• 28 Gen

    PROFESSIONE DI FEDE di PAOLO VI

    Noi crediamo in un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, creatore delle cose visibili, come questo mondo ove trascorre la nostra vita fuggevole, delle cose invisibili quali sono i puri spiriti, chiamati altresì angeli (Cfr. Dz.-Sch. 3002), Creatore in ciascun uomo dell’anima spirituale e immortale.


    Noi crediamo che questo unico Dio è assolutamente uno nella sua essenza infinitamente santa come in tutte le sue perfezioni, nella sua onnipotenza, nella sua scienza infinita, nella sua provvidenza, nella sua volontà e nel suo amore. Egli è Colui che è, come Egli stesso lo ha rivelato a Mosè (Cfr. Ex. 3, 14); ed Egli è Amore, come ce lo insegna l’Apostolo Giovanni (Cfr. 1 Io. 4, 8): cosicché questi due nomi, Essere e Amore, esprimono ineffabilmente la stessa Realtà divina di Colui, che ha voluto darsi a conoscere a noi, e che «abitando in una luce inaccessibile» (Cfr. 1 Tim. 6, 16) è in Se stesso al di sopra di ogni nome, di tutte le cose e di ogni intelligenza creata.

    Dio solo può darci la conoscenza giusta e piena di Se stesso, rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo, alla cui eterna vita noi siamo chiamati per grazia di Lui a partecipare, quaggiù nell’oscurità della fede e, oltre la morte, nella luce perpetua, l’eterna vita. I mutui vincoli, che costituiscono eternamente le tre Persone, le quali sono ciascuna l’unico e identico Essere divino, sono le beata vita intima di Dio tre volte santo, infinitamente al di là di tutto ciò che noi possiamo concepire secondo l’umana misura (Cfr. Dz-Sch. 804). Intanto rendiamo grazie alla Bontà divina per il fatto che moltissimi credenti possono attestare con noi, davanti agli uomini, l’Unità di Dio, pur non conoscendo il mistero della Santissima Trinità.


    Noi dunque crediamo al Padre che genera eternamente il Figlio; al Figlio, Verbo di Dio, che è eternamente generato; allo Spirito Santo, Persona increata che procede dal Padre e dal Figlio come loro eterno Amore. In tal modo, nelle tre Persone divine, coaeternae sibi et coaequales (Dz-Sch. 75), sovrabbondano e si consumano, nella sovreccellenza e nella gloria proprie dell’Essere increato, la vita e la beatitudine di Dio perfettamente uno; e sempre «deve essere venerata l’Unità nella Trinità e la Trinità nell’Unità»


    Noi crediamo in Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio. Egli è il Verbo eterno, nato dal Padre prima di tutti i secoli, e al Padre consustanziale, homoousios to Patri (Dz-Sch. 150); e per mezzo di Lui tutto è stato fatto. Egli si è incarnato per opera dello Spirito nel seno della Vergine Maria, e si è fatto uomo: eguale pertanto al Padre secondo la divinità, e inferiore al Padre secondo l’umanità (Cfr. Dz.-Sch. 76), ed Egli stesso uno, non per una qualche impossibile confusione delle nature ma per l’unità della persona Cfr. Ibid.).
    Egli ha dimorato in mezzo a noi, pieno di grazia e di verità. Egli ha annunciato e instaurato il Regno di Dio, e in Sé ci ha fatto conoscere il Padre. Egli ci ha dato il suo Comandamento nuovo, di amarci gli uni gli altri com’Egli ci ha amato. Ci ha insegnato la via delle Beatitudini del Vangelo: povertà in spirito, mitezza, dolore sopportato nella pazienza, sete della giustizia, misericordia, purezza di cuore, volontà di pace, persecuzione sofferta per la giustizia. Egli ha patito sotto Ponzio Pilato, Agnello di Dio che porta sopra di sé i peccati del mondo, ed è morto per noi sulla Croce, salvandoci col suo Sangue Redentore. Egli è stato sepolto e, per suo proprio potere, è risolto nel terzo giorno, elevandoci con la sua Resurrezione alla partecipazione della vita divina, che è la vita della grazia. Egli è salito al Cielo, e verrà nuovamente, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, ciascuno secondo i propri meriti; sicché andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all’Amore e alla Misericordia di Dio, e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all’ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto.

    E il suo Regno non avrà fine.


    Noi crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dona la vita; che è adorato e glorificato col Padre e col Figlio. Egli ci ha parlato per mezzo dei profeti, ci è stato inviato da Cristo dopo la sua Resurrezione e la sua Ascensione al Padre; Egli illumina, vivifica, protegge e guida la Chiesa, ne purifica i membri, purché non si sottraggano alla sua grazia. La sua azione, che penetra nell’intimo dell’anima, rende l’uomo capace di rispondere all’invito di Gesù: «Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro celeste» (Matth. 5, 48).


    Noi crediamo che Maria è la Madre, rimasta sempre Vergine, del Verbo Incarnato, nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo (Cfr. Dz.-Sch. 251-252) e che, a motivo di questa singolare elezione, Ella, in considerazione dei meriti di suo Figlio, è stata redenta in modo più eminente (Cfr. Lumen gentium, 53), preservata da ogni macchia del peccato originale (Cfr. Dz.-Sch. 2803) e colmata del dono della grazia più che tutte le altre creature (Cfr. Lumen gentium, 53).
    Associata ai Misteri della Incarnazione e della Redenzione con un vincolo stretto e indissolubile (Cfr. Lumen gentium, 53, 58, 61), la Vergine Santissima, l’Immacolata, al termine della sua vita terrena è stata elevata in corpo e anima alla gloria celeste (Cfr. Dz.-Sch. 3903) e configurata a suo Figlio risorto, anticipando la sorte futura di tutti i giusti; e noi crediamo che la Madre Santissima di Dio, Nuova Eva, Madre della Chiesa (Cfr. Lumen gentium, 53, 56, 61, 63; cfr. Pauli VI, Alloc. in conclusione III Sessionis Concilii Vat. II: A.A.S. 56, 1964, p. 1016; Exhort. Apost. Signum Magnum, Introd.), continua in Cielo il suo ufficio materno riguardo ai membri di Cristo, cooperando alla nascita e allo sviluppo della vita divina nelle anime dei redenti (Cfr. Lumen gentium, 62; Pauli VI, Exhort. Apost. Signum Magnum, p. 1, n. 1).


    Noi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato: il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa porta le conseguenze di quella colpa, e che non è più lo stato in cui si trovava all’inizio nei nostri progenitori, costituiti nella santità e nella giustizia, e in cui l’uomo non conosceva né il male né la morte. È la natura umana così decaduta, spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle sue proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini; ed è in tal senso che ciascun uomo nasce nel peccato. Noi dunque professiamo, col Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso con la natura umana, «non per imitazione, ma per propagazione», e che esso pertanto è «proprio a ciascuno» (Dz-Sch. 1513).


    Noi crediamo che nostro Signor Gesù Cristo mediante il Sacrificio della Croce ci ha riscattati dal peccato originale e da tutti i peccati personali commessi da ciascuno di noi, in maniera tale che – secondo la parola dell’Apostolo – «là dove aveva abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rom. 5, 20).


    Noi crediamo in un sol Battesimo istituito da Nostro Signor Gesù Cristo per la remissione dei peccati. Il battesimo deve essere amministrato anche ai bambini che non hanno ancor potuto rendersi colpevoli di alcun peccato personale, affinché essi, nati privi della grazia soprannaturale, rinascano «dall’acqua c dallo Spirito Santo» alla vita divina in Gesù Cristo (Cfr. Dz-Sch. 1514).


    Noi crediamo nella Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, edificata da Gesù Cristo sopra questa pietra, che è Pietro. Essa è il Corpo mistico di Cristo, insieme società visibile, costituita di organi gerarchici, e comunità spirituale; essa è la Chiesa terrestre, Popolo di Dio pellegrinante quaggiù, e la Chiesa ricolma dei beni celesti; essa è il germe e la primizia del Regno di Dio, per mezzo del quale continuano, nella trama della storia umana, l’opera e i dolori della Redenzione, e che aspira al suo compimento perfetto al di là del tempo, nella gloria (Cfr. Lumen gentium, 8 e 5). Nel corso del tempo, il Signore Gesù forma la sua Chiesa mediante i Sacramenti, che emanano dalla sua pienezza (Cfr. Lumen gentium, 7, 11). È con essi che la Chiesa rende i propri membri partecipi del Mistero della Morte e della Resurrezione di Cristo, nella grazia dello Spirito Santo, che le dona vita e azione (Cfr. Sacrosanctum Concilium, 5, 6; Lumen gentium, 7, 12, 50). Essa è dunque santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia: appunto vivendo della sua vita, i suoi membri si santificano, come, sottraendosi alla sua vita, cadono nei peccati e nei disordini, che impediscono l’irradiazione della sua santità. Perciò la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui peraltro ha il potere di guarire i suoi figli con il Sangue di Cristo ed il dono dello Spirito Santo.
    Erede delle promesse divine e figlia di Abramo secondo lo spirito, per mezzo di quell’Israele di cui custodisce con amore le Scritture e venera i Patriarchi e i Profeti; fondata sugli Apostoli e trasmettitrice, di secolo in secolo, della loro parola sempre viva e dei loro poteri di Pastori nel Successore di Pietro e nei Vescovi in comunione con lui; costantemente assistita dallo Spirito Santo, la Chiesa ha la missione di custodire, insegnare, spiegare e diffondere la verità, che Dio ha manifestato in una maniera ancora velata per mezzo dei Profeti e pienamente per mezzo del Signore Gesù. Noi crediamo tutto ciò che è contenuto nella Parola di Dio, scritta o tramandata, e che la Chiesa propone a credere come divinamente rivelata sia con un giudizio solenne, sia con il magistero ordinario e universale (Cfr. Dz-Sch. 3011). Noi crediamo nell’infallibilità, di cui fruisce il Successore di Pietro, quando insegna ex cathedra come Pastore e Dottore di tutti i fedeli (Cfr. Dz.-Sch. 3074), e di cui è dotato altresì il Collegio dei vescovi, quando esercita con lui il magistero supremo (Cfr. Lumen gentium, 25).
    Noi crediamo che la Chiesa, che Gesù ha fondato e per la quale ha pregato, è indefettibilmente una nella fede, nel culto e nel vincolo della comunione gerarchica. Nel seno di questa Chiesa, sia la ricca varietà dei riti liturgici, sia la legittima diversità dei patrimoni teologici e spirituali e delle discipline particolari lungi dal nuocere alla sua unità, la mettono in maggiore evidenza (Cfr. Lumen gentium, 23; cfr. Orientalium Ecclesiarum, 2, 3, 5, 6).


    Riconoscendo poi, al di fuori dell’organismo della Chiesa di Cristo, l’esistenza di numerosi elementi di verità e di santificazione che le appartengono in proprio e tendono all’unità cattolica (Cfr. Lumen gentium, 8), e credendo alla azione dello Spirito Santo che nel cuore dei discepoli di Cristo suscita l’amore per tale unità (Cfr. Lumen gentium, 15), Noi nutriamo speranza che i cristiani, i quali non sono ancora nella piena comunione con l’unica Chiesa, si riuniranno un giorno in un solo gregge con un solo Pastore.


    Noi crediamo che la Chiesa è necessaria alla salvezza, perché Cristo, che è il solo Mediatore e la sola via di salvezza, si rende presente per noi nel suo Corpo, che è la Chiesa (Cfr. Lumen gentium, 14). Ma il disegno divino della salvezza abbraccia tutti gli uomini: e coloro che, senza propria colpa, ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, ma cercano sinceramente Dio e sotto l’influsso della sua grazia si sforzano di compiere la sua volontà riconosciuta nei dettami della loro coscienza, anch’essi, in un numero che Dio solo conosce, possono conseguire la salvezza (Cfr. Lumen gentium, 16).


    Noi crediamo che la Messa, celebrata dal Sacerdote che rappresenta la persona di Cristo in virtù del potere ricevuto nel sacramento dell’Ordine, e da lui offerta nel nome di Cristo e dei membri del suo Corpo mistico, è il Sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri altari. Noi crediamo che, come il pane e il vino consacrati dal Signore nell’ultima Cena sono stati convertiti nel suo Corpo e nel suo Sangue che di lì a poco sarebbero stati offerti per noi sulla Croce, allo stesso modo il pane e il vino consacrati dal sacerdote sono convertiti nel Corpo e nel Sangue di Cristo gloriosamente regnante nel Cielo; e crediamo che la misteriosa presenza del Signore, sotto quello che continua ad apparire come prima ai nostri sensi, è una presenza vera, reale e sostanziale (Cfr. Dz.-Sch. 1651).
    Pertanto Cristo non può essere presente in questo Sacramento se non mediante la conversione nel suo Corpo della realtà stessa del pane e mediante la conversione nel suo Sangue della realtà stessa del vino, mentre rimangono immutate soltanto le proprietà del pane e del vino percepite dai nostri sensi. Tale conversione misteriosa è chiamata dalla Chiesa, in maniera assai appropriata, transustanziazione. Ogni spiegazione teologica, che tenti di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la fede cattolica deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva, indipendentemente dal nostro spirito, il pane e il vino han cessato di esistere dopo la consacrazione, sicché da quel momento sono il Corpo e il Sangue adorabili del Signore Gesù ad esser realmente dinanzi a noi sotto le specie sacramentali del pane e del vino (Cfr. Dz-Sch. 1642, 1651-1654; Pauli VI, Litt. Enc. Mysterium Fidei), proprio come il Signore ha voluto, per donarsi a noi in nutrimento e per associarci all’unità del suo Corpo Mistico (Cfr. S. Th. III, 73, 3).
    L’unica ed indivisibile esistenza del Signore glorioso nel Cielo non è moltiplicata, ma è resa presente dal Sacramento nei numerosi luoghi della terra dove si celebra la Messa. Dopo il Sacrificio, tale esistenza rimane presente nel Santo Sacramento, che è, nel tabernacolo, il cuore vivente di ciascuna delle nostre chiese. Ed è per noi un dovere dolcissimo onorare e adorare nell’Ostia santa, che vedono i nostri occhi, il Verbo Incarnato, che essi non possono vedere e che, senza lasciare il Cielo, si è reso presente dinanzi a noi.


    Noi confessiamo che il Regno di Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, non è di questo mondo, la cui figura passa; e che la sua vera crescita non può esser confusa con il progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo, nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre più ardentemente all’amore di Dio, e nel dispensare sempre più abbondantemente la grazia e la santità tra gli uomini. Ma è questo stesso amore che porta la Chiesa a preoccuparsi costantemente del vero bene temporale degli uomini. Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli che essi non hanno quaggiù stabile dimora, essa li spinge anche a contribuire – ciascuno secondo la propria vocazione ed i propri mezzi – al bene della loro città terrena, a promuovere la giustizia, la pace e la fratellanza tra gli uomini, a prodigare il loro aiuto ai propri fratelli, soprattutto ai più poveri e ai più bisognosi. L’intensa sollecitudine della Chiesa, Sposa di Cristo, per le necessità degli uomini, per le loro gioie e le loro speranze, i loro sforzi e i loro travagli, non è quindi altra cosa che il suo grande desiderio di esser loro presente per illuminarli con la luce di Cristo e adunarli tutti in Lui, unico loro Salvatore. Tale sollecitudine non può mai significare che la Chiesa conformi se stessa alle cose di questo mondo, o che diminuisca l’ardore dell’attesa del suo Signore e del Regno eterno.


    Noi crediamo nella vita eterna. Noi crediamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo, sia che debbano ancora esser purificate nel Purgatorio, sia che dal momento in cui lasciano il proprio corpo siano accolte da Gesù in Paradiso, come Egli fece per il Buon Ladrone, costituiscono il Popolo di Dio nell’aldilà della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della Resurrezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi.
    Noi crediamo che la moltitudine delle anime, che sono riunite intorno a Gesù ed a Maria in Paradiso, forma la Chiesa del Cielo, dove esse nella beatitudine eterna vedono Dio così com’è (Cfr. 1 Io. 3, 2; Dz.-Sch. 1000) e dove sono anche associate, in diversi gradi, con i santi Angeli al governo divino esercitato da Cristo glorioso, intercedendo per noi ed aiutando la nostra debolezza con la loro fraterna sollecitudine (Cfr. Lumen gentium, 49).

    Noi crediamo alla comunione tra tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la propria purificazione e dei beati del Cielo, i quali tutti insieme formano una sola Chiesa; noi crediamo che in questa comunione l’amore misericordioso di Dio e dei suoi Santi ascolta costantemente le nostre preghiere, secondo- la parola di Gesù: Chiedete e riceverete (Cfr. Luc. 10, 9-10; Io. 16, 24). E con la fede e nella speranza, noi attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.
    Sia benedetto Dio Santo, Santo, Santo. Amen.

  • 28 Gen

    DACCI OGGI IL NOSTRO PANE

    di p. Attilio Franco Fabris

    Nella prima parte del Pater avevamo tre desideri, tre auspici da rivolgere al Padre che è nei cieli.

    Nella seconda parte sono contenute invece tre domande che riguardano direttamente noi: gli chiediamo il pane, il perdono dei nostri peccati, la vittoria sulle tentazioni.

    Questa struttura ripete quella di tante preghiere ebraiche.

    Ad esempio nelle Diciotto Benedizioni le prime tre erano benedizioni rivolte a Dio, nelle dodici successive erano presentati a Dio i bisogni materiali e spirituali; infine le ultime tre erano caratterizzate dal ringraziamento.

    La ragione di questo schema lo possiamo dedurre da un commento rabbinico:

    “Le prime tre invocazioni fanno pensare a un servo che chiede favori al suo padrone; le ultime a un servo che ha ricevuto un favore dal suo padrone e ora prende nuovamente commiato”.

    Ma per il cristiano non si tratta di ricercare una sorta di captatio benevolentiae da parte della divinità. Per lui Dio è un Padre di fronte al quale non ci si prostra come schiavi, ma verso il quale egli nutre una fiducia e spontaneità filiale.

    Se prima ci si interessa della santificazione del suo nome, della venuta del suo regno e dell’adempimento della sua volontà è perché solo dopo aver contemplato il suo progetto si è in grado di vedere con occhi nuovi i nostri problemi di ogni giorno, la nostra vita con tutte le sue necessità e contraddizioni.

    Veniamo ora alla prima richiesta.

    Ci domandiamo anzitutto la ragione del perché la  prima domanda è in riferimento al pane.

    Il fatto stesso che si domandi il pane può apparire umiliante ed ingiusto all’uomo. Non è infatti un dovere e un onore per l’uomo guadagnarsi il suo pane senza stendere la mano? Non è con il suo lavoro che egli porta a casa il pane per i suoi? Perché chiederlo a Dio? Non è un ridursi a fare i mendicanti? Dio stesso non ha imposto forse ad Adamo di guadagnarsi il pane col sudore della sua fronte?

    Ma allora come interpretare la domanda?

    Potremmo anzitutto partire prendendo atto dell’ingiustizia esistente che porta con sé la fame nel mondo. Un quarto dell’umanità ne soffre drammaticamente… e sono i deboli che ne pagano le conseguenze amaramente e drammaticamente. Poniamo sulle loro labbra la preghiera del Padre nostro! Essa acquista subito uno spessore concreto che forse per noi, abituati all’abbondanza, non ha. Ad essi manca il pane quotidiano!

    Riporto un testo significativo di un anonimo brasiliano che racconta il dramma di coloro che non hanno di che vivere, neppure il necessario:

    Molto presto, come ogni mattina

    bambini disputano con i cani

    attorno ad una latta di spazzatura.

    E dividono con i cani

    il pane ammuffito della spazzatura.

    In un mondo cane, senza cuore,

    ecco la forma che Dio ha trovato

    per esaudire la preghiera

    dei piccoli affamati:

    Dacci oggi il nostro pane quotidiano!

    In quel giorno,

    in quella settimana,

    il pane della nostra tavola

    non era lo stesso.

    Era pane amaro,

    peino delle bestemmie dei poveri

    che per Dio sono suppliche.

    E’ tornato ad essere dolce e buono,

    quando fu condiviso

    con quegli affamati.

    Bambini e cani.

    E’ una dura realtà di fronte alla quale le parole del Magnificat suonano come una beffa: Ha ricolmato di beni gli affamati e i ricchi ha rimandato a mani vuote.

    Dio che ha cura degli uccelli del cielo e veste i gigli del campo come può lasciare morire di fame migliaia di bambini?

    La fede di molti viene messa a dura prova da queste domande.

    Attenzione! Non possiamo permetterci di ignorarle, spostandoci subito e comodamente, commentando la preghiera del Signore, su di un piano puramente spirituale!

    IL PANE NOSTRO DACCI OGNI GIORNO

    E’ un dovere del padre di famiglia procurare il pane ai figli; e in questa richiesta possiamo scoprirvi l’invito a guardare a Dio nel suo volto di Padre provvidente.

    Ritorniamo alla preghiera delle Diciotto Benedizioni. In essa  non manca la richiesta di benedire il lavoro dei campi e i frutti della terra:

    “Per noi, per il bene, Signore nostro Dio benedici questa annata e tutti i suoi raccolti. Ricolmaci dei tuoi beni, benedici questa annata e rendila simile alle migliori annate del passato. Benedetto sei tu, Signore, che benedici i raccolti.”

    In italiano diciamo: Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Ma nel testo greco la disposizione delle parole è diversa, dice: il pane nostro, quello di ogni giorno, dà a noi oggi. L’accento non è quindi sul dacci ma sul pane.

    Potremmo dilungarci sulla simbologia profonda ed estesa che il pane ha assunto nella nostra cultura occidentale.

    Nel pane posto in mezzo alla tavola intorno a cui è radunata tutta la famiglia è riassunta la vita di tutti: la fatica, la gioia, la condivisione.

    Al tempo di Gesù, ma non solo, il pane era cosa sacra. Non poteva essere buttato nell’immondizia, non lo si tagliava con il coltello (usanza mantenuta nella cultura monastica) ma lo si spezzava perché solo le mani dell’uomo erano degne di toccarlo. Il pane è sacro perché contiene il lavoro dell’uomo e la benedizione di Dio.

    Capiamo allora che, in fin dei conti, con la parola pane si vuole rappresentare tutto ciò che è necessario alla vita. Esso rappresenta, riassume, tutti i doni di Dio e la collaborazione dell’uomo: Servirete il Signore ed egli benedirà il tuo pane e la tua acqua (Es 23,25).

    E’ significativo che chi prega non dica “Dammi il mio pane quotidiano”, ma il nostro pane.

    Anche in questo caso la sua preghiera deve essere costantemente impregnata dal comandamento nuovo del Signore.

    NOSTRO O DI DIO?

    Ma come possiamo dire “nostro” se il pane lo chiediamo a Dio?

    Abbiamo un riferimento illuminante nel libro del Levitico: “Se seguirete le mie leggi… mangerete il “vostro” pane a sazietà e abiterete tranquilli nel vostro paese” (26,5).

    Della manna non si dice mai che è “nostra”: Tu Signore non hai rifiutato la “tua” manna”(Ne 9,20).

    Il pane è invece contemporaneamente dono di Dio e frutto del sudore della fatica e del sacrificio dell’uomo, per questo parla del “vostro” pane e gli uomini possono giustamente dire “nostro”.

    qual è allora il pane “nostro” benedetto da Dio?

    Quello prodotto “insieme” ai fratelli, quello ottenuto dalla terra che Dio ha destinato a tutti e non solo a qualcuno, quello che non contiene le lacrime del povero sfruttato.

    Non può pregare in modo sincero ed autentico chi pensa unicamente al proprio pane, chi accumula cioè beni per sé, per soddisfare i propri capricci, dimenticandosi del povero che manca di “pane”.

    Non può chiedere a Dio il “nostro” pane chi non lavora per pigrizia, chi vive alle spalle degli altri.

    Scriveva con parole di fuoco Basilio di Cesarea vescovo del IV sec.: “Se ciascuno si tenesse solo ciò che gli serve per le normali necessità e lasciasse il superfluo agli indigenti, ricchezza e povertà scomparirebbero… All’affamato spetta il pane che si spreca nella tua casa. Allo scalzo spettano le scarpe che ammuffiscono sotto il tuo letto. Al nudo spettano le vesti che sono nel tuo baule. Al misero spetta il denaro che si svaluta nelle tue casseforti” (Non lasciare che il tuo denaro dorma, 6).

    QUELLO DI OGNI GIORNO

    Vi è nella richiesta al Padre del pane una notevole difficoltà interpretativa che ha fatto e fa discutere schiere di esegeti e teologi.

    Troviamo infatti un aggettivo molto strano: epioùsion che traduciamo con quotidiano.

    Ora, questo aggettivo non si ritrova non solo in nessun altro testo della sacra scrittura ma anche  in quelli profani (tranne una sola volta in un resoconto di rifornimenti di viveri ad un distaccamento militare). Non è facile perciò stabilirne l’esatto significato.

    Esso può essere inteso come “necessario alla vita”, oppure come “il pane per questo giorno”, oppure “il pane per il giorno che viene”.

    I biblisti tendono a privilegiare l’ultima interpretazione: Dacci il pane per il giorno che viene. Ma stabilito questo che cosa esattamente significa?

    Generalmente si fa ricorso al parallelo biblico della manna nel deserto. La comunità degli israeliti mormorava per la mancanza di cibo. Allora il Signore disse a Mosé: “Io sto per far piovere per voi pane dal cielo; il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di ogni giorno, perché io lo metta alla prova per vedere se cammina secondo la mia legge o no” (Es 16,4).

    In cosa consisteva la prova? Probabilmente nel fatto che al mattino il popolo usciva a raccogliere il cibo necessario “per il giorno che veniva”, non lo si poteva accaparrare in vista degli altri giorni, pena la putrefazione del prodotto conseguenza della sfiducia in Dio.

    Quindi il giorno che viene è l’oggi.

    Se immaginiamo il Pater recitato al mattino significa: Dacci oggi il nostro pane per questa giornata.

    Evidentemente chi prega  con queste parole intende rifiutare la logica  mondana dell’accumulo dei beni per sé, soprattutto quando i fratelli soffrono per la fame.

    Con questa richiesta chiediamo che il cuore viene liberato dalla bramosia del possesso e dall’angoscia per il domani. (Cfr. Mt 6,19-21; Lc 12,20ss).

    Rabbi Eliezer di Modiim, contemporaneo di Gesù, insegnava: “Chi ha da mangiare per oggi, e dice: Che cosa mangerò domani? È un uomo di poca fede.”

    Non si tratta perciò di una fuga dal lavoro, di un pretesto di disimpegno e pigrizia, né di fatalismo. E’ anzitutto un richiamo forte a ciò che è essenziale alla vita: aiutami padre a liberarmi dalla schiavitù dei beni e dammi la forza di condividerli con i poveri.

    Il discepolo è chiamato a sentirsi libero, ad accontentarsi del necessario, ad aprire gli occhi sulle necessità dei fratelli. (Andando non portate con voi né bisaccia, né due tuniche, né denaro, né bastone...).

    Per capire bene questa domanda non bisogna dimenticare che il Pater viene insegnato da Gesù nel contesto, paradossale per il mondo, delle Beatitudini.

    Chi accetta di seguire Cristo entra a far parte di una comunità che si propone  al mondo come società alternativa a quelle rette dalle leggi della competizione, della ricerca egoistica del proprio interesse, dell’accumulo dei beni.

    Può pregare così chi ha rinunciato a riporre tutta la sua fiducia nel denaro, nel potere, nei beni di questo mondo e ha scelto la povertà perché sa che Cristo l’ha scelta come via privilegiata per aprirsi ai valori del regno.

    Solo chi fa propria la logica del servizio e del dono di sé diviene “figlio del regno che viene” e può pronunciare in modo autentico la preghiera del Signore.

    Il discepolo non deve mai chiedere il superfluo.

    Nel libro dei Proverbi leggiamo:

    Signore, io ti domando due cose,

    non negarmele prima che io muoia:

    non darmi né povertà né ricchezza;

    ma fammi avere il cibo necessario,

    perché, una volta sazio, io non ti rinneghi

    e dica: Che m’interessa del Signore!

    Oppure, ridotto all’indigenza, non rubi

    profanando così il nome del mio Dio (30,7-9).

    Si tratta cioè di saper gioire del necessario che la provvidenza non fa mancare.

    ALCUNE RIFLESSIONI CONCLUSIVE

    Un’altra considerazione che è possibile fare è il fatto che il domandare il cibo rimanda  al nostro essere creature, legate alla terra; in un certo senso rivela la nostra verità di esseri limitati, incompiuti, dipendenti, mortali. Fa scomparire in noi la pretesa di una spiritualità disincarnata, che non vuole fare i conti con la storia e con la realtà concreta in cui siamo immersi. Scrive san Gregorio Nisseno nel suo commento al Padre nostro (Sulla preghiera del Signore, IV): “Dacci oggi il nostro pane quotidiano: questa frase esprime un altro insegnamento morale: ti aiuta a comprendere attraverso le parole che pronunci che la vita umana è effimera: a ciascuno appartiene soltanto il presente, la speranza del futuro rimane avvolta nel mistero, non sappiamo infatti che cosa porterà il domani. Perché ci affanniamo per le preoccupazioni del futuro?

    Ci rendiamo coscienti di questo quando poniamo l’azione di grazie prima dei pasti. Quel cibo che sta davanti a noi è “nostro” ma è prima ancora “grazia”. Testimonia che anche oggi Dio ha provveduto. Perché la vita non diventerà mai un nostro diritto, un nostro “possesso” esclusivo.

    La richiesta rivela così la mia verità di un essere dipendente da Dio che è Padre, che ha cura dei  suoi figli nella sua provvidenza che è amorevole. Stendo le mani alle sue mani di padre per ricevere da lui il necessario per la vita (cf il gesto stupendo ma spesso tanto trasandato  della comunione sulla mano).

    Il cristiano impara a fare di ogni cosa eucaristia. Vi è infatti un modo eucaristico nell’uso delle cose e dei beni, in esso è presente la memoria che da Dio riceviamo ogni bene.

    Ancora: la richiesta del Pater mi insegna a mai disgiungere la preghiera dal lavoro. Chi lavora e non prega non è nella verità: si illude di essere lui protagonista della propria vita.

    Chi prega e non lavora non è nella verità: non mette in atto quelle capacità di cui Dio ha dotato l’uomo perché collabori con lui.

    Terremo sempre presente la sapiente massima attribuita a Ignazio di Loyola: “Dobbiamo pregare come se tutto dipendesse da Dio e agire come se tutto dipendesse da noi”.

    UN PANE DI VITA ETERNA

    Il pane è sempre realtà da condividere, da spezzare.

    Non per nulla è il segno-sacramento scelto da Gesù per l’Eucaristia, memoriale vivo della sua vita donata e spezzata sulla croce. Cristo si moltiplica quando viene spezzato. Tutti se ne nutrono e non si esaurisce mai.

    E’ il Padre che prepara una mensa per tutti e per tutti spezza il pane che è il dono del Figlio dato “per noi”.

    Scrive s. Pietro Crisologo in un suo sermone: “Il Padre del cielo ci esorta a chiedere come bambini del cielo il Pane del cielo Cristo. Egli stesso è il pane che, seminato nella vergine, lievitato nella carne, impastato nella passione, cotto nel forno del sepolcro, conservato nella Chiesa, portato sugli altari, somministra ogni giorno ai fedeli un alimento celeste” (Sermoni, 71).

    La  Provvidenza del Padre qui è al massimo livello: quel pane porta con sé vita eterna.

    Ed è questa l’apice della riflessione sulla richiesta del pane fatta al Padre.

    Diviene domanda  di un pane che non perisce, di un pane per una vita nuova, perché “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.

    Il Catechismo della Chiesa cattolica fa propria questa accentuazione: “Presa alla lettera  – la parola epiousios-sovrasostanziale – indica direttamente il Pane di Vita, il Corpo di Cristo “farmaco di immortalità” senza il quale non abbiamo in noi la vita. Infine legato al precedente è evidente il senso celeste “Questo giorno” è quello del Signore, quello del banchetto del regno, anticipato nell’Eucaristia che è già pregustazione del regno che viene” (2837).

    Cristo parola del Padre è questo pane. Non per nulla  nella prima comunità l’eucaristia era denominata lo spezzare insieme il pane. (Cf Gv 6,34; Mt 4,4; Mc 8,14).

    Eucaristia e carità sono indivisibili: “La richiesta del pane, se vogliamo avanzarla senza incoscienza o ipocrisia, ci impone un’altra esigenza: quella della condivisione. La comunione eucaristica è condivisione, il “sacramento del fratello” è inseparabile da quello dell’altare, diceva san Giovanni Crisostomo” (O. Clèment)

    SCHEDA DI LAVORO

    1.      “Dacci il nostro pane quotidiano”: come è intesa da me questa domanda della Preghiera del Signore? Quanta consapevolezza vi è in me della povertà di chi magari mi passa accanto? Come mi pongo dinanzi ad essa e a quella di tante popolazioni del mondo?

    2.      Senti in te il desiderio e l’imperativo della condivisione come aspetto essenziale all’esperienza di vita cristiana? Come si concretizza nella tua vita? Come ne è ostacolata?

    3.      Leggi e medita Mt 6,19-21.25-34: che cosa significa per il cristiano credere nella provvidenza del Padre che è nei cieli? Qual è l’atteggiamento fifliale che eviti sia il disimpegno sia l’affanno?

    4.      Gesù dice: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo” (Potresti rileggere il discorso di gesù a Cafarnao in Gv 6).  Cosa ti dice questa frase? Che posto ha nel tuo cammino spirituale la Parola e l’Eucaristia? Rappresentano realmente per te l’indispensabile “pane del pellegrino”?

  • 28 Gen

    SIA FATTA LA TUA VOLONTA’

    di p. Attilio Franco Fabris

    DUE INTERPRETAZIONI

    Vi è una prima interpretazione immediata e problematica di questa richiesta.

    Essa richiama il concetto di rassegnazione, di passività di fronte a ciò che nella vita vi è di sofferenza inevitabile.

    Non siamo lontani dallo stoicismo dei filosofi antichi. Epitteto diceva: “Uniformarsi agli eventi che non dipendono dalla nostra volontà è saggezza”.

    Quale lettura dare della frase di Gesù detta nell’orto del Getsemani: Padre non la mia ma la tua volontà sia fatta (Mt 26,42)? O di At 21,14, dove i cristiani di Cesarea si rassegnano al fatto che Paolo salga a Gerusalemme: Sia fatta la volontà del Signore?

    Se non bastasse la letteratura apocalittica parla dei libri che si trovano nei cieli in cui tutto ciò che accade è già scritto (Il Cielo farà succedere gli avvenimenti secondo quanto è stabilito lassù (1Macc)).

    Vi è anche una seconda interpretazione: fare la volontà di Dio consiste nell’obbedire ai suoi comandamenti. Si tratta della nostra sottomissione ad essi. Fare la volontà di Dio in fin dei conti comporta anzitutto un atteggiamento morale.

    Ma evidentemente queste due interpretazioni appaiono se non erronee certamente molto limitate.

    Prendiamo anzitutto in esame l’etimologia della parola “volontà” – in greco Thelema. Essa è traduzione di due termini ebraici: hapetz – ratzah. Vi è una sorpresa: entrambi le radici non significano “comandare – imporre – ordinare”, ma “compiacersi – provare gioia – desiderare ardentemente”.

    Ad esempio: “insegnami Signore a fare la tua volontà” andrebbe tradotto: “insegnami Signore a compiere ciò di cui tu ti compiaci”, “ciò che ti da gioia”, “ciò che desideri ardentemente da me”.

    La differenza semantica dunque è notevole. L’aspetto morale passa decisamente in secondo piano (Il re Ciro farà la mia volontà (Is 44,28), non nel senso che obbedirà alla legge ma nel senso che compirà ciò che il Signore desidera). Inoltre non appare il concetto di sottomissione passiva a qualcosa di ineluttabile già deciso per me.

    Al primo posto è messo il progetto di Dio, il disegno di salvezza che lui ha per il suo popolo, perché è questo il primo desiderio di JHWH.


    QUALE NUOVO(?) SIGNIFICATO?

    Se ora applichiamo questa lettura all’espressione che ritroviamo nel Pater – sia fatta la tua volontà

    essa assume una precisa colorazione forse diversa da come l’abbiamo intesa finora.

    Anzitutto  ci domandiamo:

    – in che cosa consiste il progetto di benevolenza di Dio, il suo compiacimento, il suo desiderio ardente?

    – come egli intende realizzarlo?

    Alla prima domanda si può rispondere con 1Tm 2,4: Dio nostro Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino e che giungano alla conoscenza della verità.

    Alla seconda citiamo la Lumen gentium 9:

    Piacque a Dio (è sua volontà) di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo… Si scelse quindi il popolo israelita.

    Volontà di Dio è la salvezza di tutti, indistintamente (La volontà di Dio non è un valore giuridico, è un influsso di vita che dona l’esistenza e la rinnova quando essa si smarrisce). Lo strumento attraverso il quale farla giungere è la scelta di un popolo: Israele è “servo”, è “luce delle nazioni” (Is 42,6; 49,6).  Certo è una scelta che appare assurda al mondo (cf Is 53,2-3.10). Israele è piccolo, povero, perseguitato.

    La volontà di Dio di conseguenza sembra così estrosa agli occhi umani: I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sonole mie vie – oracolo del Signore – quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie (Is 55, 8-9). (Cfr 1Cor 1,27.28).

    GESU’ PIENO ADEMPIMENTO DELLA VOLONTA’ DEL PADRE

    Gesù in tutta la sua esistenza si inserisce in questa “volontà” del Padre: Mio cibo è fare la volontà del Padre.

    Gesù è ben cosciente che la sua missione è compiere la volontà del Padre:

    Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno (Gv 6,38-39).

    Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera (Gv 4,34)

    Non cerco la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato (Gv 5,30)

    Tutta la sua esistenza ha come punto cardine questo desiderio: l’ultima parola di Gesù è riassuntiva di tutta la sua esperienza di relazione alla volontà del Padre: E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: Tutto è compiuto! E chinato il capo rese lo spirito (Gv  19,30).

    Il Catechismo commenta: E’ in Cristo e mediante la sua volontà umana che la Volontà del Padre è stata compiuta perfettamente e una volta per tutte. Gesù entrando nel mondo, ha detto: “Ecco io vengo… per fare, o Dio la tua volontà” (Ebr 10,7; Sal 40,7). Solo Gesù può affermare: “Io faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Gv 8,29). Nella preghiera della sua agonia, egli consente totalmente alla Volontà del Padre: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22,42). Ecco perché Gesù “ha dato se stesso per i nostri peccati … secondo la volontà di Dio” (Gal 1,4). “E’ appunto per quella Volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del Corpo di gesù Cristo” (Eb 10,10).

    LA VOLONTA’ DEL PADRE NEL CRISTIANO

    Piena conformità alla volontà del Padre che è salvezza dell’uomo peccatore: “Affinché la libertà dell’uomo peccatore non soccomba alle tenebre, Dio si incarna e scende nella morte, nell’inferno, perché ci sia finalmente un luogo in cui l’uomo possa unirsi alla volontà divina. Questo luogo è Cristo. In Cristo la volontà umana si è dolorosamente e gioiosamente unita a quella del Padre” (O. Clèment).

    Fare la volontà del Padre è unire la nostra volontà a quella di Cristo: Noi chiediamo al Padre nostro di unire la nostra volontà a quella del Figlio suo, per compiere la sua volontà, il suo disegno di salvezza per la vita del mondo. Noi siamo radicalmente incapaci di ciò, ma, uniti a gesù e con la potenza del suo Santo Spirito posssiamo consegnare a lui la nostra volontà e decidere di scegliere ciò che sempre ha scelto il Figlio suo: fare ciò che piace al Padre (CCC 2825).

    Il cristiano sà che questa richiesta sarà sicuramente esaudita nonostante tutto. Gli errori umani, il peccato, non impediranno la sua realizzazione.

    La preghiera in questo senso non cambia Dio, ma colui che prega.

    Quando preghiamo chiedendo che si compia la volontà del Padre noi ci disponiamo a renderci aperti con tutte le forze affinché il suo disegno si realizzi per ogni uomo.

    Tale preghiera trasforma il nostro cuore.

    In colui che prega la volontà del Padre può aprirsi un varco, e solo la preghiera può implorare che sulla terra discenda la Gerusalemme del cielo.


    COME IN CIELO COSI’ IN TERRA

    Era convinzione degli antichi che il progetto di Dio fosse già pienamente realizzato in cielo. E’ lì che si trova, nella dimora di Dio, la celeste Gerusalemme sottratta ad Adamo ed Eva dopo la colpa.

    Una città contemplata, desiderata…

    Nel Pater si chiede che essa sia portata sulla terra.

    Ma un dubbio sorge.

    A quale delle tre aspirazioni del Pater si riferisce l’espressione “come in cielo così in terra”? Generalmente si pensa solo alla terza.

    Ma la tradizione ha sempre trasmesso l’interpretazione che essa si riferisca a tutte e tre (es. Il Catechismo Tridentino la raccomanda).

    La prima parte della Preghiera del Signore andrebbe dunque letta  così:

    Padre nostro che sei nei cieli,

    sia santificato il tuo nome come in cielo così in terra

    venga in tuo regno come in cielo così in terra

    sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra.

    OSSERVANZA DEI COMANDAMENTI

    Abbiamo visto che non si può ridurre la volontà di Dio a un insieme di precetti morali.

    Ma è che l’adesione al progetto di benevolenza divina comporti una vita completamente nuova anche su questo fronte.

    Ma questa necessità nasce dalla legge-grazia dello Spirito che è stata posta in noi nel battesimo .

    Domandiamo al Padre la forza e la grazia dell’obbedienza (fà che amiamo ciò che comandi! Dalla liturgia) al comandamento nuovo.

    Il suo comandamento, che compendia tutti gli altri e ci manifesta la sua Volontà, è che ci amiamo gli uni gli altri, come egli ci ha amato (CCC 2822).

    Un percorso arduo, difficile, in cui vediamo il nostro desiderio spesso scontrarsi con una fragilità che non riusciamo a vincere, questo vorrà dire che siamo lontani dalla volontà di Dio?

    Se non riesci a “osservare i comandamenti” non considerarti mai perso, non ti inacidire in modo moralistico o volontaristico. Più a fondo, più in basso della tua vergogna o della tua caduta c’è Cristo. Volgiti a lui, lascia che ti ami, che ti comunichi la sua forza. E’ inutile che ti accanisci in superficie: è il cuore che deve capovolgersi. Non devi cercare nemmeno annazitutto di amare Dio, ti basta capire che Dio ti ama (O. Clèment).

    RASSEGNAZIONE

    Certo la contraddittorietà di un regno e di una volontà divina che potrebbe mettere tutto e subito a posto ogni cosa rimane. Ci è difficile capire, soprattutto di fronte a certi drammi, l’”impotenza” di Dio.

    La preghiera ci aiuta a leggere la storia con gli occhi di Dio, ad avere la sua pazienza di fronte alla zizzania che cresce col grano, di accettare i tempi e i modi così diversi dai nostri che tante volte riteniamo i soli e i migliori.

    Questa preghiera e questa attesa acuiscono in noi la fame e sete di giustizia caratteristiche  di ogni vero discepolo.

    La volontà di Dio non è più un mistero:

    “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,39).

    In Cristo contempliamo già la realizzazione della volontà di Dio su di noi e sulla storia. Certo resta l’incertezza dei tempi, riguiardo alla modalità e alle circostanze.

    In Cristo, mediante i sacramenti dell’iniziazione, il Padre compie in noi la sua volontà. E in questa volontà ciascuno di noi entra da soggetto, da protagonista; vi sono chiamate in causa la nostra libertà, intelligenza, creatività. Nella volontà di Dio non vi è nulla di preconfezionato. Il Padre ci ha fatto dono di esistenze aperte, da costruire con lui.

    La preghiera ci dispone nel medesimo atteggiamento del giovane Samuele: “Parla Signore che il tuo servo ti ascolta”, di Maria di Nazaret: “Eccomi sono la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola”.

    Non si tratta di rassegnazione ma di collaborazione. Scrive Teilhard de C. (Ambiente divino): Il trovare e il compiere la volontà di dio non è un fatto immediato né consiste in un atteggiamento passivo… Non raggiungerò la volontà di Dio in ogni istante se non all’estremo limite delle mie forze, nel punto in cui la mia attività tesa verso il meglio-essere si trova continuamente controbilanciata dalle forze avverse che cercano di fermarmi o di farmi cadere. Se non faccio tutto il possibile per avanzare o per resistere non mi trovo al punto giusto, non subisco Dio quanto potrei e quanto egli desidera. Se invece il mio sforzo è coraggioso, perseverante, io raggiungo Dio attraverso il male, al di là del male; io mistringo a lui.

    Ancora una volta prendiamo atto di come la preghiera del cristiano sia diversa da quella del pagano: questi tenta di ottenere con la preghiera che la divinità si pieghi al suo volere, in fin dei conti se ne vuole accapparrare la potenza. Il cristiano invece, come Gesù, chiede di conoscere ed attuare il volere del Padre. Gli chiediamo luce per conoscerla, forza per adempierla. E una preghiera di tal genere potrà liberarla dal profondo del cuore colui che crede aver Dio disposto tutte le cose di questo mondo per il nsotro bene: gioie e dolori. Chi prega così deve credere che la Provvidenza divina ha più sollecitudini per la salvezza e il bene di coloro che ad essa si affidano, di quel che non siamo solleciti noi per noi stessi (Agostino, Confessioni, 9.20).

    CONCLUDENDO LA PRIMA PARTE

    La prima parte del Pater si sofferma su dio. Così fa Gesù nel riassumere la Thoràh: Amerai Dio e amerai il tuo prossimo.

    Pregare che il nome sia santificato, il regno venga, o la volontà sia fatta è cosa che non può essere realizzata senza che già si partecipi effettivamente, con il cuore e con l’anima, a questo regno di giustizia e di amore, alla volontà di pace.

    Senza conversione e impegno per il prossimo nenache una delle richieste può essere pronunziata correttamente” (B. Stendaert).

    SCHEDA DI LAVORO

    1.      “Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato”. Queste parole esprimono il progetto per cui Gesù vive. Cosa ti suggeriscono? Perché è fondamentale per Gesù – e per te di conseguenza – fare della volontà del Padre il proprio “cibo”?

    2.      “Sono disceso non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato”. Come di poni di fronte alla volontà di Dio? Ti è facile scoprirla? Ne hai paura o desideri viverla pienamente? Perché?

    3.      Leggi e medita Gv 6,37-40 e Ef 1,3-14: che cosa si intende per volontà di Dio? Come la applichi alla tua vita?

    4.      Gesù nel Getsemani prega: “Padre se possibile passi da me questo calice… ma non la mia ma la tua volontà sia fatta”. A volte è difficile compiere la volontà del Padre. Ti è accaduto in passato? Forse stai vivendo ora questo momento: come ti stai ponendo di fronte ad essa? Cosa ti risulta più difficile da accogliere? Perché? Nella difficoltà fai riferimento come Gesù alla preghiera onde trarne forza e speranza?

    5.      Prova ad esprimere in una preghiera scritta quello che il cuore e la mente ti hanno suggerito in riferimento a questa terza domanda del Padre nostro.

  • 27 Gen

    SIA FATTA LA TUA VOLONTA’

    di p. Attilio Franco Fabris

    DUE INTERPRETAZIONI

    Vi è una prima interpretazione immediata e problematica di questa richiesta.

    Essa richiama il concetto di rassegnazione, di passività di fronte a ciò che nella vita vi è di sofferenza inevitabile.

    Non siamo lontani dallo stoicismo dei filosofi antichi. Epitteto diceva: “Uniformarsi agli eventi che non dipendono dalla nostra volontà è saggezza”.

    Quale lettura dare della frase di Gesù detta nell’orto del Getsemani: Padre non la mia ma la tua volontà sia fatta (Mt 26,42)? O di At 21,14, dove i cristiani di Cesarea si rassegnano al fatto che Paolo salga a Gerusalemme: Sia fatta la volontà del Signore?

    Se non bastasse la letteratura apocalittica parla dei libri che si trovano nei cieli in cui tutto ciò che accade è già scritto (Il Cielo farà succedere gli avvenimenti secondo quanto è stabilito lassù (1Macc).

    Vi è anche una seconda interpretazione: fare la volontà di Dio consiste nell’obbedire ai suoi comandamenti. Si tratta della nostra sottomissione ad essi. Fare la volontà di Dio in fin dei conti comporta anzitutto un atteggiamento morale.

    Ma evidentemente queste due interpretazioni appaiono se non erronee certamente molto limitate.

    Prendiamo anzitutto in esame l’etimologia della parola “volontà” – in greco Thelema. Essa è traduzione di due termini ebraici: hapetz – ratzah. Vi è una sorpresa: entrambi le radici non significano “comandare – imporre – ordinare”, ma “compiacersi – provare gioia – desiderare ardentemente”.

    Ad esempio: “insegnami Signore a fare la tua volontà” andrebbe tradotto: “insegnami Signore a compiere ciò di cui tu ti compiaci”, “ciò che ti da gioia”, “ciò che desideri ardentemente da me”.

    La differenza semantica dunque è notevole. L’aspetto morale passa decisamente in secondo piano (Il re Ciro farà la mia volontà (Is 44,28), non nel senso che obbedirà alla legge ma nel senso che compirà ciò che il Signore desidera). Inoltre non appare il concetto di sottomissione passiva a qualcosa di ineluttabile già deciso per me.

    Al primo posto è messo il progetto di Dio, il disegno di salvezza che lui ha per il suo popolo, perché è questo il primo desiderio di JHWH.

    QUALE NUOVO(?) SIGNIFICATO?

    Se ora applichiamo questa lettura all’espressione che ritroviamo nel Pater – sia fatta la tua volontà

    essa assume una precisa colorazione forse diversa da come l’abbiamo intesa finora.

    Anzitutto  ci domandiamo:

    – in che cosa consiste il progetto di benevolenza di Dio, il suo compiacimento, il suo desiderio ardente?

    – come egli intende realizzarlo?

    Alla prima domanda si può rispondere con 1Tm 2,4: Dio nostro Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino e che giungano alla conoscenza della verità.

    Alla seconda citiamo la Lumen gentium 9:

    Piacque a Dio (è sua volontà) di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo… Si scelse quindi il popolo israelita.

    Volontà di Dio è la salvezza di tutti, indistintamente (La volontà di Dio non è un valore giuridico, è un influsso di vita che dona l’esistenza e la rinnova quando essa si smarrisce). Lo strumento attraverso il quale farla giungere è la scelta di un popolo: Israele è “servo”, è “luce delle nazioni” (Is 42,6; 49,6).  Certo è una scelta che appare assurda al mondo (cf Is 53,2-3.10). Israele è piccolo, povero, perseguitato.

    La volontà di Dio di conseguenza sembra così estrosa agli occhi umani: I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sonole mie vie – oracolo del Signore – quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie (Is 55, 8-9). (Cfr 1Cor 1,27.28)

    GESU’ PIENO ADEMPIMENTO DELLA VOLONTA’ DEL PADRE

    Gesù in tutta la sua esistenza si inserisce in questa “volontà” del Padre: Mio cibo è fare la volontà del Padre.

    Gesù è ben cosciente che la sua missione è compiere la volontà del Padre:

    Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno (Gv 6,38-39).

    Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera (Gv 4,34)

    Non cerco la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato (Gv 5,30).

    Tutta la sua esistenza ha come punto cardine questo desiderio: l’ultima parola di Gesù è riassuntiva di tutta la sua esperienza di relazione alla volontà del Padre: E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: Tutto è compiuto! E chinato il capo rese lo spirito (Gv  19,30).

    Il Catechismo commenta: E’ in Cristo e mediante la sua volontà umana che la Volontà del Padre è stata compiuta perfettamente e una volta per tutte. Gesù entrando nel mondo, ha detto: “Ecco io vengo… per fare, o Dio la tua volontà” (Ebr 10,7; Sal 40,7). Solo Gesù può affermare: “Io faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Gv 8,29). Nella preghiera della sua agonia, egli consente totalmente alla Volontà del Padre: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22,42). Ecco perché Gesù “ha dato se stesso per i nostri peccati … secondo la volontà di Dio” (Gal 1,4). “E’ appunto per quella Volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del Corpo di gesù Cristo” (Eb 10,10).

    LA VOLONTA’ DEL PADRE NEL CRISTIANO

    Piena conformità alla volontà del Padre che è salvezza dell’uomo peccatore: “Affinché la libertà dell’uomo peccatore non soccomba alle tenebre, Dio si incarna e scende nella morte, nell’inferno, perché ci sia finalmente un luogo in cui l’uomo possa unirsi alla volontà divina. Questo luogo è Cristo. In Cristo la volontà umana si è dolorosamente e gioiosamente unita a quella del Padre” (O. Clèment).

    Fare la volontà del Padre è unire la nostra volontà a quella di Cristo: Noi chiediamo al Padre nostro di unire la nostra volontà a quella del Figlio suo, per compiere la sua volontà, il suo disegno di salvezza per la vita del mondo. Noi siamo radicalmente incapaci di ciò, ma, uniti a gesù e con la potenza del suo Santo Spirito posssiamo consegnare a lui la nostra volontà e decidere di scegliere ciò che sempre ha scelto il Figlio suo: fare ciò che piace al Padre (CCC 2825).

    Il cristiano sà che questa richiesta sarà sicuramente esaudita nonostante tutto. Gli errori umani, il peccato, non impediranno la sua realizzazione.

    La preghiera in questo senso non cambia Dio, ma colui che prega.

    Quando preghiamo chiedendo che si compia la volontà del Padre noi ci disponiamo a renderci aperti con tutte le forze affinché il suo disegno si realizzi per ogni uomo.

    Tale preghiera trasforma il nostro cuore.

    In colui che prega la volontà del Padre può aprirsi un varco, e solo la preghiera può implorare che sulla terra discenda la Gerusalemme del cielo.

  • 26 Gen

    VENGA IL TUO REGNO

    di p. Attilio Franco Fabris


    Il Battista impernia la sua predicazione sulla conversione in vista dell’avvento del Regno:

    Il Regno dei cieli è vicino”: Mt 3,2

    Gesù riprende questo tema, anzi annuncerà che ormai il regno è giunto:

    Il tempo è compiuto, il Regno die cieli è vicino”: Mt 1,15

    Il regno di Dio è in mezzo a voi”: Lc 17,21.

    Leggendo i vangeli ci accorgiamo di come il Regno di Dio è il centro della sua predicazione di Gesù di Nazaret (122 volte di cui 90 in bocca a Gesù).

    Così anche i discepoli sono mandati a predicare il Regno:

    Mt 10,7

    At 28,31

    Ma che cos’è il Regno dei Cieli, o per usare un’altra espressione il “regno di Dio”? I testi non lo dicono. E’ evidente che per gli interlocutori non occorresse spiegarlo talmente era chiaro!

    NELL’ANTICO TESTAMENTO

    Nelle teogonie dei popoli antichi il mondo nasceva da una lotta tra Dio e il Caos. La regalità di dio veniva dunque stabilita al momento della creazione.

    Essa veniva ciclicamente celebrata affinché potesse perpetuarsi. Il mondo infatti era costantemente minacciato dal Caos (ecco allora le celebrazioni rituali del giorno e della notte, dell’inverno e primavera, della morte e della vita… )

    Un ruolo fondamentale era dato dalla figura del re: toccava a lui, in quanto rappresentatnte-figlio-luogotenente di dio, assicurare l’ordine da cui scaturiva prosperità, pace, giustizia per i poveri e gli oppressi (cf Is 1,23; Sl 72,7.16).

    Ad esempio quando il re babilonese Assurdanipal (669-630 ac) assurge al trono, esso viene celebrato con queste parole:

    Governo prospero

    anni di equità

    Piogge abbondanti,

    fiumi in piena…

    i vecchi saltano

    i fanciulli cantano.

    Le fanciulle esultano di gioia,

    le donne concepiscono…

    Quelli che da anni giacevano ammalati rivivono,

    gli affamati sono saziati,

    i magri diventano grassi,

    gli ignudi sono coperti di abiti.

    Israele coltiva la speranza del regno di Dio, ma a differenza di altri popoli non lo proietta come un ritorno ciclico al passato, non è un ritorno alla mitica età dell’oro, esso invece appartiene al futuro dell’alleanza, alle promesse stesse di Dio fatte a Abramo, Isacco e Giacobbe.

    Questa convinzione di fede nasce anche dall’esperienza derivante dalla delusione a cui Israele soggiace passando da un re all’altro. La monarchia è screditata inesorabilmente. Nasce l’attesa che  re e pastore d’Israele sia JHWH stesso (cf Gr 22,1-4; Ez 34). Alla fin fine ci si rende conto che il regno verrà solo se JHWH stesso “pascolerà” il suo popolo.

    Nonostante tutte le prove e persecuzioni Israele non mancherà mai di questa speranza (tuttora). Ne fanno testo tante preghiere salmiche in cui si celebra il trionfo di JHWH e l’instaurarsi del suo Regno:

    “Il Signore è re, tremino i popoli…

    Re potente che ami la giustizia” (Sl 99,1.4)

    “Acclamate come vostro re il Signore…

    Egli viene a giudicare la terra,

    giudicherà il mondo con giustizia

    e i popoli con rettitudine” (Sl 98,6.9).

    Equivalente sarà l’immagine della venuta finale del Signore, del giorno di JHWH, in cui egli farà definitivamente giustizia e porterà salvezza (cf Is,35,4; Gl 2,1; Gl 3,1-5; Sof 1,14).

    Altra immagine equivalente sarà la riunificazione di tutti i popoli sotto l’unica signoria di Dio, ed essa avverrà sul monte santo di Sion (Alla fine dei gioni il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti, ad esso affluiranno tutte le genti… Is 66,19-21; Mic 4,1-7). [1]

    NEL NUOVO TESTAMENTO

    Nel II sec. A.C. si attesta una forte attesa del regno di Dio testimoniata dalla fioritura della letteratura apocalittica, tutta permeata dalla speranza della sua vicinanza.

    Un avvento, ci dicono, che non sarà privo di drammaticità. Daniele 7 descrive la progressiva distruzione ed annientamento dei grandi imperi terreni. Non avverrà il passaggio dunque senza dolore: calamità, guerra, morti e pestilenze. Come se il mondo ripiombasse nel caos primigenio in attesa di una nuova creazione. Sono i dolori del parto, preludono alla nascita di una nuova vita.[2]

    Gesù annuncia il regno, ovvero intende affermare che è giunta l’ora del suo avvento; le speranze stanno per essere realizzate.

    Ma di che Regno parla di Gesù? Come lo intende?

    Non si identifica con l’interpretazione politica e nazionalistica, ma d’altro lato non da adito ad una interpretazione puramente spirituale ed interiore che fa riferimento solo alla coscienza del singolo.

    La sua parola pur non facendo politica risulta sovversiva nei confronti di tutte le strutture di peccato, mentre egli rifiuta di schierarsi dalla parte di chi lo vorrebbe attirare su di un campo politico (cf Gv 6,14s).

    Gesù pone dei gesti concreti, visibili, dei segni direbbe Giovanni, che annunciano un ordine nuovo:

    Lc 7,22 in rif. a Is 61,1-2

    Tra tutte le immagini usate da Gesù per parlare del Regno, una gli è particolarmente cara: è la gioia del banchetto al quale tutti sono invitati iniziando proprio dagli ultimi, malati e peccatori (cf Lc 14,21).

    Gesù userà anche le immagini del grano e la zizzania (Mt 13,24), del granello di senape ( Mt 13,31), del lievito (mt 13,33), del tesoro nascosto e la perla preziosa (Mt 13,44), della rete ricolma di pesci (mt 13,47).

    Gesù talvolta afferma la presenza in atto del regno, altre volte lo annuncia prossimo. E’ importante questa sottolineatura che suggerisce il già e il non ancora del regno come inteso da Gesù nell’invocazione del Pater.

    Con l’incarnazione infatti il Regno è già entrato in questo mondo, ma come un “granello di senape” (cf Mt 13,31s). E’ piccolo, insignificante, nascosto, ma possiede già in sé tutte le sue potenzialità future, è destinato a svilupparsi incredibilmente fino al suo compimento alla fine dei tempi.

    Questo Regno in germe deve ora ancora lottare contro le forze di morte presenti nel mondo, che saranno definitivamente sconfitte alla fine quando la zizzania sarà raccolta e bruciata.

    Quando il regno sarà completato? Dice Paolo: quando Cristo “consegnerà il Regno a Dio Padre, dopo aver ridotto a nulla ogni potenza nemica… e aver posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte… e Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,24-28).

    Dunque il regno è presente già sin d’ora, ma la sua piena manifestazione è nel futuro.

    La Chiesa non è il Regno di Dio già attuato, essa è comunità di credenti chiamata a porre i segni del Regno lungo la storia, vocazione ad essere sacramento del regno in questo mondo (cf Mc 16,15-18).

    VENGA IL TUO REGNO

    Il discepolo di Gesù è invitato dalla preghiera del Pater ad invocare l’avvento del Regno.

    Ed è questa una preghiera che ha sempre accompagnato la comunità cristiana che accanto all’invocazione del Pater, pregava dicendo: Marana thà. “E’ il grido dello Spirito e della Sposa: Vieni Signore Gesù” (CCC 2817). Venga il tuo Regno!

    Queste invocazioni sottolineano il fatto che la venuta del regno è gratuita, è puro dono, indipendente dalla volontà dell’uomo. Esso si può ricevere,  ereditare (cf Mc 10,17), accogliere (Mc 10,15); attendere (Lc 2,25).

    Da parte nostra ci sarà dunque solo un’attesa passiva? Si tratta di stare a braccia conserte come in stazione attendendo il treno?

    Pregando le parole “Venga il tuo Regno” siamo  portati a chiedere di entrare nella volontà di Dio, nell’ottica del suo Regno, imparando a scorgere din d’ora, nella nostra storia, i suoi germi di presenza.

    La preghiera, se è autentica, costringe ad aprire il nostro cuore all’accoglienza di questi germi del regno e a porre a nostra volta dei segni concreti della sua presenza. Se il regno è pace, giustizia, amore, verità e vita questo significa che cercherò sin d’ora di incastonare in questa storia così sbilenca, contraddittoria, segnata dal male e dalla morte gesti nuovi di giustizia, di verità, di vita, di amore. Sono questi doni che ci rimandano all’azione presente dello Spirito nella Chiesa e nel mondo. Non per nulla antiche traduzioni dicevano in luogo di “venga il tuo regno” le parole “Il tuo santo spirito venga su di noi e ci purifichi”. Lo Spirito è sempre più immediato inizio del regno che viene nella storia. (Massimo il Confessore -IV sec. – leggeva la sequenza Padre-Nome-regno come un movimento trinitario).

    Si domanda una presenza maggiore della ricchezza di Cristo tra gli uomini, nella loro vita, nelle loro strutture, nel mondo in cui essi abitano (U.Vanni)

    UN RE CROCIFISSO

    La struttura delle fiabe rappresenta una drammatizzazione della vita, con le sue prove, le sue lotte, i suoi conflitti. Il fine è sempre lieto: “Vissero tutti felici e contenti”. I cattivi sono inesorabilmente castigati. Il bene trionfa sempre: è solo questione di tempo e di pazienza. I ruoli sono sempre ben definiti: i cattivi sono proprio cattivi, e i buoni unicamente buoni.

    Per i bambini le fiabe sono importanti: svolgono il ruolo di iniziazione al mistero della vita e della morte.

    Ma gli anni passano, i bambini non sono più tali, la fiaba della vita si sfalda a volte lentamente ma inesorabilmente. Ci si rende conto che non esistono bacchette magiche o talismani che risolvono i problemi. La vita si presenta carica di contraddittorietà: i ruoli sono sempre meno definiti, il bene spesso sembra non trionfare mai, tutto sembra avvolto da un velo che prennauncia un’inesorabile morte senza speranza.

    La regalità di Cristo sulla croce si staglia sulla storia  in tutta questa contraddittorietà e assurdità. Non vi è un lieto fine nella sua vita terrena: l’innocente è stato ucciso, in quel giorno “fu sparso sangue innocente” (Dan). Sono i “buoni”, gli osservanti della Torah che hanno ucciso Gesù. E la sua morte non è quella dell’eroe: nella sua umanità Gesù sente tutto il dramma, lo quarcio nella sua carne, del passo, della pasqua, che si appresta ad affrontare (“e il suo sudore cominciò a cadere a terra come gocce di sangue”).

    Nel Vangelo di Giovanni troviamo una sezione dedicata al regno, ed essa è destinata alla Chiesa affinché non cada in nessun equivoco riguardo ad esso..

    Siamo infatti proprio nel racconto della Passione. Dinanzi a Pilato Gesù non nasconde la sua regalità: “Io sono re”, ma afferma nel medesimo tempo l’essenziale diversità della sua regalità  da quelle di questo mondo “Il mio regno non è di questo mondo” (cf Gv 18,36).

    Egli sarà un re coronato di spine e rivestito del mantello regale di porpora. Inchiodato sulla croce come su un trono, e presentato al mondo intero (le tre lingue) come il “re dei giudei” (19,20).

    Ed è qui che il vangelo proclama al mondo la regalità del Signore Gesù che dona la vita  liberamente e per amore:  “li amò sino alla fine” (13,1).

    Dove sta la gloria, la “santificazione del Nome di Dio nella passione e morte del Figlio?

    Gesù muore per il Regno che ha annunciato e che non vede. Come Abramo che morì con la promessa di Dio di una terra e di una numerosa discendenza: ma muore possedendo solo una tomba, e un figlio.

    E’ sicuramente un re che si muove su di una linea opposto ai re di questo mondo (cf la lavanda dei piedi: Gv 13,18-36).

    Egli ha posto i germi del regno nella storia, ha posto anzitutto se stesso. Come Risorto egli continua la sua presenza in mezzo a noi e attraverso noi. I segni del regno dunque ci sono, ma sta a noi il saperli riconoscere. Spetta ancora a noi collaborare affinché essi siano posti lungo i solchi della storia, nella certa speranza che al di là di ogni pretesa immediata di riuscita e realizzazione.

    Cero questi segni rimarranno poveri, deboli, spesso perseguitati. Ma qui risulta fondamentale la fede nella fedeltà del Padre che non verrà meno alla promessa di cieli e terra nuova.

    Così la Chiesa e il cristiano imparano ad attendere fiduciosi la venuta del  regno del Padre.

    Non lo vogliamo però identificare subito e solo con il “paradiso”, perché allora si domnaderebbe come san Paolo di essere subito sciolti dai legacci di questo mondo. Anche se “in effetti si tratta principalmente della venuta finale del regno di Dio come il ritorno di Cristo” (CCC 2818).

    Il regno è già qui, è dentro la storia. Ed è questa la “lieta notizia”: è giunto a voi il regno di Dio (Lc 11,20).

    E’ necessario avere occhi di fede e di sapienza per riconoscerlo in mezzo alla zizzania; occorre disponibilità per apreire il cuore alla sua venuta già sin d’ora pregustandone il suo sapore.

    Sapienza per imparare ad accoglierne con fiducia i ritmi, i tempi, le modalità così spesso diversi dai nostri (cf Mt 13,47-50 il grano e la zizzania).

    Nessuno lo possiede o lo possederà in pienezza. Nessuno può dire “eccolo qui o eccolo là”. Esso è un tesoro nascosto (cf Mt 13,44), rivelato ai piccoli (“Ti benedico o Padre….”).

    Per ora il regno è lievito, è sale, è luce (cf Mt 13,33; 5,13-14).

    L’umile e fiduciosa attesa del dono ci aiuta ad evitare ogni forma di fanatismo che porterebbe ad identificare in modo ottuso e meschino noi stessi, i nostri progetti e realizzazioni con il Regno stesso di Dio, rischio che la Chiesa in certe epoca ha più di una volta  vissuto.

    “Che il regno non sia di questo mondo ci libera così dalle utopie totalitarie (da cui la cristianità non si è sempre preservata). Ma che esso affiori già nella pace, nella bellezza, nella tenerezza della liturgia e della contemplazione, ci libera dalle delusioni e dalle amarezze che ci rendono cinici e crudeli” (O. Clement, Anacronache).


    SCHEDA DI LAVORO

    1.       Il regno di Dio è come un granellino di senape… è come un seme che un uomo getta nella terra…

    Possiedo questa fede nella presenza operante del regno?

    Riesco a vederne i segni di presenza e di crescita in me e attorno a me? Provo ad elencarne alcuni.

    2. Il regno è come il lievito….

    C’è in me questo lievito? Esso fermenta il mio modo di vivere?

    Se questo non avviene: perché, quali ne sono i motivi? Cosa potrei fare?

    Mi sento attirato e impregnato da altri titpi di lievito?

    3.       Il Signore è re in eterno, per sempre…

    La signoria di Dio nella mia vita: la riconosco? Come si concretizza la mia sottomissione ad essa?

    Senti che la tua vita è affidata a lui in tutta sicurezza?

    4.       Annunzierò le tue meraviglie o Signore…

    Il regno è testimoniato dalla tua vita. Esso si manifesta tramite le tue azioni, il saper porre cioè germi del regno lungo i solchi della tua storia che è quella di tutta l’umanità.

    So collocare questi semi del regno?

    Se si in che modo?

    Se no: perché? Cosa potrei fare affinché questo si concretizzi?



    [1]Prendiamo nota che la forte critica che l’ebraismo rivolge al cristianesimo sta proprio in questo. Come potete dire che è giunto il Messia quanto le profezie legate alla sua venuta prevedono l’instaurarsi definitivo del Regno di Dio? (Cf Is 11,6-9; 2,4; Ez 36,25-35) Nulla è cambiato nel mondo. Permangono violenze, ingiustizie, soprusi, malattie morte. Cosa rispondereste?

    [2]Interessante notare come si presenteranno due correnti di riflessione teologica all’interno del giudaismo.  Una prima penserà che il regno consista in una restaurazione della dinastia davidica. Anche all’interno del NT alcuni discepoli si presentano con quest’attesa (cf Mc 10,37). Una seconda, più spiritualista, penserà il regno di Dio come un ordine radicalmente nuovo, non solo annientamento dei nemici di Israele ma addirittura dello stesso male.

  • 25 Gen

    SIA SANTIFICATO IL TUO NOME

    di p. Attilio Franco Fabris


    Più che trattarsi di domande le prime tre richieste del Padre Nostro esprimono degli auspici, dei desideri, delle attese:

    – sia santificato il tuo nome

    – venga il tuo regno

    – sia fatta la tua volontà

    A questo proposito il Catechismo della Chiesa Cattolica commenta così: E’ proprio dell’amore pensare innazi tutto a colui che si ama. In ognuna di queste tre petizioni noi non “ci” nominiamo ma siamo presi dal “desiderio ardente” dall”ansia” stessa del Figlio diletto per la gloria del Padre suo (2803).

    Il primo di questi desideri è dunque che il santo Nome di Dio sia santificato.

    Si tratta per noi di una espressione strana per noi (è sempre stata per lo più intesa come il rispettare il nome di Dio non bestemmiandolo), ma comunissima nel giudaismo.

    Troviamo ad esempio nella preghiera quotidiana dello Qaddish:

    Sia glorificato e santificato
    il tuo grande Nome
    nel mondo che egli ha creato

    secondo la sua volontà

    E nella terza delle Diciotto Benedizioni leggiamo:

    Tu sei santo e il tuo nome è santo.
    Noi santificheremo il tuo nome nel mondo,
    come è santificato nell’alto dei cieli.

    NELL’ANTICO TESTAMENTO

    Per la cultura semitica il nome non era una semplice designazione convenzionale, esso era intimamente legato alla persona, si identifica con essa.

    Dare un nome nuovo significava ad esempio affidare a quella persona una nuova missione, un nuovo modo di essere, implicava un profondo cambiamento e un potere su di lui (cfr il romanzo di Gary Jennings, L’Azteco, in cui il protagonista Mixtli lo scrivano dovrà cambiare nel suo cammino diversi nomi a seconda con i potenti con cui si troverà a che fare).

    Ricevere un nome da qualcuno significava riconoscere di essere dipendenti da Lui (cf Gn 17,5; 1,3-10; 2,20: Non ti chiamerai più Abram ma Abraham perché padre di molti popoli io ti costituirò)).

    Di conseguenza conoscere il nome significava possedere il segreto intimo della persona, avere un potere su di lui, da qui il suo valore magico.

    Israele conosceva il nome santo di Dio che gli era stato rivelato (cf Es 3,14-15; 6,2-3), ma doveva impegnarsi a non ingiuriarlo mai nè impiegare per maledizioni (cf Lv 24,11-15), nè per giuramenti o altro (cf Lv 19,12; Es 20,7).

    Nel post esilio il rispetto del Nome giunse a tal punto che solo il Sommo Sacerdote lo poteva pronunciare e una sola volta all’anno, nel Santo dei Santi nel giorno dell’espiazione (Yom Kippur). La qual cosa fece sì che si perdesse l’ esatta pronuncia del sacro Tetragramma JHWH.

    Incontrandolo nella lettura della Scrittura doveva essere sempre sostituito da un titolo similare (es Adonai) aggiungendo la formula “Benedetto sia il suo Santo Nome”.

    Ad un primo livello dunque capiamo che santificare  il nome di Dio significa rispettarlo, onorarlo, mai profanarlo, non usarlo in modo magico al fine cioè di voler piegare Dio al proprio servizio (cf Lv 18,21; 20,3).

    Il verbo “santificare” equivale a separare, distinguere.

    Dio è il “Tre volte Santo” (cf Is 6,1-5), ovvero Colui che è totalemente “Altro” dall’uomo, distinto e separato da lui.

    Santificare il nome di Dio ad un secondo livello significa dunque riconoscere che egli è Unico, ineguagliabile, ineffabile nel suo mistero. Ed era in questo senso che il giudaismo interpretava il termine ehad-Uno nello Shemà Israel.

    Israele santificava il nome di Dio professando e magnificando la sua azione nella storia, narrando le opere da lui compiute, manifestando lo stupore per il suo agire e rivelarsi. Ed è questo un terzo livello:

    Anche lo starniero, che non appartiene ad Israele tuo popolo, se viene da un paese lontano a causa del tuo nome perché si sarà sentito parlare del tuo grande nome, della tua mano potente e del tuo braccio teso, se egli viene a pregare in questo tempio, tu ascoltalo dal cielo, luogo della tua dimora, e soddisfa tutte le richieste dello straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome, ti temano come Israele tuo popolo e sappiano che al tuo nome è stato dedicato questo tempio che io ho costruito” (1Re 8,41-43).

    Quindi il nome di Dio è glorificato-santificato quando si annunziano le sue opere. Israele è chiamato ad essere un inno vivente alla santità-unicità di Dio, popolo nel quale JHWH manifesta la sua gloria:

    Vedendo ciò che ho fatto in mezzo a loro,

    santificheranno il mio nome,

    santificheranno il Santo di Giacobbe,

    tremeranno di fronte al Dio di Israele” (Is 29,23).

    E’ tutta la storia di Israele che santifica il nome del Signore, e Israele ben conosce questa sua missione. Compito dei padri sarà di narrare ai figlio le grandi opere di JHWH iniziandoli alla santificazione del nome:

    Grande è il Signore e degno di ogni lode,

    la sua grandezza non si può misurare.

    Una generazione narra all’altra le sue opere,

    annunzia le sue meraviglie.

    Diffondono il ricordo della sua bontà immensa” (Sl 145,3-7).

    Ma vi è uncora un quarto livello. Occorre partire dalla considerazione che anche la santificazione del nome fatta nella liturgia splendida del Tempio e nei riti non è sufficiente, e i profeti lo ricorderanno insistentemente; è indispensabile che tutto questo sia accompagnato da una vita “santa” ovvero conforme ai dettami della Torah:

    Siate santi, perché io il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 22,31)

    Osservate i miei comandi, non profanate il mio nome, perché io mi manifesti santo in mezzo agli isrraeliti. Io sono il Signore che vi santifico”

    L’ingiustizia, il sopruso, l’idolatria sono profanazioni del nome santissimo di Dio:

    Hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali; calpestano come polvere della terra la testa dei poveri… e così hanno profanato il mio santo nome” (Am 2,6-7).

    Arriviamo ad un testo fondamentale per entrare in una ancor più profonda comprensione dell’espressione “santificare il nome di Dio”. Si tratta di Ez 36,20-38:

    “Giunsero fra le nazioni dove erano spinti e disonorarono il mio nome santo, perché di loro si diceva: Costoro sono il popolo del Signore e tuttavia sono stati scacciati dal suo paese. Ma io ho avuto riguardo del mio nome santo, che gli Israeliti avevano disonorato fra le genti presso le quali sono andati.  Annunzia alla casa d’Israele: Così dice il Signore Dio: Io agisco non per riguardo a voi, gente d’Israele, ma per amore del mio nome santo, che voi avete disonorato fra le genti presso le quali siete andati.  Santificherò il mio nome grande, disonorato fra le genti, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le genti sapranno che io sono il Signore – parola del Signore Dio – quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi.

    Il profeta sta scrivendo al popolo esiliato, ridotto in schiavitù. Tale situazione è letta come conseguenza dell’infedeltà alla Legge. I pagani, un tempo meravigliati per il successo di Israele, ora lo deridono e con esso un Dio che si è dimostrato non più dalla loro parte.

    Ma ecco che JHWH non sopporta che il suo Nome a motivo di Israele sia disonorato. Egli dunque prenderà sicuramente posizione al fine di difendere il suo nome. In che modo? Ricostruendo il suo popolo, riportandolo nella terra promessa, soprattutto dando un cuore nuovo ad Israele affinché non si allontani più da lui, santificando così il suo Nome santo davanti a tutti i popoli.

    Nel parlare di ciò che Dio compie, la spiritualità giudaica usava la forma passiva (passivo teologico onde evitare il Nome di Dio): “sarete giudicati”, “vi sarà dato…” equivale a “Dio vi giudicherà”, “Dio vi darà”…

    “Sia santificato il tuo nome” lo traduciamo con “O Dio santifica il tuo nome”.

    Gesù dirà ad esempio: “Padre glorifica il tuo nome” (Gv 12,28).

    Non siamo noi anzitutto a glorificare Dio, non ne ha bisogno!

    Il suo nome è glorificato nella sua opera di salvezza gratuita nei confronti dell’uomo: il cieco, il paralitico, il peccatore che sperimentano la salvezza se ne tornano “lodando e glorificando Dio”.

    Nel Pater noi chiediamo di poter sperimentare al più presto la sua opera di salvezza in noi, nella Chiesa, nel mondo intero.

    Una preghiera già esaudita dalla fedeltà di Dio anche se non ancora realizzata in modo definitivo, ma di cui possiamo già sin d’ora “assaggiare” gli anticipi. E di cui a volte, in momenti difficili, ci augurereremmo di vedere già realizzata pienamente.

    Speranza e desiderio ardente presente già nell’antico giudaismo: “Glorificato e santificato sia il suo grande nome nel mondo… E ciò avvenga ai nostri giorni, nel tempo di vita della casa di Israele, in fretta e in tempo prossimo”.

    A questo punto sorge una domanda: se è Dio che deve santificare il suo santo nome a che serve la nostra preghiera?

    La nostra supplica non cambia il cuore di Dio che rimane sempre fedele al suo patto, ma il nostro. Siamo noi che dobbiamo renderci disponibili ad accogliere la sua opera di salvezza. Che il suo nome sia santificato perciò nella nostra vita.

    IL NOME: MISTERO DELLA PERSONA

    In mezzo ad una massa di volti sconosciuti dà gioia il sentirsi chiamare improvvisamente per nome da una voce amica.

    Il mio nome risuona come un riconoscimento di me stesso come persona, esso è quella realtà che mi distingue dagli altri e che mi permette di entrare in relazione con l’altro.

    Senza un nome io non esisto. Quando incontriamo un bambino gli chiediamo infatti per prima cosa: Come ti chiami?

    Il nome è dunque non soltanto quella realtà che mi definisce ma altresì quella realtà che mi pone in relazione con qualcun altro: quando sono chiamato io esisto, io sono interpellato.

    Anche Dio ha rivelato al suo popolo il suo nome: JHWH (cf Es 3,14). Non è dunque un’astrazione, un principio anonimo di esistenza.

    Ma mentre rivelava il suo nome vi si nascondeva. JHWH significa infatti: “Io sarò”. E’ come se avesse detto: Da ciò che farò capirete chi sono.

    La rivelazione del suo nome lungi dal compiere la rivelazione diventa un invito pressante alla ricerca, perché Dio non si lascia afferrare: JHWH è Dio ineffabile, indicibili, indescrivibile.

    Gesù, che è l’esegesi del Padre (cf Gv 1), ci ha manifestato un altro nome di Dio: il suo essere Padre, il suo essere amore. Con la sua incarnazione, passione e morte ci ha detto chi è Dio.

    E’ in Gesù che il Nome del Dio Santo ci viene rivelato e donato, nella carne, come Salvatore: rivelato da ciò che egli è, dalla sua parola, dal suo sacrificio (CCC 2812).

    Il nuovo nome è dunque Amore (“Dio è Amore”). Per santificare il Nome noi dobbiamo unicamente rifugiarci nella croce di Cristo. Nella sua sofferenza e morte (O. Clèment).

    INVOCARE IL NOME DEL SIGNORE

    Dio ci conosce nome per nome. Di fronte a lui non siamo una massa.

    Un nome con il quale Dio ci interpella, intesse un dialogo, una relazione sponsale, paterna, amicale. Quando chiama qualcuno lo fa sempre con il suo nome.

    Invocare il nome santo di Dio è rispondere a questa chiamata, e questa invocazione può assumere tantissime sfaccettature:

    – un chiamare in causa Dio di fronte al dramma della sopfferenza umana: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34).

    – un atto di abbandono e resa nelle sue mani: “Padre nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46)

    – un grido di aiuto: “Padre passi da me se possibile questo calice”.

    Invocare il nome non è pretesa di piegare Dio: è lui il Signore, l’onnipotente, il creatore che chiama le stelle per nome (Is 40,26).

    SANTIFICARE IL NOME

    E’ Gesù colui che più di ogni altro ha santificato il Nome di Dio.

    Nell’Eucaristia memoriale vivo della sua morte e risurrezione, preghiera somma della Chiesa, noi santifichiamo il Nome di Dio. Nella liturgia della parola narriamo le sue meraviglie per noi santificando il suo Nome. La memoria di Dio nella vita ci porta a compiere opere tali da santificare il suo nome.  I nostri gesti di amore, di dono, di sacrificio sono occasione di lode al Padre da parte degli uomini (cf Mt 5,16), la nostra vita di fronte agli altri assume il compito di specchio di Dio:

    I serafini, lodando Dio, dicono: Santo, Santo, Santo; appunto le parole “sia santificato il tuo nome” significano che il suo nome sia glorificato. E’ come se dicessimo a Dio: Concedici di vivere in modo così puro e perfetto che tutti, vedendo noi, ti glorifichino. La perfezione del cristiano sta proprio in questo, nell’essere così irremprensibile in tutte le sue azioni, che chiunque lo vede, per esse rende lode a Dio” (s. Giovanni Cris., Om. In Matteo, 19)

    In fin dei conti non possiamo santificare il Nome se non lasciandolo entrare nella nostra vita con la sua azione santificante. “Il nome santifica ed è santificato in un medesimo processo” (B. Standaert).

    Diceva Nieztche: Mostrami che tu sei redento e io crederò al tuo Redentore.


    L’INIZIAZIONE CRISTIANA

    Il battesimo: è l’evento di salvezza posto all’inizio della nostra vita in cui il nostro nome è messo in relazione al nome del Padre, del Figlio e dello Spirito. La Trinità ristabilisce in noi la sua dimora di gloria-santità.

    Nella confermazione Dio ci chiama ancora per nome per affidarci un compito, una missione dentro la comunità cristiana. La nostra vocazione come missione-testimonianza della santità di Dio

    Nell’Eucaristia, solenne invocazione del Nome, la Trinità rinnova l’alleanza con noi. Ci si riconosce Uno dinanzi all’altro. Essa è memoriale delle grandi opere compiute da Dio in cui egli è santificato.

    La catechesi e la predicazione assumeranno ancora la tonalità del racconto come ambito in cui Dio rivela il suo nome e in cui viene santificato.

    NEL NOME DI GESU’

    Ogni preghiera liturgica è rivolta al Padre nel nome di Gesù nello Spirito Santo. Avviene così una duplice rivelazione:

    – la via che Dio ha percorso per arrivare a noi

    – la via che dobbiamo percorrere per andare a lui.

    E’ Cristo la via per giungere al Padre (cf Gv 14,6 Mostraci la via…).

    La nostra preghiera è dunque valida, efficace, se fatta nel suo nome:

    Gv 14,13-16; 15,16; 16,23-26

    Ed è lo Spirito di Gesù a suscitare in noi la preghiera: il grido di Abbà (cf Rm 8,15-27).

    La nostra preghiera raramente si rivolge al Padre (forse sintomo dell’abbandono della tradizione biblica e liturgica). Ci sembra non conveniente “scomodare” il Padre, non si ha familiarità con lui. Anche Cristo spesso è rispedito in cielo, lontano da noi… non ci resta che Maria!

    Ma la tradizione biblica  ci mostra un Padre tenero e “materno”, di cui Gesù è il volto umano. Nel suo Spirito ci rivolgiamo al Padre in tutta fiducia (Ebr 4,14).

    Se esasperiamo il ruolo dei santi rischiamo di adombrare questo volto paterno di Dio, ricadendo in una sorta di mitologia diversificata secondo tante “competenze”.

    NELL’EDUCAZIONE

    – Il nome di Dio va sempre abbinato a realtà positive. Non va usato come deterrente o come ricatto. – Ci si abitui a rivolgersi al Padre nella lode e nel rendimento di grazie per i suoi doni.

    – Alla luce del suo Nome vengAno letti a grandi fatti della vita.

    – Si purifichi continuamente la conoscenza di Dio. Vi è troppa ignoranza in questo campo d essa genera spesso solo puerilità, magismo, paure


    SCHEDA DI LAVORO

    1.       Alla luce di Ez.  36,20-38 è JHWH che santifica il suo nome in mezzo alle nazioni nonostante il peccato di Israele occasione di denigrazione del suo Nome.

    Dio è fedele nonostante il nostro male.

    Questo ravviva la nostra fiducia nella sua misericordia. E’ presente nel tuo cammino spirituale, oppure dinanzi al male ci scoraggiamo, o addirittura vi si persevera senza prendere coscienza che esso diviene occasione di non santificazione del nome?

    2.       Il nome di Dio è santificato quando si annunziano le sue opere.

    Prova a ripercorrere la tua storia, scoprivi alcune opere di Dio.

    Quali sono?

    Sono diventate occasione per santificare il suo Nome?

    3.       Chiedere che il Nome sia santificato significa rendersi disponibile il nostro cuore all’opera che Dio vuole compiere in noi a beneficio della Chiesa e del mondo.

    Senti in te questo desiderio e disponibilità?

    Cosa fare da parte nostra per rendersi concretamente disponibili?

    Quali ostacoli secondo te vengono a frapporsi?

    Cosa fare per cercare di abbatterli?

    4.       Prova a stendere per iscritto un tuo commento e una preghiera che accompagni questa  prima invocazione del Padre Nostro.

  • 25 Gen

    CHE SEI NEI CIELI

    di p. Attilio Franco Fabris

    L’espressione “che sei nei cieli” non indica evidentemente un luogo ma un modo d’essere.

    Era questa un’espressione comunissima al tempo in cui Matteo scrisse il suo vangelo. Ad esempio un rabbino contemporaneo degli apostoli dice: “Le pietre dell’altare fanno nascere la pace fra Israele e il Padre suo che è nei cieli”.

    Quale il significato di questa espressione?

    Gli antichi erano meravigliati dalla profondità del cielo a loro inacessibile che rievocava il mistero, la trascendenza, linfinito.

    Nella loro cosmologia il cielo appariva loro come una realtà solida, costituito da acque trattenute da un’immenso velo costellato di stelle. Nel cielo erano i depositi dell’acqua, della grandine e della neve (cf Gb 37,9; 38,22). Tutta la costruzione del cielo poggiava su solidissime colonne (“Io tengo salde le sue colonne”).

    Al di sopra di tutto il trono di Dio, la sua dimora, la sua corte celeste, il suo palazzo (cf Sal 2,2s; 104,2; Gb 1,6-12).

    Dio comunicava con la terra tramite gli angeli; essi scendevano tramite scale (cf Gn 28,12); in seguito per influsso delle raffigurazioni persiane essi si serviranno di ali.

    L’espressione “che sei nei cieli” sta ad indicare dunque la totale trascendenza di Dio, ma non la sua lontananza! Evitando anche la banalizzazione e la proiezione di false immagini di Dio.

    Ma collocata subito all’inizio dopo la parola Padre essa vuole anzitutto eliminare ogni possibile confusione tra i “padri terreni” e il “Padre” da cui proviene ogni paternità.

    Certo l’espressione che “sei nei cieli” unita a “Padre”, può generare in noi un certo disagio: un vero padre non è mai lontano, staccato, inacessibile.

    Tuttavia nella fede cristiana siamo chiamati a conciliare questi due aspetti di Dio; la sua paternità non esclude la sua trascendenza e viceversa.

    E’ un mistero di amore che ci avvolge e che nello stesso tempo ci trascende infinitamente.

    Il peccato ci ha allontanato “dai cieli”, sono essi la “nostra patria”. Viviamo come esiliati: Sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste (2Cor 5,2).

    La nostra conversione potrebbe essere letta come un ritorno al cielo. E’ un cielo ormai aperto: “si spalancarono i cieli” durante il battesimo di Gesù, e da allora non sono più richiusi all’uomo. In lui cielo e terra sono ormai eternamente riconciliati. Paolo dirà: Il Padre ci ha fatti sedere (ovvero possiamo rimanervi, sono ormai nostra dimora) nei cieli in Cristo (Ef 3,6).

    La Lettera a Diogneto riporta la stessa riflessione: I cristiani sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Passano la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo (5,8).

    LA PREGHIERA CRISTIANA

    Guardando tre gesti con cui accompagnamo la nostra preghiera cogliamo alcuni elementi della nostra fede, ovvero della nostra relazione con Dio.

    Anzitutto vediamo che i cristiani pregano il Pater stando in piedi

    I mussulmani invece pregano stesi a terra rivelando la loro sottomissione a Dio. Pregando coì essi sottolineano la sua assoluta trascendenza e lontananza.

    Noi preghiamo il Padre nostro stando in piedi. E’ la posizione di Colui che è risorto, è il nostro identificarci con Cristo.

    Nel battesimo siamo infatti passati da morte a vita. Gesù ci ha fatto dono del suo stesso Spirito. Cristo risorto così vive in noi (cf Gal 2,20).

    Non ci sentiamo poi schiacciati dalla trascendenza di Dio, siamo costituiti nella libertà e nella filiolanza nei suoi confronti.

    Preghiamo volgendo lo sguardo in alto, verso il cielo. Luogo della trascendenza di Dio.

    Vogliamo vedere le cose con gli occhi di Cristo sempre rivolti al Padre (cf Canone Romano): infatti è in Lui che sta la verità di noi stessi, della realtà che ci circonda e della storia che attraversiamo.

    Così diciamo  che egli è Padre che è nei cieli, vicino ma nello stesso tempo avvolto nel suo mistero.

    Scrive sant’Ambrogio: “ O uomo tu non osavi levare il tuo volto verso il cielo, rivolgevi i tuoi occhi verso terra, e, ad un tratto, hai ricevuto la grazia di Cristo: ti sono stati rimessi tutti i tuoi peccati. Da servo malvagio sei diventato un figlio buono… Leva, dunque, gli occhi tuoi al Padre… che ti ha redento per mezzo del Figlio e di: Padre nostro!… Ma non rivendicare per te un rapporto particolare. Del solo Cristo è Padre in modo speciale, per noi tutti è Padre in comune, perhé ha generato lui solo, noi invece, ci ha creati. Dì anche tu per grazia: Padre nostro, per meritare di essere suo figlio” (De Sacram. 5,19).

    Si prega con le braccia allargate.

    Ed è questo il gesto spontaneo con cui il bambino corre incontro al papà o alla mamma.

    E’ pure il gesto indicante una disponibilità incondizionata, come quella di Gesù sulla croce: “Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato… Allora ho detto: Ecco io vengo per fare o Dio la tua volontà”(Ebr 10,5-7)

    E’ gesto di invocazione e di intercessione non solo per noi ma per il mondo intero.

    Non chiediamo con questo gesto che la volontà del Padre si pieghi alla nostra: al contrario è segno di apertura, disponibilità alla sua volontà; è la consegna di noi stessi.


    SCHEDA DI LAVORO

    1.       Ciascuno di noi lungo la sua storia, attraverso l’educazione e l’ambiente, viene a configurarsi un’immagine di Dio con dei tratti positivi e negativi. Si tratta di un’immagine il più delle volte “inconscia” ma che  proprio per questo rischia di arrestare o di facilitare l’incontro con Dio.

    Non bisogna avere paura di queste immagini, determinante invece è prenderne coscienza. Senza scandalizzarsi se ci accorgiamo che esse sono forse ben lontane dal volto del Padre rivelatoci da Gesù.

    Prova a guardare il tuo mondo interiore, soprattutto quello dei sentimenti, l’idea di Dio da quali sentimenti è accompagnata, quali idee ed immagini suscita?

    Sotto quali tratti è vicina all’immagine del Padre di Gesù?

    Per quali ne è invece lontana?

    2.       Quale esperienze ricordi come fondamentali nella tua esperienza di Dio?

    3.       Quale immagine di Dio e di uomo emerge dalla preghiera di Gesù presentata  in Mc 14,36-37? Prova a richiamare altri testi in cui Gesù rivela il volto di Dio come Padre.

    4.       Quale gesto spontaneamente saresti portato a fare recitando il Padre nostro?

    5.       Gesù insegnando il Padre nostro ci invita ad uscire dal nostro individualismo e da una concezione gretta di Dio. Dio è Padre di tutti, e in una famiglia uno ha a cuore i bisogni dell’altro.

    Prendo in considerazione la mia preghiera e quella della mia famiglia-comunità.

    Essa possiede la caratteristiche di essere costantemente aperta a tutta la Chiesa e al mondo intero?

    Ti sforzi di superare la tentazione di una preghiera ripiegata solo su te stesso e le tue necessità?

    6.       Dio è vicino e nello stesso tempo costantemente trascendente. Sempre da ricercare e scoprire. Il suo mistero è insondabile.

    Per me Dio Padre è vicino o lontano? La sua trascendenza mi allontana da lui, oppure diviene spinta alla ricerca umile e fiduciosa della preghiera?

    7.       I “cieli” in cui ha dimora il Padre sono oggetto del tuo desiderio. Il tuo cuore è rivolto là dove sta assiso Cristo Gesù alla destra del Padre?

    8.        Prega lentamente il Pater immedesimandoti in Gesù.

    Esprimi questa tua conformazione a lui con dei gesti:

    – le braccia allargate che ti ricordano l’offerta della sua vita sulla croce e la sua disponibilità

    – in piedi facendo memoria della sua risurrezione dai morti.

    – gli occhi rivolti al cielo dove è  la dimora del Padre.

    – il cuore aperto a tutto il mondo presentato al Padre nell’intercessione.

  • 24 Gen

    PADRE NOSTRO

    di p. Attilio Franco Fabris

    L’aggettivo “nostro” nel Pater è riferito ovviamente a Dio (“di noi”), non sta ad indicare certamente possesso.

    Siamo noi il suo popolo ed egli è il nostro Dio. Si tratta di un’appartetenza reciproca che ci è stata offerta gratuitamente nell’alleanza:

    Io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio (Ap 21,7).

    Ancora: nostro indica la comunità, la Chiesa , la famiglia di Dio nella quale siamo stati generati alla fede mediante il nostro battesimo.

    E quando preghiamo l’Orazione del Signore, anche nel silenzio e solitudine della nostra stanza, sempre noi ci dobbiamo sentire inseriti nella grande pregheira della Chiesa: in questo senso non esiste per me cristiano una preghiera mia.

    Così il Padre nostro ci fa uscire dal nostro individualismo. E per essere pregato in verità “le nostre divisioni e i nostri antagonismi devono essere superati”(ccc 2792).

    E’ la preghiera che deve abbattere ogni frontiera e ostacolo che si frappone agli altri.

    E nella Preghiera del Signore ci presentiamo portando tutti coloro per i quali il Figlio ha offerto se stesso: l’amore di Dio è senza frontiere, anche la nostra preghiera deve esserlo (CCC 2792).

    Pregando così il Padre Nostro ci collochiamo sicuramente nell’ambito della preghiera di Gesù, la sua grande preghiera sacerdotale, nella quale lui stesso chiese che tutti siano una cosa sola.

    Il Pater, lo possiamo affermare, è la preghiera che ci fa passare dal Tu al Noi.

    Constatiamo infatti che nella prima parte al centro vi è un Tu:

    – il tuo nome

    – il tuo regno

    – la tua volontà.

    Nella seconda parte predomina il noi:

    – da a noi il nostro pane quotidiano

    – rimetti a noi i nostri debiti

    – non indurre noi in tentazione

    – libera noi dal male.

    Dal Tu del Padre passiamo ad noi scoprendo in tal modo l’altissima nostra dignità. Siamo figli, siamo un unico corpo per il battesimo e l’eucaristia, siamo un’unica famiglia, siamo fratelli e sorelle in Cristo con un legame più forte che quello del sangue (Mt 23,8).

    In famiglia pregare insieme il Pater significa riconoscere gli uni di fronte agli altri, in una comune professione di fede, la comune paternità di Dio da cui procede ogni altra paternità. Questo riconoscimento comune è garanzia di libertà, di dignità e responsabilità vicendevole.

    In una comunità cristiana (religiosa) significa riconoscere che si è famiglia che trova il suo punto di riferimento non in se stessa, ma nel Padre da cui trae la propria origine e la sua ragione d’essere.

    Ci si riconosce così figli di un unico padre e fratelli non tanto per un legame fisico di sangue, ma per una “consaguineità” di fede ancor più profonda. “Chi fa la volontà del Padre, questi è fratello, sorella e madre”.

    Comunità che si percepisce Corpo di Cristo in cammino verso l’esperienza della comunione.

  • 23 Gen

    Con grande gioia vi accolgo in questo luogo solenne e ricco di arte e di memorie. Rivolgo a tutti e a ciascuno il mio cordiale saluto, e vi ringrazio per aver accolto il mio invito. Con questo incontro desidero esprimere e rinnovare l’amicizia della Chiesa con il mondo dell’arte, un’amicizia consolidata nel tempo, poiché il Cristianesimo, fin dalle sue origini, ha ben compreso il valore delle arti e ne ha utilizzato sapientemente i multiformi linguaggi per comunicare il suo immutabile messaggio di salvezza. Questa amicizia va continuamente promossa e sostenuta, affinché sia autentica e feconda, adeguata ai tempi e tenga conto delle situazioni e dei cambiamenti sociali e culturali. Ecco il motivo di questo nostro appuntamento. Ringrazio di cuore Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per averlo promosso e preparato, con i suoi collaboratori, come pure per le parole che mi ha poc’anzi rivolto. Saluto i Signori Cardinali, i Vescovi, i Sacerdoti e le distinte Personalità presenti. Ringrazio anche la Cappella Musicale Pontificia Sistina che accompagna questo significativo momento. Protagonisti di questo incontro siete voi, cari e illustri Artisti, appartenenti a Paesi, culture e religioni diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa cattolica e di non restringere gli orizzonti dell’esistenza alla mera materialità, ad una visione riduttiva e banalizzante. Voi rappresentate il variegato mondo delle arti e, proprio per questo, attraverso di voi vorrei far giungere a tutti gli artisti il mio invito all’amicizia, al dialogo, alla collaborazione.

    Alcune significative circostanze arricchiscono questo momento. Ricordiamo il decennale della Lettera agli Artisti del mio venerato predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II. Per la prima volta, alla vigilia del Grande Giubileo dell’Anno 2000, questo Pontefice, anch’egli artista, scrisse direttamente agli artisti con la solennità di un documento papale e il tono amichevole di una conversazione tra “quanti – come recita l’indirizzo –, con appassionata dedizione, cercano nuove «epifanie» della bellezza”. Lo stesso Papa, venticinque anni or sono, aveva proclamato patrono degli artisti il Beato Angelico, indicando in lui un modello di perfetta sintonia tra fede e arte. Il mio pensiero va, poi, al 7 maggio del 1964, quarantacinque anni fa, quando, in questo stesso luogo, si realizzava uno storico evento, fortemente voluto dal Papa Paolo VI per riaffermare l’amicizia tra la Chiesa e le arti. Le parole che ebbe a pronunciare in quella circostanza risuonano ancor oggi sotto la volta di questa Cappella Sistina, toccando il cuore e l’intelletto. “Noi abbiamo bisogno di voi – egli disse -. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione… voi siete maestri. E’ il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità” (Insegnamenti II, [1964], 313). Tanta era la stima di Paolo VIIbid., 314). In quella circostanza, Paolo VI per gli artisti, da spingerlo a formulare espressioni davvero ardite: “E se Noi mancassimo del vostro ausilio – proseguiva –, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte” ( assunse l’ impegno di “ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti”, e chiese loro di farlo proprio e di condividerlo, analizzando con serietà e obiettività i motivi che avevano turbato tale rapporto e assumendosi ciascuno con coraggio e passione la responsabilità di un rinnovato, approfondito itinerario di conoscenza e di dialogo, in vista di un’autentica “rinascita” dell’arte, nel contesto di un nuovo umanesimo.

    Quello storico incontro, come dicevo, avvenne qui, in questo santuario di fede e di creatività umana. Non è dunque casuale il nostro ritrovarci proprio in questo luogo, prezioso per la sua architettura e per le sue simboliche dimensioni, ma ancora di più per gli affreschi che lo rendono inconfondibile, ad iniziare dai capolavori di Perugino e Botticelli, Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, Luca Signorelli ed altri, per giungere alle Storie della Genesi e al Giudizio Universale, opere eccelse di Michelangelo Buonarroti, che qui ha lasciato una delle creazioni più straordinarie di tutta la storia dell’arte. Qui è anche risuonato spesso il linguaggio universale della musica, grazie al genio di grandi musicisti, che hanno posto la loro arte al servizio della liturgia, aiutando l’anima ad elevarsi a Dio. Al tempo stesso, la Cappella Sistina è uno scrigno singolare di memorie, giacché costituisce lo scenario, solenne ed austero, di eventi che segnano la storia della Chiesa e dell’umanità. Qui, come sapete, il Collegio dei Cardinali elegge il Papa; qui ho vissuto anch’io, con trepidazione e assoluta fiducia nel Signore, il momento indimenticabile della mia elezione a Successore dell’apostolo Pietro.

    Cari amici, lasciamo che questi affreschi ci parlino oggi, attirandoci verso la méta ultima della storia umana. Il Giudizio Universale, che campeggia alle mie spalle, ricorda che la storia dell’umanità è movimento ed ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa. Nella sua drammaticità, però, questo affresco pone davanti ai nostri occhi anche il pericolo della caduta definitiva dell’uomo, minaccia che incombe sull’umanità quando si lascia sedurre dalle forze del male. L’affresco lancia perciò un forte grido profetico contro il male; contro ogni forma di ingiustizia. Ma per i credenti il Cristo risorto è la Via, la Verità e la Vita. Per chi fedelmente lo segue è la Porta che introduce in quel “faccia a faccia”, in quella visione di Dio da cui scaturisce senza più limitazioni la felicità piena e definitiva. Michelangelo offre così alla nostra visione l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine della storia, e ci invita a percorrere con gioia, coraggio e speranza l’itinerario della vita. La drammatica bellezza della pittura michelangiolesca, con i suoi colori e le sue forme, si fa dunque annuncio di speranza, invito potente ad elevare lo sguardo verso l’orizzonte ultimo. Il legame profondo tra bellezza e speranza costituiva anche il nucleo essenziale del suggestivo Messaggio che Paolo VI indirizzò agli artisti alla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, l’8 dicembre 1965: “A voi tutti – egli proclamò solennemente – la Chiesa del Concilio dice con la nostra voce: se voi siete gli amici della vera arte, voi siete nostri amici!” (Enchiridion Vaticanum, 1, p. 305). Ed aggiunse: “Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E questo grazie alle vostre mani… Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo” (Ibid.).

    Il momento attuale è purtroppo segnato, oltre che da fenomeni negativi a livello sociale ed economico, anche da un affievolirsi della speranza, da una certa sfiducia nelle relazioni umane, per cui crescono i segni di rassegnazione, di aggressività, di disperazione. Il mondo in cui viviamo, poi, rischia di cambiare il suo volto a causa dell’opera non sempre saggia dell’uomo il quale, anziché coltivarne la bellezza, sfrutta senza coscienza le risorse del pianeta a vantaggio di pochi e non di rado ne sfregia le meraviglie naturali. Che cosa può ridare entusiasmo e fiducia, che cosa può incoraggiare l’animo umano a ritrovare il cammino, ad alzare lo sguardo sull’orizzonte, a sognare una vita degna della sua vocazione se non la bellezza? Voi sapete bene, cari artisti, che l’esperienza del bello, del bello autentico, non effimero né superficiale, non è qualcosa di accessorio o di secondario nella ricerca del senso e della felicità, perché tale esperienza non allontana dalla realtà, ma, al contrario, porta ad un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall’oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso, bello.

    Una funzione essenziale della vera bellezza, infatti, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia” aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto. L’espressione di Dostoevskij che sto per citare è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere: “L’umanità può vivere – egli dice – senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui”. Gli fa eco il pittore Georges Braque: “L’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura”. La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell’esistenza. La ricerca della bellezza di cui parlo, evidentemente, non consiste in alcuna fuga nell’irrazionale o nel mero estetismo.

    Troppo spesso, però, la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa. L’autentica bellezza, invece, schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano. Giovanni Paolo II, nella Lettera agli Artisti, cita, a tale proposito, questo verso di un poeta polacco, Cyprian Norwid: “La bellezza è per entusiasmare al lavoro, / il lavoro è per risorgere” (n. 3). E più avanti aggiunge: “In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, l’arte è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione” (n. 10). E nella conclusione afferma: “La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente” (n. 16).

    Queste ultime espressioni ci spingono a fare un passo in avanti nella nostra riflessione. La bellezza, da quella che si manifesta nel cosmo e nella natura a quella che si esprime attraverso le creazioni artistiche, proprio per la sua caratteristica di aprire e allargare gli orizzonti della coscienza umana, di rimandarla oltre se stessa, di affacciarla sull’abisso dell’Infinito, può diventare una via verso il Trascendente, verso il Mistero ultimo, verso Dio. L’arte, in tutte le sue espressioni, nel momento in cui si confronta con i grandi interrogativi dell’esistenza, con i temi fondamentali da cui deriva il senso del vivere, può assumere una valenza religiosa e trasformarsi in un percorso di profonda riflessione interiore e di spiritualità. Questa affinità, questa sintonia tra percorso di fede e itinerario artistico, l’attesta un incalcolabile numero di opere d’arte che hanno come protagonisti i personaggi, le storie, i simboli di quell’immenso deposito di “figure” – in senso lato – che è la Bibbia, la Sacra Scrittura. Le grandi narrazioni bibliche, i temi, le immagini, le parabole hanno ispirato innumerevoli capolavori in ogni settore delle arti, come pure hanno parlato al cuore di ogni generazione di credenti mediante le opere dell’artigianato e dell’arte locale, non meno eloquenti e coinvolgenti.

    Si parla, in proposito, di una via pulchritudinis, una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica. Il teologo Hans Urs von Balthasar apre la sua grande opera intitolata Gloria. Un’estetica teologica con queste suggestive espressioni: “La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto”. Osserva poi: “Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione”. E conclude: “Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare”. La via della bellezza ci conduce, dunque, a cogliere il Tutto nel frammento, l’Infinito nel finito, Dio nella storia dell’umanità. Simone Weil scriveva a tal proposito: “In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio. C’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile. Per questo ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa”. Ancora più icastica l’affermazione di Hermann Hesse: “Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio”. Facendo eco alle parole del Papa Paolo VI, il Servo di Dio Giovanni Paolo II ha riaffermato il desiderio della Chiesa di rinnovare il dialogo e la collaborazione con gli artisti: “Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte” (Lettera agli Artisti, n. 12); ma domandava subito dopo: “L’arte ha bisogno della Chiesa?”, sollecitando così gli artisti a ritrovare nella esperienza religiosa, nella rivelazione cristiana e nel “grande codice” che è la Bibbia una sorgente di rinnovata e motivata ispirazione.

    Cari Artisti, avviandomi alla conclusione, vorrei rivolgervi anch’io, come già fece il mio Predecessore, un cordiale, amichevole ed appassionato appello. Voi siete custodi della bellezza; voi avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano. Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza! Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità! E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita! La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la méta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente.

    Sant’Agostino, cantore innamorato della bellezza, riflettendo sul destino ultimo dell’uomo e quasi commentando ante litteram la scena del Giudizio che avete oggi davanti ai vostri occhi, così scriveva: “Godremo, dunque di una visione, o fratelli, mai contemplata dagli occhi, mai udita dalle orecchie, mai immaginata dalla fantasia: una visione che supera tutte le bellezze terrene, quella dell’oro, dell’argento, dei boschi e dei campi, del mare e del cielo, del sole e della luna, delle stelle e degli angeli; la ragione è questa: che essa è la fonte di ogni altra bellezza” (In Ep. Jo. Tr. 4,5: PL 35, 2008). Auguro a tutti voi, cari Artisti, di portare nei vostri occhi, nelle vostre mani, nel vostro cuore questa visione, perché vi dia gioia e ispiri sempre le vostre opere belle. Mentre di cuore vi benedico, vi saluto, come già fece Paolo VI, con una sola parola: arrivederci!

  • 23 Gen

    L’artista, immagine di Dio Creatore

    1. Nessuno meglio di voi artisti, geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all’alba della creazione, guardò all’opera delle sue mani. Una vibrazione di quel sentimento si è infinite volte riflessa negli sguardi con cui voi, come gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, avete ammirato l’opera del vostro estro, avvertendovi quasi l’eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarvi.

    Per questo mi è sembrato non ci fossero parole più appropriate di quelle della Genesi per iniziare questa mia Lettera a voi, ai quali mi sento legato da esperienze che risalgono molto indietro nel tempo ed hanno segnato indelebilmente la mia vita. Con questo scritto intendo mettermi sulla strada di quel fecondo colloquio della Chiesa con gli artisti che in duemila anni di storia non si è mai interrotto, e si prospetta ancora ricco di futuro alle soglie del terzo millennio.

    In realtà, si tratta di un dialogo non dettato solamente da circostanze storiche o da motivi funzionali, ma radicato nell’essenza stessa sia dell’esperienza religiosa che della creazione artistica. La pagina iniziale della Bibbia ci presenta Dio quasi come il modello esemplare di ogni persona che produce un’opera: nell’uomo artefice si rispecchia la sua immagine di Creatore. Questa relazione è evocata con particolare evidenza nella lingua polacca, grazie alla vicinanza lessicale fra le parole stwórca (creatore) e twórca (artefice).

    Qual è la differenza tra « creatore » ed « artefice? » Chi crea dona l’essere stesso, trae qualcosa dal nulla — ex nihilo sui et subiecti, si usa dire in latino — e questo, in senso stretto, è modo di procedere proprio soltanto dell’Onnipotente. L’artefice, invece, utilizza qualcosa di già esistente, a cui dà forma e significato. Questo modo di agire è peculiare dell’uomo in quanto immagine di Dio. Dopo aver detto, infatti, che Dio creò l’uomo e la donna « a sua immagine » (cfr Gn 1,27), la Bibbia aggiunge che affidò loro il compito di dominare la terra (cfr Gn 1,28). Fu l’ultimo giorno della creazione (cfr Gn 1,28-31). Nei giorni precedenti, quasi scandendo il ritmo dell’evoluzione cosmica, Jahvé aveva creato l’universo. Al termine creò l’uomo, il frutto più nobile del suo progetto, al quale sottomise il mondo visibile, come immenso campo in cui esprimere la sua capacità inventiva.

    Dio ha, dunque, chiamato all’esistenza l’uomo trasmettendogli il compito di essere artefice. Nella « creazione artistica » l’uomo si rivela più che mai « immagine di Dio », e realizza questo compito prima di tutto plasmando la stupenda « materia » della propria umanità e poi anche esercitando un dominio creativo sull’universo che lo circonda. L’Artista divino, con amorevole condiscendenza, trasmette una scintilla della sua trascendente sapienza all’artista umano, chiamandolo a condividere la sua potenza creatrice. E ovviamente una partecipazione, che lascia intatta l’infinita distanza tra il Creatore e la creatura, come sottolineava il Cardinale Nicolò Cusano: « L’arte creativa, che l’anima ha la fortuna di ospitare, non s’identifica con quell’arte per essenza che è Dio, ma di essa è soltanto una comunicazione ed una partecipazione ».(1)

    Per questo l’artista, quanto più consapevole del suo « dono », tanto più è spinto a guardare a se stesso e all’intero creato con occhi capaci di contemplare e ringraziare, elevando a Dio il suo inno di lode. Solo così egli può comprendere a fondo se stesso, la propria vocazione e la propria missione.

    La speciale vocazione dell’artista

    2. Non tutti sono chiamati ad essere artisti nel senso specifico del termine. Secondo l’espressione della Genesi, tuttavia, ad ogni uomo è affidato il compito di essere artefice della propria vita: in un certo senso, egli deve farne un’opera d’arte, un capolavoro.

    E importante cogliere la distinzione, ma anche la connessione, tra questi due versanti dell’attività umana. La distinzione è evidente. Una cosa, infatti, è la disposizione grazie alla quale l’essere umano è l’autore dei propri atti ed è responsabile del loro valore morale, altra cosa è la disposizione per cui egli è artista, sa agire cioè secondo le esigenze dell’arte, accogliendone con fedeltà gli specifici dettami.(2) Per questo l’artista è capace di produrre oggetti, ma ciò, di per sé, non dice ancora nulla delle sue disposizioni morali. Qui, infatti, non si tratta di plasmare se stesso, di formare la propria personalità, ma soltanto di mettere a frutto capacità operative, dando forma estetica alle idee concepite con la mente.

    Ma se la distinzione è fondamentale, non meno importante è la connessione tra queste due disposizioni, la morale e l’artistica. Esse si condizionano reciprocamente in modo profondo. Nel modellare un’opera, l’artista esprime di fatto se stesso a tal punto che la sua produzione costituisce un riflesso singolare del suo essere, di ciò che egli è e di come lo è. Ciò trova innumerevoli conferme nella storia dell’umanità. L’artista, infatti, quando plasma un capolavoro, non soltanto chiama in vita la sua opera, ma per mezzo di essa, in un certo modo, svela anche la propria personalità. Nell’arte egli trova una dimensione nuova e uno straordinario canale d’espressione per la sua crescita spirituale. Attraverso le opere realizzate, l’artista parla e comunica con gli altri. La storia dell’arte, perciò, non è soltanto storia di opere, ma anche di uomini. Le opere d’arte parlano dei loro autori, introducono alla conoscenza del loro intimo e rivelano l’originale contributo da essi offerto alla storia della cultura.

    La vocazione artistica a servizio della bellezza

    3. Scrive un noto poeta polacco, Cyprian Norwid: « La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere ».(3)

    Il tema della bellezza è qualificante per un discorso sull’arte. Esso si è già affacciato, quando ho sottolineato lo sguardo compiaciuto di Dio di fronte alla creazione. Nel rilevare che quanto aveva creato era cosa buona, Dio vide anche che era cosa bella.(4) Il rapporto tra buono e bello suscita riflessioni stimolanti. La bellezza è in un certo senso l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza. Lo avevano ben capito i Greci che, fondendo insieme i due concetti, coniarono una locuzione che li abbraccia entrambi: « kalokagathía« , ossia « bellezza-bontà ». Platone scrive al riguardo: « La potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello ».(5)

    E vivendo ed operando che l’uomo stabilisce il proprio rapporto con l’essere, con la verità e con il bene. L’artista vive una peculiare relazione con la bellezza. In un senso molto vero si può dire che la bellezza è la vocazione a lui rivolta dal Creatore col dono del « talento artistico ». E, certo, anche questo è un talento da far fruttare, nella logica della parabola evangelica dei talenti (cfr Mt 25,14-30).

    Tocchiamo qui un punto essenziale. Chi avverte in sé questa sorta di scintilla divina che è la vocazione artistica — di poeta, di scrittore, di pittore, di scultore, di architetto, di musicista, di attore… — avverte al tempo stesso l’obbligo di non sprecare questo talento, ma di svilupparlo, per metterlo a servizio del prossimo e di tutta l’umanità.

    L’artista ed il bene comune

    4. La società, in effetti, ha bisogno di artisti, come ha bisogno di scienziati, di tecnici, di lavoratori, di professionisti, di testimoni della fede, di maestri, di padri e di madri, che garantiscano la crescita della persona e lo sviluppo della comunità attraverso quell’altissima forma di arte che è « l’arte educativa ». Nel vasto panorama culturale di ogni nazione, gli artisti hanno il loro specifico posto. Proprio mentre obbediscono al loro estro, nella realizzazione di opere veramente valide e belle, essi non solo arricchiscono il patrimonio culturale di ciascuna nazione e dell’intera umanità, ma rendono anche un servizio sociale qualificato a vantaggio del bene comune.

    La differente vocazione di ogni artista, mentre determina l’ambito del suo servizio, indica i compiti che deve assumersi, il duro lavoro a cui deve sottostare, la responsabilità che deve affrontare. Un artista consapevole di tutto ciò sa anche di dover operare senza lasciarsi dominare dalla ricerca di gloria fatua o dalla smania di una facile popolarità, ed ancor meno dal calcolo di un possibile profitto personale. C’è dunque un’etica, anzi una « spiritualità » del servizio artistico, che a suo modo contribuisce alla vita e alla rinascita di un popolo. Proprio a questo sembra voler alludere Cyprian Norwid quando afferma: « La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere ».

    L’arte davanti al mistero del Verbo incarnato

    5. La Legge dell’Antico Testamento presenta un esplicito divieto di raffigurare Dio invisibile ed inesprimibile con l’aiuto di « un’immagine scolpita o di metallo fuso » (Dt 27,15), perché Dio trascende ogni raffigurazione materiale: « Io sono colui che sono » (Es 3,14). Nel mistero dell’Incarnazione, tuttavia, il Figlio di Dio in persona si è reso visibile: « Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio nato da donna » (Gal 4,4). Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo, il quale è diventato così « il centro a cui riferirsi per poter comprendere l’enigma dell’esistenza umana, del mondo creato e di Dio stesso ».(6)

    Questa fondamentale manifestazione del « Dio-Mistero » si pose come incoraggiamento e sfida per i cristiani, anche sul piano della creazione artistica. Ne è scaturita una fioritura di bellezza che proprio da qui, dal mistero dell’Incarnazione, ha tratto la sua linfa. Facendosi uomo, infatti, il Figlio di Dio ha introdotto nella storia dell’umanità tutta la ricchezza evangelica della verità e del bene, e con essa ha svelato anche una nuova dimensione della bellezza: il messaggio evangelico ne è colmo fino all’orlo.

    La Sacra Scrittura è diventata così una sorta di « immenso vocabolario » (P. Claudel) e di « atlante iconografico » (M. Chagall), a cui hanno attinto la cultura e l’arte cristiana. Lo stesso Antico Testamento, interpretato alla luce del Nuovo, ha manifestato filoni inesauribili di ispirazione. A partire dai racconti della creazione, del peccato, del diluvio, del ciclo dei Patriarchi, degli eventi dell’esodo, fino a tanti altri episodi e personaggi della storia della salvezza, il testo biblico ha acceso l’immaginazione di pittori, poeti, musicisti, autori di teatro e di cinema. Una figura come quella di Giobbe, per fare solo un esempio, con la sua bruciante e sempre attuale problematica del dolore, continua a suscitare insieme l’interesse filosofico e quello letterario ed artistico. E che dire poi del Nuovo Testamento? Dalla Natività al Golgota, dalla Trasfigurazione alla Risurrezione, dai miracoli agli insegnamenti di Cristo, fino agli eventi narrati negli Atti degli Apostoli o prospettati dall’Apocalisse in chiave escatologica, innumerevoli volte la parola biblica si è fatta immagine, musica, poesia, evocando con il linguaggio dell’arte il mistero del « Verbo fatto carne ».

    Nella storia della cultura tutto ciò costituisce un ampio capitolo di fede e di bellezza. Ne hanno beneficiato soprattutto i credenti per la loro esperienza di preghiera e di vita. Per molti di essi, in epoche di scarsa alfabetizzazione, le espressioni figurative della Bibbia rappresentarono persino una concreta mediazione catechetica.(7) Ma per tutti, credenti e non, le realizzazioni artistiche ispirate alla Scrittura rimangono un riflesso del mistero insondabile che avvolge ed abita il mondo.

    Tra Vangelo ed arte un’alleanza feconda

    6. In effetti, ogni autentica intuizione artistica va oltre ciò che percepiscono i sensi e, penetrando la realtà, si sforza di interpretarne il mistero nascosto. Essa scaturisce dal profondo dell’animo umano, là dove l’aspirazione a dare un senso alla propria vita si accompagna alla percezione fugace della bellezza e della misteriosa unità delle cose. Un’esperienza condivisa da tutti gli artisti è quella del divario incolmabile che esiste tra l’opera delle loro mani, per quanto riuscita essa sia, e la perfezione folgorante della bellezza percepita nel fervore del momento creativo: quanto essi riescono ad esprimere in ciò che dipingono, scolpiscono, creano non è che un barlume di quello splendore che è balenato per qualche istante davanti agli occhi del loro spirito.

    Di questo il credente non si meraviglia: egli sa di essersi affacciato per un attimo su quell’abisso di luce che ha in Dio la sua sorgente originaria. C’è forse da stupirsi se lo spirito ne resta come sopraffatto al punto da non sapersi esprimere che con balbettamenti? Nessuno più del vero artista è pronto a riconoscere il suo limite ed a far proprie le parole dell’apostolo Paolo, secondo il quale Dio « non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo », così che « non dobbiamo pensare che la Divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana » (At 17,24.29). Se già l’intima realtà delle cose sta sempre « al di là » delle capacità di penetrazione umana, quanto più Dio nelle profondità del suo insondabile mistero!

    Di altra natura è la conoscenza di fede: essa suppone un incontro personale con Dio in Gesù Cristo. Anche questa conoscenza, tuttavia, può trarre giovamento dall’intuizione artistica. Modello eloquente di una contemplazione estetica che si sublima nella fede sono, ad esempio, le opere del Beato Angelico. Non meno significativa è, a questo proposito, la lauda estatica, che san Francesco d’Assisi ripete due volte nella chartula redatta dopo aver ricevuto sul monte della Verna le stimmate di Cristo: « Tu sei bellezza… Tu sei bellezza! ».(8) San Bonaventura commenta: « Contemplava nelle cose belle il Bellissimo e, seguendo le orme impresse nelle creature, inseguiva dovunque il Diletto ».(9)

    Un approccio non dissimile si riscontra nella spiritualità orientale, ove Cristo è qualificato come « il Bellissimo di bellezza più di tutti i mortali ».(10) Macario il Grande commenta così la bellezza trasfigurante e liberatrice del Risorto: « L’anima che è stata pienamente illuminata dalla bellezza indicibile della gloria luminosa del volto di Cristo, è ricolma dello Spirito Santo… è tutta occhio, tutta luce, tutta volto ».(11)

    Ogni forma autentica d’arte è, a suo modo, una via d’accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo. Come tale, essa costituisce un approccio molto valido all’orizzonte della fede, in cui la vicenda umana trova la sua interpretazione compiuta. Ecco perché la pienezza evangelica della verità non poteva non suscitare fin dall’inizio l’interesse degli artisti, sensibili per loro natura a tutte le manifestazioni dell’intima bellezza della realtà.

    I primordi

    7. L’arte che il cristianesimo incontrò ai suoi inizi era il frutto maturo del mondo classico, ne esprimeva i canoni estetici e al tempo stesso ne veicolava i valori. La fede imponeva ai cristiani, come nel campo della vita e del pensiero, anche in quello dell’arte, un discernimento che non consentiva la ricezione automatica di questo patrimonio. L’arte di ispirazione cristiana cominciò così in sordina, strettamente legata al bisogno dei credenti di elaborare dei segni con cui esprimere, sulla base della Scrittura, i misteri della fede e insieme un « codice simbolico », attraverso cui riconoscersi e identificarsi specie nei tempi difficili delle persecuzioni. Chi non ricorda quei simboli che furono anche i primi accenni di un’arte pittorica e plastica? Il pesce, i pani, il pastore, evocavano il mistero diventando, quasi insensibilmente, abbozzi di un’arte nuova.

    Quando ai cristiani, con l’editto di Costantino, fu concesso di esprimersi in piena libertà, l’arte divenne un canale privilegiato di manifestazione della fede. Lo spazio cominciò a fiorire di maestose basiliche, in cui i canoni architettonici dell’antico paganesimo venivano ripresi e insieme piegati alle esigenze del nuovo culto. Come non ricordare almeno l’antica Basilica di San Pietro e quella di San Giovanni in Laterano, costruite a spese dello stesso Costantino? O, per gli splendori dell’arte bizantina, la Haghia Sophía di Costantinopoli voluta da Giustiniano?

    Mentre l’architettura disegnava lo spazio sacro, progressivamente il bisogno di contemplare il mistero e di proporlo in modo immediato ai semplici spinse alle iniziali espressioni dell’arte pittorica e scultorea. Insieme sorgevano i primi abbozzi di un’arte della parola e del suono, e se Agostino, fra i tanti temi della sua produzione, includeva anche un De musica, Ilario, Ambrogio, Prudenzio, Efrem il Siro, Gregorio di Nazianzo, Paolino di Nola, per non citare che alcuni nomi, si facevano promotori di una poesia cristiana che spesso raggiunge un alto valore non solo teologico ma anche letterario. Il loro programma poetico valorizzava forme ereditate dai classici, ma attingeva alla pura linfa del Vangelo, come efficacemente sentenziava il santo poeta nolano: « La nostra unica arte è la fede e Cristo è il nostro canto ».(12) Gregorio Magno, per parte sua, qualche tempo più tardi poneva con la compilazione dell’Antiphonarium la premessa per lo sviluppo organico di quella musica sacra così originale che da lui ha preso nome. Con le sue ispirate modulazioni il Canto gregoriano diverrà nei secoli la tipica espressione melodica della fede della Chiesa durante la celebrazione liturgica dei sacri Misteri. Il « bello » si coniugava così col « vero », perché anche attraverso le vie dell’arte gli animi fossero rapiti dal sensibile all’eterno.

    In questo cammino non mancarono momenti difficili. Proprio sul tema della rappresentazione del mistero cristiano l’antichità conobbe un’aspra controversia passata alla storia col nome di « lotta iconoclasta ». Le immagini sacre, ormai diffuse nella devozione del popolo di Dio, furono fatte oggetto di una violenta contestazione. Il Concilio celebrato a Nicea nel 787, che stabilì la liceità delle immagini e del loro culto, fu un avvenimento storico non solo per la fede, ma per la stessa cultura. L’argomento decisivo a cui i Vescovi si appellarono per dirimere la controversia fu il mistero dell’Incarnazione: se il Figlio di Dio è entrato nel mondo delle realtà visibili, gettando un ponte mediante la sua umanità tra il visibile e l’invisibile, analogamente si può pensare che una rappresentazione del mistero possa essere usata, nella logica del segno, come evocazione sensibile del mistero. L’icona non è venerata per se stessa, ma rinvia al soggetto che rappresenta.(13)

    Il Medioevo

    8. I secoli che seguirono furono testimoni di un grande sviluppo dell’arte cristiana. In Oriente continuò a fiorire l’arte delle icone, legata a significativi canoni teologici ed estetici e sorretta dalla convinzione che, in un certo senso, l’icona è un sacramento: analogamente, infatti, a quanto avviene nei Sacramenti, essa rende presente il mistero dell’Incarnazione nell’uno o nell’altro suo aspetto. Proprio per questo la bellezza dell’icona può essere soprattutto gustata all’interno di un tempio con lampade che ardono e suscitano nella penombra infiniti riflessi di luce. Scrive in proposito Pavel Florenskij: « L’oro, barbaro, pesante, futile nella luce diffusa del giorno, con la luce tremolante di una lampada o di una candela si ravviva, poiché sfavilla di miriadi di scintille, ora qui ora là, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste ».(14)

    In Occidente i punti di vista da cui partono gli artisti sono i più vari, in dipendenza anche dalle convinzioni di fondo presenti nell’ambiente culturale del loro tempo. Il patrimonio artistico che s’è venuto accumulando nel corso dei secoli annovera una vastissima fioritura di opere sacre altamente ispirate, che lasciano anche l’osservatore di oggi colmo di ammirazione. Restano in primo piano le grandi costruzioni del culto, in cui la funzionalità si sposa sempre all’estro, e quest’ultimo si lascia ispirare dal senso del bello e dall’intuizione del mistero. Ne nascono gli stili ben noti alla storia dell’arte. La forza e la semplicità del romanico, espressa nelle cattedrali o nei complessi abbaziali, si va gradatamente sviluppando negli slanci e negli splendori del gotico. Dentro queste forme, non c’è solo il genio di un artista, ma l’animo di un popolo. Nei giochi delle luci e delle ombre, nelle forme ora massicce ora slanciate, intervengono certo considerazioni di tecnica strutturale, ma anche tensioni proprie dell’esperienza di Dio, mistero « tremendo » e « fascinoso ». Come sintetizzare in pochi cenni, e per le diverse espressioni dell’arte, la potenza creativa dei lunghi secoli del medioevo cristiano? Un’intera cultura, pur nei limiti sempre presenti dell’umano, si era impregnata di Vangelo, e dove il pensiero teologico realizzava la Summa di S. Tommaso, l’arte delle chiese piegava la materia all’adorazione del mistero, mentre un mirabile poeta come Dante Alighieri poteva comporre « il poema sacro, al quale ha posto mano e cielo e terra »,(15) come egli stesso qualifica la Divina Commedia.

    Umanesimo e Rinascimento

    9. La felice temperie culturale, da cui germoglia la straordinaria fioritura artistica dell’Umanesimo e del Rinascimento, ha riflessi significativi anche sul modo in cui gli artisti di questo periodo si rapportano al tema religioso. Naturalmente le ispirazioni sono variegate quanto lo sono i loro stili, o almeno quelli dei più grandi tra essi. Ma non è nelle mie intenzioni richiamare cose che voi, artisti, ben conoscete. Vorrei piuttosto, scrivendovi da questo Palazzo Apostolico, che è anche uno scrigno di capolavori forse unico al mondo, farmi voce dei sommi artisti che qui hanno riversato le ricchezze del loro genio, intriso spesso di grande profondità spirituale. Da qui parla Michelangelo, che nella Cappella Sistina ha come raccolto, dalla Creazione al Giudizio Universale, il dramma e il mistero del mondo, dando volto a Dio Padre, a Cristo giudice, all’uomo nel suo faticoso cammino dalle origini al traguardo della storia. Da qui parla il genio delicato e profondo di Raffaello, additando nella varietà dei suoi dipinti, e specie nella « Disputa » della Stanza della Segnatura, il mistero della rivelazione del Dio Trinitario, che nell’Eucaristia si fa compagnia dell’uomo, e proietta luce sulle domande e le attese dell’intelligenza umana. Da qui, dalla maestosa Basilica dedicata al Principe degli Apostoli, dal colonnato che da essa si diparte come due braccia aperte ad accogliere l’umanità, parlano ancora un Bramante, un Bernini, un Borromini, un Maderno, per non citare che i maggiori, dando plasticamente il senso del mistero che fa della Chiesa una comunità universale, ospitale, madre e compagna di viaggio per ogni uomo alla ricerca di Dio.

    L’arte sacra ha trovato, in questo complesso straordinario, un’espressione di eccezionale potenza, raggiungendo livelli di imperituro valore insieme estetico e religioso. Ciò che sempre di più la caratterizza, sotto l’impulso dell’Umanesimo e del Rinascimento, e poi delle successive tendenze della cultura e della scienza, è un interesse crescente per l’uomo, il mondo, la realtà della storia. Questa attenzione, di per sé, non è affatto un pericolo per la fede cristiana, centrata sul mistero dell’Incarnazione, e dunque sulla valorizzazione dell’uomo da parte di Dio. Proprio i sommi artisti su menzionati ce lo dimostrano. Basterebbe pensare al modo con cui Michelangelo esprime, nelle sue pitture e sculture, la bellezza del corpo umano.(16)

    Del resto, anche nel nuovo clima degli ultimi secoli, in cui parte della società sembra divenusta indifferente alla fede, l’arte religiosa non ha interrotto il suo cammino. La constatazione si amplia, se dal versante delle arti figurative, passiamo a considerare il grande sviluppo che, proprio nello stesso arco di tempo, ha avuto la musica sacra, composta per le esigenze liturgiche, o anche solo legata a temi religiosi. A parte i tanti artisti che si sono dedicati principalmente ad essa — come non ricordare almeno un Pier Luigi da Palestrina, un Orlando di Lasso, un Tomás Luis de Victoria? — è noto che molti grandi compositori — da Handel a Bach, da Mozart a Schubert, da Beethoven a Berlioz, da Liszt a Verdi — ci hanno dato opere di grandissima ispirazione anche in questo campo.

    Verso un rinnovato dialogo

    10. E vero però che nell’età moderna, accanto a questo umanesimo cristiano che ha continuato a produrre significative espressioni di cultura e di arte, si è progressivamente affermata anche una forma di umanesimo caratterizzato dall’assenza di Dio e spesso dall’opposizione a lui. Questo clima ha portato talvolta a un certo distacco tra il mondo dell’arte e quello della fede, almeno nel senso di un diminuito interesse di molti artisti per i temi religiosi.

    Voi sapete tuttavia che la Chiesa ha continuato a nutrire un grande apprezzamento per il valore dell’arte come tale. Questa, infatti, anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha un’intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa. In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione.

    Si comprende, dunque, perché al dialogo con l’arte la Chiesa tenga in modo speciale e desideri che nella nostra età si realizzi una nuova alleanza con gli artisti, come auspicava il mio venerato predecessore Paolo VI nel vibrante discorso rivolto agli artisti durante lo speciale incontro nella Cappella Sistina, il 7 maggio 1964.(17) Da tale collaborazione la Chiesa si augura una rinnovata « epifania » di bellezza per il nostro tempo e adeguate risposte alle esigenze proprie della comunità cristiana.

    Nello spirito del Concilio Vaticano II

    11. Il Concilio Vaticano II ha gettato le basi di un rinnovato rapporto fra la Chiesa e la cultura, con immediati riflessi anche per il mondo dell’arte. E un rapporto che si propone nel segno dell’amicizia, dell’apertura e del dialogo. Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes i Padri conciliari hanno sottolineato la « grande importanza » della letteratura e delle arti nella vita dell’uomo: « Esse si sforzano, infatti, di conoscere l’indole propria dell’uomo, i suoi problemi e la sua esperienza, nello sforzo di conoscere e perfezionare se stesso e il mondo; si preoccupano di scoprire la sua situazione nella storia e nell’universo, di illustrare le sue miserie e le sue gioie, i suoi bisogni e le sue capacità, e di prospettare una migliore condizione dell’uomo ».(18)

    Su questa base, a conclusione del Concilio, i Padri hanno rivolto agli artisti un saluto e un appello: « Questo mondo — hanno detto — nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza, per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione ».(19) Appunto in questo spirito di profonda stima per la bellezza, la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium aveva ricordato la storica amicizia della Chiesa per l’arte, e parlando più specificamente dell’arte sacra, « vertice » dell’arte religiosa, non aveva esitato a considerare « nobile ministero » quello degli artisti quando le loro opere sono capaci di riflettere, in qualche modo, l’infinita bellezza di Dio, e indirizzare a lui le menti degli uomini.(20) Anche grazie al loro contributo « la conoscenza di Dio viene meglio manifestata e la predicazione evangelica si rende più trasparente all’intelligenza degli uomini ».(21) Alla luce di ciò, non sorprende l’affermazione del P. Marie Dominique Chenu, secondo cui lo stesso storico della teologia farebbe opera incompleta, se non riservasse la dovuta attenzione alle realizzazioni artistiche, sia letterarie che plastiche, che costituiscono, a loro modo, « non soltanto delle illustrazioni estetiche, ma dei veri “luoghi” teologici ».(22)

    La Chiesa ha bisogno dell’arte

    12. Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte. Essa deve, infatti, rendere percepibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio. Deve dunque trasferire in formule significative ciò che è in se stesso ineffabile. Ora, l’arte ha una capacità tutta sua di cogliere l’uno o l’altro aspetto del messaggio traducendolo in colori, forme, suoni che assecondano l’intuizione di chi guarda o ascolta. E questo senza privare il messaggio stesso del suo valore trascendente e del suo alone di mistero.

    La Chiesa ha bisogno, in particolare, di chi sappia realizzare tutto ciò sul piano letterario e figurativo, operando con le infinite possibilità delle immagini e delle loro valenze simboliche. Cristo stesso ha utilizzato ampiamente le immagini nella sua predicazione, in piena coerenza con la scelta di diventare egli stesso, nell’Incarnazione, icona del Dio invisibile.

    La Chiesa ha bisogno, altresì, dei musicisti. Quante composizioni sacre sono state elaborate nel corso dei secoli da persone profondamente imbevute del senso del mistero! Innumerevoli credenti hanno alimentato la loro fede alle melodie sbocciate dal cuore di altri credenti e divenute parte della liturgia o almeno aiuto validissimo al suo decoroso svolgimento. Nel canto la fede si sperimenta come esuberanza di gioia, di amore, di fiduciosa attesa dell’intervento salvifico di Dio.

    La Chiesa ha bisogno di architetti, perché ha bisogno di spazi per riunire il popolo cristiano e per celebrare i misteri della salvezza. Dopo le terribili distruzioni dell’ultima guerra mondiale e l’espansione delle metropoli, una nuova generazione di architetti si è cimentata con le istanze del culto cristiano, confermando la capacità di ispirazione che il tema religioso possiede anche rispetto ai criteri architettonici del nostro tempo. Non di rado, infatti, si sono costruiti templi che sono, insieme, luoghi di preghiera ed autentiche opere d’arte.

    L’arte ha bisogno della Chiesa?

    13. La Chiesa, dunque, ha bisogno dell’arte. Si può dire anche che l’arte abbia bisogno della Chiesa? La domanda può apparire provocatoria. In realtà, se intesa nel giusto senso, ha una sua motivazione legittima e profonda. L’artista è sempre alla ricerca del senso recondito delle cose, il suo tormento è di riuscire ad esprimere il mondo dell’ineffabile. Come non vedere allora quale grande sorgente di ispirazione possa essere per lui quella sorta di patria dell’anima che è la religione? Non è forse nell’ambito religioso che si pongono le domande personali più importanti e si cercano le risposte esistenziali definitive?

    Di fatto, il soggetto religioso è fra i più trattati dagli artisti di ogni epoca. La Chiesa ha fatto sempre appello alle loro capacità creative per interpretare il messaggio evangelico e la sua concreta applicazione nella vita della comunità cristiana. Questa collaborazione è stata fonte di reciproco arricchimento spirituale. In definitiva ne ha tratto vantaggio la comprensione dell’uomo, della sua autentica immagine, della sua verità. E emerso anche il peculiare legame esistente tra l’arte e la rivelazione cristiana. Ciò non vuol dire che il genio umano non abbia trovato suggestioni stimolanti anche in altri contesti religiosi. Basti ricordare l’arte antica, specialmente quella greca e romana, e quella ancora fiorente delle antichissime civiltà dell’Oriente. Resta vero, tuttavia, che il cristianesimo, in virtù del dogma centrale dell’incarnazione del Verbo di Dio, offre all’artista un orizzonte particolarmente ricco di motivi di ispirazione. Quale impoverimento sarebbe per l’arte l’abbandono del filone inesauribile del Vangelo!

    Appello agli artisti

    14. Con questa Lettera mi rivolgo a voi, artisti del mondo intero, per confermarvi la mia stima e per contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l’arte e la Chiesa. Il mio è un invito a riscoprire la profondità della dimensione spirituale e religiosa che ha caratterizzato in ogni tempo l’arte nelle sue più nobili forme espressive. E in questa prospettiva che io faccio appello a voi, artisti della parola scritta e orale, del teatro e della musica, delle arti plastiche e delle più moderne tecnologie di comunicazione. Faccio appello specialmente a voi, artisti cristiani: a ciascuno vorrei ricordare che l’alleanza stretta da sempre tra Vangelo ed arte, al di là delle esigenze funzionali, implica l’invito a penetrare con intuizione creativa nel mistero del Dio incarnato e, al contempo, nel mistero dell’uomo.

    Ogni essere umano, in un certo senso, è sconosciuto a se stesso. Gesù Cristo non soltanto rivela Dio, ma « svela pienamente l’uomo all’uomo ».(23) In Cristo Dio ha riconciliato a sé il mondo. Tutti i credenti sono chiamati a rendere questa testimonianza; ma tocca a voi, uomini e donne che avete dedicato all’arte la vostra vita, dire con la ricchezza della vostra genialità che in Cristo il mondo è redento: è redento l’uomo, è redento il corpo umano, è redenta l’intera creazione, di cui san Paolo ha scritto che « attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio » (Rm 8,19). Essa aspetta la rivelazione dei figli di Dio anche mediante l’arte e nell’arte. E questo il vostro compito. A contatto con le opere d’arte, l’umanità di tutti i tempi — anche quella di oggi — aspetta di essere illuminata sul proprio cammino e sul proprio destino.

    Spirito creatore ed ispirazione artistica

    15. Nella Chiesa risuona spesso l’invocazione allo Spirito Santo: Veni, Creator Spiritus … — « Vieni, o Spirito creatore, visita le nostre menti, riempi della tua grazia i cuori che hai creato ».(24)

    Lo Spirito Santo, « il Soffio » (ruah), è Colui a cui fa cenno già il Libro della Genesi: « La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque » (1,2). Quanta affinità esiste tra le parole « soffio — spirazione » e « ispirazione »! Lo Spirito è il misterioso artista dell’universo. Nella prospettiva del terzo millennio, vorrei augurare a tutti gli artisti di poter ricevere in abbondanza il dono di quelle ispirazioni creative da cui prende inizio ogni autentica opera d’arte.

    Cari artisti, voi ben lo sapete, molti sono gli stimoli, interiori ed esteriori, che possono ispirare il vostro talento. Ogni autentica ispirazione, tuttavia, racchiude in sé qualche fremito di quel « soffio » con cui lo Spirito creatore pervadeva sin dall’inizio l’opera della creazione. Presiedendo alle misteriose leggi che governano l’universo, il divino soffio dello Spirito creatore s’incontra con il genio dell’uomo e ne stimola la capacità creativa. Lo raggiunge con una sorta di illuminazione interiore, che unisce insieme l’indicazione del bene e del bello, e risveglia in lui le energie della mente e del cuore rendendolo atto a concepire l’idea e a darle forma nell’opera d’arte. Si parla allora giustamente, se pure analogicamente, di « momenti di grazia », perché l’essere umano ha la possibilità di fare una qualche esperienza dell’Assoluto che lo trascende.

    La « Bellezza » che salva

    16. Sulla soglia ormai del terzo millennio, auguro a tutti voi, artisti carissimi, di essere raggiunti da queste ispirazioni creative con intensità particolare. La bellezza che trasmetterete alle generazioni di domani sia tale da destare in esse lo stupore! Di fronte alla sacralità della vita e dell’essere umano, di fronte alle meraviglie dell’universo, l’unico atteggiamento adeguato è quello dello stupore.

    Da qui, dallo stupore, potrà scaturire quell’entusiasmo di cui parla Norwid nella poesia a cui mi riferivo all’inizio. Di questo entusiasmo hanno bisogno gli uomini di oggi e di domani per affrontare e superare le sfide cruciali che si annunciano all’orizzonte. Grazie ad esso l’umanità, dopo ogni smarrimento, potrà ancora rialzarsi e riprendere il suo cammino. In questo senso è stato detto con profonda intuizione che « la bellezza salverà il mondo ».(25)

    La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente. E invito a gustare la vita e a sognare il futuro. Per questo la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio che un innamorato del bello come sant’Agostino ha saputo interpretare con accenti ineguagliabili: « Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! ».(26)

    I vostri molteplici sentieri, artisti del mondo, possano condurre tutti a quell’Oceano infinito di bellezza dove lo stupore si fa ammirazione, ebbrezza, indicibile gioia.

    Vi orienti ed ispiri il mistero del Cristo risorto, della cui contemplazione gioisce in questi giorni la Chiesa.

    Vi accompagni la Vergine Santa, la « tutta bella » che innumerevoli artisti hanno effigiato e il sommo Dante contempla negli splendori del Paradiso come « bellezza, che letizia era ne li occhi a tutti li altri santi ».(27)

    « Emerge dal caos il mondo dello spirito »! Dalle parole che Adam Mickiewicz scriveva in un momento di grande travaglio per la patria polacca(28) traggo un auspicio per voi: la vostra arte contribuisca all’affermarsi di una bellezza autentica che, quasi riverbero dello Spirito di Dio, trasfiguri la materia, aprendo gli animi al senso dell’eterno.

    Con i miei auguri più cordiali!

    Dal Vaticano, 4 aprile 1999, Pasqua di Risurrezione.

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