non solo esige il riposo ogni «settimo giorno», ma per di più non può consistere nel solo esercizio delle forze umane nell’azione esteriore; esso deve lasciare uno spazio interiore, nel quale l’uomo, diventando sempre più ciò che per volontà di Dio deve essere, si prepara a quel «riposo» che il Signore riserva ai suoi servi ed amici.

    La coscienza che il lavoro umano sia una partecipazione all’opera di Dio, deve permeare – come insegna il Concilio – anche «le ordinarie attività quotidiane. Gli uomini e le donne, infatti, che per procurarsi il sostentamento per sé e per la famiglia, esercitano le proprie attività così da prestare anche conveniente servizio alla società, possono a buon diritto ritenere che col loro lavoro essi prolungano l’opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e danno un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia».

    Bisogna, dunque, che questa spiritualità cristiana del lavoro diventi patrimonio comune di tutti. Bisogna che, specialmente nell’epoca odierna, la spiritualità del lavoro dimostri quella maturità, che esigono le tensioni e le inquietudini delle menti e dei cuori: «I cristiani, dunque, non solo non pensano di contrapporre le conquiste dell’ingegno e della potenza dell’uomo alla potenza di Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del Creatore; ma, al contrario, essi piuttosto sono persuasi che le vittorie dell’umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno. E quanto più cresce la potenza degli uomini, tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità individuale e collettiva… Il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dall’incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più pressante».

    La consapevolezza che mediante il lavoro l’uomo partecipa all’opera della creazione, costituisce il più profondo movente per intraprenderlo in vari settori: «I fedeli perciò – leggiamo nella Costituzione Lumen Gentium – devono riconoscere la natura intima di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio e aiutarsi a vicenda per una vita più santa anche con opere propriamente secolari, affinché il mondo sia imbevuto dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace… Con la loro competenza, quindi, nelle discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo, contribuiscano validamente a che i beni creati, secondo la disposizione del Creatore e la luce del suo Verbo, siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla civile cultura».

    26. Cristo, l’uomo del lavoro

    Questa verità, secondo cui mediante il lavoro l’uomo partecipa all’opera di Dio stesso suo Creatore, è stata in modo particolare messa in risalto da Gesù Cristo – quel Gesù del quale molti dei suoi primi uditori a Nazareth «rimanevano stupiti e dicevano: Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? … Non è costui il carpentiere?». Infatti, Gesù non solo proclamava, ma prima di tutto compiva con l’opera il «Vangelo» a lui affidato, la parola dell’eterna Sapienza. Perciò, questo era pure il «Vangelo del lavoro», perché colui che lo proclamava, era egli stesso uomo del lavoro, del lavoro artigiano come Giuseppe di Nazareth. E anche se nelle sue parole non troviamo uno speciale comando di lavorare – piuttosto, una volta, il divieto di una eccessiva preoccupazione per il lavoro e l’esistenza -, però, al tempo stesso, l’eloquenza della vita di Cristo è inequivoca: egli appartiene al «mondo del lavoro», ha per il lavoro umano riconoscimento e rispetto; si può dire di più: egli guarda con amore questo lavoro, le sue diverse manifestazioni, vedendo in ciascuna una linea particolare della somiglianza dell’uomo con Dio, Creatore e Padre. Non è lui a dire: «il Padre mio è il vignaiolo …», trasferendo in vari modi nel suo insegnamento quella fondamentale verità sul lavoro, la quale si esprime già in tutta la tradizione dell’Antico Testamento, iniziando dal Libro della Genesi?

    Nei libri dell’Antico Testamento non mancano molteplici riferimenti al lavoro umano, alle singole professioni esercitate dall’uomo: così per es. al medico, al farmacista, all’artigiano-artista, al fabbro – si potrebbero riferire queste parole al lavoro del siderurgico d’oggi -, al vasaio, all’agricoltore, allo studioso, al navigatore, all’edile, al musicista, al pastore, al pescatore. Sono conosciute le belle parole dedicate al lavoro delle donne. Gesù Cristo nelle sue parabole sul Regno di Dio si richiama costantemente al lavoro umano: al lavoro del pastore, dell’agricoltore, del medico, del seminatore, del padrone di casa, del servo, dell’amministratore, del pescatore, del mercante, dell’operaio. Parla pure dei diversi lavori delle donne. Presenta l’apostolato a somiglianza del lavoro manuale dei mietitori o dei pescatori. Inoltre, si riferisce anche al lavoro degli studiosi.

    Questo insegnamento di Cristo sul lavoro, basato sull’esempio della propria vita durante gli anni di Nazareth, trova un’eco particolarmente viva nell’insegnamento di Paolo Apostolo. Paolo si vantava di lavorare nel suo mestiere (probabilmente fabbricava tende), e grazie a ciò poteva pure come apostolo guadagnarsi da solo il pane. «Abbiamo lavorato con fatica e sforzo, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi». Di qui derivano le sue istruzioni sul tema del lavoro, che hanno carattere di esortazione e di comando: «A questi … ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace», così scrive ai Tessalonicesi. Infatti, rilevando che «alcuni» vivono disordinatamente, senza far nulla, l’Apostolo nello stesso contesto non esita a dire: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi» . In un altro passo invece incoraggia: «Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che quale ricompensa riceverete dal Signore l’eredità».

    Gli insegnamenti dell’Apostolo delle Genti hanno, come si vede, un’importanza-chiave per la morale e la spiritualità del lavoro umano. Essi sono un importante complemento a questo grande, anche se discreto, Vangelo del lavoro, che troviamo nella vita di Cristo e nelle sue parabole, in ciò che Gesù «fece e insegnò».

    In base a queste luci emananti dalla Sorgente stessa, la Chiesa sempre ha proclamato ciò di cui troviamo l’espressione contemporanea nell’insegnamento del Vaticano II: «L’attività umana, invero, come deriva dall’uomo, così è ordinata all’uomo. L’uomo, infatti, quando lavora, non soltanto modifica le cose e la società, ma perfeziona anche se stesso. Apprende molte cose, sviluppa le sue facoltà, è portato a uscire da sé e a superarsi. Tale sviluppo, se è ben compreso, vale più delle ricchezze esteriori che si possono accumulare … Pertanto, questa è la norma dell’attività umana: che secondo il disegno e la volontà di Dio essa corrisponda al vero bene dell’umanità, e permetta all’uomo singolo o come membro della società di coltivare e di attuare la sua integrale vocazione».

    Nel contesto di una tale visione dei valori del lavoro umano, ossia di una tale spiritualità del lavoro, si spiega pienamente ciò che nello stesso punto della Costituzione pastorale del Concilio leggiamo sul tema del giusto significato del progresso: «L’uomo vale più per quello che è che per quello che ha. Parimente tutto ciò che gli uomini fanno per conseguire una maggiore giustizia, una più estesa fraternità e un ordine più umano nei rapporti sociali, ha più valore dei progressi in campo tecnico. Questi, infatti, possono fornire, per così dire, la materia alla promozione umana, ma da soli non valgono in nessun modo ad effettuarla».

    Tale dottrina sul problema del progresso e dello sviluppo – tema così dominante nella mentalità moderna – può essere intesa solamente come frutto di una provata spiritualità del lavoro umano, e solamente in base a una tale spiritualità essa può essere realizzata e messa in pratica. Questa è la dottrina, ed insieme il programma, che affonda le sue radici nel «Vangelo del lavoro».

    27. Il lavoro umano alla luce della Croce e della Risurrezione di Cristo

    C’è ancora un aspetto del lavoro umano, una sua dimensione essenziale, nella quale la spiritualità fondata sul Vangelo penetra profondamente. Ogni lavorosia esso manuale o intellettuale – va congiunto inevitabilmente con la fatica. Il Libro della Genesi lo esprime in modo veramente penetrante, contrapponendo a quella originaria benedizione del lavoro, contenuta nel mistero stesso della creazione, ed unita all’elevazione dell’uomo come immagine di Dio, la maledizione che il peccato ha portato con sé: «Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita». Questo dolore unito al lavoro segna la strada della vita umana sulla terra e costituisce l’annuncio della morte: «Col sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto …». Quasi come un’eco di queste parole, si esprime l’autore di uno dei libri sapienziali. «Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo durato a farle …». Non c’è un uomo sulla terra che non potrebbe far proprie queste espressioni.

    Il Vangelo pronuncia, in un certo senso, la sua ultima parola anche a questo riguardo nel mistero pasquale di Gesù Cristo. E qui occorre cercare la risposta a questi problemi cosi importanti per la spiritualità del lavoro umano. Nel mistero pasquale è contenuta la croce di Cristo, la sua obbedienza fino alla morte, che l’Apostolo contrappone a quella disubbidienza, che ha gravato sin dall’inizio la storia dell’uomo sulla terra. È contenuta in esso anche l’elevazione di Cristo, il quale mediante la morte di croce ritorna ai suoi discepoli con la potenza dello Spirito Santo nella risurrezione.

    Il sudore e la fatica, che il lavoro necessariamente comporta nella condizione presente dell’umanità, offrono al cristiano e ad ogni uomo, che è chiamato a seguire Cristo, la possibilità di partecipare nell’amore all’opera che il Cristo è venuto a compiere. Quest’opera di salvezza è avvenuta per mezzo della sofferenza e della morte di croce. Sopportando la fatica del lavoro in unione con Cristo crocifisso per noi, l’uomo collabora in qualche modo col Figlio di Dio alla redenzione dell’umanità. Egli si dimostra vero discepolo di Gesù, portando a sua volta la croce ogni giorno nell’attività che è chiamato a compiere.

    Cristo, «sopportando la morte per noi tutti peccatori, ci insegna col suo esempio che è necessario anche portare la croce; quella che dalla carne e dal mondo viene messa sulle spalle di quanti cercano la pace e la giustizia»; però, al tempo stesso, «con la sua risurrezione costituito Signore, egli, il Cristo, a cui è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra, opera ormai nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito, … purificando e fortificando quei generosi propositi, con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra».

    Nel lavoro umano il cristiano ritrova una piccola parte della croce di Cristo e l’accetta nello stesso spirito di redenzione, nel quale il Cristo ha accettato per noi la sua croce. Nel lavoro, grazie alla luce che dalla risurrezione di Cristo penetra dentro di noi, troviamo sempre un barlume della vita nuova, del nuovo bene, quasi come un annuncio dei «nuovi cieli e di una terra nuova», i quali proprio mediante la fatica del lavoro vengono partecipati dall’uomo e dal mondo. Mediante la fatica – e mai senza di essa. Questo conferma, da una parte, l’indispensabilità della croce nella spiritualità del lavoro umano; d’altra parte, però, si svela in questa croce e fatica un bene nuovo, il quale prende inizio dal lavoro stesso: dal lavoro inteso in profondità e sotto tutti gli aspetti – e mai senza di esso.

    È già questo nuovo bene – frutto del lavoro umano – una piccola parte di quella «terra nuova», dove abita la giustizia? In quale rapporto sta esso con la risurrezione di Cristo, se è vero che la molteplice fatica del lavoro dell’uomo è una piccola parte della croce di Cristo? Anche a questa domanda cerca di rispondere il Concilio, attingendo la luce dalle fonti stesse della Parola rivelata: «Certo, siamo avvertiti che niente giova all’uomo se guadagna il mondo, ma perde se stesso (cfr. Lc 9, 25). Tuttavia, l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì stimolare piuttosto la sollecitudine a coltivare questa terra, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del Regno di Cristo, tuttavia nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, tale progresso è di grande importanza per il Regno di Dio».

    Abbiamo cercato, nelle presenti riflessioni dedicate al lavoro umano, di mettere in rilievo tutto ciò che sembrava indispensabile, dato che mediante esso devono moltiplicarsi sulla terra non solo «i frutti della nostra operosità», ma anche «la dignità dell’uomo, la fraternità e la libertà». Il cristiano che sta in ascolto della parola del Dio vivo, unendo il lavoro alla preghiera, sappia quale posto occupa il suo lavoro non solo nel progresso terreno, ma anche nello sviluppo del Regno di Dio, al quale siamo tutti chiamati con la potenza dello Spirito Santo e con la parola del Vangelo.

  • 30 Dic

    ANDRE’ LOUF


    LA DIMENSIONE APOSTOLICA E CONTEMPLATIVA


    DELLA VITA RELIGIOSA


    Conferenza del novembre 1983 in occasione della Sessione nazionale dei Vicari episcopali per gli istituti dei religiosi e delle religiose di Francia. Pubblicata in Vie consacrée  3 (1985), pp. 147-164

    Distinguere tra contemplativi e attivi?

    Qualche settimana fa, ricevendo il programma di quest’as­semblea, ho preso visione del titolo definitivo del mio interven­to, e mi sono accorto – avventura che talvolta tocca al malcapi­tato relatore – che si era verificato uno slittamento tra l’argomento che mi era stato originariamente proposto – o per lo me­no che avevo forse troppo frettolosamente capito, in ogni caso, quello che avevo preparato – e l’argomento che figurava invece sul programma definitivo: ‘La dimensione apostolica e contem­plativa della vita religiosa”.

    In un primo momento, infatti, mi era sembrato di capire che si attendesse da me una testimonianza sul modo in cui i con­templativi e le contemplative, ed essi soli, cercano di vivere que­sta duplice dimensione, contemplativa e apostolica allo stesso tempo, della loro vita; e che un altro religioso, presumibilmente appartenente agli “attivi”, ci avrebbe parlato di questa stessa duplice dimensione all’interno della sua specifica esperienza di una vita più impegnata nel servizio.

    Fatta questa riflessione, ho finito poi per rallegrarmi dell’inat­teso slittamento. Rimanevo intenzionato a partire, nella mia te­stimonianza, da un certo tipo di vita contemplativa – e come potrei fare altrimenti, dal momento che è quella dove sono nato all’esperienza spirituale?  Ma una testimonianza del genere sarebbe stata poi tanto differente da quella di un religioso impegnato nella vita detta apostolica? Certamente il quadro esterio­re, il terreno d’azione, il ritmo di vita possono differire notevol­mente, ma questi non sono altro che segni di un’esperienza inte­riore, che si sviluppa a livello della vita battesimale e di fede, e che è comune a tutti, un’esperienza interiore che, a una certa profondità, dovrebbe lasciar cadere le distinzioni e le catalogazioni esteriori tra attivi e contemplativi. Possibile che non ci sia a priori, in qualche ambito, un terreno comune, una fonte con­divisa da tutti?

    Formulando questa domanda in piena semplicità davanti a voi, sin dal mio esordio, sono cosciente di scoprire già le mie carte e di prendere posizione su quello che seguirà. In realtà, più si approfondisce l’esperienza del credente, e si cerca di discerne­re qualcosa di quella misteriosa vita detta spirituale o interiore -ma che importa la scelta più o meno felice, più o meno anti­quata dei termini, quando si tratta della vita stessa di Dio e del suo soffio che si muove nelle nostre viscere? -, più si cerca di discernere questa vita, più velocemente crolla e anzi svanisce il confine che una certa comodità di linguaggio ci porta sempre a tracciare tra due generi di vita, o tra due tempi forti di una stes­sa esperienza: vita attiva e vita contemplativa.

    In fondo, venendo a testimoniare davanti a voi oggi, è forse questo ciò che più mi sta a cuore di dirvi, ed è anche per questa via che sarò portato a uscire un po’ dall’ambito dei contemplati­vi in senso stretto, per parlare dell’insieme della vita religiosa, così come la sento al cuore della mia personale vocazione di mo­naco. Ed è anche per questo che potrò perdonare a chi di dove­re lo slittamento avvenuto tra l’argomento proposto all’inizio e quello che è stato fissato alla fine sul programma, e persino dar­gli ragione.

    Se poi mi occorresse un motivo supplementare per motivare questo slittamento, farò allusione a un sentimento d’imbarazzo, che forse avrete incontrato nel vostro ministero a servizio della vita religiosa: quell’imbarazzo che la maggior parte dei contem­plativi e delle contemplative provano quando li sì vuole insignire di questo titolo. Un disagio che non si spiega soltanto con la fine di un certo trionfalismo di quella che soleva definirsi la par­te migliore, smorzato, qui come altrove, nella chiesa. Non espri­me neanche la diffidenza oggi di moda verso un termine so­spettato di neoplatonismo da una parte dell’intellighenzia, an­che credente – i contemplativi sono generalmente gente troppo semplice per aver sentore di simili scaramucce. No, essi credono profondamente al loro genere dì vita. Anche alla contemplazio­ne, nel senso in cui ne parla loro un’antichissima tradizione. Ma si sentono a disagio quando si pretende di definire tutta la loro vita con quello che non ne costituisce che una dimensione, fon­damentale e importante certo, ma che essi sentono peraltro così fragile, direi quasi precaria. Una dimensione che non è affatto alla loro portata, perché è pura grazia. Chi oserebbe presentare se stesso come “contemplativo” o “specialista in contemplazio­ne”? E poi la contemplazione non è qualcosa che appartiene lo­ro in modo esclusivo; infatti ci sono certamente più contempla­tivi al di fuori dei monasteri che all’interno. Infine essa rischia di sminuire altri aspetti non meno importanti della loro espe­rienza di credenti.

    Questo malessere dei contemplativi di fronte al titolo che si conferisce loro esprime a suo modo come la distinzione tra vita contemplativa e vita attiva, riguardo al vissuto di tutti i giorni, non sia completamente adeguata. Forse le due si raggiungono in un fondamento comune che sarebbe importante esplorare. Tuttavia resta una distinzione comoda, e non vorrei neanche rinun­ciarvi. Tanto più che, contrariamente al Codice di diritto canonico del 1917, quello attualmente in vigore autorizza ufficial­mente, sulle orme del concilio, il fatto di essere “interamente or­dinati alla vita contemplativa”.

    I contemplativi dal punto di vista canonico

    Un Codice di diritto canonico non tratta, certo, della contem­plazione nel senso teologale del termine, sulla quale il diritto non ha alcuna competenza, ma della vita contemplativa “canonica”, che il diritto può e deve talora regolamentare con certe modalità.

    Sono molto contento che il nuovo Codice abbia voluto farlo. Il diritto non esiste per reprimere o per opprimere. La sua fun­zione primaria è quella di liberare, di rendere possibile, dì fa­vorire ciò che si deve realizzare, e anche proteggerci da quanto potrebbe danneggiare tutto ciò. E’ normale che il Codice preci­si alcune condizioni perché una vita religiosa, che si vuole contemplativa, possa esserlo a pieno titolo all’interno delle struttu­re ecclesiali.

    Soffermandoci per qualche istante, se siete d’accordo, sui ca­noni che affrontano l’argomento, potremo mettere a fuoco una delle costanti, non solo di quella vita che è detta contemplativa, ma, io credo, di ogni vita religiosa.

    Se non erro, la dizione istituto interamente ordinato alla vita contemplativa compare due volte nel nuovo Codice. Prima al ca­none 667, che tratta della clausura. Quest’ultima, è importante notarlo, è richiesta a tutte le forme di vita religiosa; nei mona­steri di vita contemplativa sarà più stretta. E anzi, quando si tratta di monache contemplative, questa clausura sarà papale, vale a dire che le norme che la regolano saranno messe a punto o approvate dalla santa sede in prima persona. Dunque ecco già una delle costanti di ogni vita religiosa, ma che è particolarmen­te evidenziata dai contemplativi: il religioso comincia con il prendere una certa distanza nei confronti del mondo. Egli ap­partiene a quella porzione della chiesa che deve rimanere addos­sata al deserto.

    La seconda menzione di una vita religiosa “interamente ordina­ta alla vita contemplativacompare nella sezione seguente, dedi­cata all’apostolato dei religiosi. Si tratta del canone 674, un ca­none densissimo, la cui ispirazione teologica, e persino le fonti letterarie, si rifanno a molti documenti conciliari:

    “ Gli istituti interamente ordinati alla vita contemplativa occu­pano sempre un posto eminente nel corpo mistico di Cristo: essi infatti offrono a Dio un eccelso sacrificio di lode, arric­chiscono il popolo dì Dio con i frutti preziosi della santità, mentre con il proprio esempio lo stimolano e con una miste­riosa fecondità apostolica lo estendono. Perciò, per quanto urgente sia la necessità dell’apostolato attivo, i membri di tali istituti non possono essere chiamati a prestare l’aiuto della lo­ro opera nei diversi ministeri pastorali”.

    Questo secondo canone riguarda il carattere propriamente apo­stolico della vita contemplativa, un’apostolicità che è detta particolare e misteriosa, legata al dato del deserto, simboleggiato da un ritiro e dalla clausura, che la chiesa vuole sia rispettata.

    Questi due canoni offrono spunto alle due articolazioni del­la mia conferenza: dapprima il deserto, quello che in esso deve avvenire; poi la fecondità apostolica che da esso scaturisce, misteriosamente, certo, come dice il diritto, ma anche secondo de­terminati criteri, che si verificano anche altrove nella chiesa, se­condo una dinamica che esprime forse ciò che vi è dì più profon­do, ma anche di più comune a ogni esperienza cristiana.

    Addossati al deserto

    La chiamata al deserto è inscritta nel cuore della chiesa, e non sotto forma di nostalgia per un passato glorioso, ma come unica condizione per un futuro in cui Dio continui ad agire con altrettanta potenza. Il deserto è una struttura teologica fondamentale della chiesa che non potrà certo essere privata di valore prima del ritorno di Gesù alla fine dei tempi.

    E questo da sempre. È il luogo dove la chiesa nasce e cresce. In Abramo, chiamato alla vita nomadica, in Mosè e nel popo­lo liberato dall’Egitto, sospinto sulle strade di un interminabile esodo, di deserto in deserto, il popolo dì Dio ha camminato at­traverso il tempo. Il deserto resta inscritto nella sua memoria, popola i suoi ricordi, è presente nei suoi progetti. A ogni tornan­te della storia di salvezza, vi furono ebrei che vennero ricondotti nel deserto per rivivervi la Pasqua e preparare un nuovo passaggio. Gesù, a sua volta, al momento d’inaugurare la sua missione, è guidato irresistibilmente dallo Spirito di Dio in solitudine, co­me tutti i suoi padri, che sapevano per esperienza come le strade di Dio si preparino nel deserto, e come sia in esso che vengono concepiti i frutti dello Spirito.

    La chiesa stessa, ancora oggi, continua a restare addossata al deserto. In esso affonda le sue radici come in un terreno di Dio, nella terra materna dell’esodo e della Pasqua. In esso ha le sue retrovie, a partire dalle quali può operare. La chiesa non esita, in certi momenti, a battere in ritirata nel deserto, a manifestare una distanza, a raccogliersi un istante per maturare le parole da pronunciare di fronte agli uomini con tanto più vigore, dato che le avrà prima intese dalla bocca di Dio. Essa può allora sembrare marginale, suscitare stupore, provocare persino odio, quell’odio evangelico che Gesù le ha promesso da parte del mondo. Ma non potrà mai dubitare che il deserto dei profeti e di Gesù sia in qualche modo il luogo che le si addice, nel quale viene incessantemente convocata per assumere in pieno la sua dimensione e la sua consistenza.

    Ora, questa porzione di deserto che non dovrebbe essere estranea a nessuna vocazione cristiana è assunta in modo particolarmente significativo dalla vita religiosa e come imperativo ancor più pressante, conformemente a una tradizione che risale ai primissimi tempi della chiesa, dai monaci, quegli uomini e quelle donne che chiamiamo contemplativi

    Ma a quale scopo? Che cosa succede nel deserto? Succede davvero qualcosa? Sì, è importante che qualche cosa succeda, che accada un evento a colui che vi si ritira.

    Paragonare il deserto cristiano a un rifugio dove ci si mette al riparo da certi pericoli sarebbe parlarne con un pò di leggerez­za; così come sarebbe avventato usare a proposito di esso – cosa che è stata fatta – l’immagine della serra le cui condizioni pri­vilegiate permetterebbero lo schiudersi e la maturazione particolarmente precoce di fiori e frutti spirituali. Non si viene nel deserto per stare tranquilli, per godere di una certa pace, che si presume faciliti quella che speravamo essere una vita d’intimi­tà con Dio. Immagini troppo liriche, un po’ inerti e nettamente inadeguate del deserto cristiano.

    Nè riparo, nè rifugio, nè serra: il deserto è piuttosto un cro­giolo nel quale, grazie a un certo fuoco, che può essere nello stesso tempo quello delle passioni e quello dello Spirito santo, uscirà un metallo nobile, purificato dalle sue scorie, dove vedrà la luce una nuova lega, audace, originale, sconosciuta fino a quel momento. O, per osare un’immagine della biologia e della Bib­bia nel contempo, il deserto è una matrice dove, nei dolori inevitabili di un parto, verrà alla luce un nuovo essere, l’uomo nuovo,  creato in Gesù Cristo nella giustizia e nella santità.

    Rinascere alla comunione

    Se dovessi dare una definizione più moderna del deserto della vita religiosa, la prenderei volentieri dal titolo dì un libro scritto da un celebre psichiatra americano e dedicato agli ospedali psi­chiatrici: Un luogo in cui rinascere. E’ anche la definizione della chiesa, e, al tempo stesso, quella di ogni comunità religiosa.

    Ma di quale nascita o rinascita si tratta? Questo nuovo essere sarà un essere di comunione, e ciò in un duplice senso: la comu­nione fraterna e la comunione con Dio.

    Dapprima qualche parola sulla comunione fraterna, perché poi vorrei soffermarmi di più sull’altra comunione. Dio non chiama mai nessuno a rimanere solitario. Neppure l’eremita, e direi: soprattutto non è il caso dell’eremita, che è chiamato a di­ventare un essere comunionale di primissimo piano, secondo il celebre adagio del vecchio Evagrio Pontico: “Separato da tutti e unito a tutti”. Dio chiama a una comunità, a una chiesa concre­ta, anche nel deserto. E’ nel deserto, secondo la testimonianza della Bibbia, che la prima qahal-ekklesìa è stata costituita. Que­sto termine viene reso nel latino della Vulgata con congregatio, parola che Benedetto applicherà alla comunità monastica e che, grazie a lui, avrà una fortuna eccezionale, visto che fa parte an­cora oggi del vocabolario corrente della vita religiosa.

    Vorrei solo attirare la vostra attenzione sull’importanza del canone 602 che, nel nuovo Codice, fa immediatamente seguito ai tre consigli evangelici di obbedienza, di povertà e di celibato. Esso riguarda la vita fraterna, alla quale il legislatore ha voluto dedicare questa posizione di rilievo:

    “La vita fraterna propria di ogni istituto, per la quale tutti i membri sono radunati in Cristo come una peculiare famiglia, sia definita in modo da riuscire per tutti un aiuto reciproco nel realizzare la vocazione propria di ciascuno. I membri poi, con la comunione fraterna radicata e fondata nella carità, sia­no esempio di riconciliazione universale in Cristo”.

    Una delle testimonianze principali che offre la vita religiosa ovunque si presenti è quella della riconciliazione che Cristo ope­ra tra i fratelli di una stessa chiesa. Già soltanto a questo titolo, prima ancora di proferire una parola o di istituire delle opere, essa è apostolica. Essa esprime e realizza la chiesa.

    Un luogo di povertà

    La riconciliazione tra fratelli a sua volta ne suppone un’altra, quella di ognuno con il Signore, in un incontro per il quale il de­serto offre un terreno particolarmente adatto, anzi: il luogo spe­cifico, poiché è il luogo teologico in cui Dio ha scelto di condur­re il suo popolo per donarsi a lui.

    Ma perché proprio il deserto? Non che questo renda le cose più facili, eliminando un certo numero di ostacoli distraenti – vi ho già fatto allusione. Ma perché il deserto è chiamato a provo­care la crisi e direi quasi a forzare l’evento che Dio vuole suscita­re in ciascuno dei suoi figli.

    E in che modo il deserto provoca l’evento? La Bibbia descrive il deserto come una “terra secca, assetata e senz’acqua“. Colui che vi si avventura, sempre guidato dallo Spirito di Dio a meno di non essere temerario, generalmente non sospetta a quale pro­va si espone. La luna di miele è di brevissima durata. Ben presto restano solo la desolazione, l’isolamento, la mancanza di viveri e di nutrimento terreno e, nel contempo, il cielo di piombo, la sabbia arida o, nei deserti del nord, la nebbia impenetrabile e la pioggerella desolante, Dio che si sottrae, talora per giorni e anni. Ma soprattutto l’uomo stesso che si stanca, che si scoraggia, a volte crolla, costretto com’è a vivere ridotto ai minimi termini, facendo giorno dopo giorno l’esperienza cocente della sua po­vertà, della sua debolezza, della sua radicale impotenza – aldilà di tutto quello che avrebbe potuto supporre, della sua eviden­te inutilità.

    Numerosi e svariati sono i campi in cui questa debolezza può manifestarsi in me, ma il fatto è che essa si manifesta sempre – ed è la tattica della santa astuzia di Dio – là dove sono più vulnerabile, nel mio punto debole, dove sono totalmente sguarnito, al limite estremo e quasi mortale della mia debolezza, dove non resta più che una sola speranza: quella di abbassare finalmente le armi e di capitolare davanti a Dio, cioè di presentarmi, di ab­bandonarmi alla sua misericordia, accettando di cedere il testi­mone alla grazia nel luogo e nel momento preciso in cui ero sul punto di sprofondare.

    Descrivendo in questo modo la crisi provocata dal deserto, e che prelude all’evento, non sto calcando la mano, anzi peso ciascuna delle mie parole. Sarebbe facile illustrarla con l’aiuto di numerosi passi tratti dalla più antica letteratura monastica, che purtroppo oggi incorre troppo spesso nel sospetto di asceti­smo volontaristico a oltranza, mentre offrirebbe le pagine più belle e antiche su quella che ora chiamiamo povertà o infanzia spirituale.

    Tutti questi umili tentativi di ascesi, lungi dall’essere prodez­ze delle quali l’uomo possa vantarsi, non hanno che un solo fi­ne: la frantumazione del cuore di colui che si arrischia su questa via. “Frantumazione del cuore” è l’espressione antica: syntribè tés kardìas, contritio cordis. Che cosa significa? Attraverso l’espe­rienza del deserto il futuro asceta è a poco a poco guidato alla constatazione che la vita che egli voleva fare è del tutto superio­re alle sue forze. A cominciare dal celibato, e continuando con le veglie, i digiuni, il lavoro, senza dimenticare la vita fraterna e il sostegno da dare agli altri. Lasciato a se stesso, egli è radicalmente incapace di tutto questo. Dio viene a frantumare lo specchio del suo ideale di perfezione nel quale amava gettare ogni tanto uno sguardo furtivo. Ma soprattutto Dio ha frantumato il suo cuore. Egli è ridotto a una cosa così insignificante, e non sa più come uscirne.

    Questa crisi colpirà anche, e anzi soprattutto, la preghiera, dalla quale si era aspettato tanto, e perfino la fede. Prima di di­ventare esultanza, la preghiera attraversa anch’essa un deserto dal quale Dio apparentemente è assente, ma che è l’anticamera obbligatoria di ogni contemplazione cristiana. Sarebbe inutile volerselo risparmiare. Non esiste una scorciatoia per raggiungere Dio, nè una preghiera senza fatica, senza attesa, senza un’umile pazienza che non ha fine. Questo svuotamento può andare mol­to lontano e svelarci nel più profondo di noi stessi dei mostri che avremmo preferito non risvegliare. Nella preghiera, purché lo sforzo sia perseverante, la chiesa, e soprattutto il contemplativo, si trovano di fronte alla loro parte di ateismo, quell’ateismo che non è lo specifico dei non credenti, ma che ciascuno porta dolo­rosamente al fondo di se stesso. Per quanto possa apparire curio­so,  prima di essere esperto in cose di Dio, il monaco è soprattut­to esperto in ateismo. Egli si riscopre fratello accanto a tutti co­loro che dubitano e che non riescono ancora ad abbandonarsi alla dolcezza di Dio. Conosce per esperienza questo crogiolo della fede, e come in esso operi la mano di Dio, spogliando l’uomo di tutti i suoi idoli. Nel contemplativo che affronta la sua notte, la chiesa accetta la prova della fede in tutto il suo spessore.

    Altri preferiranno descrivere questa prova del deserto con immagini diverse: la nube o la notte, ma che si riferiscono tutte alla stessa esperienza spirituale. Essa colpisce l’uomo fin nelle sue radici, mettendo a nudo delle zone talmente sensibili e vulnerabili della sua personalità che visibilmente egli sembra talora sfiorare di passaggio lo squilibrio, il tipo di follia che porta in potenza nel suo psichismo. Certe manifestazioni della famosa acedia (akedìa) che un Evagrio, grande maestro del deserto, ana­lizzerà nei dettagli, si avvicinano in modo curioso ai sintomi di quel crollo interiore che oggi chiamiamo “depres­sione nervosa”.

    Se si rende necessario a questo punto l’aiuto di una guida esperta per verificare a ogni istante come sia lo Spirito santo a  spingerci a tali strenue difese, c’è da meravigliarsi, e ancor meno da aver paura. Perché la salvezza è allora vicinissima. Più che mai Dio salverà. Ridotti alla nostra estrema debolezza, a una specie di punto morto,  siamo infine pronti a consegnarci, a cedere il testimone alla grazia misericordiosa e infinitamente potente.

    Un luogo in cui rinascere

    Dio ha ora le mani libere per agire, e la sua opera è sempre un miracolo, la meraviglia dell’uomo nuovo, ricreato in Gesù Cristo. Nella sua Vita di Antonio, Atanasio descrive dettagliata­mente l’atrocità delle tentazioni ch’ebbe a subire il padre dei monaci, fino al giorno in cui Dio intervenne in suo favore. Antonio, da lunghi anni recluso nella propria tomba, che era la sua forma di solitudine, ne esce e si presenta dinanzi alla folla mera­vigliata. Ed ecco come il vescovo di Alessandria descrive, con accenti di forte emozione che sfiorano il lirismo, quest’uomo nuovo che si ferma sulla soglia del suo deserto. Va riletto con un briciolo di humour, ma che non sminuisce in nulla la pregnanza del vocabolario usato: “Il corpo di Antonio aveva l’aspetto abituale e non era né in­grassato per mancanza di esercizio fisico, né dimagrito a cau­sa dei digiuni e della lotta contro i demoni. Era tale e quale l’avevano conosciuto prima che si ritirasse in solitudine, E anche il suo spirito era puro, non appariva triste né svigorito dal piacere, né dominato dal riso o dall’afflizione. Non provò turbamento al vedere la folla; non gioiva perché salutato da tanta gente, ma era in perfetto equilibrio, governato dal Verbo, splendore della sua natura”.

    Parafraso un po’ nel tradurre l’ultima espressione della frase (en tò Katà physin), tenendo conto che la natura, per i padri gre­ci, è l’uomo nuovo, l’uomo restaurato a partire dalla sua caduta, e che ha raggiunto la pienezza della sua umanità in Gesù Cristo. Dietro una descrizione della quale alcuni particolari oggi posso­no stupire, non c’è dubbio infatti che sia proprio questo ciò che Atanasio vuole dirci: per Antonio, il deserto è stato un luogo in cui rinascere, il sepolcro della solitudine è divenuto il sepolcro pasquale di Cristo, insieme al quale Antonio è risuscitato. Sulle orme di Cristo, l’uomo di Dio è molto semplicemente l’uomo nello splendore della sua natura, secondo il disegno di Dio. Ma a prezzo di quali prove! Perciò il nuovo essere va descrit­to più che con il vocabolario filosofico nel quale si lascia un po’ trascinare Atanasio, con l’aiuto di un vocabolario soteriologico, il vocabolario della salvezza, dove si fa sempre menzione del peccato perdonato, dell’accecamento guarito e delle piaghe le cui cicatrici resteranno per sempre come nel corpo risuscitato di Gesù, ma per attestare ormai la vittoria di Dio e la sua grazia.
    L’ ascesi del contemplativo – e ogni ascesi cristiana  – è quindi in primo luogo l’ascesi di un povero, quel povero che non cesse­rà mai di essere anche se un giorno, superata questa tappa deci­siva, si sentirà infine completamente pacificato, dopo esser stato demolito e ricostruito da cima a fondo, per pura grazia. Egli ha sfiorato l’abisso della misericordia. Ha imparato a cedere davan­ti a Dio, a deporre la sua maschera e le sue armi. Si è trovato disarmato di fronte a lui, senza disporre più di nulla per difendersi dal suo amore. E’ veramente spoglio e nudo. Si è disfatto delle sue virtù, dei suoi progetti di santità. Conserva faticosamente soltanto la propria miseria per dispiegarla davanti alla misericor­dia. Dio è divenuto veramente Dio per lui, e soltanto Dio, cioè colui che lo salva dal suo peccato. Egli finisce anzi per riconci­liarsi con quel peccato, per essere felice della propria debolezza. Della sua perfezione ormai si disinteressa: essa non è che panno immondo agli occhi di Dio (cf. Is 64,5). Le sue virtù le possiede solo in Lui: sono le sue ferite, ma curate e guarite dalla miseri­cordia. Non può che rendere gloria a Dio che lavora in lui e con­tinua senza sosta a fare meraviglie.
    Anche tra i suoi fratelli è un uomo nuovo
    , cioè un amico tene­ro e dolce, che non si lascia irritare dai difetti e che si mostra comprensivo di fronte alle debolezze. Perché è il primo a diffidare enormemente di se stesso, ma a confidare follemente in Dio, completamente aggrappato alla misericordia e all’onnipo­tenza di quest’ultimo.
    Contempla qualcosa di più preciso riguardo a Dio? Lo cono­sce ormai meglio? Se gli si ponesse la domanda in questa forma non saprebbe come rispondere e probabilmente risponderebbe in modo negativo. Ha sempre l’impressione di essere immerso nella stessa notte opaca. E tuttavia qualcosa è cambiato in lui. Una nuova sensibilità si è a poco a poco risvegliata. Uno strano presentimento lo abita. Egli non conosce né Dio, né Cristo, ma si sorprende ormai a immaginarli, a riconoscerli quasi, ad assa­porare una presenza, e non soltanto nella preghiera o ruminando la parola di Dio, ma anche altrove, sui volti sofferenti o gioiosi negli avvenimenti che si succedono e nei quali adesso discerne una trama e un disegno. Ora non soltanto sa perché deve in certi momenti perseverare a lungo nella preghiera, ma comincia a sen­tire come d’istinto ciò che deve fare o dire in altri momenti, co­me deve comportarsi. Perché non vola più con le proprie ali, né a suo rischio e pericolo. Viene portato sulle ali di un altro. E’ come sospinto dall’interno. Scopre di essere misteriosamente guidato: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio” (Rm 8,14). Egli non ha che da consegnarsi. Un altro è all’opera in lui. Un altro fa in lui meraviglie ed egli coglie nel più profondo di se stesso il suo appello, al limite del percepibile, come un mormorio che è preghiera incessante, una specie di unzione – come dice Giovanni (cf. 1Gv 2,27) – che gli insegna giorno per giorno tutto quello che deve fare.

    Un luogo che attira la folla

    Cercando di descrivervi qualche tratto di quest’uomo nuovo – contemplativo e attivo – che nasce nel deserto, vi sarete resi conto che mi sono già inoltrato nella seconda parte del mio intervento: la dimensione apostolica della vita religiosa. Niente di strano, perché è inseparabile dalla prima. Per quale motivo, al­trimenti, Antonio si sarebbe deciso un giorno, senza apparente esitazione, a uscire dalla propria reclusione e a rompere il silen­zio? Molto semplicemente perché davanti alla porta c’era una folla. Una folla di gente venuta da lontano e che reclamava a gran voce una parola da quell’eremita che fino a quel momento era quasi sepolto vivo. Ed eccoci, forse per la prima volta, di fronte a un fenomeno che si ripeterà all’infinito per tutta la storia della vita monastica e religiosa, e che illustra a meraviglia l’inevitabile correlazione tra vita contemplativa e vita attiva, nonché il dina­mismo interno che armonizza l’una con l’altra. Nella maggior parte dei casi non è il contemplativo a darsi da se stesso la mis­sione e la vocazione di lasciare il deserto per annunciare la Paro­la agli altri. Nella letteratura monastica antica un simile deside­rio viene anzi denunciato come una tentazione del maligno. Ma al contrario, è lo stesso popolo di Dio che riconosce colui che ha ricevuto la Parola per la gente e che esce dalla città per assedia­re, per così dire, il deserto e forzare le porte della clausura.
    In tal modo s’instaura nel cuore della chiesa un continuo andirivieni tra il deserto e la città. Il monaco sembra fuggire la città, ma non appena è andato fino in fondo al deserto, non ap­pena comincia a dare qualche frutto, la città si affretta ad andar­sene anche lei e a fuggire presso di lui, sulle stesse orme, mendi­cando da lui una parola, raccomandandosi a lui e alla sua benedizione.
    Questo fenomeno, che nella storia si è verificato tante volte e che ancor oggi si rinnova, ricorda al monaco due cose: in primo luogo l’importanza permanente della tappa del deserto in ogni vita religiosa, contemplativa e apostolica. Solo chi è stato tra­sformato dal deserto, solo l’uomo nuovo diventa questo amante che attira a sé irresistibilmente il popolo di Dio.
    La seconda cosa è che esiste da qualche parte un luogo in cui il confine tra il deserto e il mondo scompare: i monaci non devo­no ritornare nel mondo, e neanche il mondo deve ritirarsi nel deserto
    . Esiste un luogo nel quale le due realtà non si pongono più come un’alternativa. In un Antonio, in ogni uomo di Dio, il deserto e il mondo coincidono in qualche punto: questo luogo è la chiesa. La chiesa è inviata al mondo, e tuttavia essa non ap­partiene al mondo, non vi si stempera, non si conforma ad esso. Può affrontare il mondo per proclamare la Parola proprio perché resta sempre fermamente addossata al deserto. Questo vale an­che per la vita religiosa, con la sua duplice dimensione contem­plativa e apostolica.

    Una “misteriosa fecondità apostolica”

    Vorrei dire ancora qualcosa sulla dimensione più propriamente apostolica a partire da quella che è la mia esperienza: l’esperienza monastica. In primo luogo, pensando a coloro che fanno una vita contemplativa in senso stretto, vorrei cercare di precisare con poche parole in che cosa e in che modo essi pure si sentano pienamente apostolici.
    Insistendo sulla necessità di un intreccio dinamico tra con­templazione e azione nella stessa esistenza cristiana, forse ho dato l’impressione di credere che tutti i contemplativi, sull’esempio di un Antonio o di un Benedetto, siano chiamati a lasciare un giorno la loro clausura per dire una parola. Vi dico su­bito che non è questo il mie pensiero. In realtà, come afferma chiaramente il canone 674 che vi ho citato all’inizio, da sempre sono esistiti, ed esistono ancora, contemplativi, monaci e mona­che, che non sono chiamati a condividere esplicitamente la loro esperienza con i fratelli e che la chiesa intende proteggere con la sua legislazione canonica da ogni ingerenza inopportuna che vada in senso contrario Essa lo fa, dice, in nome di una misteriosa fecondità apostolica inerente alla vita contemplativa, della quale vuole garantire l’autenticità.
    Da sempre queste vocazioni contemplative sono rimaste molto appartate. Il loro irradiamento esterno sull’esempio di quello della vergine Maria, è stato quantitativamente poca cosa. Spesso si riduceva a una semplice presenza ma di straordinaria qualità. In particolare, la nostra chiesa latina ha, specie nel XIV e nel XV secolo, una tradizione di eremiti e persino di reclusi nel senso stretto del termine, che nella maggior parte dei casi, a giudicare dalle vestigia letterarie che ne rimangono, fu realmente di qualità. Ci furono anche realizzazioni meno felici, che spiegano un certo numero di abusi e un rapido declino fino al concilio di Trento, che per questo si sentì autorizzate a passarli sotto silenzio nei suoi testi ufficiali; e fino ai nostri giorni, in cui lo statuto canonico di eremita, riconosciuto come facente par­te dello stato di vita consacrata, è appena stato reintrodotto dal nuovo Codice.
    Ma in cosa consiste la “misteriosa fecondità apostolica” della vita contemplativa? Bisogna certamente tener conto della pre­ghiera d’intercessione che i contemplativi considerano quasi co­me il loro incarico particolare: “Essi pregano – talora si dice – per coloro che non pregano”. Allo stesse modo, è lecito prendere sul serio il loro desiderio spesso esplicito di “fare penitenza per co­loro che non ne fanno”. Ma tutto questo resterebbe insufficien­te, anche se avessimo oggi a nostra disposizione una teologia più approfondita dell’intercessione o della penitenza-riparazione ri­spetto a quella sulla quale siamo ancora obbligati a ripiegare.
    La stessa osservazione vale per il ruolo di esempio che indubi­tabilmente è giocato da una comunità di contemplativi. Perché tutte queste cose – pregare, fare penitenza, dare un esempio – sono ancora nell’ordine dell’agire, mentre la fecondità specifica della vita contemplativa deriva anzitutto dal suo essere, dall’evento che il contemplativo ha vissuto, da quell’antropologia in atto che è stata la sua Pasqua nel crogiolo del deserto, dall’uomo nuovo che per pura grazia egli è diventato. È questo che importa per la storia della salvezza oggi, perché il regno venga fin da ora, senza che egli sappia né come né perché. Perciò è questa la ra­gione ultima per la quale le sue veglie notturne o mattutine si fanno carico dell’attesa latente in tanti cuori umani; per la quale il suo digiuno esprime la fame di Dio che tortura l’umanità, sen­za che questa lo sappia; per la quale la sua obbedienza è vera­mente la Pasqua di Cristo che si prolunga fino a oggi; e per la quale il suo celibato, che egli non sbandiera più trionfalmente degli altri, allarga a poco a poco il suo cuore sino ai confini dall’universo.
    Perché ora egli ama in modo completamente diverso. Durante la prova del deserto il suo cuore si è frantumato; ma più ancora, per usare un’immagine di un altro santo, si liquefatto. E’ divenuto quel cuore liquido dei santi di cui parla il Curato d’Ars,  cuore di pietra trasformato in cuore di carne, che abbraccia l’intero universo e che fa di essi dei fratelli universali.  Egli non è più altro che bontà e misericordia, a immagine di quelle che ha potuto incontrare un giorno. E sente d’istinto come sia importante, non soltanto per lui ma per la chiesa universale, che egli perseveri nel rimanere la dov’è, nell’occupare quel posto che Dio gli ha assegnato. Giacche lo sa, ben al di la della sua inutilità apparente: al cuore della chiesa, sua madre, egli è l’amore.
    Questa convinzione di sostenere misteriosamente il mondo non nasce con Teresina di Lisieux, ma risale a un’epoca lontana del monachesimo: ne è testimone questo strano testo di un recluso palestinese del VI secolo al quale era stato rivelato che il mondo del suo tempo era sostenute da tre oranti eccezionali:

    “Ci sono tre uomini perfetti davanti a Dio  che hanno ricevuto il potere di sciogliere e legare, rimettere i peccati e di non rimetterli. E stanno ritti sulla breccia per impedire che il mondo intero venga distrutto in un attimo: grazie alle loro preghiere Dio castigherà con misericordia …  Le preghiere di questi tre si uniscono per accedere all’altare sublime del Padre delle luci. Essi si rallegrano gli uni con gli altri ed esultano insieme nei cieli.  Sono Giovanni a Roma, Elia a Corinto e un altro nell’eparchia di Gerusalemme. E io credo che otterranno quella grande misericordia. Sì la otterranno. Amen “

    Il dono del discernimento

    Ritornando ora alla vita apostolica dei religiosi cosiddetti at­tivi – cioè di quelli che in qualche modo si presume abbiano at­traversato la tappa del deserto e, dopo esserne stati trasformati, siano rinati al mondo, vorrei, come conclusione, dire qualcosa su quello che forse è il dono essenziale di questo uomo nuovo restaurato nel deserto. Voglio parlare del discernimento spiri­tuale.
    Questo dono consiste in una nuova sensibilità capace di per­cepire l’invisibile nel visibile nell’esperienza contemplativa come nell’esperienza attiva. Percepire il mormorio dello Spirito che grida in noi “Abba”, “Padre”, e riconoscere la pulsione inte­riore di quello stesso Spirito che invita dolcemente a passare all’azione, non dipende da due organi spirituali distinti. E’ lo stes­so cuore, ormai in stato di veglia, a spiare, a scrutare lungamente e ad ascoltare, e al quale è dato di captare l’azione interiore dello Spirito santo, sia che lo Spirito preghi in noi, sia che ci inviti a compiere l’opera del Padre.

    Nella psicologia dell’uomo nuovo questa capacità di discerne­re lo Spirito è, in un certo senso, più importante dei doni della preghiera o dell’impegno apostolico. Infatti questi ultimi dipen­dono strettamente dall’influsso dello Spirito e dalla capacità del soggetto di cogliere correttamente tale influsso. Che egli si lasci afferrare dalla preghiera, o che acconsenta a essere inviato per la testimonianza apostolica, ciò è sempre opera del medesimo Spi­rito. E’ sempre da una medesima unzione che Bernardo si face­va guidare, come dice mirabilmente di lui il suo primo biografo quando scrive che l’abate di Clairvaux portava a compimento ogni  unctio magistra avendo come maestro e come guida l’unzio­ne interiore dello Spirito santo.
    Al contrario, nulla di più sterile, e al limite di più rischioso, che pretendere di darsi alla preghiera, o credersi inviati a testimoniare, per quanto sia grande la generosità che si ostenta in  tale missione, se si è perso il contatto interiore con lo Spirito, se si è incapaci di lasciarlo emergere in sé e di percepirlo
    . Ogni vita contemplativa vera, ogni vita apostolica autentica sarebbero in questo caso compromesse.

    Si comprende così in che senso Ignazio di Loyola pretendesse di rimanere un contemplativo nell’azione, lui che aveva esitato per lunghi mesi tra una cella di certosino e la Compagnia che avrebbe poi fondato. Non è che egli richieda ai suoi compagni chi sa quale ginnastica mentale che li obblighi a mescolare la meditazione alle loro sollecitudini apostoliche. Egli si aspetta molto semplicemente da loro, nel pieno del servizio e dell’azione, che conservino l’orecchio interiore attento ai movimenti dello Spirito nel più profondo del loro cuore. Il discepolo di Ignazio – ma si potrebbe dire altrettanto di ogni credente – parla e agi­sce ascoltando ciò che avviene all’interno di se stesso, prestando attenzione ai movimenti del proprio cuore; ora, in quel cuore Ignazio pensava – facendo eco a tutta la tradizione monastica – che solo il desiderio di Dio (o la sua volontà) dovesse sopravvi­vere, una volta che il discepolo fosse divenuto indifferente a tut­ti i propri desideri superficiali; cioè quelli che, nella maggior parte delle persone, ingombrano il davanti della scena, e soffo­cano il desiderio di Dio nei riguardi dell’uomo. Eppure non è proprio questo desiderio di Dio a fondare e costituire la nostra più specifica e più ricca identità?

    L’esame di coscienza ignaziano va compreso come una fase appartenente a questo stesso processo spirituale, ovvero qualcosa che è ben al di là di ciò che è divenuto in seguito, quando l’esa­me di se stessi è caduto vittima per certi versi di un moralismo volontaristico che lo ha trasformato in una specie di bilancio dei peccati e delle buone opere, in un conteggio dei profitti e delle perdite. L’esame di coscienza, molto più semplicemente è quel momento di silenzio interiore, di deserto ritrovato, che permette di auscultare il cuore in stato di veglia, mentre registra fedelmente l’istinto divino della grazia, i movimenti dello Spirito santo dentro di sé, per regolare su di essi tutto l’agire umano. E’ dunque poi così differente dalla preghiera che, essa pure, ha bi­sogno dell’orecchio interiore per mettersi all’unisono con i ge­miti delle Spirito? Il contemplativo nella preghiera e il contem­plativo nell’azione s’incontrano in questo ascolto e in questo sguardo interiore, in questa sensibilità nuova dell’uomo nuovo, che la tradizione chiama la diàkrisis o discretio: il discernimento spirituale. Condizione indispensabile perché il credente – sia che preghi, che lodi Dio o che gli renda testimonianza – riman­ga innestato sull’agire stesso di Dio.

    Il discernimento spirituale è quindi come un terreno comune tra le due dimensioni di ogni vita religiosa e di ogni vita cristia­na, la dimensione contemplativa e la dimensione apostolica. En­trambe hanno origine dalla stessa realtà spirituale, dotata di un orecchio il cui timpano vibra all’unisono con il minimo mormo­rio dello Spirito, e dotata anche di uno sguardo in grado di per­cepire i primi barlumi della presenza del Signore. E’ il discer­nimento spirituale. Dalle origini della vita monastica e religiosa, è il loro tesoro nascosto, e forse anche – questa è una mia con­vinzione profonda – ciò che esse hanno di più prezioso da offri­re alla chiesa di oggi.

    Il tesoro nascosto nel cuore

    Giunti alla fine del nostro itinerario, riprendiamo la questio­ne che ci siamo posti all’inizio circa la distinzione tra vita contemplativa e vita attiva: “Non c’è a priori, in qualche ambito, un terreno comune, una fonte che esse condividono?”. Sembre­rebbe proprio di sì. Per un’altra via siamo giunti alla stessa fonte che l’istruzione su ‘La dimensione contemplativa della vita reli­giosa” segnalava come punto di partenza di ogni vita spirituale, descrivendola così: “Il cuore, considerato come il santuario più intimo della persona, nel quale vibra la grazia di unità tra interiorità e attività”.
    Questa stessa istruzione ricordava anche come il fine principale della formazione alla vita religiosa sia quello di “immergere il religioso nell’esperienza di Dio”, allo scopo di favorire “ la compenetrazione reciproca tra interiorità e attività, in modo ti le che la coscienza di ciascuno coltivi il primato della vita nello Spirito Santo”. E altrove, essa così definiva quello che abbiamo chiamato discernimento spirituale:  “Più il religioso si aprirà alla dimensione contemplativa, più si renderà attento alle esigenze del regno, sviluppando intensamente la sua interiorità teologale, proprio perché osserverà gli eventi con quello sguardo di fede che lo aiuterà a scoprire ovunque l’intenzione divina”
    In effetti, per tutto il tempo in cui l’esperienza del regno in­veste solo la superficie del nostro essere, viviamo la duplice dimensione contemplativa e attiva come una frattura, a volte ad­dirittura come un’antinomia insormontabile. Ma nella misura in cui questa stessa esperienza penetra in noi a livelli sempre più profondi, la nostra comprensione di Dio e del suo regno si sem­plifica e si unifica. A un certo livello d’interiorità, le strade dei credenti non possono più contrapporsi, e meno che mai esclu­dersi: contemplativi e attivi si avvicinano
    straordinariamente, fino a somigliarsi come due fratelli. E la “parte migliore” allora non è pii dall’una o dall’altra sponda. Essa è ovunque, è il teso­ro nascosto al cuore di ogni vocazione.

  • 27 Dic

    André Louf

    LA VITA CONTEMPLATIVA

    Tratto da: André Louf, LA VITA SPIRITUALE – ed. Qiqajon, Comunità di Bose – a cui rimandiamo per l’approfondimento.

    Trent’anni di aggiornamento hanno permesso alla vita con­templativa maschile di comprendere meglio se stessa e di rendersi più leggibile agli altri. La sua struttura esteriore si è tra­sformata, alcune osservanze sono state semplificate, alcuni ritmi allentati: nell’insieme si è verificato un ritorno al gusto dell’es­senziale.

    Il cambiamento più importante, però, è avvenuto all’interno dei cuori. Se il contemplativo continua sempre a rallegrarsi, per quanto indegno ne sia, di aver ricevuto il dono di quella che nor­malmente si è convenuto di chiamare la “parte migliore”, egli la inquadra ormai diversamente. Men che mai è tentato di farsi avanti nella chiesa, ai primi posti, per così dire. Egli ritrova il suo vero posto, quello del pubblicano dell’evangelo, proprio in fondo, e si unisce alla sua invocazione – abbi pietà di me, pecca­tore – che Benedetto gli ha affidato come formula della preghie­ra perfetta e continua. Egli è stato condotto a questo da un’e­sperienza approfondita della sua vocazione alla contemplazione. Ma in cosa è consistita questa esperienza?

    Un posto in fondo alla chiesa, dicevo, e tuttavia sempre al cuore della chiesa, ora più che mai. E in primo luogo là dove la chiesa, al seguito del popolo ebraico nel suo esodo, e del suo Mae­stro Gesù durante il suo digiuno, si ritrova sempre, nel deserto, nel luogo delle sue origini, là dove Dio la convoca “per parlarle al cuore … e per fidanzarla a sé per sempre” (cf. Os 2,16.22). Nei suoi contemplativi, incessantemente in ascolto della Parola e da essa quotidianamente rigenerati, la chiesa, anche se rivolta al mondo e pienamente inserita in esso, si trova nel contempo sempre addossata al deserto. Questo dialogo amoroso tra la chie­sa e il suo Sposo, al quale alcuni sono votati in modo esclusivo, è la sola cosa che le garantisca l’autenticità del suo messaggio.

    Perciò l’ascolto assiduo della parola di Dio, nella liturgia ce­lebrata in comune o in quella liturgia privata che è la lectio divina, è ormai divenuta l’occupazione principale del contemplati­vo, la sorgente alla quale egli alimenta la sua preghiera. Parola ascoltata, amorosamente ruminata, pazientemente assimilata, e che finisce per ripercuotersi in azione di grazie, in lode e in­tercessione, a volte anche in condivisione con quelli che vengo­no a richiedergli una parola. Il contemplativo è la Parola dive­nuta preghiera.

    E’ una strada lunga, perché questa vita nel deserto e questo esodo non sono di tutto riposo. Come Gesù, il contemplativo è stato condotto nel deserto per esservi tentato dal divisore. Non vi è altra porta d’accesso alla contemplazione cristiana, ed essa è particolarmente stretta. La prima prova gli viene proprio dalle condizioni di quel deserto che si è generosamente scelto creden­do di trovarvi la via sicura per il suo scopo, cioè le diverse forme di quella che tradizionalmente viene chiamata ascesi: il digiuno, le veglie, la solitudine, il silenzio.

    Queste pratiche ascetiche esistono in molte altre religioni, ma non ci si inganni su questo punto: alla luce dell’evangelo e nella persona di Gesù cambiano completamente di significato. Esse non facilitano più nulla, e ancor meno possono meritare, ciò che può essere solo un dono assolutamente gratuito dell’Amore. Es­se ormai servono solo a una cosa – quella che il novizio meno si aspettava – a scavare sempre di più l’abisso della sua totale po­vertà davanti all’offerta di Dio. Ben lungi dal fornire l’occasio­ne per uno sfoggio di abnegazione, l’ascesi cristiana è destinata a divenire il luogo della sconfitta del contemplativo, dove solo la grazia di Dio trionfa, mettendo in evidenza la radicale debo­lezza dell’uomo nella quale può finalmente dispiegarsi la poten­za della grazia. Il contemplativo finisce per sperimentare molto concretamente fino a che punto tutte le sue buone opere non siano altro che miracoli della grazia.

    Non vi è via più dolorosa e che sottoponga a una spoliazione più radicale: quella dell’umiltà evangelica. Molti contemplativi si fermano per strada ritenendo che la loro supposta virtù sia in­compatibile con un tale abbassamento ai propri occhi, e a volte anche agli occhi degli altri. Tuttavia non vi è altra via che que­sta, dove il contemplativo impara che non è migliore dei suoi fratelli, che è un peccatore perdonato quanto e più di loro, e che, per poter accedere alla contemplazione in modo forse più agevo­le rispetto ai suoi fratelli, deve raggiungere coloro ai quali Gesù ha promesso che avrebbero preceduto tutti nel suo regno. Egli diventa così la chiesa dell’umile e gioioso pentimento.

    Umiltà tanto più radicale in quanto tocca il contemplativo fin nel desiderio stesso che costituisce il cuore della sua vocazione, quello di vedere e di conoscere Dio. Un Dio che sembra nascon­dersi nell’inguaribile debolezza che egli vive, che si sottrae co­stantemente a una tale povertà. Un Dio che sembra così lonta­no, un Dio che, in certi momenti, gli sembra come “morto”, inesistente, un miraggio, proiezione all’infinito dei propri desi­deri.

    Il contemplativo si trova allora nel cuore del suo deserto, o della sua notte oscura, e anche del mistero di Gesù: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Notte che può essere breve, ma che a volte si prolunga, apparentemente senza fine, a discrezione della grazia di Dio, a misura di ogni vo­cazione individuale. Più di ogni altro credente il contemplativo diventa allora un “esperto in ateismo”. Crede? Forse… ma senza credere, a lui sembra. Non ci capisce più niente, salvo una cosa: che il Dio al quale pensava di credere non era che un semplice idolo, più o meno inventato da lui, o forgiato da una cultura an­cora vagamente impregnata di cristianesimo; e che il vero Dio, il Dio di Gesù Cristo, è completamente altro e verrà altrove; e so­prattutto che egli non deve più cercare di raggiungerlo con i suoi sforzi, ma che basta attenderlo senza stancarsi, e lasciarsi affer­rare da lui, nell’ora che a lui piacerà.

    E’ in questo abisso dell’umiltà, come lo chiamava Ruusbroec, che si può verificare il miracolo, che Dio diventerà “percepibile dal suo cuore”, che a poco a poco egli potrà “gustare fino a che punto il Signore è dolce”. Più che mai il contemplativo diventa allora parte della chiesa che intravvede già un poco le gioie del cielo. “Ma di notte”, come diceva Giovanni della Croce, o me­glio, di notte in notte e di chiarore d’aurora in chiarore d’aurora, quasi incollato alla parola di Dio, lampada sui suoi passi, e dol­cemente sedotto da essa, come dalla stella del mattino, finché il pieno sole non venga a inondare della sua luce la chiesa intera.

    Di quest’avventura spirituale resta da sottolineare un ultimo elemento – e non secondario, perché io parlo qui a nome delle famiglie religiose -: essa si svolge in una comunità di fratelli, una comunità che diventa così forzatamente nel contempo scuo­la di umiltà e via di contemplazione. Come pretendere infatti di amare Dio senza amare i propri fratelli? Schola caritatis, scuola dell’umile amore e scuola di contemplazione, la comunità con­templativa si presta così a diventare, a Dio piacendo, una mi­cro-chiesa che Dio si è scelto e che offre a se stesso, perché vi sia celebrato già un inizio delle nozze tra suo Figlio e la sposa che egli si è riscattata. E Dio la offre anche al mondo, affinché essa lasci intravvedere, in una specie di anticipazione, quella che sarà la nostra comune gioia per i secoli.

    In conclusione, vorrei ancora suggerire alcune complicità esi­stenti tra la vita contemplativa, così intesa, e certe sfide rivolte alla chiesa di oggi.

    Nell’essere semplicemente quello che è, senza pretendere di più, la vita contemplativa può risvegliare, nel credente come nel non credente, il desiderio di comunione con Dio che sonnecchia nel suo cuore.

    Purificato dai suoi falsi dèi, il contemplativo si sente vicino a tutti coloro che sono nel dubbio e in ricerca, e particolarmente a coloro che si credono atei.

    Egli è vicino in modo particolare ai peccatori, tentati di spro­fondare nella disperazione, e che spesso vengono a bussare alle sue porte, perché egli ha una qualche esperienza della misericor­dia sconvolgente di Dio, e sa che il gioioso pentimento è l’unica strada per conoscere fino a che punto noi siamo amati, per il peccatore come per il giusto.

    La vita contemplativa può attestare l’esistenza di una “tecni­ca”, se mi perdonate la parola, propriamente evangelica al servi­zio della contemplazione, che deve esser conosciuta e vissuta per se stessa prima di poter dialogare utilmente con altre tecni­che non cristiane.

    Questa vita è una meravigliosa scuola di discernimento nella quale, nel corso dell’avventura contemplativa, s’imparano a ri­conoscere le vere consolazioni dello Spirito al di là di tanti altri desideri che si agitano nel cuore. Essa costituisce anche un pos­sibile spazio di dialogo fra la tradizione spirituale della chiesa e certe acquisizioni delle scienze umane.

    Infine, è per eccellenza un luogo ecumenico nel quale i cercatori di Dio delle tradizioni cristiane d’occidente e d’oriente pos­sono incontrarsi e, al di là delle barriere teologiche, comunicare fra loro. Ma questo vale anche per i cercatori di Dio e i mistici di tutte le religioni non cristiane.

    Per terminare: due apoftegmi moderni.

    Un monaco ortodosso visitando una trappa confessava di avervi scoperto “un angolo di ortodossia nella chiesa latina”. Meglio ancora: un giovane mu­sulmano, trovandosi recentemente nella stessa situazione, con­fessava: “Ho finalmente trovato dei veri musulmani”.


  • 23 Dic

    Thomas Merton

    MEMORANDUM
    PER UN RINNOVAMENTO DELLA VITA MONASTICA

    Tratto da Thomas Merton, UN VIVERE ALTERNATIVO – ed. QIQAJON COMUNITA’ DI BOSE
    a cui rimandiamo per l’approfondimento.

    La vocazione monastica è un carisma ascetico, non una chia­mata a un’attività specifica nella chiesa e per la chiesa. Il monaco è chiamato “fuori da questo mondo» per cercare veramente Dio attraverso il silenzio, la preghiera, la solitudine, la rinuncia, la compunzione e la semplicità. Anche nella sua forma cenobiti­ca (che non deve essere considerata l’unica forma) la vita mona­stica mantiene qualcosa dell’atmosfera del deserto, di una vita solo con Dio. L’opera del monaco è cercare Dio sopra ogni cosa e cercare lui solo.

    Nel riformare la vita monastica si dovrebbe prestar attenzio­ne, in primo luogo, a mantenere o ristabilire il carattere specifi­co della vocazione monastica. Non può essere la vita religiosa attiva il punto di riferimento per valutare la vita monastica, e gli ordini monastici non dovrebbero essere equiparati agli altri isti­tuti religiosi, clericali o meno.

    La comunità monastica non esi­ste per la salvaguardia di qualche opera apostolica o educativa, neppure come fine secondario. Le attività del monaco non sono giustificate dalla loro efficacia pratica, ma solo per la loro atti­nenza alla sua vita di solitudine con Dio. Hanno valore nella mi­sura in cui sono consone a una vita fuori da questo mondo, che è nel contempo una vita di compassione per coloro che restano nel mondo e di preghiera per la salvezza del mondo.

    Nell’attuale fase di riflessione generale sull’aggiornamento nel­la chiesa, coloro che hanno un ruolo nel rinnovamento della vita monastica non devono essere sviati da una legittima ammirazione per altri carismi, estranei al monachesimo. Certe innovazio­ni, che pure sono segno di una vita autentica e di un rinnovamento apostolico, da viversi in contatto vitale con il mondo e in solidarietà con lo spirito secolare di quest’epoca, non devono es­sere viste come appropriate alla riforma monastica solo perché utili e buone in se stesse.

    Peraltro, il concetto di “vita contemplativa pura”, specialmen­te in senso giuridico, non necessariamente si addice alla vocazione monastica, nella quale possono e dovrebbero esistere casi, in via eccezionale, di apertura al mondo e di contatti con singoli o gruppi attraverso un apostolato informale e piuttosto personale, mediante l’ospitalità, conferenze per piccoli gruppi o la pa­ternità spirituale. Questi contatti restano però un’eccezione. Nessuna comunità monastica dovrebbe essere obbligata a consi­derarli come normali e ordinari.

    La principale preoccupazione nel riformare il monachesimo dovrebbe essere la chiarificazione dei fondamenti monastici attraverso un ritorno alle fonti, così da poter recuperare autentici­tà e purezza e liberarsi da tutto ciò che vi è estraneo. Ma questo non sarà effettivamente possibile se verranno considerate come normative quelle istituzioni monastiche che sono attive più che dedite a una vita contemplativa. La vita monastica, così com’è vissuta oggi nelle grandi comunità impegnate nell’educazione o in altre opere non è del tutto normale, dal momento che in tali comunità lo spirito di solitudine e la vita di preghiera sono l’ec­cezione più che la regola.

    Una riforma monastica non è pertanto autentica o effettiva se consiste principalmente in certi ritocchi della liturgia e dell’osservanza regolare, con esortazioni a un maggior spirito di pre­ghiera e a una più diligente osservanza del silenzio e della clau­sura. Se la vita entro le mura claustrali è una vita di agitazione e di grande attività, non sarà un mero rafforzamento della disci­plina a renderla più monastica. Nemmeno una maggior enfasi sullo “stile familiare” sortirà l’effetto desiderato, perché può addirittura finire per incrementare lo spirito di attivismo e di effi­cientismo e condurre il monaco sempre più lontano da una vita di silenzio e di preghiera.

    Di conseguenza, quando le strutture monastiche ordinarie tendono, in realtà, a frustrare alcune delle profonde aspirazioni della vocazione monastica, sarebbe un grave errore considerarle come una norma. Questo non significa che tali tipi di strutture co­munitarie non siano realmente degne di ammirazione e non siano utili alla chiesa. Non si tratta di criticarle o di insinuare che non siano comunità ferventi e che non conducano una vita regolare. Bisogna però riconoscere che una genuina riforma monastica va fondata altrove. E’ perciò importante che quando alcuni membri di queste comunità cercano una forma di vita monastica più pura e autentica, in comunità che già esistono, o nella solitudine, o addirittura in comunità da fondare, non ne siano impediti solo per­ché le loro aspirazioni non sembrano accordarsi con quanto è con­siderato “normale” nelle grandi e consuete strutture monastiche dei nostri giorni. Il fatto che una nuova proposta di vita monasti­ca non si adatti al modello che è normalmente seguito in numero­si monasteri, fiorenti e ben stabilizzati, non significa che sia peri­colosa o indesiderabile. La norma va cercata nell’autentica tradi­zione monastica, adattata alle particolari necessità del nostro tempo. Una certa percentuale di “rischio” va sempre messa in conto quando si scommette su qualche forma sperimentale.

    I superiori dei monasteri dovrebbero essere solleciti nel rico­noscere e nell’incoraggiare nei loro monaci ogni desiderio innovativo e genuino per una più profonda vita di preghiera e per un ritorno a più pure forme monastiche. L’abate è un padre spiri­tuale e non soltanto un amministratore. Non è semplicemente il capo di un’organizzazione che ha la responsabilità di far lavora­re gli uomini per gli obiettivi della comunità. Egli è responsabile davanti a Dio della crescita e della reale santificazione dei suoi monaci. Quando, perciò, costoro credono di dover ricercare una vita di preghiera più pura, più solitaria e più fervente, non si do­vrebbe impedire loro di sperimentarne la reale possibilità. Non dovrebbero essere scoraggiati nel loro tentativo, e ancor meno ridicolizzati, ma piuttosto aiutati in vari modi a verificare le pro­prie capacità e la fondatezza della loro autentica vocazione. For­se uno può condurre una vita di preghiera più pura e più intensa nell’ambito di una comunità numerosa di tipo tradizionale. A un altro si può concedere di vivere separato dalla comunità in modo temporaneo o permanente, in obbedienza al suo abate. Altri possono aver bisogno di trasferirsi in nuove comunità o an­che avere il permesso di vivere soli come eremiti. Tutte queste possibilità dovrebbero essere riconosciute come legittime e praticabili. In questo modo, a nessuno sarebbe impedito di speri­mentare un’aspirazione presumibilmente seria. Il fatto che altri possano esserne “influenzati” non costituisce “scandalo”. Può essere, semmai, di edificazione.

    Il fatto di vivere separato dal mondo quale uomo di Dio con­sente al monaco un’esperienza e un’ autorevolezza particolari nelle cose spirituali, a condizione però che tenga realmente fede alla sua vocazione. Perciò un apostolato monastico – che ha un carattere suo proprio – non si giustificherà se riproduce unica­mente, in ogni aspetto, l’attività degli ordini dediti alla predicazione o del clero secolare. Un monaco invischiato nelle tensioni organizzative di una normale e ininterrotta vita attiva non può vivere in verità il suo essere monaco, e il suo apostolato, per quanto utile possa essere, perde il suo carattere specifico. Un ve­ro apostolato monastico dovrebbe perciò sempre essere “occa­sionale” nel suo genere e non soggetto a eccessive pressioni o a costanti, ininterrotte richieste. Dovrebbe sempre essere il tra­boccare di una profonda vita di silenzio e di preghiera.

    Il mona­co non ha l’obbligo di condividere direttamente con gli altri, at­traverso la parola o l’azione, i “frutti della contemplazione”. Se pertanto egli abbandona la propria solitudine senza ragione, al fine di assumersi un’attività, non può contare sulle grazie parti­colari che sostengono altri, ufficialmente impegnati in opere di apostolato. D’altro canto, se il monaco, in modo diretto o indi­retto (per esempio, attraverso gli scritti), è in grado di raggiun­gere le anime, il suo apostolato sarà efficace nella misura in cui sgorga in modo spontaneo e manifesto dalla sua vita monastica.

    Che il singolo monaco raggiunga “il mondo” o meno, il mona­stero stesso può sempre offrire agli uomini un luogo di medita­zione nella pace, dove possono cercare una direzione spirituale e ore di preghiera nella quiete, beneficiando dell’ospitalità, tradi­zionale obbligo della vita monastica.

    La stessa formazione dovrebbe essere in funzione della vita monastica e non seguire semplicemente le norme tracciate per gli ordini religiosi di vita attiva e per i seminari. Il periodo di noviziato dovrebbe essere più lungo che non in altri ordini, e dopo il noviziato la formazione dovrebbe proseguire con studi di sacra Scrittura, liturgia, ascetica, patristica e altri temi attinenti alla vita monastica, In caso di ammissione al presbiterato (cosa tradizionalmente considerata eccezionale per un monaco), il pia­no di studi dovrebbe rispondere alle necessità della vita mona­stica e non si dovrebbe obbligare il monaco a seguire per intero quello del seminario, pensato per i presbiteri impegnati nella vi­ta attiva.

    La vita monastica è una vita di amore per Dio e per l’uomo. L’aspetto sociale della vita monastica è perciò molto importante, ma non va sopravvalutato a detrimento dello spirito di pre­ghiera e di solitudine. L’apostolato del monaco non deve necessariamente essere confinato alla preghiera e all’intercessione, ma se nella sua attività il monaco imita semplicemente quanto può essere fatto, in modo migliore, da altri ordini o dal clero secolare, il suo apostolato perde il suo significato e la sua ragion d’essere.

    Vi è d’altronde urgente bisogno di un vero apostolato mona­stico all’interno del monachesimo stesso. Ad esempio, i ritiri e le conferenze nei monasteri dovrebbero essere tenuti da monaci profondamente permeati dello spirito della tradizione monastica piuttosto che da membri di ordini attivi, i quali non sono a co­noscenza dei particolari problemi e bisogni della vita monastica.

  • 22 Dic

    Thomas Merton

    INCONTRO CON LA VITA MONASTICA

    Tratto da Thomas Merton, UN VIVERE ALTERNATIVO – ed. QIQAJON COMUNITA’ DI BOSE a cui rimandiamo per l’approfondimento.

    Incontro e interrogativi

    La vita è fatta di incontri. Un vero incontro stimola domande e risposte. Quando incontri uno straniero interessante, ti scopri attento e curioso. Chi è costui? Cerchi di scoprire qualcosa del mistero della sua identità e della sua storia. Se poi ispira fiducia, se sembra una persona di esperienza e profondità non comuni, cominci ad aprirti a lui e a condividere con lui il segreto della tua stessa vita. In questo senso, un incontro personale vero non porta solo una conoscenza dell’altro ma anche una più profonda comprensione del proprio io.

    Incontrare non una persona ma una comunità religiosa – una comunità monastica – è un’esperienza insolita. Non solo perché una comunità monastica è un insieme di uomini davvero unico e originale, con una caratterizzazione religiosa e storica che desta interesse e sfida la mentalità moderna, ma anche perché l’incon­tro con una tale comunità ha regole e limiti propri.

    Puoi osservare gli edifici, ascoltare i monaci in coro. Puoi par­lare a un fratello in portineria. Puoi fare un ritiro nello spazio ri­servato agli ospiti, visitare gli ambienti del monastero, parlare con il foresterario o con il responsabile dei ritiri. Ma subito ap­paiono le restrizioni. Alle donne non è permesso varcare la so­glia. Gli uomini possono farlo ma non è concesso loro di dialo­gare con tutti i monaci. Di fatto, i membri della comunità che non hanno incarichi speciali, li vedi raramente da vicino. Perché queste restrizioni? Perché i monaci conservano fra di loro il silenzio e si astengono dal parlare agli esterni? Perché i monaci stanno in clausura invece di insegnare e predicare e svolgere al­tre attività che sono normalmente congiunte con una vita dedi­cata a Dio?

    Ad ogni modo, che genere di vita conducono questi uomini silenziosi? Sono felici? Trovano la loro esistenza in monastero maggiormente significativa o rimpiangono segretamente non solo i piaceri e i vantaggi del mondo esterno ma anche le sue re­sponsabilità, le sue sfide e le sue conquiste?

    Monachesimo oggi

    La vita monastica è una vita di rinuncia e di servizio totale e diretto nei confronti di Dio, per amor suo. Può essere considera­ta ancora come qualcosa che un uomo del XX secolo può ragione­volmente intraprendere? E’ solo una fuga? E’ rifiuto della compa­gnia degli altri uomini, misantropia, evasione, delusione?

    Un monaco deve comprendere le ragioni che lo hanno portato in monastero e riesaminarle di tanto in tanto nel suo cammino vocazionale. Ma un atteggiamento difensivo, apologetico non si accorda con la vita monastica. Non è del monaco tentare di con­vincere tutti affinché giustifichino la sua vita. Egli si aspetta soltanto di essere preso per quello che è, di essere giudicato per quello che è e non perde tempo nel cercare di convincere gli al­tri, o anche se stesso, di essere qualcosa di speciale.

    Il monaco si occupa più di Dio e di coloro che da Dio sono amati che non di se stesso. Non cerca di giustificarsi a proprio vantaggio confrontandosi con altre persone: piuttosto osserva con un unico sguardo se stesso e tutti gli uomini, alla luce dei grandi e importanti fatti che nessuno può fuggire. Il fatto di una morte inevitabile che pone fine alle battaglie e alle gioie della vi­te. Il fatto che il significato della vita sia solitamente oscuro e appaia talvolta impenetrabile. Il fatto che la felicità sembri al­lontanarsi da un numero sempre maggiore di persone mentre il mondo in se stesso diviene più prospero, più confortevole, più sicuro delle proprie capacità. Il fatto del peccato, questo cancro dello spirito, che distrugge non solo il singolo e i suoi desideri di felicità ma intere comunità e perfino nazioni. Il fatto dei con­flitti umani, dell’odio, della violenza, della distruzione, della ri­bellione, della falsità, dell’uso indiscriminato del potere. Il fatto che certi uomini si rifiutino di credere in Dio perché ritengono ciò “irragionevole”, e si abbandonino poi, di fatto, irrazional­mente, a forme di fede più meschine: credono ciecamente a un mito secolare – razzismo, comunismo, nazionalismo – o a uno delle migliaia dì altri miti che oggi acriticamente si accettano.

    Il monaco non sfugge questi fatti che lasciano perplessi. Si pone di fronte ad essi così come si pone di fronte al vuoto religioso che c’è nel mondo moderno. E’ consapevole che per molti, “Dio è morto”. Sa che questa apparente “morte” di Dio è, in realtà, espressione di un profondo fenomeno moderno: l’incapa­cità dell’uomo a credere, la morte della fede soprannaturale. Sa che i semi di questa morte sono anche dentro di lui, perché mal­grado sia un credente, deve anch’egli talvolta riscontrare in se stesso la possibilità dell’infedeltà e del fallimento. Più di chiunque altro comprende che la fede è puro dono di Dio e che nessu­no sforzo può dare all’uomo un merito per vantarsi agli occhi di Dio.

    Cos’è questa cosiddetta “morte di Dio”? In realtà è la morte di alcune possibilità di vita presenti nell’uomo. E’ la morte del coraggio spirituale che, nonostante tutte le negazioni e le prote­ste del pensiero comune, osa impegnarsi irrevocabilmente a cre­dere in un principio divino della vita. E’ la morte apparente di ogni capacità di concepire come valida questa possibilità, di rag­giungerla, di aggrapparvisi, di obbedire ai suggerimenti dello Spirito e di abbandonare il nostro cuore e la nostra mente all’e­vangelo di Gesù Cristo.

    Un monaco ha compiuto questo abbandono, ne conosce il prezzo e sa che questo non lo preserva dai dubbi e dai conflitti dell’uomo moderno. Ma crede di possedere la chiave per affron­tarli, e di poter dare un senso alla propria vita, valido non solo per sé ma per chiunque. Scopre questo senso nella fede, e non negli argomenti sulla fede. Certamente la fede non si oppone alla ragione. Si può mostrare come essa sia ragionevole, sebbene non possa essere razionalmente “provata”. Ma una volta che si crede, si comincia a essere in grado di capire il significato profondo della propria fede e a coglierne la validità anche per gli altri. Sia la fede che questa ulteriore comprensione sono speciali doni di Dio.

    Cos’è un monaco?

    In quasi tutte le grandi religioni del mondo troviamo gruppi di uomini e donne che si separano dalla vita ordinaria della società, si assumono particolari e seri impegni e si dedicano sopra ogni cosa a un unico fine: comprendere e praticare sempre più profondamente la propria religione.

    Nell’induismo, attraverso una purificazione ascetica e misti­ca, il monaco cerca la liberazione dal circolo terreno del tempo e dall’inganno dell’apparenza. Nel buddismo cerca l’illuminazio­ne nel fondo del proprio essere. Nel giudaismo, poco prima del­la venuta di Cristo, i monaci di Qumran vivevano la profezia veterotestamentaria con una profonda dimensione escatologica. Nell’islam, sebbene i sufi non siano monaci, hanno sempre cercato una profonda esperienza estatica di unione con Dio. Nel cristianesimo il monaco cerca innanzitutto di vivere la propria fede secondo l’evangelo di Gesù Cristo, rinunciando a se stesso, portando la propria croce e seguendo Cristo. Si unisce a Gesù nel nascondimento degli anni trascorsi a Nazaret lavorando, o lo segue nel deserto condividendo la preghiera solitaria del Mae­stro.

    La vita monastica, secondo la tradizione cattolica, è concepita quale risposta all’appello evangelico di Gesù Cristo alla peniten­za e alla preghiera. Tutti i cristiani cercano di salvare la propria anima seguendo Cristo. Tuttavia, i monaci, prestando una particolare attenzione ai comandi del Maestro, cercano di osservare più da vicino e più fedelmente alcune sue parole, quali:

    State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel (ulti­mo) giorno non vi piombi addosso improvvisamente… Ve­gliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di comparire davanti al Figlio dell’uomo (Lc 21,34-36),

    Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi (Mt 19,21). Se qualcuno vuoi venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Quale vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? (Mt 16,24-26).

    Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo ame­rà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui… Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamen­ti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore (Gv 14,23; 15,9-10).

    La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune (At 4,32).

    Il monaco prende estremamente sul serio l’evangelo. Median­te la sua fede in Cristo, si impegna a sviluppare una speciale con­sapevolezza delle possibilità e dei rischi spirituali della vita uma­na. “State bene attenti ...”. La vita monastica è una vita che, per mezzo della disciplina e della rinuncia, libera l’uomo dalla disattenzione e dall’irresponsabilità, dall’insensibilità spirituale e dalla mancanza di libertà che sopraggiungono quando ci si im­merge negli affanni, nei piaceri e nella ricerca di sé.

    Il monaco si sforza di apprendere quello spirito di sacrificio at­traverso il quale, affidandosi a Cristo e alla sua vicinanza e po­tenza, potrà liberarsi da se stesso, perdere la preoccupazione per la propria vita e  per la propria realizzazione, al fine di abbandonarsi a un più profondo, invisibile principio. Lo Spirito santo, quale fonte di luce e di vita, si rende misteriosamente presente all’uomo che, per amore di Cristo, non cerca più di avere come guida il      proprio capriccio e la propria volontà.

    Il monaco si sforza di penetrare il significato profondo di tut­te le parole di Cristo, di conservarle nel cuore notte e giorno, meditandole (cf. Lc 2,19).

    Il monaco cerca l’unione con Cristo attraverso l’amore obbe­diente e fedele. Crede che attraverso l’amore rimane in Cristo e Cristo rimane in lui (cf. Gv 13,1-5). Quest’unione misteriosa del cristiano con Cristo può divenire – e di fatto diviene – davvero molto più di una questione di fede cieca. Nella vita mona­stica, la fede si apre alla luce di una comprensione spirituale, che è comunque proporzionata all’umiltà e alla purezza di cuore del monaco (cf. Mt 5,3-12).

    Purezza di cuore

    La disciplina della vita monastica è tutta orientata verso un unico fine: far crescere la “purezza di cuore“, che è una dimensione di pace, altruismo, umiltà, disinteresse verso i modelli e le preoccupazioni di una vita dominata da affanni che rendono schiavi.

    La purezza di cuore non è però il risultato di un impegno indi­vidualistico, un qualcosa raggiungibile solo con l’introspezione, l’analisi del proprio io e i più seri sforzi per progredire spiritual­mente, senza curarsi delle necessità degli altri. La purezza di cuore, secondo la tradizione monastica, non può svilupparsi senza un’umile fraternità nella carità di Cristo. Questa è la ra­gione per cui la vita monastica comunitaria, con i suoi costanti richiami al servizio disinteressato e alla carità, è il mezzo princi­pale per portare il cuore dell’uomo a uno stato di pace, dolcezza, fede e semplicità.

    Il monaco, tuttavia, vive la sua vita comune in uno spirito di solitudine interiore. Ecco perché in alcuni monasteri, come quelli cistercensi, viene dato un particolare risalto al silenzio e alla preghiera.

    La vita nel silenzio e nella preghiera non dovrebbe mai creare un senso di conflitto tra l’amore di Dio e l’amore del fratello. Quando questi si intralciano e l’uno impedisce l’altro, è segno che non si conduce una vita da vero monaco, in modo pieno e maturo, con spirito di fede. Ma, concretamente, può essere mol­to difficile imparare a fare una vita comune fraterna e allo stesso tempo meditare e adorare Dio nel proprio cuore. Uno dei segni della vocazione cistercense è la capacità di riconciliare queste due linee apparentemente conflittuali in una vita di silenzio e di semplicità tra fratelli.

    Preghiera, lode e lavoro

    Il monaco è un uomo di preghiera e di lode. La sua vita di pre­ghiera è basata sulla liturgia della chiesa, il canto dei salmi e il sacrificio eucaristico.

    Per il monaco, la liturgia è la via regale per andare a Dio. Questa è la ragione per cui Benedetto disse che “niente è da preferirsi all’opera di Dio” (opus Dei: RB 43,3). Centro della litur­gia è la celebrazione eucaristica, il memoriale del sacrificio di Cristo, vittima e sommo sacerdote in mezzo al popolo che si è eletto.

    Per capire realmente che cosa sia la liturgia, dobbiamo comprendere la vera natura del cristianesimo. Che cos’è il cristianesimo se non il mistero di Cristo in noi, il mistero di Cristo nella sua chiesa, il mistero della nostra salvezza e dell’unione con Dio in Cristo Gesù?

    Paolo ci mostra il vero significato del “mistero taciuto per se­coli eterni ma ora rivelato” (Rm 16,25-26). E’ il mistero della no­stra incorporazione a Cristo. E’ il disegno eterno e santo di Dio Padre che ci salva in Cristo suo Figlio, per “benedirci con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo… poiché egli ci ha fat­to conoscere il mistero della sua volontà, secondo la sua benevolenza … per ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo co­me quelle della terra” (Ef 1,3.9-10).

    La “ricapitolazione” di ogni cosa in Cristo significa la pneu­matizzazione dell’intera creazione attraverso il contatto con la sacra umanità del Verbo. L’Uomo-Dio Cristo Gesù regna nei cieli. Ma è presente e agisce sulla terra nei membri del suo corpo, la chiesa. Chiunque è incorporato a Cristo attraverso la fede e il battesimo condivide la sua figliolanza divina e con lui entra nel mistero della sua vita e potenza.

    Ora, è per la forza della sua croce che siamo salvati, e la no­stra vita in Cristo nasce dalla compartecipazione alla sua morte e risurrezione. Ma la croce e la risurrezione di Cristo sono più che una memoria storica. Sono una realtà presente, resa mistica­mente attuale dalla liturgia, o dall’ “azione sacra” che chiamia­mo messa. Questa è un mistero sacro, un’azione divina e umana dove Dio e l’uomo condividono un’unica festa di amore, di sa­crificio e di riconciliazione.

    Gesù promise chiaramente che sarebbe stato presente nella sua chiesa in modo reale e oggettivo, come sua guida, santificatore e maestro, ma in modo speciale nella più concreta e più spi­rituale di tutte le azioni: il suo sommo sacrificio sacerdotale.

    Gesù Cristo è allora nostro sacerdote e nostra vittima, ed è lui che offre misticamente la messa fra di noi, davvero presente tra i credenti di oggi proprio come lo era tra i suoi discepoli all’ulti­ma cena.

    Da questo grande centro dell’eucaristia, la liturgia si irradia per santificare ogni momento della giornata attraverso le ore canoniche dell’ufficio divino, il sacrificio di lode della chiesa.

    L’uomo ha un corpo e un’anima ed entrambi devono svolgere il proprio compito ogni giorno. Il corpo deve essere nutrito e co­perto, e a questo fine l’uomo deve lavorare con le proprie mani, arare il terreno, spaccare la legna, prendersi cura del bestiame, farsi degli abiti, riscaldare la propria casa e arredarla con sempli­cità. Ma più importante è il nutrimento dell’anima, mediante lo studio, la lettura, la meditazione e la contemplazione delle cose divine.

    L’uomo deve allora innalzare il suo spirito a Dio nel rin­graziamento, nella preghiera, nella penitenza e nell’adorazione. Nessuno di questi aspetti viene trascurato in monastero. La regola di Benedetto tiene in grande conto la natura umana e si cu­ra di dare all’uomo una vita sana e felice, che Benedetto chiama “scuola del servizio divino” (RB, Prol. 45). Sono certo presenti la fatica e il sacrificio ma ancor più vi è la soddisfazione di un compito svolto bene. E alla fine, al di sopra dì tutto, c’è la gioia soprannaturale di chi ha donato tutto il suo tempo e i suoi pen­sieri a Dio e vive come figlio fedele del suo Padre celeste.

    La comunità monastica

    La vita monastica comunitaria ha per modello quella dei di­scepoli riuniti attorno al Maestro. La comunità ha quale suo ve­ro capo Cristo. La fede, per mezzo dello Spirito santo, guida il monaco verso di lui e gli dona forza, consiglio, sostegno, stimolo e coraggio. Ma il Maestro si rende visibilmente presente tra i suoi discepoli attraverso una figura umana, l’abate. Eletto dalla comunità, l’abate è un monaco maturo e ricco d’esperienza, ca­pace di presiedere la vita del monastero e di prendersi cura delle necessità spirituali e materiali dei monaci. Secondo il voto emes­so, tutti i monaci gli obbediscono in spirito di fede, e sotto la sua guida compiono il lavoro che è loro richiesto per il bene comune.

    Alcuni monaci diventano presbiteri e tra questi vi è chi svol­gerà i necessari ministeri sacramentali, spirituali, o di insegnamento, in comunità o presso gli ospiti. Tuttavia, non si ordina uno presbitero solo perché svolga un lavoro.

    Altri in comunità restano monaci senza ricevere gli ordini sa­cri. Essi possono scegliere se dedicare un tempo maggiore alla preghiera corale e allo studio, oppure al lavoro manuale. Ma tut­ti i membri della comunità pregano, lavorano manualmente e leggono o studiano. Le proporzioni variano da monastero a mo­nastero.

    In passato esistevano chiaramente due distinte categorie di monaci: i coristi e i fratelli conversi. Dal punto di vista canonico questi ultimi erano a un diverso livello rispetto ai primi. Ma ora la condizione è stata unificata: tutti hanno gli stessi diritti e so­no giuridicamente equiparati. Resta la diversità dei ministeri, dal momento che alcuni sono attratti maggiormente dal lavoro manuale che non da quello intellettuale e altri sono meglio dota­ti per il servizio del coro. Il vero ideale monastico non ha mai presentato una rigida uniformità: al contrario, deve esservi spa­zio per una diversità di doni e di carismi e nessuno deve tentare di comprimere gli uomini in uno schema per il quale non sono dotati dalla natura o dalla grazia.

    Uomini di ogni genere, professione, carattere, di ogni livello sociale e di ogni razza e nazione, si legano assieme in monastero con vincoli di fede e carità. Per esperienza hanno imparato che sono tutti figli di uno stesso Padre celeste. Qui non esistono distinzioni razziali o sociali. Tutti sono uno in Cristo e tutti posso­no unirsi al canto del salmista: “Ecco com’è buono e soave che i fratelli vivano insieme” (Sal 133,1).

  • 16 Dic

    Thomas Merton

    PRINCIPI DI BASE DELLA
    SPIRITUALITÀ MONASTICA

    Tratto da Thomas Merton, UN VIVERE ALTERNATIVO – ed. QIQAJON COMUNITA’ DI BOSE a cui rimandiamo per l’approfondimento.


    Il monaco che cessa di domandarsi: “Amice, ad quid venisti?” forse ha cessato di essere monaco.

    Il monaco, uomo di preghiera, deve imparare che attraverso le sue preghiere, attraverso la benedizione che la presenza di un monastero riversa tutt’attorno, il mondo viene santificato e av­vicinato a Dio.

    Le cose materiali che ci circondano sono sante a causa dei nostri corpi, i quali sono san­tificati dalle nostre anime, che a loro volta sono santificate dalla presenza del Verbo che le inabita.

    Il Nuovo Testamento ci mette continuamente in guardia con­tro la stoltezza di un tipo di contemplazione e di ascesi pura­mente umane, che generano un’illusione di santità e di sapienza ma non possono unirci a Dio né con lui riconciliarci. L’ascesi umana e le tecniche mistiche non possono salvarci dai nostri peccati. Ci tengono lontano da Dio e anzi ci separano ancor più, perché la loro illusione genera in noi una falsa fiducia e un falso orgoglio. Sono centrate sull’uomo, non su Dio; mirano a glorifi­care l’uomo, non Dio.

    Chi, dunque, cerchiamo in monastero? Non solo Dio, nostro Padre e creatore, perché anche se lo cerchiamo non possiamo trovarlo senza Cristo. Cerchiamo Cristo, nostro salvatore e re­dentore, nel quale siamo riconciliati con il Padre.


    La vocazione monastica è indubbiamente una delle più belle nella chiesa di Dio. La “vita contemplativa”, come viene solita­mente definita la vita degli ordini monastici, è una vita intera­mente dedicata al mistero di Cristo, per vivere la vita di Dio che si dona a noi in Cristo. E’ una vita totalmente abbandonata allo Spirito santo, una vita di umiltà, di obbedienza, di solitudine, di silenzio, di preghiera in cui si rinuncia ai propri desideri e alle proprie abitudini per vivere nella libertà dei figli di Dio, guidati dallo Spirito santo che parla attraverso i superiori, la regola e le ispirazioni interiori che la sua grazia ci dona. E’ una vita di totale oblazione a Dio, in unione a Gesù, che per noi è stato crocifisso ed è risorto dai morti, e che vive in noi attraverso il suo Spirito santo.

    Ma per quanto bella, semplice ed esaltata possa essere questa vita – come ci mostra la tradizione dei padri del monachesimo -, i monaci sono esseri umani, e la fragilità umana tende sempre ad abbassare e distorcere la pienezza di quanto ci è donato da Dio. Soprattutto questo è motivo di rammarico: il vedere persone piene di buona volontà e generosità che abbracciano la vita mo­nastica solo per ritrovare la loro buona volontà che si è dissipata in futilità e routine. Anziché vivere la vita monastica nella sua purezza e semplicità, si tende sempre a complicarla e a perver­tirla con i nostri punti di vista limitati o con i nostri desideri troppo umani. Si dà un’enfasi esagerata ad alcuni aspetti parzia­li della vita, sbilanciandone così l’equilibrio complessivo. Oppu­re si cade in quella miopia spirituale che coglie solo le minuzie e perde di vista l’unità organica in cui si è chiamati a vivere. In una parola, per comprendere adeguatamente le regole e le osser­vanze della vita monastica, si deve sempre avere presente il vero significato del monachesimo. Per non rimanere confusi dai mez­zi che ci sono donati, dobbiamo sempre metterli in relazione al loro fine.

    Solo alla luce del mistero di Cristo possono essere colte le grandi finalità della vita monastica. Cristo è il centro del vivere monastico. Cristo ne è la fonte e il fine. E’ lui la via del monaco, come anche la sua meta. Le regole, le osservanze monastiche, le pratiche dell’ascesi e la preghiera devono sempre essere integra­te in questa dimensione superiore. Devono sempre essere viste come parti di una realtà vivente, come manifestazioni di una vita divina e non come elementi di un sistema, semplici espressio­ni di mero dovere. Il monaco compie qualcosa di più che confor­marsi a degli ordini e a dei comandi che non riesce a capire: egli abbandona la sua volontà al fine di vivere in Cristo. Rinuncia a una libertà di livello inferiore per una superiore. Ma perché que­sta rinuncia sia fruttuosa e valida, il monaco deve essere consa­pevole di quanto sta facendo.

    Cosa cerchi?

    Se vogliamo vivere da monaci, dobbiamo tentare di capire co­sa sia effettivamente la vita monastica. Dobbiamo tentare di raggiungere le fonti da cui essa è scaturita. Dobbiamo conosce­re le nostre radici spirituali, per poterle affondare più profondamente nel terreno.

    Ma la vocazione monastica è un mistero. Non può quindi essere esaurientemente espressa in una formula chiara e concisa. E’ un dono di Dio e non la comprendiamo appena la ricevia­mo, poiché tutti i doni di Dio, specialmente quelli spirituali, hanno in sé qualcosa della sua intimità e del suo mistero. Dio si rivelerà a noi nel dono della nostra vocazione ma lo farà con gradualità.

    Non deve sorprendere se trascorriamo tutta la nostra vita di monaci approfondendo sempre più il mistero della nostra voca­zione, che è vita nascosta con Cristo in Dio (cf. Col 3,3). Se sia­mo veri monaci dovremo infatti costantemente riscoprire cosa significhi essere monaco e non esauriremo mai la pienezza di si­gnificato della nostra vocazione.

    Quando entriamo in monastero possiamo avere o non avere una precisa coscienza sul perché abbiamo lasciato il mondo. Pos­siamo dare una risposta, più o meno chiara, alla domanda: “Per­ché sei venuto qui?”. Ma questa è una di quelle domande che dovremmo porci continuamente nel corso della nostra vita mo­nastica: “Cosa stai facendo qui? Perché sei venuto qui?”. Non che sia una domanda di cui non conosciamo la risposta, ma ten­diamo a dimenticarla. È una domanda che ci mette davanti un significato e un’urgenza nuovi, man mano che avanziamo nella vita.
    Talvolta esitiamo a porci questa domanda temendo che possa minare le fondamenta della nostra vocazione. Ma è una di quelle domande che non dovrebbero mai essere eluse. Se la prendiamo seriamente, rafforzeremo la nostra vocazione. Se la eludiamo, anche con un santo pretesto, possiamo aprire la strada all’inde­terminazione della nostra vocazione. Il monaco che cessa di domandarsi: “Amice, ad quid venisti?” (RB 60,3; cf. Mt 26,50) forse ha cessato di essere monaco.

    Quali sono le risposte che diamo alla domanda: “Perché sei venuto qui?”. Noi rispondiamo: “Per salvarmi l’anima”, “Per condurre una vita di preghiera”, “Per far penitenza dei miei peccati”, “Per donarmi a Dio”, “Per amare Dio”. Sono risposte sufficientemente buone, risposte religiose, cariche di significato non solo per quanto affermano ma anche per ciò che implicano. Perché, sulle labbra di un cristiano, alcune affermazioni devo­no, alla fine, significare molto più di quanto dicono all’inizio. In se stesse sono la prova di buone disposizioni soggettive ma non portano in alcun modo a una comprensione piena della vita mo­nastica. Perché la vita monastica non è definibile soltanto dal fatto che ci consente di salvarci l’anima, di pregare, di far peni­tenza, di amare Dio. Tutte queste cose possono essere realizzate fuori del monastero e sono vissute da migliaia di persone. Il monachesimo cristiano non è neppure adeguatamente defi­nito come ricerca di perfezione. In Giappone, ad esempio, uno zen buddista può entrare in monastero per cercare una vita ritira­ta e una disciplina spirituale. Forse sta cercando la realtà più alta. Sta cercando la “liberazione”. Ora, se noi entriamo in monaste­ro per cercare la realtà più alta, per cercare la perfezione, dob­biamo nondimeno renderci conto che per noi questo significa qualcosa di più di quanto possa significare per uno zen buddista.
    La nostra vita monastica deve perciò crescere per rendere più chiara e specificamente cristiana l’idea del fine per cui lottiamo. Ha molto più senso affermare, come fa Benedetto, che noi ve­niamo in monastero per cercar Dio (cf. RB 58,7), che non affermare che veniamo per cercare una perfezione spirituale. Il fine che cerchiamo non è soltanto qualcosa di interiore a noi stessi qualche dote personale da aggiungere, qualche nuovo valore. E’ Dio stesso che cerchiamo.

    Dire: “Perché sei venuto qui?” è la stessa cosa che dire: “Che cosa significa cercare Dio? Come sai se lo stai cercando o meno? Come puoi dire la differenza tra cercarlo e non cercarlo, quan­do, di fatto, egli è un Dio nascosto, Deus absconditus?”. Quando Mosè parlò a Dio dicendo: “Mostrami il tuo volto”, il Signore rispose “Nessuno può vedermi e vivere (cf. Es 33,18-20). Ep­pure Gesù ci dice che la vita eterna è conoscere l’unico vero Dio e colui che egli ha mandato, Gesù Cristo (cf. Gv 17,3). Questa conoscenza di Dio, che è la vita eterna, non la si può ottenere con la semplice speculazione. Noi giungiamo a conoscere Dio per il fatto di essere nati da lui e di vivere in lui. Non possiamo conoscerlo veramente soltanto attraverso la lettura, lo studio e la meditazione. Possiamo arrivare a conoscere Dio solo divenendo suoi figli e vivendo come tali. “A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uo­mo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13).

    Possiamo vivere da figli di Dio, possiamo conoscere Dio solo se viviamo nella carità. “Amati, amiamoci gli uni gli altri, per­ché l’amore è da Dio, e chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio” (lGv 4,7). Ma questa carità non è il semplice amore naturale per l’altro. Non diventiamo figli di Dio per il solo fatto di vivere insieme in una società che si dedica a uno scopo comu­ne, condividendo con altri degli interessi comuni. Non fanno così anche i pagani (cf. Mt 5,46)? La carità che ci unisce è la carità di Cristo, nel senso stretto di un amore esercitato dal cuo­re di Cristo e non nel senso generico di un amore copiato dal suo. Al mandatum noi cantiamo: Congregavit nos in unum Christi amor. E’ l’amore del cuore di Cristo per noi (e non il nostro amore per lui) che ci ha riuniti assieme. Non potremmo amarlo, se egli non ci avesse “amati per primo” (1Gv 4,19). Noi diventiamo figli di Dio rinascendo in Cristo – attraverso il battesimo – e viviamo, cresciamo e portiamo frutto solo “ri­manendo in Cristo”. “Rimanete in me e io in voi. Come il tral­cio non può far frutto da sè stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me” (Gv 15,4). Arriviamo così al cuore della nostra vocazione monastica.

    La nostra vita monastica è una vita in Cristo, una vita attra­verso la quale rimaniamo in Cristo, condividendo la sua vita, partecipando alla sua azione, unendoci a lui nel suo culto al Padre. Cristo è la nostra vita. È lui il senso pieno della nostra vita, l’intera sostanza della vita monastica. Niente ha più significato, in monastero, se dimentichiamo questa grande verità centrale.

    Ma chi è Gesù? E’ il Figlio di Dio, è il Verbo che si fece carne e abitò fra noi (cf. Gv 1,14). La vita monastica, come tutta la vi­ta cristiana, la vita della chiesa, prolunga il mistero dell’incarna­zione sulla terra e ci consente di accogliere nei nostri cuori, con abbondanza, la luce e la carità di Cristo. Veniamo in monastero per cercare Cristo, con il desiderio di poterlo trovare e conoscere, e arrivare così a vivere in Cristo e per mezzo di lui. E non ap­pena incominciamo a trovarlo, incominciamo al tempo stesso ad accorgerci che stavamo già vivendo in lui e per mezzo di lui, per­ché “egli ci ha amati per primo“.

    Il Verbo si fece carne

    Tutto il significato della vita monastica scaturisce dal mistero dell’incarnazione. Veniamo in monastero, guidati dallo Spirito santo, per cercare la vita eterna. La vita eterna è la vita di Dio, donataci in Cristo. Veniamo a cercare verità. Cristo disse: “Io sono la verità” (Gv 14,6). Veniamo a cercare vita. Egli è la via e la vita. Veniamo a cercare luce. Egli è “la luce del mondo” (Gv 8,12). Veniamo a cercare Dio. In lui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). In Cristo Dio si è rivelato a noi e si è donato a noi: “Il Verbo si fece carne e abitò fra noi e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).

    In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessi­mo la vita per mezzo di lui” (1Gv 4,9).
    La domanda: “Perché sei venuto qui?” è allora la domanda di Gesù nel giardino dell’agonia: “Chi cercate?” (Gv 18,4). Cer­chiamo Gesù di Nazaret, il Cristo, il Figlio del Dio vivente, che per amore nostro discese dal cielo, morì sulla croce e risuscitò dai morti e siede, vivo, alla destra di Dio Padre, dando a noi pienezza con la sua vita e guidandoci per mezzo del suo Spirito, così che egli vive, respira, lavora, agisce e ama in noi.

    Lo scopo della nostra vita è allora crescere nell’unione con il Cristo risor­to, vivere sempre più profondamente la vita del suo corpo, la chiesa, continuare sulla terra l’incarnazione che manifesta l’a­more di Dio per gli uomini, al fine di poter condividere, con Cristo, nei cieli, la gloria di Dio. Il Verbo si fece carne. Verbum caro factum est. Questa verità è la pietra angolare della nostra vita monastica. Non è solo una ve­rità che conosciamo e sulla quale, di tanto in tanto, meditiamo. E’ una verità che deve diventare la nostra vita. L’intera nostra esistenza e tutte le nostre attività devono essere impregnate della luce che da essa scaturisce: quella luce è la stessa luce di Dio. Il Verbo è lo splendore della gloria del Padre (cf. Eb 1,3). E’ l’immagine del Dio invisibile (Col 1,15) e il modello di tutta la creazione di Dio. Tutte le cose, tutti gli esseri viventi, tutta la creazione inanimata, tutti gli spiriti e le intelligenze sono creati in lui, sono sostenuti in lui, vivono in lui e per mezzo di lui. “Per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili, Troni, Dominazioni, Principati e Potestà: tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui” (Col 1,16-17).
    Quando Benedetto vide tutta la creazione radunata assieme “come in un unico raggio di splendore, vide tutte le cose nella luce del Verbo, senza il quale niente è stato fatto di ciò che esiste” e che “illumina ogni uomo che viene nel mondo” (Gv 1,3.9). Questo è il fine a cui tendiamo: vedere la gloria del Verbo incar­nato, “gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). Cerchiamo di vedere, conoscere e amare tut­te le cose in lui: il mondo, gli angeli, i nostri fratelli, il Padre e lo Spirito santo. Questa è la risposta alla domanda: “Perché sei ve­nuto qui? Chi cerchi?”.

    Egli è il Tutto. E per poter vedere colui che è il Tutto, dobbia­mo conoscerci e trovarci in lui. Dobbiamo trovare ogni cosa in lui e in ogni cosa lui. Dobbiamo trovare il Padre in lui. Il Verbo si fece carne. Incarnazione! Egli prese per sé un corpo e un’anima umani, così che il Verbo dimorò fra noi come uomo. Il Verbo non assunse la carne per finzione, come un semplice abito che avrebbe potuto essere tolto e gettato via. Divenne un uomo. Gesù, un uomo, è Dio. Il suo corpo è il corpo di Dio. La sua car­ne è talmente colma della luce e della potenza di Dio da essere completamente e interamente divina. E questo Uomo-Dio, Gesù Cristo, è diventato per noi il nostro nuovo mondo, una nuova creazione, in cui tutte le cose devono essere “ricapitolate”.

    Dom Vonier dice: “Possono adeguatamente apprezzare l’in­carnazione solo coloro per i quali l’umanità di Cristo è la mera­viglia delle meraviglie, una superba creazione in cui ricevono il proprio essere, in cui vivono, lavorano, muoiono, in cui sperano di risorgere e in cui trovano la pienezza della divinità come quando Mosè si imbatté nel roveto ardente”. Gesù non assunse la natura umana solo al fine di morire per noi sulla croce ed elevarci al di sopra della “materia”. La sacra umanità di Cristo, che regna e agisce nei cieli, è un principio permanente di santificazione, in grado di spiritualizzare tutto ciò con cui è messa in contatto, attraverso la sua chiesa.

    Se il Verbo si fece carne e se il corpo di Cristo rimane una fonte permanente di santificazione, allora la creazione non è cattiva. Quando creò il mondo, “Dio vide che era cosa buona” (Gen 1,4.10…), perché venne creato in Cristo e prese vita per mezzo suo. Se la nostra vita è una ricerca di Gesù, il Verbo che si è fatto carne, dobbiamo prendere coscienza che non bisogna agire come i mistici pagani, che ripudiano il mondo visibile co­me una pura illusione, e come coloro che interrompono ogni contatto con le cose sensibili e materiali. Al contrario, dobbia­mo imparare a guardare e a rispettare la creazione visibile che ri­specchia la gloria e le perfezioni del Dio invisibile. La creazione visibile è mantenuta in essere dal Verbo. Ma il Verbo stesso è entrato nella creazione per esserne la corona e la gloria. Il re divino è entrato nella sua stessa creazione con un corpo che è il punto più alto di tutte le cose create. Il corpo di Cristo è qualcosa di più grande e più meraviglioso di tutta la creazione angelica, perché è ipostaticamente unito al Verbo, e Paolo ci ricorda che dobbiamo preferirlo a tutti gli angeli: “Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo. Perché in lui abita corporal­mente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,8-9). Se pertanto cerchiamo Gesù, il Verbo, dobbiamo essere capaci di vederlo nelle cose create attorno a noi: nelle colline, nei campi, nei fiori, negli uccelli e negli animali che ha creato, nel cielo e negli alberi. Dobbiamo esser capaci di vederlo nella natu­ra. La natura non è un ostacolo al nostro contatto con lui, se sap­piamo osservarla nella giusta luce.
    La chiesa, nella sua liturgia, fa uso di elementi materiali per­ché sa che questi parlano con eloquenza di Dio: luci, incenso, abiti, musica. Soprattutto usa elementi materiali non solo come simboli ma come mezzi attraverso i quali viene direttamente ap­plicata alle nostre anime la grazia di Dio: i sacramenti. Il Verbo che si fece carne continua a rendersi presente nel suo perfetto sacrificio, sotto le specie consacrate del pane e del vino. Se dobbiamo vivere da cristiani, quali membra del Verbo in­carnato, dobbiamo ricordare che la stessa vita dei nostri sensi è stata elevata e santificata dalla grazia di Cristo; dobbiamo impa­rare a usare i nostri sensi per vedere, udire e apprezzare gli aiuti sacramentali alla santità che la chiesa ci dona. Di qui il ruolo dell’arte, del canto, e così via, come componenti della liturgia. Dobbiamo saper usare la nostra immaginazione quando leggia­mo le Scritture. Dobbiamo far eco agli esseri viventi e a quelli inanimati, che proclamano tutti la sapienza e la gloria di Dio, loro creatore. Dobbiamo, prima di tutto, guardare tutte le cose materiali al­la luce del mistero dell’incarnazione. Dobbiamo avere rispetto per tutta la creazione, perché il Verbo si è fatto carne.
    Ci è possibile rispettare le cose umili e materiali perché la chiesa, il corpo di Cristo, resta in mezzo al mondo per santifi­carlo e spargere su ogni cosa la potenza delle benedizioni di Dio. Paolo dice: “Tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si accoglie con rendimento di grazie. Per­ché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera” (1Tm 4,4-5).

    Il monaco, uomo di preghiera, deve imparare che attraverso le sue preghiere, attraverso la benedizione che la presenza di un monastero riversa tutt’attorno, il mondo viene santificato e av­vicinato a Dio. Deve gioire per il fatto che attraverso la sua unio­ne nascosta con Cristo permette a ogni cosa di farsi più vicina al proprio fine ultimo e di dar gloria al proprio creatore.

    Il monaco deve guardare alla comunità monastica come a Cri­sto, presenza visibile e vivente nel cuore della sua creazione, presenza che benedice il paese circostante e tutte le cose che i monaci toccano e usano, portandole a unirsi a noi nella lode a Dio attraverso il suo Figlio incarnato. Le cose materiali che ci circondano sono sante a causa dei nostri corpi, i quali sono san­tificati dalle nostre anime, che a loro volta sono santificate dalla presenza del Verbo che le inabita. L’universo creato è un tempio di Dio, e il nostro monastero è come se ne fosse l’altare, la comunità il tabernacolo; e Gesù stes­so si rende presente nella comunità, offrendo il suo culto d’amore e di lode al Padre e santificando le anime e tutte le cose.

    Ne consegue che nella vita monastica i nostri sensi sono edu­cati ed elevati, non certo distrutti. Ma questa educazione necessita una disciplina. Se i nostri occhi devono essere gli occhi dell’“uomo nuovo” (Cristo), non devono più guardare alle cose con i desideri e i pregiudizi dell’“uomo vecchio”. Devono essere pu­rificati dalla fede, dalla speranza e dall’amore. Mentre mortifica i nostri sensi, l’ascesi monastica fornisce loro una vita nuova in Cristo, così che impariamo a vedere, udire, sentire, gustare… come Cristo, e perfino i sensi vengono allora spiritualizzati.

    La parola della croce

    Quanto è stato detto non è che un’introduzione al vero mi­stero della nostra vocazione monastica. Dio creò il mondo e vide che tutte le cose erano buone, perché sussistevano nel Ver­bo. Il Verbo si fece carne e dimorò fra noi, e noi abbiamo visto in lui la gloria di Dio (cf. Gv 1,14). Ma basta questo? Se così fosse, allora l’uomo non dovrebbe far altro che seguire i propri istinti naturali, usare delle cose create, e con facilità e sponta­neità troverebbe la via che porta a Dio. Ma non è così.

    Vi sono molti ostacoli alla “spiritualizzazione” della nostra vita. Per di­ventare “uomini nuovi” dobbiamo lottare, combattere e anche morire.
    Siamo uomini decaduti, e il mondo con noi. L’uomo e il mon­do sono stati resi schiavi dal principe delle tenebre, e sono af­fondati nell’errore e nel peccato. Ora, il peccato ha precluso la possibilità all’uomo di ritrovare la via verso Dio.
    Sebbene gli attributi di Dio siano chiaramente visibili nella creazione, l’uomo, precipitato nelle tenebre per colpa propria, non riconosce più Dio. “Sebbene conoscessero Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma han­no vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa, perché mentre si dichiaravano sapienti, sono di­ventati stolti” (Rm 1,21-22).
    Il Nuovo Testamento ci mette continuamente in guardia con­tro la stoltezza di un tipo di contemplazione e di ascesi pura­mente umane, che generano un’illusione di santità e di sapienza ma non possono unirci a Dio né con lui riconciliarci. L’ascesi umana e le tecniche mistiche non possono salvarci dai nostri peccati. Ci tengono lontano da Dio e anzi ci separano ancor più, perché la loro illusione genera in noi una falsa fiducia e un falso orgoglio. Sono centrate sull’uomo, non su Dio; mirano a glorifi­care l’uomo, non Dio. Paolo, nella Lettera ai Romani, dopo aver additato i misteri pagani e gli altri riti, quindi la legge e l’ascesi dei giudei, escla­ma che niente di tutto ciò può liberare l’uomo dal peccato e ri­conciliarlo con Dio. Per dimostrarlo, egli cita le parole dei salmi, che così spesso cantiamo:

    Giudei e greci, tutti sono sotto il dominio del peccato, come sta scritto: Non c’è nessun giusto, nemmeno uno, non c’è sa­piente, non c’è chi cerchi Dio! Tutti hanno traviato e si sono pervertiti; non c’è chi compia il bene, non ce n’è neppure uno. La loro gola è un sepolcro spalancato, tramano inganni con la loro lingua, veleno di serpenti è sotto le loro labbra, la loro bocca è piena di maledizione e di amarezza. I loro piedi corrono a versare il sangue; strage e rovina è sul loro cammino e la via della pace non conoscono. Non c’è timore di Dio davanti ai loro occhi (Rm 3,9-18; cf. Sal 14,1-3; 3,10; 140,4; 10,7; Is 39,7-8; Sal 36,2).

    Paolo conclude: “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23). E l’Antico Testamento ci parla di un mondo che nella sua malvagità reca dolore a Dio, al punto che Dio minaccia di distruggerlo:

    Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Signore disse: Sterminerò dal­la terra l’uomo che ho creato: con l’uomo anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito di averli fat­ti (Gen 6,5-7).

    Parole come queste imprimono una tremenda urgenza alla no­stra ricerca di Dio, di Cristo. Noi cerchiamo il Verbo incarnato non solo quale creatore e modello di tutte le cose, ma soprattut­to quale redentore, quale salvatore del mondo.
    Il monaco deve sempre essere consapevole che senza Cristo non vi sarebbe salvezza, felicità, gioia, perché l’uomo sarebbe irrevocabilmente separato da Dio, che è la fonte della vita e del­la gioia. Deve comprendere, soprattutto, che senza Cristo assolutamente inutile è lo sforzo umano di piacere a Dio. L’uomo non può salvarsi da solo, senza Cristo, per quanto eroici possano essere i suoi sacrifici. Ma una volta che si guarda al sacrificio della croce come alla nostra vera salvezza, allora anche il più pic­colo atto di carità diviene prezioso e ha valore agli occhi di Dio: perfino un bicchiere di acqua fresca (cf. Mt 10,42).
    Il monaco deve essere consapevole della santità infinita di Dio e dell’offesa che il peccato reca a tale santità. La consapevo­lezza della santità di Dio e dell’offesa del peccato ci danno il ti­more di Dio, che è il principio della sapienza (cf. Sap 11,10); senza di esso non possiamo incominciare a pregare come la chie­sa vorrebbe che facessimo, perché non abbiamo un vero senso delle realtà spirituali. Nello stesso tempo, però, dobbiamo avere una fiducia sconfinata nella croce di Cristo.

    Ecco, dunque, la nostra situazione: senza Cristo siamo com­pletamente separati da Dio, non abbiamo accesso a lui, se non attraverso i riti della religione naturale che non possono, da soli, salvare le nostre anime (ma sappiamo che, per i meriti della pas­sione di Cristo, Dio donerà la sua grazia a chiunque agisce fa­cendo quanto può per vivere secondo la luce della propria co­scienza). Con Cristo e in Cristo, tutta la nostra esistenza è tra­sformata e santificata, e i più piccoli atti d’amore hanno il loro valore di espiazione del peccato.

    Abbiamo bisogno di un salvatore nel quale rinascere a vita nuova, per salire al cielo. Dio ha tanto amato il mondo da darci il suo Figlio come salvatore (cf. Gv 3,16). Quanto più apprezzia­mo questo fatto, quanto maggiore è la nostra riconoscenza e fiducia, tanto più entreremo nella conoscenza di Dio in Cristo e lo serviremo con tutto il cuore. Gesù disse: “Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè innalzò il ser­pente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,13-15). Tutti gli uomini hanno bisogno di un salvatore e tutti lo han­no ricevuto in Cristo, che è morto affinché tutti possano essere salvati. Tutti “sono giustificati gratuitamente dalla sua grazia per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù” (Rm 3,24).

    Chi, dunque, cerchiamo in monastero? Non solo Dio, nostro Padre e creatore, perché anche se lo cerchiamo non possiamo trovarlo senza Cristo. Cerchiamo Cristo, nostro salvatore e re­dentore, nel quale siamo riconciliati con il Padre. O meglio, cer­chiamo il Padre in lui, perché, come dice Paolo: “Dio ha real­mente riconciliato a sé il mondo in Cristo” e Cristo “è morto per tutti, perché tutti coloro che vivono non vivano più per se stessi, ma per lui, che è morto ed è risuscitato per loro” (2Cor 5,19.15). Noi cerchiamo Cristo crocifisso quale nostra redenzio­ne, nostra forza, nostra sapienza, nostra vita in Dio (cf. 1Cor 1,23-24.30).
    Questo non lo possiamo pienamente comprendere se non comprendiamo l’amore e la compassione di Cristo per noi, verso la nostra debolezza. Erano i pelagiani che vedevano la croce solo come una sfida e un’ispirazione, non come una forza, una fonte di vita e di energia. Cristo non è semplicemente un sublime eroe che dobbiamo imitare con ogni sforzo; egli è un salvatore amore­vole disceso al nostro livello per donarci la sua forza. Egli ha vo­luto identificarsi con la nostra debolezza nel Getsemani e sulla croce.

    Noi cerchiamo Gesù non solo come salvezza individuale, per­sonale, ma come salvezza e unità di tutto il genere umano. La solidarietà originale dell’uomo, da cui dipende la nostra piena felicità e realizzazione, è stata distrutta dal peccato, e l’uomo non può trovare pace e unità in se stesso, o nella società, finché non si è riconciliato con Dio in Cristo. Cristo è la nostra pace: con gli altri, con noi stessi, con Dio. Lo cerchiamo perciò come il salvatore del mondo, il principe della pace, colui che ristabili­rà l’unità del genere umano nel suo regno di pace.
    La redenzione che Gesù è venuto a portare è stata offerta a tutti attraverso la sua morte in croce: noi riceviamo la nostra re­denzione morendo e risorgendo misticamente con lui; poiché uno è morto per tutti, allora tutti sono morti” (2Cor 5,14).

    Il monaco che prega nel timore di Dio e lo ringrazia per l’infi­nito amore con cui ha mandato suo Figlio per redimerci, prende coscienza non solo che Gesù è morto per lui individualmente, ma è morto per tutta la chiesa; che ha amato la chiesa ed è venuto per unire tutto il genere umano a Dio in un’unione di spirito con il Padre, in se stesso: “Cristo ha amato la chiesa e ha conse­gnato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola” (Ef 5,25-26). Questa è “la parola della croce“. Essa è “stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che sono salvati per noi, è potenza di Dio” (1Cor 1,18). Questa parola è il cuore di tutta la nostra vita di preghiera e di penitenza.

    Se comprendiamo queste cose, comprenderemo l’ufficio divi­no e capiremo per cosa stiamo pregando. Nei salmi non faccia­mo che contemplare, nel mistero, la grande realtà della nostra redenzione in Cristo. Noi ringraziamo continuamente Dio per quella redenzione, e intercediamo per la chiesa intera e per colo­ro che non conoscono Dio. Supplichiamo Dio di perdonare il peccato e di salvare coloro che sono immersi nelle tenebre del peccato. Supplichiamo di poter giungere tutti alla visione della sua gloria, così che il suo Cristo possa essere glorificato in noi.
    Inoltre comprendiamo come sia Gesù stesso, che prega in noi, a continuare, attraverso il nostro ufficio divino, la sua opera di redenzione del mondo. Nell’ufficio, e soprattutto nell’eucari­stia, il monaco è unito a Gesù salvatore.

    Figli della risurrezione

    Cristo, morto sulla croce e risorto dai morti, “non muore più” (Rm 6,9). Siede alla destra del Padre ed è diventato per noi uno “spirito datore di vita” (1Cor 15,45). Come Adamo, plasmato dalla mano del creatore, doveva esse­re il capo del genere umano e il primogenito della vita naturale, così Cristo, quando entrò nella sua gloria per mezzo della risur­rezione, divenne il capo di un’umanità nuova, unita a lui in un unico corpo mistico e vivificata dal contatto con la sua sacra umanità, ora divenuta uno “spirito datore di vita”. Ciò equiva­le a dire che l’umanità del Verbo, il quale regna nei cieli come “Cristo” o “Unto” del Padre, invia nelle nostre anime e nei no­stri corpi lo spirito divino.

    La nostra vita monastica non consiste solamente nell’avere Gesù come salvatore da ringraziare e adorare, come presenza esterna a noi: è una vita costantemente nutrita dal contatto spi­rituale con l’umanità glorificata di Cristo salvatore – vivente in noi attraverso la sua grazia, che è il principio della nostra vita so­prannaturale -, “spirito datore di vita”.

    Il nostro punto di contatto con il Salvatore risorto è la fede nella sua croce. Attraverso la fede noi sottomettiamo interamen­te le nostre menti e i nostri cuori a lui e alla carità, forza della vita divina. La carità diviene allora il principio di una nuova laboriosità, quella delle opere buone, per mezzo delle quali servia­mo il Dio vivente; siamo allora “purificati dalle opere morte (Eb 9,14), e le cose che facciamo acquistano un carattere total­mente nuovo e spirituale in Cristo. Esse danno gloria a Dio, edi­ficano il corpo di Cristo e ci procurano una crescita nell’unione con lui, che è la nostra santità.

    Il contatto con l’umanità risorta di Cristo è la vera santità. Crescere nella santità è crescere nella nostra unione con il Cristo risorto. Ma Cristo vive e agisce nella sua chiesa. Crescere nell’u­nione con la chiesa, partecipare più profondamente alla vita di preghiera della chiesa, alla sua vita sacramentale, alle altre sue attività, ci offre una più intima partecipazione alla vita, al pen­siero e alla preghiera di Cristo stesso. La vita di un monaco è im­mersa nelle profondità della vita della chiesa in Cristo. Il mona­co è essenzialmente un vir ecclesiae.

    La nostra vita spirituale è la vita dello Spirito di Cristo nella sua chiesa. E’ la vita che fluisce dal contatto con Cristo quale “spirito datore di vita”. Avere una vera vita spirituale è allora pensare, amare e agire non soltanto come Cristo avrebbe agito in una siffatta situazione, ma come realmente agisce, attraverso la sua grazia, in noi, in questo preciso momento. E’ vivere e agire con il pensiero della chiesa, che è il pensiero di Cristo.

    In altre parole, la nostra vita in Cristo non si riduce a un’imi­tazione esterna, a una riproduzione morale del modello offertoci da Gesù negli evangeli. Non si tratta semplicemente di legge­re una “Vita di Cristo” e poi, con le nostre forze, con la nostra ingegnosità e con la nostra buona volontà, di mettere in pratica, umanamente, ciò che leggiamo. Tali sforzi sono necessari, ma finché non raggiungono un piano totalmente soprannaturale re­cano poco frutto al nostro spirito.
    La nostra vita in Cristo, le nostre azioni in Cristo sono quelle in cui Cristo, vivente in noi mediante la sua grazia, ispira il nostro pensare e il nostro agire attraverso gli impulsi del suo santo Spirito di amore, che sgorga dalle profondità della nostra anima.
    Parlando di questa vita spirituale come sapienza divina, Paolo afferma che non possiamo conoscere le cose di Dio finché non riceviamo lo Spirito di Dio, che ci dona un profondo discerni­mento dei segreti nascosti nel pensiero e nella volontà di Dio (cf. 1Cor 2,9-12). Essere così edotti e mossi dallo Spirito santo è avere “il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16). Ma la sapienza dello Spirito che ci dà “il pensiero di Cristo” è del tutto opposta all’altra sapienza, la sapienza della “carne” e dell’ “uomo natura­le” che “non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giu­dicare solo per mezzo dello Spirito” (1Cor 2,14).

    Gesù aveva insistito sulla necessità di rinascere alla vita dello Spirito, perché “è lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla” (Gv 6,63). “Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è spirito” (Gv 3,6). E Paolo aggiunge: “Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. Chi semina nel­la sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna” (Gal 6,7-8). Siamo dibattuti in un aspro conflitto tra la carne e lo Spirito. Gesù ci ha liberati dal peccato ma non dalla debolezza e dalla concupiscenza della carne. Dobbiamo riprodurre nella nostra vi­ta la croce di Cristo, cosicché, morti sacramentalmente al pecca­to attraverso il battesimo e la penitenza, possiamo dunque met­tere a morte il peccato nella nostra carne frenando i nostri desi­deri malvagi e le cattive inclinazioni. Questo è il fondamento dell’ascesi monastica.

    Pertanto, tutta la vita monastica implica un obbligo a disci­plinarci e a rinunciare a noi stessi al fine di vivere nello Spirito di Cristo e per mezzo suo. La vita ascetica è a un tempo posi­tiva e negativa, ma è l’elemento positivo il più importante. Paolo riassume tutto il significato dell’ascesi cristiana in frasi come questa; “Camminate nello Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne” (Gal 5,16). Si osservi che dapprima dice: “Camminate nello Spirito”; è il lato positivo dell’a­scesi. La parte negativa segue come logica conseguenza, come effetto immediato: “non sarete portati a soddisfare i desideri della carne. Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se viviamo dello Spirito, cam­miniamo anche secondo lo Spirito (Gal 5,24-25). Così dunque, fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la car­ne per vivere secondo la carne; poiché, se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere della carne, vivrete (Rm 8,12-13).
    Si noti l’espressione “debitori verso la carne”. La carne è co­me un usuraio: ci dà un poco per poi prenderci tutto, e costante­mente aumenta la presa su colui che è in suo potere, esigendo una sottomissione servile sempre maggiore.

    Ma cosa intende Paolo per “opere della carne”? Quando la Bibbia parla di carne e di spirito, non intende opporre nell’uo­mo l’elemento materiale a quello spirituale, come se il corpo fos­se cattivo e solo l’anima fosse buona. L’uomo intero è “carne” se il suo corpo e le sue passioni egoistiche dominano la sua anima. L’uomo intero è spirito se la sua anima è soggetta allo Spirito di Cristo e il suo corpo è soggetto alla sua anima. Vivere “nello Spirito” non significa perciò vivere senza un corpo. Si­gnifica soffrire la tentazione e la prova. Significa fatica e tutte le normali condizioni della vita dell’uomo sulla terra. “L’inclinazione della carne è morte” (Rm 8,6) e ci porta a ogni genere di peccato. Non solo ai peccati della sensualità e della passione carnale, ma anche ai peccati contro la fede: stre­goneria, magia, superstizione, idolatria; soprattutto ai peccati contro la carità, peccati che ci dividono dai nostri fratelli: invi­dia, inimicizia, gelosie, dissensi, fazioni, divisioni, odio e perfi­no omicidio (cf. Gal 5,19-21). Le opere della carne maggior­mente sottolineate da Paolo sono quelle che dividono il corpo di Cristo in fazioni: “Dal momento che c’è tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana?” (1Cor 3,3). Così anche Giacomo: “Se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non mentite contro la verità. Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrena, carnale, diabolica” (Gc 3,14-15).

    I farisei erano asceti, eppure le loro erano “opere morte”: essi vivevano “nella carne” ed erano nemici della croce di Cristo. L’azione dello Spirito santo nella nostra vita produce gioia e pace, ci unisce ai nostri fratelli, e, per poter far questo, lo Spiri­to ci insegna l’obbedienza e l’umiltà. Ciò spiega la grande im­portanza di queste fondamentali virtù nella regola di Benedetto. Nello studio e nell’osservanza della regola dobbiamo prendere coscienza che la funzione di queste virtù non è tanto quella di acquistare meriti per le nostre anime ed esercitarci nell’autodi­sciplina, quanto piuttosto di unirci a Cristo nel suo corpo, la chie­sa. Sono virtù senza le quali non possiamo cominciare a osserva­re il suo comandamento di “dimorare in lui”.

    L’ascesi benedettina, fatta di silenzio, solitudine, umiltà, la­voro manuale, preghiera liturgica, è tutta tesa a unirci al Cristo mistico e agli altri nella carità, e il suo scopo è condurre le no­stre anime a essere totalmente guidate dallo Spirito santo. La via benedettina dell’umiltà nella vita comune è precisamente la via migliore per aiutarci a “camminare nello Spirito”. Lo stesso Be­nedetto lo afferma (cf. RB 7,67-70). Se seguiamo il nostro legislatore monastico, gusteremo il frut­to dello Spirito che è “carità, gioia, pace, pazienza, benevolen­za, bontà, fede, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22).

    Nella sua regola Benedetto mostra chiaramente che tutto lo scopo della vita benedettina è formare Cristo in noi, permettere allo Spirito di Cristo di compiere, nelle nostre esistenze, azioni degne di Cristo. Noi imitiamo la sua obbedienza e la sua umiltà quando, come lui, possiamo dire in verità: “Sono venuto non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha manda­to” (Gv 6,38; cf. RB 7,31-33, secondo gradino dell’umiltà). Riviviamo la sua passione quando, come lui, ci facciamo “obbe­dienti fino alla morte” (Fil 2,8; cf. RB 7,34, terzo gradino dell’umiltà), quando sopportiamo ogni cosa con pazienza e perseve­ranza per amor suo (cf. RB 7,35-43, quarto gradino dell’umiltà) e quando, come il nostro divin Salvatore, siamo ridotti a nulla, “un verme e non un uomo” (Sal 22,7; cf. RB 7,51-54, settimo gradino dell’umiltà). Dopo aver asceso tutti i gradini dell’umil­tà, il nostro cuore sarà svuotato del proprio io, e Dio stesso pro­durrà la somiglianza di Cristo in noi per azione del suo Spirito, che porta gioia e consolazione in ogni aspetto della vita monasti­ca: è la delectatio virtutum che “il Signore si degnerà di mostra­re, con l’azione dello Spirito santo, nel suo servo ormai purifica­to dai vizi e dai peccati” (RB 7,70).

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