• 07 Feb

    Religione del Padre o illusione?


    “Papà”, “Mamma”: le parole più usate, più pronunciate  dall’inizio alla fine della vita…

    Ma come tutte le parole più usate ed inflazionate, esse rischiano di essere tra quelle sulla quali meno si riflette, con la conseguenza che non si riflette sul loro profondo contenuto.

    Padre e Madre sono parole primordiali, essenziali nel loro suono labiale e nel loro significato.

    Esse ci riconducono sempre alle nostre radici.

    Sono sempre estremamente cariche di memorie affettive piacevoli o dolorose, memorie che permangono nel tessuto della nostra esistenza spesso inconsapevolmente e che fanno da filtro alla percezione di noi stessi, degli altri e dell’ambiente (cfr. il transfert).

    Proprio per il carico di vissuto affettivo che la memoria del padre e della madre conserva in ciascuno di noi alcuni filosofi e psicanalisti hanno sospettato che il concetto di Dio Padre, che sta alla base della nostra esperienza religiosa, non sia altro che l’immagine amplificata idealizzata proiettata all’infinito del nostro desiderio e sentimento.

    Ovvero Dio Padre non sarebbe che una nostra costruzione mentale originata dalla nostalgia del padre-madre che abbiamo e non-abbiamo avuto.

    L’uomo limitato, segnato in se stesso dall’insoddisfazione e dall’angoscia, condenserebbe tutto il suo bisogno di amare e di essere amato, di onnipotenza, di protezione, di regolazione morale (con premio o punizione) su Dio Padre.

    Sappiamo che il grande esponente di questa teoria è S. Freud. Nel suo scritto L’avvenire di una illusione, egli sostiene che  la religione non è che il condensato delle aspirazione appagate e quindi da far perdurare ad ogni costo e inappagate e quindi da perseguire angosciosamente ad ogni costo dell’uomo.

    Dio sarebbe tutto ciò che il padre è o non è stato. L’origine della religione? Un inesauribile dolore per una assenza inguaribile.

    Da qui allora la conseguenza che la religione non sia che  un ostinato perdurare nell’infanzia, un essere se non altro compensazione di desideri insoddisfatti.

    La conclusione per Freud è chiara. La religione (l’illusione) del Padre ci sarà sempre fino a quando ci sarà qualcuno che non riesce a far a meno del padre.

    L’uomo adulto è l’uomo che cessa di voler perdurare nella stato di figlio, l’uomo che si svincola da ogni tutela parentale.

    E’ l’uomo che si assume in toto la sua vita senza rimpianti di legami nostalgici. Che affronta “virilmente” tutta l’angoscia che la vita porta con sé senza cercare comode vie d’uscita.

    E’ l’uomo che si appropria di sé, svincolandosi da ogni mito. Diviene lui il centro di se stesso e di tutto ciò che lo circonda.

    Mai prima di Freud, Feuerbach, Nietzsche l’uomo aveva portato così avanti la rivendicazione della sua autonomia di fronte agli dei usurpatori. Una volontà di depodestare il mito di Sisifo.

    Questi autori non si accaniscono nel voler dimostrare l’inesistenza di Dio, non ne hanno la necessità.

    Perseguono un’altra strada andando alla radici dell’esperienza religiosa scalzandone alla base la legittimità e serietà.

    Occorre onestamente riconoscere che molte delle loro critiche mettono realmente allo scoperto le inconsistenze di una certa religiosità.

    Ma come porsi dinanzi a queste posizioni a cui la nostra cultura sembra più o meno consapevolmente essersi abbondantemente abbeverata.

    Una pista è anzitutto quella di precisare il senso delle parole che usiamo parlando di Dio.

    Infatti la religione pullula di caricature di Dio nascoste dietro le medesime parole. Sono idoli mentali che hanno indotto a vere e proprie aberrazioni. Il nostro rischio è di continuare a proiettare su Dio, per appropiarcelo o strumentalizzarlo, le nostre ossessioni e individuali e collettive.

    Scriveva già nel IV sec. San Clemente di Alessandria: la maggior parte degli uomini, chiusi nel loro corpo mortale come la lumaca nel suo guscio, trincerati nelle loro ossessioni a guisa di istrici, si formano l’idea del beatissimo Iddio prendendo a modello se stessi.

    Occorre una seria consapevolezza che tutti i nostri concetti, tutte le nostre parole possono contenere Dio. Un dizionario non contiene la vita delle parole in esso contenute.

    Il mistero infinito di Dio lo posso solo intuire attraverso segni, simboli, metafore che parlano per evocazione, allusioni. E’ questa l’analogia, ovvero l’unica possibilità data all’uomo per poter parlare del mistero in modo legittimo. E’ ad esempio tutto il linguaggio usato dalla liturgia.

    Cito un brano esemplare di un grande mistico – teologo che ha fatto della teologia apofatica il motivo maggiore della sua riflessione:

    I teologi lodano la divina Origine perché non ha nome alcuno, e intanto perché li possiede tutti…

    La lodano perché ha una molteplicità di nomi quando osservano che essa dice di se medesima: Io sono Colui che sono, o anche Vita, Luce, Dio, Verità; e quando coloro che conoscono Dio celebrano con molteplici nomi la Causa universale, ispirandosi ai suoi effetti come Bontà, Bellezza, sapienza… Intelligenza, Anziano di giorni, Giovinezza eterna, salvezza, Giustizia, santificazione, Liberazione… E’ nello stesso tempo nel cuore dell’universo e al di là del cielo, Sole, Stella, Fuoco, Acqua, Soffio, Rugiada, Nuvola, Roccia Assoluta, Pietra in una parola tutto ciò che è niente di ciò che è.

    Così questa causa di tutto che supera tutto, è nel contempo l’assenza di nomi che le si addice e tutti i nomi di tutti gli esseri… Essa contiene in sé dall’inizio ogni essere di modo che si può lodarla, e nominarla a partire da ogni essere (Nomi Divini).

    L’analogia, con il suo linguaggio simbolico, serve a gettare ponti tra la nostra realtà limitata dallo spazio e dal tempo e la realtà divina che trascendendo ogni cosa è in-dicibile, irraggiungibile.

    Questo non significa che i nomi che usiamo per parlare dell’indicibile come Dio, Trinità, Padre, Figlio, Spirito; Amore, Signore, Eterno, Immenso siano in un certo senso gratuiti, impropri, illegittimi. No! Essi sono appropriati ma non di certo esaustivi. Dicono qualcosa, non tutto e non esattamente ciò che intendiamo dire perché il mistero sfuggirà implacabile. Dio è sempre il “Totalmente Altro”.

    Sono nomi attinti alla nostra esperienza quotidiana perché è questa sola che può parlare alla nostra vita.

    Tornando allora alla denominazione di Dio come Padre dobbiamo dire che se essa fosse soltanto la proiezione di quanto l’esperienza del padre e della madre hanno lasciato in noi, Dio allora non sarebbe che un fantasma, un feticcio da noi inconsapevolmente inventato per far fronte alla nostra fatica di vivere. Sarebbe realmente una “compensazione” alla nostra debolezza e alla nostra paura.

    Ma è qui che si innesta la straordinarietà della fede cristiana che attesta che Dio si è rivelato, ha mostrato il suo volto di Padre in un uomo vissuto duemila anni fa in Palestina: Gesù di Nazaret.

    Se non avessimo conosciuto in Gesù il Figlio di Dio, il nome di Padre dato a Dio sarebbe se non insensato certamente e immensamente timido e povero.

    Qui siamo chiamati a ripercorrere tutta l’esperienza filiale di Gesù come ci è testimoniata dai vangeli.

    Ascoltando le parole di Gesù appare evidente che il rapporto che Egli ha col Padre non assume certamente un carattere compensatorio. Non vi sono nostalgie infantili o frustrazioni irrisolte.

    E quando Lui stesso suggerisce ai suoi discepoli di rivolgersi al Padre invita ad assumere il medesimo suo atteggiamento.

    Da quel momento per il discepolo di Gesù, Dio è Padre con le qualità proprie di ogni vera paternità: amore, sollecitudine, compassione, perdono, fedeltà, sicurezza.

    Egli ci conosce, sa le nostre necessità, conta il numero dei capelli del nostro capo, ha cura di noi.

    Gesù incoraggia alla fiducia (cfr. Lc 12,32)…

    O queste parole posseggono il loro senso e la loro verità oppure l’intero evangelo è privo di senso e di verità.

    La denominazione di Dio Padre non elimina la trascendenza e il mistero che la circonda, siamo sempre in un linguaggio analogico, ma permette di stabilire con lui una relazione filiale nel senso più pieno, nella quale diventa spontaneo un atteggiamento di consegna e di fiducioso abbandono.

    Certo la paternità di Dio incontra le nostre debolezze e le nostre memorie, ma non nasce da esse, non deve nascere da esse, pena l’instaurarsi di un errato e deviante rapporto con una nostra immagine di Dio che diviene idolo da adorare o abbattere.

    Per il cristiano la scoperta della paternità di Dio nasce dalla rivelazione donataci da Gesù “Figlio unigenito, divenuto primogenito di molti fratelli”.

    Compensazione e rivelazione possono coesistere nel nostro incontro col Padre dei cieli, a condizione che la sua conoscenza non la si faccia derivare dalla nostalgia del passato, ma dalla parola e dall’esempio di Gesù Cristo. Solo questo incontro purificherà memoria , affetto volontà nella direzione di una sempre più limpida relazione col Padre.

  • 07 Feb

    MORENDO E RISORGENDO GESU’

    OFFRE LA RIVELAZIONE SUPREMA DI DIO


    Scrive Giovanni Paolo II nella sua enciclica Dives in Misericordia: “Il messaggio messianico di Cristo e la sua attività tra gli uomini terminano con la croce e la risurrezione. Dobbiamo penetrare profondamente in questo evento finale che, specialmente nel linguaggio conciliare, viene definito mistero pasquale, se vogliamo esprimere fino in fondo la verità sulla misericordia, così come essa è stata rivelata nella storia della salvezza” (n. 7).

    Guardando alla tragicità della storia della passione e morte di Gesù viene spontanea una domanda; una domanda che sorge istintivamente dinanzi all’assurdità di ogni sofferenza soprattutto se innocente: quale volto di Dio si può manifestare tramite essa?

    Sempre l’enciclica ricorda come quel giovedì e venerdì di passione introducono nella vita e nella missione di Cristo “un cambiamento fondamentale. Colui che passò beneficando, risanando e curando ogni malattia ed infermità (cfr. At 10,38; Mt 9,35) sembra egli stesso meritare la più grande misericordia e richiamarsi alla misericordia, quando viene arrestato, oltraggiato, condannato, flagellato, coronato di spione, quando viene inchiodato alla croce e spira fra tormenti strazianti” (DM 7).

    Entriamo nel Getsemani e osserviamo attentamente che cosa avviene: “Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate. Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora. E diceva: Abbà, padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,33-36).

    Gesù in quel momento inizia una vera e propria lotta, la sua agonia. L’evangelista Marco non teme di rivelarci il cuore di Gesù straziato tra due gridi di preghiera: da un lato l’implorazione di essere esonerato dal calice di sofferenza postogli dinanzi, dall’altro il grido fiducioso dell’abbandono alla volontà del Padre.

    Sofferenza e amore: è questo l’impasto stupendo e drammatico della passione di Gesù. Ed è così che egli resta fedele alla sua missione di rivelare un Dio che si compromette per l’uomo fino a morire per lui.

    E questo che il Padre domanda a Gesù, e glielo chiede proprio in favore dell’uomo.

    Sul Calvario giungiamo al vertice di questo impasto di dolore e amore: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

    Un grido che non va indebitamente alleggerito quasi disturbasse la contemplazione del crocifisso, quasi fosse una nota stonata.

    E’ un grido di dolore, ma è pure l’inizio della preghiera di colui che innocente e perseguitato si affida a dio con la certezza che egli non abbandonerà il giusto fedele a lui (cfr. Sal 21,2; 23-30).

    Non è certo un grido di disperazione, tuttavia il racconto evangelico ne ha conservato tutta la drammaticità sottolineando  la solitudine immensa di Gesù che tocca il fondo dello sconforto umano.

    Sant’Ireneo commenta questo momento affermando che Gesù lo volle “perché non poteva esigere dai suoi discepoli nessuna sofferenza che egli non avesse già affrontato come maestro” (Adv. Haer. III,18).

    Vi sono altre parole che commentano il grido di Gesù sulla croce. Luca pone sulle labbra di Gesù le parole del salmo 31: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Giovanni scrive: “Dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: Tutto è compiuto” (Gv 19,30).

    Paolo dirà ai cristiani di Corinto: “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (1Cor 5,19.21).

    Dando uno sguardo complessivo possiamo dire con il Papa che “la croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull’uomo e su ciò che l’uomo – specialmente nei momenti difficili e dolorosi – chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco di eterno amore sulle ferite dolorose dell’esistenza terrena dell’uomo” (DM 8).

    Già nella sinagoga di Nazaret, nel discorso inaugurale della sua predicazione, Gesù affermava chiaramente di voler essere rivelazione dell’amore di Dio per i poveri, i sofferenti e i prigionieri, verso i non vedenti, gli oppressi e i peccatori. Con la sua morte e risurrezione va oltre. Rivela che in lui vengono affrontate e vinte “le più profonde radici del male, che affondano nel peccato e nella morte” (DM 8).

    Croce e risurrezione si offrono come segno di speranza per il cammino dell’umanità intera e di ciascun uomo.

    “Il fatto che Cristo è risuscitato il terzo giorno costituisce il segno finale della missione messianica, segno che corona l’intera rivelazione dell’amore misericordioso nel mondo soggetto al male. Ciò costituisce al tempo stesso il segno che preannuncia un nuovo cielo e una nuova terra, quando Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (cfr. Ap 21,1; DM 8).

  • 06 Feb

    DOLORE  DEL  MONDO  E  AMORE  DEL  PADRE

    Tre volte al giorno la liturgia ci fa domandare al Padre, attraverso la preghiera del Signore, di liberarci dal male.

    Chiediamo al Padre che il male non ci sovrasti al punto di dubitare di lui, del suo amore, fino al punto di dire insieme allo stolto del Salmo 14: Dio non c’è! Dio non se ne cura! (v. 1)

    Come credere all’amore di un Dio che si dice Padre di fronte al mistero del dolore e del male che sembrano dilagare sempre più in mezzo a noi sino al punto da sommergere tutto?

    Basti uno sguardo veloce alla cronaca di questi ultimi tempi…

    La liturgia ci ha condotti al Calvario: Se è figlio di Dio, come ha detto, scenda dalla croce… Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso?…

    Accanto a Gesù ci sono due ladroni. Essi rappresentano due modi di affrontare la vita, il dolore, la morte.

    Uno impreca e si beffa di Dio, che non ce la fa a vincere il male. Questi non spera nulla, si accontenta forse di aver goduto la vita per quanto gli ha dato. Di fronte alla croce del Giusto non attende alcun aiuto.

    L’altro ladrone si apre ad una luce diversa, uno spiraglio che fa affiorare un senso diverso, una speranza. Si apre ad una sapienza diversa, che per san Paolo è quella della debolezza di Dio. E’ la stoltezza di un Dio che muore da peccatore accanto al peccatore.

    In Gesù, Dio scende agli inferi, si è fatto estrema debolezza e stoltezza…

    Chi ha visto morire il Figlio sulla Croce ha visto, ha contemplato chi è il Padre e sino a che punto giunge la sua follia d’amore per questa nostra umanità: Gv 14,9 Gli dice Gesù: «Da tanto tempo sono con voi, e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”?


    LA PEDAGOGIA DELLA STORIA

    Lungo la storia Dio ha preparato il suo popolo alla lettura del Giusto che soffre e che muore perché tutti gli altri si salvino. In queste figure Dio si rappresenta nella sua passione causata dalla resistenza dell’uomo che fatica a voler essere liberato.

    Giuseppe viene venduto, tradito, dai suoi fratelli. Il libro della Sapienza commenta: Dio scese con lui nella prigione, non lo abbandonò mentre era in catene (10,14).

    Di Mosè l’autore della lettera agli Ebrei commenta: Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo l’obbrobrio del Cristo piuttosto che godere per breve tempo del peccato (11,26).

    Davide perseguitato è figura del Messia perseguitato. Giosia re giusto e santo viene trafitto a Meghiddo dagli arcieri del faraone egiziano!

    Lentamente la consapevolezza del giusto oppresso e ucciso si fa strada ed impone una riflessione. Inizia a prospettarsi la figura di un Messia-Servo sofferente: ne è conferma la vicenda di Geremia, di Giobbe e di tanti protagonisti dei Salmi.

    Non per nulla Gesù inizia i suoi discepoli al suo mistero pasquale commentando “Mosè, i Profeti e i Salmi” onde far capire che bisognava che lui patisse.

    Il Servo-Figlio è torturato ed ucciso e non vi è nessuno e nulla che fermi la mano del Padre! In lui il Padre stesso muore.

    La debolezza di Dio è arrivata sino a farsi ghermire dalla morte.

    Il Padre in Gesù Messia è Amore che si dona tutto.

    Il corpo di Gesù Giusto sofferente ha sofferto in tutti i giusti dell’Antico testamento e continua a soffrire, a subire violenza e ad essere oltraggiato ed ucciso nei sofferenti e i morti di oggi e di domani.

    C’è un comune destino: quello del mistero pasquale.

    IL MISTERO PASQUALE

    Pesach significa “passare oltre, saltare, passare attraverso”.

    Come risposta al peccato che ha votato alla morte l’uomo e coinvolge la creazione, Dio ha inventato l’economia della redenzione, cioè il faticoso cammino della fede.

    In questo cammino Dio stringe un’Alleanza, salva dallo sterminio i primogeniti del suo popolo passando oltre, fa uscire Israele dalla schiavitù e dall’idolatria facendolo passare attraverso il mare, fa passare il suo popolo attraverso il deserto per condurlo alla terra da lui promessa.

    Cioè egli ha educato il suo popolo facendone la figura esemplare dell’unto del signore, del Messia, anticipandogli in tanti modi le sue sofferenze.

    E’ la sorte di tutti noi, entrare nel medesimo destino del Servo-Messia condividendone il cammino. In lui siamo stati battezzati.

    Pertanto il nostro soffrire da cristiani è segnato dalla partecipazione alle sofferenze di Cristo, anzi in noi egli porta a compimento la sua passione.

    L’amore del Padre che consuma il Figlio consuma ora, ancora, il suo corpo che siamo noi misteriosamente toccati dalla sua incarnazione.

    Così ci sono due modi di soffrire e di morire: o imprecando o amando.

    Nell’amore posso essere distrutto nel corpo con tutto quello che ciò vuol dire, ma ne esco vincitore, in Cristo che con me oggi soffre e muore per condurmi alla gloria.

    Dov’è il Padre in tutto questo, nel dramma di tanti piccoli e giusti violentati, torturati ed uccisi? Dov’era il Padre in quelle ore di tremenda agonia nella quale il Figlio consumava tragicamente la sua giovane vita?

    Il Padre era lì sulla croce dell’obbrobrio del Figlio, scendeva con lui nel buio del sepolcro, era ucciso, è ucciso.

    Non posso più dire che Dio è estraneo al mio dolore da quando il Figlio suo ha assaporato fino all’ultima goccia quel calice che gli era presentato. Calice di dolore e di amore.

    UNA BUONA NOTIZIA

    La buona notizia non è dunque che io sia esentato dalla morte e dalla sofferenza comune a tutti, credenti e non, ma che io posso morire e soffrire nell’amore, nella certezza che il Padre soffre con me, e perciò non mi lascerò schiacciare dal non senso e dalla disperazione. Anzi sarò capace di fare della mia morte e del mio dolore un’offerta.

    L’amore per questa nostra umanità ha fatto sì che Dio assumesse in pienezza la kenosis: affinché nulla andasse perduto.

    Mosso dallo Spirito accetto l’assurdo del soffrire e del morire senza rassegnarmi alla sua negatività, imparo da Gesù e con Gesù a strappare alla morte e alla sofferenza la forza malefica del male e del peccato, ed entrare così nella follia della croce.

    La conclusione è questa: io sono preso dalla passione del padre, divengo come il Padre capace di amare sino a dare il suo proprio figlio, che è tutta la sua vita, solo perché è amore.

    Un amore che corre sempre il rischio di essere rifiutato e disprezzato: il Padre lo ha fatto per chi non poteva dargli nulla in cambio, anzi gli era nemico, e neppure chiedeva e voleva essere liberato.

    Tutto questo lo comprendiamo bene non toglie nulla alla drammaticità del dolore e della morte, anzi addirittura lo acutizza, perché affina la percezione dell’assurdità del dolore dell’Innocente che il Padre consegna all’uomo.

    Occorre preghiera e abbandono affinché il dolore non distrugga. L’abbandono nelle braccia del Padre non lo si improvvisa. Anche Gesù lo dovette imparare, reso perfetto mediante la sofferenza: seppe perciò morire pregando e perdonando e chiedendo con forza la risurrezione.

    Il male non è voluto dal Padre, ma da noi. E questo male non deve mettere in dubbio la paternità di Dio, ma spingerci a rifugiarci in essa: Se anche camminassi in una valle oscura non temerei alcun male perché tu sei con me. So che mi ridarai la vita e non permetterai che il tuo santo rimanga nella tomba.


  • 05 Feb

    IL PADRE NOSTRO NELLA PASSIONE


    Ripercorrendo le pagine dei vangeli e ricercando l’ambito cristologico in cui viene a meglio collocarsi la preghiera e l’interpretazione del Padre Nostro, ci si accorge che questo acquista particolare rilievo nei racconti della Passione.

    Un rilievo talmente evidente, sia nelle perole stesse che nei contenuti,  che addirittura alcuni esegeti suppongono che la stesura della preghiera del Signore sia da collocarsi proprio a partire dai capitoli evangelici dedicati alla Passione.

    Certamente la Passione rappresenta una chiave interpretativa quanto mai autentica per la retta comprensione delle singole richieste contenute nella Preghiera del Padre nostro.

    Possiamo perciò tentare di ripercorrere le sue singole richieste alla luce della Passione.


    1. Padre nostro che sei nei cieli

    Gesù all’inizio della sua Passione si pone in sofferta preghiera nell’orto del Getsemani. La sua orazione inizia con quella parola con cui iniziava ogni sua preghiera: Padre- Abbà!

    (cfr. Mt 26,39; Mc 14,36; Lc 22,42; Gv 12,27). E’ la parola rivelatrice dell’intima, fiduciosa e filiale relazione che Gesù viveva nei confronti di Dio.

    Egli entra nella sua Passione accompagnato dalla certezza che accanto a lui, sofferente con lui, vi è il Padre che da sempre lo ama.

    Una dato significativo è il fatto che la parola “Padre” compare nella prima frase pronunciata da Gesù a dodici anni nel tempio di Gerusalemme (“Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?” Lc 2,49), e nell’ultima invocazione di Gesù affisso sulla croce (“Padre nelle tue mani affido il mio spirito” Lc 23,46). Tutta l’esistenza di Gesù si pone in riferimento continuo verso Colui che lo ha mandato.

    2. Sia santificato il tuo nome

    Durante la Passione raccontata nel vangelo di Giovanni, Gesù invoca: “Padre glorifica il tuo figlio” (17,1).

    Vi è una relazione molto stretta tra glorificare Dio e santificare il suo Nome, in quanto il Nome indica la persona stessa, si identifica con essa. Glorificare e santificare possono essere intesi come sinonimi.

    Gesù glorifica-santifica il Padre compiendo la missione cui è stato chiamato. E la sua missione trova compimento e pienezza di rivelazione nel mistero pasquale.

    E’ dunque soprattutto in questo evento che il Padre può glorificare-santificare davanti al mondo il suo Nome attraverso il Figlio suo.


    3. Venga il tuo regno

    E’ nella vittoria pasquale che il Padre instaura già nella nostra storia il suo Regno. Le forze del male (il peccato, la morte, Satana) sono già sconfitti sulla croce.

    Per san Giovanni il mondo, nel moneto della Passione, risulta giudicato nel suo peccato che è rifiuto della rivelazione e il “principe di questo mondo” viene estromesso: “Ora c’è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo sarà cacciato fuori” (12,31; cfr. 16,11).

    E Gesù  può così aprire le porte del Regno del Padre al ladro pentito crocifisso con lui (Lc 23,42).

    Il Regno del Padre che Gesù instaura mediante il mistero pasquale passa attraverso lo scandalo della debolezza, dell’impotenza, del suo farsi ultimo e servo di tutti. E’ un regno dai parametri umani di potenza e dominio.

    4. Sia fatta la tua volontà

    Sempre nella preghiera nell’orto del Getsemani Gesù chiede: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice. Però non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42).

    E’ questo il nucleo della preghiera di Gesù come è il nucleo centrale del Padre nostro.

    Gesù si offre come strumento docile nelle mani del Padre. E’ il fare la sua volontà che diviene il sacrificio unico perfetto e gradito a Dio: “Perciò, entrando nel mondo dice: Non hai voluto sacrificio, né oblazione, ma tu mi hai preparato un corpo. Non hai gradito olocausti, né sacrifici per i peccati. Allora io dissi: ecco vengo, nel rotolo del libro è stato scritto di me, o Dio, per fare la tua volontà” (Ebr 10,5-7).

    5. Dacci oggi il nostro quotidiano

    Il senso dell’aggettivo “quotidiano” è duplice: è il pane “sostanziale” o il “pane di domani”. Potremmo interpretare la richiesta come: dacci il pane del regno che deve venire.

    Spesso nei vangeli il regno è paragonato ad un grande banchetto (cfr. Mt 22,1ss; Lc 16,16).

    Questo pane del regno ci rimanda all’ultima cena, preludio e anticipazione della Passione.

    Gesù dona alla sua comunità l’Eucaristia come pegno del regno dei cieli che si instaura con la sua morte e risurrezione.

    6. Rimetti a noi i nostri debiti,come noi li rimettiamo ai nostri debitori.

    Due diretti riferimenti alla “remissione dei peccati” li troviamo nei contesti della consacrazione del calice durante l’ultima cena (cfr. Mt 26,28), e nella preghiera di Gesù sulla croce: “Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).

    Già i profeti avevano annunciato e descritto la nuova alleanza come piena espiazione di tutti i peccati.

    E’ per il sangue di Cristo, agnello pasquale immolato, che il nostro peccato è espiato e perdonato (cfr. Ebr 10,12-18).


    7. E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male

    All’inizio della sua Passione Gesù mette in guardia i discepoli contro la tentazione dello scandalo della fede in lui causata dalla sua Passione e Morte (cfr. Mt 26,31).

    Ancora la scena del Getsemani ci viene presentata come un “entrare nella tentazione” per Gesù stesso e i suoi discepoli (cfr. Mt 26,41; Mc 14,38; Lc 22,40).

    Da questa tentazione solo l’assidua e impetrante preghiera può salvare: “Vegliate e pregate affinché non entriate in tentazione. Sì, lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Mt 26,41).

  • 04 Feb

    FARE A MENO DEL PADRE ?

    di p. Attilio Franco Fabris


    Appare ormai scontato la difficoltà di parlare di Dio “Padre”, e questo rientra nella difficoltà della predicabilità della relazione paterna.

    Ci troviamo in una cultura che ha rivendicato in modo radicale il diritto della soggettività.

    La modernità ponendo l’assolutezza del soggetto, ha colto nella figura paterna l’ostacolo fondamentale, sotto l’aspetto relazionale, socio-politico, religioso.

    La figura del padre riecheggia limitazione, coercizione, antagonismo.

    Si è parlato della “morte del padre”.

    Il dato antropologico da parte sua ci mette di fronte al fatto inequivocabile dell’indole “culturata”, sociale, storica di tutte le relazioni parentali, maternità e paternità incluse.

    A questo non sfugge neppure l’ambito culturale patriarcale della sacra scrittura con il quale è ineluttabile un serio confronto con lo sforzo attuale di culturazione della fede.

    A Dio nell’antico testamento sono attribuite valenze tipicamente maschili come signore, re, sposo, giudice. Circa dodici volte viene definito come Padre non tanto nel segno dell’autorità quanto piuttosto nel “farsi carico”, “prendersi cura”.

    Si tratta di una paternità materna, in tutta coerenza affidata anche ad audaci immagini femminili come quella della madre.

    Ad esempio in Osea 11:…(leggere)

    Qui non troviamo esplicito il termine di madre, ma ritorna questo prendersi cura, il “nutrire”: Dio si rivela esattamente il contrario di un padre-padrone. La sua paternità è viscerale, misercordiosa, compassionevole.

    In Is. 49,15 l’immagine è ancor più esplicita: Si dimentica una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai

    Ancora in Is 66,13: Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò.

    Un elemento di rilievo è offerto dall’uso del termine rehem, che indica il grembo materno. Lo ritroviamo in Os. 11,8 e Is 49,15.

    Ancora troviamo l’espressione collegata di rehamim col significato di compassione. Misericordia.

    Quindi il riferirsi a Dio come misericordia, compassione, tenerezza, custodia ha come entroterra l’esperienza del grembo femminile con la sua capacità di accogliere, generare alla vita e nutrire.

    Nel nuovo Testamento sembra prevalere Dio come Padre a partire dal darsi a conoscere di Gesù come Figlio, ma scendendo più in profondità anche qui si rivela una paternità materna di Dio.

    Basti pensare alla parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32).

    Il Padre di Gesù sembra ancor eludere i parametri di una cultura tipicamente patriarcale.

    I tratti del volto del Padre di Gesù sono fatti di tenerezza, compassione, misericordia, amore, perdono, accoglienza.

    Tuttavia la declinazione al femminile di Dio come “madre” lascia intatto l’androcentrismo della cultura antica ed odierna.

    Vi è l’ipotesi radicale, che soppresso il “padre”, subentri la madre. Avremmo una teologia della femminilizzazione di Dio, un ribaltamento dei ruoli che però si rivelerebbe ancora insufficiente.

    Cosa cambierebbero la “dea”, la chiesa delle donne, una società nella quale le donne avessero leadership e autorità?

    Quale il vantaggio di tale organizzazione su quella andropocentrica?

    L’altra ipotesi è quella che domanda alla paternità di fare un passo indietro (R. Stella) per riacquistare cittadinanza. Si tratterebbe di una castrazione in cui sia il figlio che il piacere sarebbero riconsegnati al mistero di qualcosa che viene offerto gratuitamente all’uomo come opportunità e come tale accolta gratuitamente. (che bisogno c’è del padre quando è possibile generare la vita senza di lui?).

    Qui rientrano i fantasmi della fine del patriarcato e del delirio di onnipotenza dato dall’ingegneria genetica.

    Emancipati gli uomini e le donne dalle vie sin qui obbligate dei processi riproduttivi, maternità e paternità rischiano i divenire simboli contestati della mascolinità e femminilità.

    Tutto questo teniamo presente non può non avere ricadute sul pensare Dio come Padre.

    Tutta la difficoltà e spesso l’equivoco sta certamente nell’aver formulato in termini riduttivamente androcentrici la manifestazione economica di Dio.

    Sono stati meccanismi proiettivi dettati dalla nostra condizione umana legata ad una storia culturata, e dal mistero ineffabile di Dio.

    Siamo ben lontani dal saper esprimere in modo adeguato la paternità autentica di Dio!

  • 03 Feb

    RITORNARE AL PADRE

    sintesi della lettera pastorale del card. C.M. Martini

    1. I CAMMINI DELL’INQUIETUDINE PERSONALE: MI ALZERO’ E ANDRO’ DA MIO PADRE (Lc 15,18)

    Vi sono tanti modi per rifiutare il Padre e il cammino di ritorno a lui.

    Il più comune,anche se meno appariscente perché nascosto nelle nostre profondità è il rifiuto della morte.

    Un pensiero che viene allontanato anche se è la realtà più certa della nostra esistenza. Essa incombe sulla nostra vita, incombe nella forma di domanda: che ne sarà di me dopo la morte? Se bisogna morire che senso ha vivere? Dove vanno le mie fatiche, le mie speranze, le mie gioie, i miei dolori?

    La morte: essa si presenta come “una sentinella che fa guardia al mistero. E’ come la roccia dura che ci impedisce di affondare nella superficialità”.

    Essa costringe a chi si interroga a cercare una meta per la quale valga la spesa vivere.

    Non meraviglia che l’uomo quando si pone dinanzi a questi interrogativi, e spesso se li pone solo in momenti drammatici della propria vita, si senta in un certo senso sul fondo della vita stessa. Si accorge che in quel punto la vita stessa chiede una risposta. Un po’ la situazione del figlio prodigo che si ritrova a toccare il fondo, ma che proprio grazia a questa situazione è capace di far memoria della casa del padre abbandonato. L’esperienza della miseria gli consente di guardare in faccia la via della morte che sta percorrendo e di ribellarsi ad essa.

    Nella solitudine delle domande ultime si aprono solo due strade: l’angoscia e la disperazione del nulla o il presentimento, la nostalgia di un Altro che “possa accoglierci e farci sentire amati, al di là di tutto e nonostante tutto”.

    Il Padre rappresenta l’immagine di qualcuno a cui ci si possa affidare senza riserve, una roccia alla quale ancorare saldamente la nostra vita.

    Perché allora tanti rifiutano questo riferimento ad un Padre che darebbe sicurezza e ragione alla nostra vita?

    La psicologia ricorda come la figura del genitore rappresenta pure l’avversario da combattere, da cui emanciparsi, per rivendicare la libertà alla propria vita e alle proprie scelte. La sua “uccisione” rappresenta l’affermazione di noi stessi e del nostro destino, per fare in fin dei conti ciò che ci piace fare. Una cattiva esperienza compito nel seno della famiglia in questo senso rischia di oscurare l’immagine paterna di Dio, così pure si potrebbe dire di ogni altra forma di rapporto che risponde ad una dinamica di “paternità”.

    Lo scrittore Franz Kafka nella sua Lettera al padre (1919) scrive: “La sensazione di nullità che spesso mi domina ha origine in granm parte dalla tua influenza… Io potevo gustare quanto tu ci davi solo a prezzo di vergogna, fatica, debolezza e senso di colpa. Insomma potevo esserti riconoscente come lo è un mendicante, non con i fatti. Il primo risukltato visibile di questa educazione fu quello di farmi rifuggire tutto quanto, sia pur alla lontana, mi ricordasse di te”.

    Ma quando parliamo di ritorno alla casa del Padre cosa intendiamo? No di certo una regressione e dipendenza infantile, uno scaricare la propria responsabilità. Il Padre di gesù Cristo ci chiama alla libertà vera, corresponsabile, creatrice con lui. Questo padre non è un’aspèirazione, un sosprio interiore: è una persona che ci è stata rivelata, a cui possiamo appoggiarci come a roccia che non crolla, come ad un cuore che sappiamo palpitare d’amore per noi.

    2.I CAMMINI INQUIETI DI UN’EPOCA: IL SECOLARISMO E LA SOCIETA’ SENZA PADRI

    Questo rifiuto del padre si è operato in modo concomitante anche a livello culturale caratterizzato da un progressivo secolarismo.

    L’illuminismo ha introdotto il concetto di età di ragione, un mondo ormai adulto, padrone di sé e del proprio destino ormai governabile dalle sicure leggi della scienza.

    Quest’ambizione lentamente è andata sgretolandosi. Essa aha dato origine alle grandi ideologie in cui erano presenti subodli sotituti del padre a cui ancorare la sicurezza della vita e del futuro: il capo carismatico, il ruolo del partito, la scienza e il progresso…

    La morte di Dio era considerata condizione essenziale per il futuro felice dell’umanità.

    Ma questa ideologia ha prodotto in mezzo ad innegabili conquiste soprattutto frutti di morte: lo dimostrano i genocidi, i campi di concentramento, la solitudine, la massificazione, la distruzione della natura, la sperequazione economica fra i popoli…

    La società senza Padre non ha riunito l’umanità, l’ha al contrario frantumata in miriadi di solitudini.

    L’uomo di oggi è indifferente, incapace di passione per la verità e di grandi speranze. Si è chiuso in un corto orizzonte legato al proprio interesse o a quello del gruppo. La frammentazione ha preso il posto dei grandi sistemi totalitari.

    La fine della società senza padri non ha dunque equivalso ad un ritorno alla casa del padre come forse alcuni speravano. Anzi: si è fatto largo l’atteggiamento del relativismo come abbandono delle certezze ideologiche, l’indifferenza ai valori, una vita spesa alla ricnorsa frenetica dell’effimero.

    In questo contesto la situazione di allonmtanamento dal padre si è ulteriormente aggravata: “il padre non è più figura di un avversario da combattere o di un despota da cui liberarsi, ma è figura priva di ogni interesse o attrattiva. Ignorare il padre è in fondo più tragico che combatterlo per emanciparsi da lui.

    Crollarono le grandi ideologie facendo nascere un pensiero debole che riconosce il fallimento di quelle vecchie pretese. Il pensiero debole non nega Dio, in quanto non sente il bisogno di farlo. Esso svuota di significato e di attrattiva il trascendente. Al massimo si può convivere con lui come uno delle tante cose o “ornamenti”. Esso non segna per nulla l’esistenza.

    In fin dei conti il figlio maggiore viveva sì nella casa del Padre, ma di fatto lo ignorava.

    Guardando a questa realtà saremmo tentati di applicarla agli altri, a quelli di fuori.

    Si tratta invece di prendere atto che questi rigurgiti esistono anche in noi. Li sperimentiamo anche in noi stessi, non sentiremo i lontani come fuori di noi, ma li riterremo compagni di cammino, in questa nostra storia.

    Lo Spirito di gesù continua a gridare in noi, in ciascuno: Abbà! Padre!.

    Si tratta di far sì che impariamo ed aiutiamo gli altri ad imparare a riconoscere in noi questo grido.

    3. LA VITA COME PELLEGRINAGGIO VERSO IL PADRE

    Da quanto accennato comprendiamo come all’uomo in fin dei conti non si aprano che due possibili vie.

    Da un lato, l’uomo chiuso in se stesso in una proteica pretesa d’essere padrone di sé e del proprio destino, intento a conseguire i corti rizzonti dei propri progetti: il risultato è solitudine, scontentezza, non senso.

    Dall’altro un uomo che si pone in ricerca di un orizzonte più grande che gli è dato come promessa da un Altro, un Padre che ci corre incontro e ci chiama.

    Per il credente vi è dunque l’invito a porsi come un pellgrino in cammino, un ritorno alla casa del Padre nella certezza che non si vive per la morte ma per la vita, che il nostro porto è legato ad un Padre che dona la vita. E’ un Padre che ci  costringe a ripartire continuamente, che ci pone in cammino insieme ai nostri fratelli, non lascia che ci ripieghiamo sulle nostre tristezze e solitudini.


  • 02 Feb

    CONOSCERE IL PADRE

    di p. Attilio Franco Fabris

    Gesù è mediatore della conoscenza del Padre:

    Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare (Mt 11,27).

    Ma che cosa significa conoscere il Padre?

    Per la natura umana comune e condivisa da tutti noi possediamo una base di conoscenza reciproca che ci permette una comunicazione di esperienze, ma nello stesso tempo ciascuno è unico ed irrepetibile il che fa sì che ciascuno sia portato ad uscire da sé, per andare incontro all’altro.

    Talvolta poi una terza persona ci pone in contatto con qualcosa di diverso, ovvero mi introduce in una sua conoscenza, mi aiuta ad esempio a stringere nuovi legami. Questa persona appare allora come mediatore.

    Partendo da queste considerazioni ci domandiamo allora: ma è possibile a noi creature umane conoscere Dio come persona? Noi non abbiamo la sua natura, tra lui e noi è posta una distanza abissale. Come possiamo dire di conoscere il Padre?

    Una conoscenza di Dio “naturale” mi porta tuttalpiù a prendere coscienza di una entità superiore e metafisica. E’ una conoscenza filosofica, dottrinale. E’ un po’ come il “Dio ignoto” da cui Paolo ad Atene prenderà lo spunto per annunciare Cristo e il Padre (cfr At 17,23).

    L’unica possibilità che rimane è dunque una rivelazione. La Scrittura ci dice che l’uomo è immagine di Dio, fatto a sua somiglianza.

    Questo allora mi fa capire che tutto ciò che è autenticamente umano mi può portare a Dio, condurre a lui, ad una certa conoscenza di lui.

    Ma questa stessa rivelazione non si limita a questo, perché sappiamo che la natura umana non è più così trasparente da portarci imemdiatamente all’immagine di Dio.

    Dio stesso compie un passo qualitativamente diverso, prende l’iniziativa di farsi conoscere incarnandosi, facendosi prossimo all’uomo stesso.

    San Giovanni nel suo vangelo presenterà Gesù come rivelatore, “esegesi” del Padre.

    Nella “preghiera sacerdotale” Gesù dice:

    Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo.

    Ancora è lo stesso Gesù che dopo la sua morte e risurrezione fà dono alla sua comunità del suo Spirito. Nell’uomo è infusa questa presenza divinizzante che ci rende capaci di sintonizzarci e di conoscere il Padre all’interno di una relazione di amore e di allleanza.

    Chiedere nella preghiera inistentemente di possedere tale conoscenza è vitale per noi: è possedere la vita eterna.


    CONOSCERE GESU’  E’ CONOSCERE IL PADRE

    Gv 7,29: Eppure io non vengo da me e chi mi ha mandato è veritiero. Voi non lo conoscete; io però lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato.

    Nell’accostare la persona di gesù non dobbiamo fermarci al Gesù storico nell’uillusione così di poterlo già conoscere. La vita terrena di gesù è certo ricchissima in questo senso ma è insuffciente.

    Conoscere gesù implica accostarsi al suo mistero di Figlio eternamente generato da Padre, di inviato dal Padre, di rivelatore del Padre.

    AI Giudei gesù ripeterà che essi non conoscono il Padre perché non riconoscono il Figlio.

    Chi conosce il Padre è solo gesù, perché Dio nessuno l’ha mai visto (Gv 1),  e lui è venuto in questo mondo per comunicarci questa conoscenza.

    Quindi conoscere superficialmente Gesù significa conoscere superficialemnte il Padre. Rispose gesù: Voi non conoscete né me né il Padre; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio. (Gv 8,19).

    Ne scaturisce il dato di fatto fondamentale che per il discepolo è essenziale la familairità col Vangelo al fine di poter conteplare il mistero del Padre: Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.

    Allora potremmo interrogarci se quando invochiamo “Dio nostro”, “Dio mio”, lo invochiamo e riconosciamo realmente come il Padre di Gesù e Padre nostro. Oppure se in noi esiste ancora una spaccatura tra Gesù e un Dio ancora generico e misconosciuto.

    La vera adorazione da tributare al Signore Gesù è quella di ricoscerlo come inviato del Padre, come immagine perfetta del Dio invisibile.

    IO E IL PADRE SIAMO UNA COSA SOLA

    Un testo importante appartiene al “discorso di addio” pronunciato da gesù nell’ultima cena. Gesù risponde agli interventi di Tommaso e di Filippo:

    Non sia turbato il vostro cuore.

    Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me.

    Nella casa del Padre nio vi sono molti posti; se no, ve l’avrei detto.

    Io vado a prepararvi un posto.

    Quando sarò anadato e vi avrò preparato un posto,

    ritornerò e vi prenderò con me,

    perché siate anche voi dove sono io.

    Già conoscete la via per anadre dove sono vado?

    Gli disse Tommaso: Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?

    Gli disse Gesù: Io sono la via, la verità e la vita:

    nessuno vine al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,1-6)

    Gesù si presenta come via che conduce al Padre, il che supera di molto la nube e il fuoco che guidavano il popolo ebreo nel deserto.

    Gesù è la vita che egli eternamente riceve dal Padre, da lui possseduta in pienezza e a noi comunicata.

    Gesù è verità non solo perché porta agli uomini un insegnamento vero, ma perché lui stesso è piena verità del Padre.

    Viene poi l’intervento di Filippo:

    SE conoscete me,  conoscerete anche il Padre.

    Fin da ora lo conoscete e lo avete veduto.

    Gli dice Filippo:

    Signore mostraci il Padre e ci basta.

    Gesù gli risponde:

    Da tanto tempo sono con voi

    e tu non mi hai conosciuto, Filippo?

    Chi ha visto me ha visto il Padre.

    Come puoi dire: Mostraci il Padre?

    Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me.

    Le parole che io vi dico, non le dico da me;

    ma il Padre che è in me compie le sue opere” (Gv 14,7-10).

    Contemplando attraverso il Vangelo la vita di Gesù, noi percepiamo come in filigrana la presenza e l’azione del Padre.

    Nell’antico testamente Dio parla nel tuono e nel fulmine,è avvolto da nubi oscure: non si può vedere il volto di Dio. Quando Mosè rivolegrà a JHWH la preghiera: “Mostrami la tua gloria”. Il Signore gli risponde: Non potrai vedere il mio volto, perché nessuno uomo può vedermi e restare vivo (Es 33,18-20).

    Nell’ultima cena Filippo ripete la preghiera audace di Mosè, e qui riceve una risposta affermativa: in Gesù Maestro e Signore egli può contemplare il volto del Padre.

    Ci domandiamo: noi che quotidianamente leggiamo e meditiamo le pagine del Vangelo, accopagnando gesù nel suo cammino possiamo dire di conoscerlo veramente? Riusciamo a avedere in lui il volto del Padre.

    Certo non vediamo il volto terreno di Gesù, tuttavia la stessa esperienza degli apostoli è possibile tramite gli occhi della fede.

    Tanta esperienza mistica lungo i secoli testimonia in modo impressionante questa possibilità.

    Ricordiamo che questo è possibile poiché esiste un’unità inscindibile perfetta eterna tra il Figlio e il Padre, con lo Spirito sono una “cosa sola” (Gv 10,30).

    E questa unità tramite il Figlio si apre per accoglierci.

    IL RUOLO DELLO SPIRITO

    Nella rivelazione del Padre anche lo Spirito ha un suo ruolo: Io pregherò il Padre che vi manderà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre… ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome egli v’insegnerà tutto e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,15ss).

    Lo Spirito sarà mandato anche dal Padre per riguardo al Figlio, o quando gli uomini lo chiederanno invocando il Figlio. Abbiamo qui un forte riferimento trinitario.

    Il Figlio manda lo Spirito da parte del Padre; il compito dello Spirito è di rendere testimonianza al Figlio. Lo Spirito accuserà il mondo di peccato e ristabilirà la giustizia e sarà pronunciata la sentenza di condanna del “principe di questo mondo”.

    E anche i discepoli, mossi dallo Spirito, sono inviati a rendere testimonianza a Gesù in quanto inviato dal Padre. Tutta la missione apostolica sta sotto il segno dello Spirito.

    Questo è lo Spirito che Gesù continua a mandare sulla Chiesa e sul mondo

  • 31 Gen

    MA LIBERACI DAL MALE


    di p. Attilio Franco Fabris

    Dio vide tutto ciò che aveva fatto: ed era molto buono (Gn 1,31).

    Nonostante questa affermazione posta nella prima pagina della Scrittura Gesù ci fa invocare, per l’affrettarsi del Regno, al Padre la liberazione dal male: Liberaci dal male!

    E’ nell’esperienza comune dell’uomo di ogni tempo una suddivisione della realtà in cose buone e cattive.

    To’b – agathos è tutto ciò che è buono e bello, ciò che sentiamo piacevole.

    Al contrario ra’ – poneròs – kakòs è ciò che è portatore di sofferenza, dolore, e soprattutto morte.

    UNA DIVERSITA’ DI RISPOSTE ALLO STESSO PROBLEMA

    Di fronte al problema del male che ogni giorno, attraverso l’esperienza personale e i mass-media , l’uomo si trova ad affrontare egli avverte un certo imbarazzo: se da un lato ne è affascinato per la prospettiva dell’indipendenza, dell’autonomia, del potere dall’altro se ne sente la minaccia e il sapore di morte.

    Di fronte a tale ambivalenza è diverso il modo di posizionarsi di fronte al problema del male.

    Una prima possibilità è che l’uomo mettendo a tacere la propria coscienza, richiamo nostalgico della propria dignità e della casa del padre, faccia volutamente la scelta del male come percorso di realizzazione di sé. Un cammino che noi crediamo condurre al nulla, alla disperazione e “dannazione”.

    Da un altro lato l’uomo può sentirsi schiacciato, impotente di fronte ad un male esterno ed interno che lo coinvolge e spesso travolge; da qui una passiva rassegnazione, un incrociare le braccia misconoscendo le proprie responsabilità.

    Da un altro lato l’uomo può aggredire colui o coloro che ritiene responsabili del male: può essere l’altro che mi sta di fronte, oppure un gruppo, un popolo; e questa è una strada che ha risposto al male con altro male.

    Oppure vi può essere un altro responsabile: Dio. Il male è un difetto della sua creazione. Nel IV sec.  A.c. Epicuro affermava: O Dio vuole sopprimere il male e non può e allora è impotente… Oppure non vuole e non può, e allora è un “niente”… Oppure può sopprimere il male e non vuole, e allora è malvagio… O infine, può e vuole, e allora dove è questo Dio e da dove viene il male?

    UNA LETTURA DIVERSA

    La risposta della Rivelazione biblica è diversa; essa ci parla di un ”mistero dell’iniquità” e in quanto tale ci rimanda ad una spiegazione che va al di là dei nostri ragionamenti e deduzioni.

    La Scrittura ci presenta la realtà tragica dell’uomo: creato nella libertà per il bene e in un mondo buono egli ha scelto una strada diversa: fin dall’origine ha scelto il male.

    Ha cercato il bene nelle creature al di fuori della volontà di Dio, ha preteso di ergersi a dio lui stesso, nel diritto e capacità di decidere autonomamente del bene e del male. E’ questa in fin dei conti l’essenza del peccato.

    La conseguenza, subito sperimentata già dai progenitori, è stata un frutto di sofferenza e di morte (cfr. Gn 3,16-19). Una conseguenza scaturita dal fatto che liberamente staccatosi dalla fonte della vita l’uomo si è ritrovato immediatamente solo e diviso.

    Questa scelta ha fatto sì che il male potesse entrare, come in una breccia ormai insanabile, nel mondo e qui proliferare. L’umanità diviene talmente cattiva da “far pentire” Dio d’averla creata (Gn 6,5). L’uomo non ha più saputo arginare il male.

    L’uomo sperimenta duramente che ormai “il mondo intero è in potere del maligno” (1Gv 5,19).

    Per ogni singolo uomo, per tutta l’umanità, si spalanca la voragine dell’esperienza della lacerazione, di una  schiavitù dalla quale non ci si riesce ad affrancare..

    Il poeta Ovidio, contemporaneo di s. Paolo, scriveva: “Vedo il bene e lo approvo, ma seguo poi le cose peggiori” (Metamorfosi, 7), e ancora il filosofo Seneca che in una sua lettera dice: “Perché mai, caro Lucillo, mentre tendiamo a una meta siamo tirati in una direzione opposta e spinti là donde vorremmo fuggire? Qual è mai la forza che è in continuo contrasto col nostro animo e non ci lascia voler niente con fermezza?… Nessuno da solo è abbastanza forte per liberarsene: è necessario che qualcuno gli dia una mano, che qualcuno lo tragga fuori” (Ep. 52).


    UNA DRAMMATICA SITUAZIONE

    C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo” (Rm 7,18).

    E’ una frase lapidaria tratta dall’epistolario di Paolo; essa non riguarda solo l’esperienza dell’apostolo ma quella di tutti noi.

    Si tratta di una situazione di cui prendiamo coscienza innumerevoli volte lungo l’arco, non dico della vita, ma di una sola giornata.

    Questa lacerazione insanabile, questa drammatica impotenza invoca liberazione e guarigione: Chi mi libererà?

    Paolo arriva perciò ad affermare che ormai nell’uomo vi è una legge contraria a quella dello Spirito. L’apostolo la definisce la “legge della carne”. Si tratta di un dinamismo sfrenato di amor proprio, di desideri, di concupiscenze. A questo l’uomo è attratto e asservito.

    Si giunge ad una concezione profonda della realtà del peccato. Esso non consiste solo in qualche violazione o trasgressione della Legge, è qualcosa di ben più grave. E’ realtà che incatena come una ragnatela tutti e tuttoNon c’è un giusto, neanche uno!” (Rm 3,10); “Non c’è sulla terra un giusto che faccia solo il bene e non pecchi” (Qo 7,20). (anche il creato)

    La Legge non fa altro che portare l’uomo a prendere consapevolezza di questa malizia e lontananza da Dio e dell’impossibilità da se stessi di liberarsi da tale tragica situazione. In un certo senso essa acutizza l’angoscia di un’umanità incapace di “scegliere e di fare” il bene: Nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra (Rm 7,23).


    UN GRIDO CHE INVOCA LIBERAZIONE

    Ecco allora il grido di Paolo: “Oh me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rm 7,24).

    Infatti “la resistenza della natura è cosa sconcertante. Sappiamo tutti che la peccaminosità, cioè la ricerca selavaggia, animale della propria soddisfazione e affermazione, è per eccellenza ciò che ci rende infelici. La peccaminosità è quindi alla coscienza dell’uomo una cosa intollerabile, un entrare in un inferno; per questo essa provoca la ricerca sfrontata di anestetici psichici, di divertimenti e compensazioni. “ (A. Ledrus)

    Questa liberazione invocata ha trovato finalmente risposta nella misericordia di Dio: “Siano rese grazie a Dio mediante Gesù Cristo Signore nostro” (Rm 7,25); “Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria mediante il Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 15,57).

    Non si tratta di una liberazione raggiunta mediante la padronanza di sé in una ricerca di autocontrollo come dicevano gli stoici, non propone la via della morte come soluzione di un dramma insolubile (come per Platone), non rimanda solo ad un futuro escatologico in cui finalmente l’uomo sarà liberato (come nel giudaismo).

    Questa liberazione si è già verificata, è già stata introdotta nella storia, una “nuova creazione” è già in atto.

    All’uomo è stato dato un “cuore nuovo” capace di rispondere alle esigenze della nuova alleanza. Tale liberazione trova in Cristo Gesù morto e risorto la sua rivelazione ed attuazione. Il credente innestato in Cristo mediante la fede e i sacramenti partecipa già della sua liberazione e della sua vittoria.

    Il Battesimo è il nostro essere rigenerati alla vita nuova di figli non più schiavi del male.

    La Confermazione è la forza dello Spirito che ci rende capaci della lotta contro il potere di Satana.

    L’Eucaristia è il nostro essere innestati in Cristo vincitore della morte e del peccato, ovvero di ogni male. Il suo corpo e sangue ne sono segno e pegno.

    Nel sangue di Gesù si è manifestata la grazia del Padre che ha sottratto l’uomo alla signoria schiavizzante del Male.

    Vorrei accennare pure al sacramento della Penitenza come luogo privilegiato in cui il credente sperimenta la vittoria di Cristo sul suo male e sul suo peccato, luogo di misericordia e di festa in cui è dato al credente di credere nella forza della misericordia del Padre più grande di ogni male.

    Niente ormai può nuovamente incatenare il credente, strapparlo “all’amore di Dio che si è manifestato in Cristo Gesù Signore nostro” (Rm 8,39): è in lui la radice della nostra libertà. “Non c’è più dunque nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù. Infatti la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rm 8,1-2).

    LA LIBERAZIONE COME DONO

    La liberazione dal male non è dunque frutto dei nostri sforzi, essa è un dono posto in noi, un dono da chiedere incessantemente affinché la vittoria di Cristo sia rinnovata continuamente in noi: “Liberaci dal male”.

    Tale liberazione è frutto di grazia immeritata: “mentre eravamo ancora peccatori” (Rm 5,8).

    Questo non toglie che essa non domandi una nostra collaborazione all’opera della grazia: “la domanda a Dio di liberazione dal male diviene sincera quando noi stessi ci impegniamo nella mortificazione e nella positiva abnegazione delle soddifazioni con cui nutriamo la nostra esistenza, e nella rottura di quei condizionamenti interiori ed esteriori che, alla luce della parola di dio, riconosciamo come peccaminosi: forze di palese o mascherata schiavitù” (A. Ledrus) .

    Il male da cui chiediamo di essere liberati è anzitutto dentro di noi. Chiedere di essere liberati dal male significa chiedere di essere liberati da tutto ciò che in noi si frappone all’opera di liberazione che il Padre per Cristo ha per noi predisposto. Lutero diceva: Qui credit in Christum evacuatur a seipso – Chi crede in Cristo deve svuotarsi di se stesso.

    Significherà ancora coraggio di coinvolgersi in una lotta contro il male non solo presente dentro ciascuno di noi ma anche fuori di noi: quel male che si rivela in strutture di ingiustizia, di sopraffazione, di violenza… quante volte il grido della Chiesa si è alzato contro il male presente nel mondo, un grido coraggioso che ha comportato spesso il sangue di tanti martiri.

    Chiedere una liberazione dal male per che cosa? Per qual fine? Non si tratta solo di eliminare qualcosa, una macchia o una sporcizia; è qualcosa di molto di più! Domandiamo una presenza che garantisca la liberazione ottenuta e sia essa stessa la novità ottenuta: è Gesù questa novità.

    Ormai l’uomo, trasformato dalla grazia, può “fare il bene” (cfr. Gal 6,9s); può “fare opere buone” (cfr. Mt 5,16).

    In forza delle promesse battesimali il cristiano ha rotto definitivamente con l’opzione di Adamo.

    Ma attenzione! Essere liberati dal male non significa non sentire più l’impulso del male, la sua attrattiva, la possibilità di compierlo.

    Non perché si sperimenta questo significa che la nostra adesione a Cristo sia inutile.

    Il credente invece si pone alla luce di Cristo, sapendo che in lui il peccato è già stato sconfitto da Cristo. Siamo ormai irrevocabilmente votati alla sua signoria.

    E’ una richiesta possibile anche al credente che sperimenta in sé la fragilità e la disposizione di innumerevoli cadute. Egli può ripetere le parole della Preghiera del Signore in tutta verità, nella certezza che Dio gli rimane sempre propizio, che il suo essere  peccatore è oggetto delle premure della grazia. E’ certo che il Padre “non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva”.


    LIBERACI DAL MALIGNO

    L’ultima domanda del Padre nostro la ritroviamo anche nella preghiera stessa di Gesù per i suoi discepoli: Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal Maligno (Gv 17,15).

    Ci vogliamo inserire in questa preghiera che si fa solidale con tutta l’umanità bisognosa di liberazione.

    Il termine poneròs con cui si definisce il “male” è equivoco: grammaticalmente può essere inteso sia al genere neutro come a quello maschile.

    Il “mistero di iniquità” nella rivelazione non viene inteso solo come una semplice assenza di bene; esso è una forza, un’entità personale, che asservisce l’uomo e corrompe il mondo.

    Il catechismo della Chiesa Cattolica afferma: Il Male non è un’astrazione, indica invece una persona: Satana, il Maligno, l’angelo che si oppone a Dio. Il “diavolo” (“dia-bolos” colui che “si getta di traverso”) è colui che “vuole ostacolare” il Disegno di Dio e la sua “opera di salvezza” compiuta da Cristo. (n. 2851).

    Dio non l’ha creato, ma ora che è apparso, essa gli si oppone. Ha iniziato una guerra incessante che durerà quanto la storia. Si avventa “contro la Donna”, ma non la può ghermire. “Allora si infuria contro la Donna” e se ne va “a far guerra contro il resto della sua discendenza” (Ap 12,17). E’ per questo che lo Spirito e la Chiesa pregano: Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,17.20): la sua venuta infatti ci libererà dal maligno” (CCC 253).

    Teniamo tuttavia ben ferma la certezza che se il demonio regna nel mondo lo fa solo per mezzo della malizia umana. Nella misura in cui la malizia viene ammessa e prevale nel nostro cuore si cade sotto l’influenza dominatrice di Satana: Il Male non è infatti tanto forte da potersi opporre alla potenza del signore, ma ha potuto nascere in virtù della disobbedienza ai comandamenti (Gregorio di Nissa, Il fine cristiano).

    L’entrare nel regno include una violenza, una volontà risoluta nel voler collaborare con la grazia al fine di vincere tali tendenze-passioni (Mt 11,12: Dal tempo di Giovanni il Battista fino ad ora il regno dei cieli è oggetto di violenza, e i violenti vogliono impadronirsene). E’ questo il grande capitolo che la teologia spirituale riserva all’ascesi, indispensabile componente di ogni cammino che voglia dirsi autenticamente spirituale.

    “Le nostre affezioni disordinate, i nostri favoreggiamenti allo spirito laico e borghese, i compromessi con ogni forma di potere sono le catene delle quali il maligno tiene uno degli estremi per ritardarci, farci indietreggiare, vacillare e cadere sul cammino della salvezza. Rotti questi legami, Satana non ha più potere su di noi” (A. Ledrus).

    Paolo inviterà i cristiani di Efeso: Rivestite l’armatura di Dio onde poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra lotta non è con avversari di sangue e carne ma contro i principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male” (Ef 6,11-12).

    Da qui il dovere di una vigilanza incessante: Siate sobri, vigilate, il vostro nemico il diavolo, come leone ruggente si aggira, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede (1Pt).

    In questo combattimento contro il male è necessario rinsaldare la virtù della speranza, che vinca ogni nostro scoraggiamento quando sperimentiamo la nostra debolezza e sconfitta. Occorre sempre ravvivare la speranza nella vittoria di Cristo a cui già partecipiamo in virtù della fede e del battesimo.

    E’ Cristo vincitore che alla sua comunità e ad ogni discepolo ripete ancora oggi: Ecco che io vi ho dato il potere di calpestare serpenti e scorpioni e ogni potenza del nemico, e niente vi nuocerà (Lc 10,19).

    Scrive sant’Ambrogio nel suo trattato De Sacramentis: Il signore che ha cancellato il vostro peccato e ha perdonato le vostre colpe, è in grado di proteggervi e di custodirvi contro le insidie del diavolo che è il vostro avversario, perché il nemico, che suole generare la colpa, non vi sorprenda. Ma chi si affida a dio, non teme il diavolo: “Se infatti Dio è con noi chi sarà contro di noi?” (Rm 8,31)” (5,30).

    Siamo discesi con quest’ultima domanda nel profondo della nostra povertà, l’abisso del male in cui rischiamo di rimanere avvinghiati. Il Padre nostro ci ha fatto ripercorrere tutti i grandi temi della fede, ora si conclude qui, con una invocazione al Padre affinché doni ai suoi figli la pace, la vita, la gioia, l’allontanamento da tutto ciò che si può frapporre tra noi e Lui.

    In quest’ultima domanda la Chiesa porta davanti al Padre tutta la miseria del mondo. Insieme con la liberazione dai mali che schiacciano l’umanità, la Chiesa implora il dono prezioso della pace e la grazia dell’attesa perseverante del ritorno di Cristo. Pregando così, anticipa nell’umiltà della fede la ricapitolazione di tutti e di tutto in colui che ha “potere sopra la Morte e sopra gli Inferi” (Ap 1,18), “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” (Ap 1,8) (CCC 2854).

    SCHEDA DI LAVORO

    1. Come ti poni di fronte al problema del male presente in te e intorno a te. Che tipo di risposta cerchi di darvi? (nessuna risposta, rassegnazione, colpevolizzazione di altri, o di Dio, scoraggiamento…).

    2.In quale misura ti senti responsabile del male?

    3.Il male presente in te e nel mondo fa scaturire l’ansia della liberazione? Fa nascere l’invocazione: Liberaci dal male? In quale misura vivi la certezza che la forza di Dio è la tua forza, che in Cristo sei già vincitore del peccato e della morte? Cosa scaturisce da questa certezza? Oppure te ne senti schiacciato?

    4.La presenza e l’agire di Satana nel mondo è un dato di fede. San Pietro ci mette in guardia: Siate sobri e vigilate, il vostro nemico il diavolo si aggira! Cerchi di arginare la sua azione tramite una giusta ascesi?

    5.In quale misura ti lasci coinvolgere nella lotta contro le varie forme di male presenti nel mondo? Cosa potresti fare di più o meglio?

  • 30 Gen

    NON CI INDURRE IN TENTAZIONE

    di p. Attilio Franco Fabris

    Una conclusione questa della preghiera del Signore che apparve subito alquanto strana se paragonata a tutte le preghiere giudaiche. Esse non terminano mai, per così dire, al negativo, ma sempre con una benedizione o una richiesta di pace. Nel Padre Nostro, quasi si discendesse una china sempre più profonda, al termine ritroviamo il richiamo alla tentazione e al maligno!

    Un disagio dimostrato già in alcuni manoscritti del N.T. e apostolici. La Didaché, un documento importantissimo databile alla stessa epoca degli ultimi scritti canonici, testimonia l’aggiunta di alcune comunità di una solenne esaltazione della regalità di Dio: Poiché tuo è il Regno, tua la potenza e la gloria nei secoli (8,3).

    UN DIO CHE CI TENTA?

    Come se non bastasse questo la stessa richiesta di “non indurci in tentazione” risulta poco chiara. Immeditamente viene da domandarsi: come mai Dio metterebbe alla prova l’uomo?

    Diamo uno sguardo ai testi biblici e notiamo un fatto sconcertante: vi è detto che sono i giusti ad essere provati, mai gli empi. La tentazione è un “privilegio”, un appannaggio solo dei “giusti” e dei pii, di cui Giobbe è il primo rappresentante.

    Figlio , preparati alla tentazione. Accetta quanto ti capita, sii paziente nelle vicende dolorose, perché Dio prova gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore (Sir 2,1.4-5).

    Ringraziamo il Signore Dio nostro che ci mette alla prova, come ha già fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare ad Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe (Gdt 9,25-26).

    Dio può tentare con la prova sofferta ma anche col benessere:

    Quando ti sarai saziato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento ed il tuo oro e abbondare ogni cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dmenticare il Signore tuo Dio (Dt 8,12-14).

    A questo punto ci domndiamo: se allora le tentazioni sono utili alla crescita della fede dei giusti e dei “pii”, perché domandare a Dio di “non indurci in tentazione”?

    A questo punto occorre farci una domanda: qual’è la tentazione e il male dal quale chiediamo di essere liberati? Sono forse le contrarietà, le difficoltà della vita, le malattie, le disgrazie, la vecchiaia? E ancora: Perché chiedere di essere liberati dal male se lui lo può fare in un attimo?

    Dio è presentato talvolta nelle vesti del “tentatore”.

    Un esempio classico è il confronto con 2Sam 24,1 nel quale si dice che è Dio ad incitare Davide al censimento. In  1Cr 21,1 si interprterà lo stesso gesto come proveniente dallo spirito cattivo avversario di Dio.

    Con questo si vuole affermare una verità di fondo: che nulla sfugge al progetto di Dio e che anche le azioni malvage sono da lui utilizzate al fine di compiere i suoi disegni (es Iil Signore indurì il cuore del faraone” Es 4,21, ovvero “Dio permise che il cuore del faraone si indurisse”).

    Sono molti i testi in cui Dio è presentato come colui che “mette alla prova” (cf Gn 22,1-19; Es 15,25; 16,4; Dt 8,2; Gd 2,22…). In questi testi si dice che Dio “mette alla prova”, ma non per provocare al male.  Si vuole affermare che Dio vuol far crescere nella fedeltà il suo popolo e i suoi eletti attraverso tutti gli avvenimenti in cui si trovavano coinvolti. Pur trattandosi di fatti provocati da fattori umani, la Scrittura li presenta come “tentazioni” di Dio in quanto situazioni che imponevano scelte decisive e sofferte in suo favore o contro di Lui.

    E’ DIO O IL DIAVOLO?

    Nel VI sec. Israele viene a contatto con le culture e religioni persiane.

    Si fa strada la concezione che il male esistente nel mondo sia causato dall’avversario di Dio: Satana. Una figura che aiuterà a purificare notevolmente il linguaggio teologico della Bibbia.

    Si comprende che situazioni di male, di peccato non possono essere imputate a Dio ma al suo avversario: è questi che diviene allora il “tentatore” per eccellenza (cf Sp 2,24; Gb 1-2;…)

    Rimane sì una tentazione che costantemente viene attribuita a Dio: quella derivante dalla sofferenza, dalle disgrazie, dalle contrarietà della vita:

    Figlio, se cominci a servire il Signore, preparati alla prova (Sir 2,1)

    Dopo essere stati castigati un poco saranno largamente premiati, poiché Dio li ha provati come oro nel crogiulo e li ha trovati degni di sé (Sap 3,5).

    Per questo si giungerà addirittura a chiedere la prova come occasione di crescita di fede:

    Saggiami, Signore, e mettimi alla prova, esamina col fuoco le mie reni (Sal 26,2).

    Una preghiera rischiosa e da farsi con molto discernimento.

    Esiste un racconto ebraico molto esplicativo al riguardo di rabbi Jehuda: “Un giorno Davide si lamentò con Dio dicendo: “Signore del mondo, perché si dice: Dio di Abramo, Dio d’Isacco e Dio di Giacobbe e non Dio di Davide?”. Il Signore rispose: “Perché essi sono stati messi  alla prova e tu no”. Allora Davide gli disse: “Signore, metti alla prova anche me, tentami, come dice il salmo”. Dio acconsentì alla preghiera, gli fece incontrare Bersabea moglie di Uria e…”.

    Nel Nuovo Testamento l’immagine di un Dio che “tenta” l’uomo è completamente abbandonata:

    Nessuno, quando è tentato, dica: Sono tentato da Dio! Perché Dio non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce” (Gc 1,13-14).

    Così la tentazione è attribuita alle seduzioni dello spirito del male (cf 1Pt 5,5-9; 1Cor 7,5; Lc 8,13).

    Certo rimane saempre la convinzione che la prova svolge un ruolo importante nel cammino di purificazione della fede:

    Considerate motivo di perfetta letizia il fatto di essere sottoposti a ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la costanza… Beato l’uomo che sopporta la prova, perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita” ( Gc 1,2-3.12).

    Esultate pur essendo afflitti da svariate prove… Non stupitevi della persecuzione che si è accesa in mezzo a voi per provarvi, quasi che vi succedesse qualcosa di strano. Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi (1Pt 1,6; 4,12-13).

    Teniamo però presente che anche in questo caso le “tentazioni” non sono attrbuite a Dio. E’ la fede in lui  che aiuta ad affrontarle e superarle.

    COS’E’ LA TENTAZIONE?

    Il termine “tentazione” nell’accezzione comune richiama immeditamente una provocazione al male, al peccato. Da qui la difficoltà a capire come Dio possa “indurre” al male.

    Ma un’analisi dei testi biblici fa risaltare chiaramente che esistono diversi tipi di tentazione.

    C’è quella che ha come scopo quello di farci cadere, e Dio non ne può essere l’autore.

    Vi è una seconda tentazione il più delle volte tesa dall’uomo a Dio che si presenta come una volontà negativa di verifica: “Se… allora….”. Dio non si sottomette mai ad essa.

    C’ un’altra tentazione che non presenta caratteristiche di occasione di male e scelta del bene. E’ quella che si offre all’uomo come un’opportunità di crescita, di purificazione, di miglioramento. Questa tentazione contiene sì implicitamente il rischio della caduta nel male o nell’errore ma è pure passaggio obbligato per una crescita. Questa tentazione, nel Nuovo Testamento, non è presentata come proveniente da Dio. Dio ne insegna invece la via d’uscita, dona la forza per affrontarla e superarla (cf 1Cor 10,13).

    La medesima situazione che da parte di Satana è sfruttata come “tentazione”, cioè insidia per trascinarci all’infedeltà, rappresenta una “purificazione” da parte di Dio per consolidare la stessa nostra fedeltà.

    Facciamo poi attenzione che la lingua ebraica non distingue tra volontà causativa e volontà permissiva. Quando la Scrittura dice che Dio “tenta”, ciò equivale a “permette la tentazione”. E quindi anche l’espressione del Pater traducendola va intesa correttamente così: Non permettere che siamo indotti in tentazione.

    Nel Pater non chiediamo solo di non cadere, ma addirittura di “neppure entrare” nella tentazione di abbandonare la sequela di Gesù. “Una richiesta questa che implora lo Spirito di discernimento e di fortezza” (CCC 2846).

    Un’antica preghiera ebraica contemporanea a Gesù diceva: Non indurmi al potere del peccato, né alla forza della colpa, né alla violenza della tentazione, né al disprezzo. Fa’ in modo che io sia guidato dall’istinto buono e che l’istinto cattivo non mi domini (Ber.b. 60b).

    LA GRANDE TENTAZIONE

    Ancora una volta vediamo come il Padre Nostro ci riaggancia alla preghiera di Gesù nel Gethsemani. Significativamente l’ambito in cui il Pater viene a collocarsi in modo perfetto, ci dicono gli esegeti, sembra essere proprio il racconto della dolorosa passione del Signore.

    Se Gesù ci fa chiedere di “non essere indotti in tentazione” questo è perché lui stesso ha provato la violenza della tentazione: Sa compatire le nostre infermità perché è stato tentato in tutto come noi (Ebr 4,15)

    Nel Padre nostro non chiediamo al Padre che prepari per noi un cammino diverso, più comodo e meno rischioso di quello del Figlio suo Gesù. Imploriamo da lui invece di non essere lasciati a soccombere tristemente e mortalmente alla tentazione.

    Quale tentazione in modo particolare? Non certo dalla nostre piccole colpe o difetti quotidiani anzitutto! La grande tentazione è quella delle defezione, dell’abbandono della sequela di Cristo, della sua sapienza al fine di abbracciare quella del mondo. Non scorderemo che ogni cristiano sarà inevitabilemnte tentato dalle tentazioni che furono già di Gesù nel deserto e nell’orto degli Ulivi.

    E’ questa la “prova”, la “tentazione” per antonomasia. Tutte le altre tentazioni in fin dei conti sono relative a questa: quella di tracciare un nostro cammino, lontano da quello corrispondente alla volontà del Padre. In fin dei conti è un voler uscire dalla sequela crucis.

    Scrive O. Clèment: La grande tentazione sarebbe piuttosto di sentirsi guariti dalla malattia di Dio, guariti dall’interrogativo, alleggeriti del mistero, senza angoscia né stupore”

    La nostra scelta di Cristo non è fatta una volta per tutte, deve essere rinnovata e attualizzata in ogni momento e circostanza della vita.

    Il tempo dell’attesa del ritorno del Signore nella gloria è doloroso tempo di prova per la comunità dei discepoli.

    “Allora vi consegueranno ai supplizi e vi uccieeranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati, ed essi si tradiranno e odieranno a vicenda” (Mt 24,9-10)

    Questo anzitutto dovete sapere, che verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo le proprie passioni e diranno: Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione” (2Pt 3,3-4)

    Gesù disse loro: Tutti rimarrete scandalizzati, poiché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore del gregge saranno disperse” (Mc 14,27)

    L’esistenza della comunità cristiana è e sarà continuamente minacciata dal male fuori e dentro di lei; guai se il Padre non intervenisse col dono dello Spirito di fortezza. “Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo” (Ef 6,11); “Il Signore sastrappare dalla prova gli uomini pii” (2Pt 2,9) (nb qui si parla di una prova non tanto di prova particolari); “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze, ma insieme alla tentazione vi darà anche il modo di uscirne bene, con la possibilità di sostenerla” (1Cor 10,13).

    Gli eletti sono i discepoli che sono stati “provati” dalla tentazione, sono passati “attraverso la grande tribolazione”, e che “hanno perseverato sino alla fine” (Mc 13,13).

    Così la tentazione è paragonata al vaglio: “Simone, Simone, ecco che Satana ha ottenuto di vagliavi come il grano” (Lc 22,31).

    Vediamo che questa richiesta della preghiera del Signore si aggancia direttamente al desiderio dell’attuarsi definitivo del Regno: “La nostra domanda s’inserisce interamente nell’aspirazione di desiderio per la venuta del regno, che fa di essa una preghiera piena di fiducia nella vittoria” (H. Schurmann).

    L’ARMA DEL CRISTIANO

    Quale l’arma affidata da Gesù al discepolo contro l’insidia di questa tentazione? E’ la preghiera: Vegliate e pregate per non entrare in tentazione (Mc 14,38). Si chiede di neppure entrare e non solo di non cadere nella tentazione!

    La preghiera incessante manifesta la nostra fiducia nella fedeltà incrollabile del Padre che non lascia il proprio figlio soccombere alla prova(“Ti basta la mia grazia” si sente dire Paolo 2Cor 12,7-9). La tentazione diviene pericolo quando si tralascia la preghiera. La prova sarà “troppo forte” soltanto se, venendo meno la preghiera, non otteniamo quell’aiuto  che Dio ha predisposto ottenessimo tramite essa.

    “La tentazione c’è: il cristiano deve sapere che c’è e pregare di non cadere in una situazione fatale per la sua vocazione di figlio di Dio. Il discepolo di Gesù, il povero sempre minacciato da colui che è “forte”, deve domandare a Dio ogni giorno, dome domanda il pane, la forza per non essere travolto nella prova, la forza per restare fedele alla sua vocazione di figlio di Dio; la domanda per sé e per gli altri, che possono essere tentati come lui” (M. Ledrus).

    Afferma il Catechismo: Il combattimento e la vittoria sono possibili solo nella preghiera. E’ per mezzo della sua preghiera che Gesù è vittorioso sul tentatore fin dall’inizio e nell’ultimo combattimento della sua agonia. Ed è al suo combattimento e alla sua agonia che Cristo ci unisce in questa domanda al Padre nostro. La vigilanza del cuore, in unione alla sua, è richiamata insistentemente. La vigilanza è “custodia del cuore” e Gesù chiede al Padre di custodirci nel suo Nome. Lo Spirito Santo opera per suscitare in noi, senza posa, questa vigilanza” (n. 2849).

    La nostra vigilanza è in vista della “lotta contro un nemico insidioso, non “contro carne e sangue, ma contro i principati e le potestà, contro le insidie del diavolo” (Ef 6,11-12), il quale non mira ad altro che a renderci disattenti, a tenerci addormentati per farci perdere la speranza e farci cadere nei gorghi di morte. Chi può lusingarsi di non esserne avviluppato” (M. Ledrus)


    SCHEDA DI LAVORO

    *        Come reagisci dinanzi alla tentazione? Ricorri alla preghiera?

    *        La tentazione trova il suo terreno di crescita nella nostra debolezza, nel nostro orgoglio, e nel voler fare a notro modo rivendicando una “nostra” libertà.

    Come vivi la tua libertà? Come la concepisci?

    Come sperimenti la lotta in te tra la “l’uomo carnale e lo spirituale”, tra il “vecchio e nuovo Adamo”?

    *        Riesci a leggere la prova, la tentazione, come occasione di crescita umana e spirituale? Ne vedi gli aspetti positivi?

    *        Beato chi persevererà sino alla fine. Così è stato per Gesù, gli apostoli e tutti i santi. Possiedi questa fede? La nutri con la preghiera, la meditazione della Parola, la carità attiva?

    *        Sai essere vicino con la preghiera e la carità a chi attraversa la prova, la tentazione? Sei portato a giudicarlo, a condannarlo? Trovi difficile accoglierlo nella sua debolezza?

    *        Leggi e medita Mc 14,32-42. Cosa ti suggerisce per il tuo cammino di fede? Cosa ti senti chiamato a cambiare nella tua vita?

    • Alla fine scrivi una preghiera di commento a questa penultima richiesta del Padre Nostro.

  • 29 Gen

    RIMETTI I NOSTRI DEBITI


    di p. Attilio Franco Fabris

    “Ho infranto senza saperlo, la legge del mio dio, ho compiuto, senza saperlo, ciò che la mia dea detesta. I miei peccati sono numerosi, grandi sono le mie mancanze, ma io non conosco gli sbagli che ho commesso… I miei peccati sono sette volte sette… Perdona le mie mancanze e che io canti le tue lodi”. Si tratta di una invocazione di un uomo di 4000 anni fa, rivolta alle sue divinità. Quest’uomo prova una viva coscienza di un errore, uno “sbaglio” non voluto, non conosciuto, di cui sente di portare le conseguenze; ed è da questo senso di colpa che nasce l’invocazione del perdono.

    Si tratta di un piccolo esempio al quale potrebbero essere aggiunti tanti altri in cui ritroviamo una coscienza di peccato presente in tutti i popoli antichi. Coscienza di “peccato” però con una comune caratteristica: essa è intesa come trasgressione materiale di una proibizione posta dagli dei(i tabù). La loro infrazione comporta colpa, condanna, morte.

    Se all’inizio il popolo di Israele risentiva di questa concezione culturale (cfr. es. Nm 15,22-29; 2Sam 6,6ss) ben presto venne superata alla luce di una concezione diversa, più profonda, relazionale del peccato: esso non è più infrazione di un “tabù” ma rottura di un rapporto con Dio. Per Israele la concezione di peccato diviene inseparabile dalla dottrina dell’Alleanza.

    Perché nell’uomo esiste questo “senso della colpa”? Probabilmente perché da sempre l’uomo ha sperimentato una grande debolezza e fragilità, la propensione a fare il male.

    Non bisogna meravigliarsi di incontrare, in questo senso, espressioni pessimistiche nella Scrittura:

    Ogni pensiero concepito dal loro cuore non era altro che male… perché il cuore dell’uomo è incline al male fin dalla giovinezza (Gn 6,5; 8,21);

    Tutti gli uomini sono peccatori e sono privi della gloria di Dio (Rm 3,23);

    Tutti manchiamo in molte cose (Gc 3,2)

    Se diciamo di essere senza peccatori inganniamo noi stessi (1Gv 1,8).

    In tutte le lingue il concetto di peccato è molto ricco di idiomatismi; solo la lingua ebraica ne annovera almeno una ventina; ad esempio: trasgredire una regola, inciampare, deviare, fare un passo falso, fallire il bersaglio, commettere ingiustizia, ribellarsi, fare un torto, comportarsi da folle…

    Ma il termine più usato è comunque hattàh che significa offesa, torto.

    Preso atto di questo peccato insito nell’uomo rimane il problema del come eliminarlo, ecco allora il comune bisogno di remissione delle colpe.

    Nei popoli antichi essa avveniva tramite riti espiatori destinati a ristabilire il  giusto equilibrio infranto con la divinità.

    In questo senso vi era (e rimane ancora in noi in certa misura) una concezione del peccato inteso come macchia da lavare, ovvero come impurità. Questo concetto porta ad intendere la remissione come offerta di riti purificatori. Da qui ad esempio, il ricorso alla simbologia dell’acqua purificatrice (Lv 14,5), del fuoco (Nm 31,22), del sangue (Lv 16,14-19), dell’animale su cui si scaricavano le colpe del popolo (Lv 14,7.53). Questa purificazione-remissione portava addirittura all’esclusione del colpevole dalla comunità, o addirittura in casi estremi alla sua eliminazione fisica (Dt 13,6).

    Questo è molto significativo: nella rivelazione il peccato non è presentato solo come un errore dell’uomo, una sua scelta sbagliata, ma invece come un’”offesa” arrecata a JHWH, una rottura dell’alleanza, della sua amicizia.

    Dal punto di vista umano certamente il peccato appare solo come un danno che il peccatore infligge a se stesso e tuttalpiù agli altri: in questo caso Dio non viene ad essere interessato dalla mia colpa. Il “saggio” Eliu dice a Giobbe: Se pecchi, che male fai a Dio? Se moltiplichi i tuoi delitti che danno gli arrechi? (Gb 35,6).

    Ora secondo la Scrittura il peccato non è mai una realtà che viene a coinvolgere solo l’uomo. Esso è sempre un torto fatto a Dio, è visto alla stessa stregua dell’adulterio con cui l’amata tradisce l’amore dello sposo (cfr. la vicenda del profeta Osea).

    La conseguenza è che la remissione dei peccati richiede un triplice atto:

    – il riconoscimento della colpa come rottura dell’alleanza (cf Sal 38)

    – la richiesta di perdono a Dio(Sal 51)

    – il “ritorno” nell’alleanza con Dio (Lam 5,1).

    Ma la domanda è: l’uomo è in grado di compiere questa trafila?

    Anche qui La sacra Scrittura si manifesta un po’ pessimista: Chi cade si rialza, chi perde la strada torna indietro. Perché allora questo popolo è così testardo nella sua ribellione, persiste nella malafede e rifiuta di convertirsi? (Gr 8,4-5).

    Ecco allora Israele implorare a Dio che sia lui stesso a prendersi a cuore quell’iniziativa di salvezza che l’uomo da solo non riesce a sviluppare: Fammi tornare ed io potrò ritornare, perché tu sei il Signore mio Dio (Gr 31,8).


    PERDONA I NOSTRI DEBITI

    Abbiamo accennato al fatto della varietà di vocaboli con cui è designato il peccato nella sacra scrittura. A questi esistenti, negli ultimi secoli prima della nascita di Cristo, se ne aggiunse un altro: il peccato come debito nei confronti di Dio.

    Come la maggior parte degli altri termini esso non appartiene alla sfera religiosa ma è desunto dal linguaggio profano e precisamente da quello che regola i rapporti economici.

    L’idea di Dio che sottostà a questo vocabolo è quella, forse un po’ irritante, di un Dio sovrano che deve essere servito con timore e precisione. E’ un legislatore e un giudice  dinanzi al quale l’uomo deve cercare di vivere in uno stretto rapporto di giustizia.

    Ma dobbiamo sinceramente riconoscere che questo nella realtà è impossibile.

    L’uomo sperimenta di essere perennemente e terribilmente in arretrato con i pagamenti!

    Scribi e farisei si ritenevano piamente a posto in quanto conoscitori di tutte le sottigliezze della legge: addirittura qualcuno arrivava a sentirsi in credito di fronte a Dio come il fariseo della parabola (cfr. Lc 11,42).

    Ovvio che il giudizio finale in quest’ottica non sarà altro che una resa dei conti come simboleggia l’arcangelo Michele con la bilancia in mano. Per il giudaismo solo nel caso che i due piatti fossero stati perfettamente pari si sarebbe potuto attendersi un atto di misericordia da parte di Dio che avrebbe fatto prevalere il piatto delle opere buone.

    Dicevano i rabbini: “L’uomo si consideri per metà giusto e per metà debitore. Se osserva un comandamento è bene per lui perché ha fatto piegare la bilancia dalla parte del merito”.

    Forse con meraviglia scopriamo che l’immagine del debito è presente nei vangeli, mentre è pressoché assente negli altri scritti del  nuovo testamento:

    Un creditore aveva due debitori, l’uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta… (Lc 7,41ss)

    A un re si presentò un debitore che gli doveva diecimila talenti… (Mt 18,23ss)

    Un uomo mandò i suoi servi a ritirare i frutti della sua vigna… (Mc 12,1-9)

    Un uomo ricco aveva un amministratore, questi fu accusato di sperperare i suoi beni… (Lc 16,1-8)

    Un uomo partendo per un lungo viaggio consegnò i suoi beni ai suoi servi… (Mt 25,14-30).

    Ma il termine debito applicato al peccato compare solo nella preghiera del Padre Nostro nella versione di Matteo. Luca scrivendo a non ebrei userà invece il termine più chiaro di “peccati”, riprendendo tuttavia il termine debitori nella seconda parte: Rimetti a noi i nostri peccati, anche noi infatti li rimettiamo ad ogni nostro debitore.

    Perché l’uso di questa immagine proprio nella preghiera del Signor rivolta… al Padre, verso il quale ci ritroveremmo debitori? Debitori perché?

    Non certo di qualcosa perché tutto è suo dono, e un dono non rende debitori.

    La richiesta del Padre nostro sarebbe incomprensibile se non si tenesse presente la concezione biblica del peccato che non è solo un errore umano ma ancor più è rottura del rapporto con Dio, della sua alleanza con noi. Ricordiamoci che in una visione biblica il peccato non può mai essere definito in modo appropriato come “colpa”, come “trasgressione alla legge”, ma solo come “debito”, “inadempienza” della nostra risposta al patto di amore.

    I nostri tradimenti assumono realmente il valore di debito: si tratta di un debito di amore verso il Padre.

    Riti cultuali possono cancellare questo debito?

    I profeti ammoniscono circa l’impossibilità di questo ricorso ai riti di raggiungere lo scopo: è necessario che cambi il cuore! E si tratta di cosa ancor più difficile!

    Ecco allora il profeta Ezechiele annunciare per i tempi messianici il dono dello Spirito che “purificherà il popolo da tutte le sue iniquità” , e darà “un cuore nuovo” (36,25-36),.

    Gesù, il Messia di Nazareth, viene così presentato come colui che “libererà il popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21), e “porterà al popolo la salvezza nella remissione dei suoi peccati” (Lc 1,77).

    Egli è colui che è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto (Lc 19,10). Il suo atteggiamento verso i peccatori suscita scandalo e scalpore, accuse e persecuzione.

    Giunge a pronunciare parole di perdono in modo completamente gratuito: Ti sono perdonati i tuoi peccati (Mc 2,5).

    I suoi gesti pongono fine ad una religione d’angoscia che impone all’uomo la conquista di una sua impossibile giustizia.

    La remissione dei peccati è ora concessa dal Padre come puro dono della sua benevolenza.

    Per Gesù l’unico atteggiamento che rende “giusti” è quello del pubblicano in fondo al tempio che prega: O Dio, abbi pietà di me peccatore (Lc 18,13). Il perdono è un dono gratuito della misericordia  del Padre e non è condizionato dalle prestazioni che l’uomo crede di accaparrassi dinanzi a lui.

    Gesù insegna nella parabola del Padre misericordioso che il peccato non è una macchia da lavare, è una rottura del rapporto di amore col Padre. Nella situazione di peccato il figlio vive lontano dal Padre e dalla dignità di se stesso.

    La remissione del peccato non inizia con gli atti di pentimento dell’uomo, ma con il perdono incondizionato di Dio “che corre incontro con le braccia aperte”. Egli ama l’uomo sempre, sia che sia buono sia che sia cattivo (cf Mt 5,45).

    Ed è proprio l’esperienza di questo amore che trasforma il peccatore, il suo cuore, e gli dà la consapevolezza della sua situazione, gli infonde il pentimento e il desiderio di conversione.

    Allora la richiesta del Padre nostro non vuole ottenere un perdono che c’è già. Il suo effetto è di creare in noi le condizioni necessarie affinché il dono di misericordia del Padre possa trovare in noi la giusta disposizione.

    E perché questo si concretizzi è indispensabile che in noi rinasca una vera consapevolezza della realtà e della gravità del peccato.

    “Perdonaci i nostri debiti” è chiedere a Dio di aiutarci a riempire tutta la distanza che ci separa da lui , di cui abbiamo preso coscienza e di cui i nostri peccati passati non sono che un segno.

    Ci viene rivelata la realtà consolante di un Padre che non abbandona il figlio fuggito: egli continuamente ricolma i vuoti e le fratture. Rimette i “debiti”. Se vuole che il figlio gli chieda perdona è perché prenda coscienza della posta in gioco.


    KERIGMA DEL PERDONO

    Ci presentiamo al Padre come “debitori”. E’ atteggiamento di verità e umiltà. Ciascuno di noi lo è. Origene scrive: “Nessun uomo passa un’ora del giorno o della notte senza contrarre un debito”. Il peccato è in me e sento che solo l’amore che promana dal Padre per il Figlio nello Spirito mi può guarire da questo germe di morte.

    Il Kerigma apostolico è il lieto annuncio di questo perdono che Dio ha offerto al mondo per mezzo della croce del Figlio.

    Ma in che senso Dio perdona?

    Ci possono essere diverse visioni del perdono offertoci. Fa finta di non vederle, o… si “dimentica”,

    La rivelazione non dice questo. Dio prende sul serio il peccato, in tutta la sua gravita e drammaticità. Esso è autodistruzione dell’uomo e allontanamento da Dio: conduce alla morte. La salvezza, la grazia offertaci, ha perciò un prezzo altissimo: la vita preziosa del Figlio.

    Dio perdona nel senso che converte il peccatore, gli cambia il cuore. Lo rinnova dal di dentro con la grazia dello Spirito. Non gli offre solo una “copertura giuridica”, è una “ricreazione” dell’uomo stesso ad immagine di Cristo (cf la veste bianca del figlio prodigo Lc 15,20; il perdono all’adultera: Gv 8,11).

    Siamo stati riconciliati con il Padre per mezzo della morte del Figlio suo (Rm 5,10). Nel Figlio “abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati” (Col 1,14; Ef 1,7).

    Quest’esperienza dell’essere perdonati è fondamentale: “Non posso muovere un solo passo, non solo per strada ma nella vita, senza ricordarmi del perdono e della misericordia di Dio, della sua volontà che io esista: altrimenti il disgusto di me stesso e la sensazione della mia inesistenza mi disintegrerebbero nel nulla o, per essere più esatti, nell’inferno” (O. Clèment).

    Siamo debitori perché in fin dei conti dovremmo prendere coscienza che noi riceviamo costantemente noi stessi dalle mani di Dio Padre.

    PERDONARE I DEBITORI

    Che significa “perdonare i debitori”?

    Non si tratta soltanto di perdonare le offese che ci sono state arrecate, ma anche che rinunciamo a qualunque rivalsa nei confronti di chi ci ha rifiutato ciò che ci spettava di diritto, ovvero che siamo disposti a rimetterci.

    Discorso assurdo per l”uomo carnale”, direbbe s. Paolo, che non intende le cose spirituali, la logica del Regno e della Croce. Non dimentichiamo il contesto in cui nel vangelo di Matteo Gesù insegna il Padre nostro: il discorso programmatico e rivoluzionario delle Beatitudini. Solo a coloro che lo accolgono senza rimanerne scandalizzati è dato di comprendere che l’amore non tiene conto del male ricevuto, tutto scusa, in tutto fa credito (1Cor 13,5).

    Un atteggiamento certamente difficile e costoso se già sant’Agostino lamentava che durante la liturgia alcuni si battevano rumorosamente il petto nella prima parte dell’invocazione per poi… tacere nella seconda!

    Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: “Questo flusso di misericordia non può giungere al nostro cuore finché noi non abbiamo perdonato a chi ci ha offeso… Nel rifiuto di perdonare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle, il nostro cuore si chiude e la sua durezza lo rende impermeabile all’amore misericordioso del Padre; nella confessione del nostro peccato, il nostro cuore è aperto alla sua grazia”.

    Il nostro cuore vacilla di fronte a questa esigenza che appare a volte realmente insormontabile. Aggiunge a questo proposito il catechismo: “E’ impossibile osservare il comandamento del Signore, se si tratta di imitare il modello divino dall’esterno. Si tratta invece di una partecipazione vitale, che scaturisce “dalla profondità del cuore”, alla Santità, alla Misericordia, all’Amore del nostro Dio. Soltanto lo Spirito, che è la nostra Vita, può fare “nostri” i medesimi sentimenti che furono in cristo Gesù. Allora diventa possibile l’unità del perdono, perdonarci “a vicenda “come” Dio ha perdonato” a noi “in Cristo” (Ef 4,32)”.

    Gesù insiste sul dovere del discepolo a ricercare continuamente settanta volte sette, la ri-conciliazione con il fratello. Se i rabbini dicevano che nessun motivo era valido per interrompere la preghiera, Gesù dirà invece che il ricordo di una riconciliazione da ricercare deve interrompere perfino l’offerta più sacra all’altare.

    Perdonare i debiti significa saper incontrare con occhi nuovi il fratello “debitore” vedendo in lui non un nemico ma un fratello da aiutare, a cui rinnovare la nostra fiducia. E’ uno sguardo nuovo rivolto non al passato dell’offesa arrecataci, ma al futuro di una pace da costruire.

    Il perdono non è mai un dato di fatto acquisito una volta per tutte e a forza di volontà. Si tratta di un cammino da percorrere insieme al crocifisso. “Non è in nostro potere non sentire più e dimenticare l’offesa; ma il cuore che si offre allo Spirito Santo tramuta la ferita in compassione e purifica la memoria trasformando l’offesa in intercessione” (CCC 2843).

    Un’altra sottolineatura. Non chiediamo a Dio rimetti i miei debiti ma i nostri debiti. La richiesta è da parte non del singolo ma della comunità.

    Comunità dei discepoli del crocifisso che si dona reciprocamente la pace e la riconciliazione che essa riceve da Dio e che si impegna a diffondere nel mondo.

    Ci accorgiamo di quanto spessore e verità dovrebbe essere costituito lo scambio della pace fatto durante la liturgia!

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