• 17 Feb

    IL COMPIMENTO

    10. “Come io vi ho amato,

    così amatevi anche voi gli uni gli altri”


    “Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”.  Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”.  Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (1Cor 11,23-26).

    Questo racconto di s. Paolo è la più antica testimonianza che possediamo sull’ultima cena. Fu scritto intorno agli anni 55-57, prima del vangelo di Marco. E’ perciò molto importante.

    Questo testo si trova al centro di un vasto contesto che ha per scopo il reprimere un abuso sacrilego che si era introdotto, presso i Corinzi, nella celebrazione dell’agape cristiana.

    La partecipazione all’eucaristia sa di sacrilegio, se manca la preoccupazione per il pane degli uomini. Il segno suona falso nella misura in cui non viene posto il problema di sapere, se il pane è guadagnato nella giustizia o a detrimento del pane degli altri.

    Il cristiano, che dovesse accostarsi all’eucaristia senza preoccuparsi della giustizia e dell’amore nel lavoro, sarebbe vittima d’uno spiritualismo tanto pericoloso per la coscienza quanto il materialismo

    Questo sacrilegio – l’unica comunione sacrilega che la Scrittura colpisce direttamente – non consiste nell’aver rotto il digiuno o divagato su “pensieri cattivi”. E’ il sacrilegio di aver rotto la pace e la comunione fraterna! Di aver trascurato il fratello bisognoso.

    “Non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio.  Innanzitutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo.  E’ necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi.  Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. (Invece di radunarvi insieme e di mettere tutto in comune nell’uguaglianza), ciascuno, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco.  Volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Ricordatevi che cosa state compiendo, secondo l’insegnamento che vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane, lo spezzò… Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore.  Chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1Cor 11,17-29).

    I primi cristiani erano entrati con gioia (At 2,42ss; 4,32ss), forse anche con un po’ di ingenuità, nelle esigenze che l’eucaristia comporta: condividevano tutto e tutto mettevano in comune.  E la messa non era una “cerimonia” fuori della vita; era un pasto fraterno in cui ciascuno portava ciò che poteva e dove, nella condivisione della parola, degli inni rituali e dei viveri, venivano consacrati e “spezzati” per ciascuno il pane e il vino: il corpo e il sangue del Signore.

    La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune… Nessuno infatti era tra loro bisognoso, perché quanti possedevano campi o case, li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno. (At 4,32-35)

    L’eucaristia era chiamata la “frazione del pane”, in ricordo del gesto abituale e caratteristico di Gesù.  Questa idea della condivisione, infatti, era totalmente naturale, quasi automatica, per coloro che credevano al Corpo donato e al Sangue versato del Salvatore, presenti nel pane e nel vino.

    In seguito, si sono costruite chiese meravigliose e organizzate stupende liturgie. Ma Cristo non ha offerto il suo unico sacrificio nello sfarzo, bensì in un realismo spoglio e terribile: nella nudità del suo corpo ferito e trafitto: “Questo è il mio corpo spezzato.  Questo è il mio sangue versato”.  Questa è la messa, la nostra messa; oppure non è nulla, per noi, come per lui.

    Cristo non si è accontentato di parole.  Per questo ha istituito i sacramenti, soprattutto l’eucaristia, in simboli molto vicini alla vita di ogni giorno: perché i sacramenti devono cambiare la vita.

    Si prende il pane, lo si spezza, lo si condivide, perché il Signore ha istituito il sacramento dell’eucaristia affinché noi, divenuti veramente una cosa sola con Gesù sacrificato, condividiamo poi, con tutti, quanto è rappresentato dal pane e dal vino, tutto ciò che procura nutrimento e gioia agli uomini, tutto ciò che fa vivere e vivere bene, tutto ciò che rende felici e liberi.

    Senza dubbio lo dicevano anche i Corinzi, ma facevano il contrario.  C’erano i ricchi e i poveri, e disprezzo dei poveri da parte dei ricchi.  Allora Paolo interviene: “Non è più un’eucaristia!”.  Perché?  “Perché vi sono divisioni tra voi”.  E disuguaglianza clamorose: “Uno ha fame, l’altro è ubriaco”.

    Paolo non biasima i destinatari per un errore concernente la dottrina.  Rimprovera loro di non comprendere le implicazioni che l’eucaristia comporta nella vita del cristiano e della comunità.  La frazione del pane consacrato, atto di fede nel sacrificio di Gesù, è anche, in maniera indissolubile, un atto di perdono e di condivisione.

    Delle due l’una: o Dio è un dio ingiusto che dà l’abbondanza alla Svizzera e le carestie al Pakistan o al Brasile (ma sappiamo d’altra parte che Dio è il Padre di Gesù Cristo, che ha rifiutato l’ingiustizia e ha dato la sua vita per tutti gli uomini); oppure Dio vuole che tutti gli uomini sazino la loro fame, ma vuole anche che noi partecipiamo al suo disegno di salvezza.  Sappiamo che Dio non farà piovere dei pani sugli indiani o gli africani. Il solo mezzo che Dio ha scelto per nutrire quelli che hanno fame è che noi, a corto termine, li aiutiamo a fare a meno di noi mediante l’istruzione, l’acquisto delle loro risorse a prezzo remuneratore e facendo dei prestiti a lungo termine e a basso interesse.

    I ricchi di Corinto credono di poter ricevere con i loro fratelli poveri il corpo di Cristo, pur rifiutando di condividere con essi i loro beni.  Ma questo è impossibile.  Non si può ricevere il Cristo condiviso (anche se non diviso: è tutto in tutti), senza condividere ciò che si possiede.  Non si può mangiare insieme lo stesso “pane”, senza essere veramente fratelli, senza rinunciare ai propri privilegi, senza vivere un’alleanza nell’amore, senza formare realmente “un solo corpo”.  Altrimenti, “si mangia il pane e si beve il calice del Signore in modo indegno, diventando così rei del corpo e del sangue del Signore”.

    L’apostolo è forse un po’ troppo severo? I ricchi di Corinto mancano gravemente ai loro doveri sociali.  Ma ciò è sufficiente per affermare che “gettano il disprezzo sulla chiesa di Dio” e che la loro messa “non è più un mangiare la cena del Signore”?

    Crediamo che Paolo, ispirato dallo Spirito santo, abbia ben pesato le parole: ai suoi occhi e agli occhi di Dio, la tenacia dei rancori, il rifiuto della condivisione, l’egoistico mantenimento dei privilegi, comportano una rottura della comunione con Cristo e i cristiani.

    “Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?  Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (10,16-17).

    La non-condivisione porta perciò la contraddizione al cuore stesso del sacramento.

    Ci si preoccupa molto dell’ortodossia della dottrina, dell’uniformità liturgica.  Potrebbe essere un comodo alibi, se non si è prima ancora più esigenti per una conversione evangelica!

    Si celebrano troppe messe i cui partecipanti vivono consapevolmente o meno situazioni di ingiustizia, di rifiuto, di non perdono, di divisione… che è un rifiuto della condivisione, al punto che s. Paolo si rifiuterebbe di riconoscere in esse la cena del Signore… Che cosa ne pensa lo Spirito?

    Nello stesso ordine di esigenze eucaristiche, troviamo altre indicazioni ancor più brucianti del ferro arroventato portato da Paolo sulle piaghe di Corinto… e sulle nostre.

    S. Giovanni, che ha annunciato e commentato così a lungo il pane di vita (6,22ss), ci sorprende per il suo silenzio sull’istituzione di questo sacramento.  Ci sorprende ancor di più per il fatto che lo sostituisce con un racconto sconvolgente che ne precisa l’impatto: dove porta una vera eucaristia?

    “Mentre cenavano, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre” e perciò di dare il colpo definitivo; “sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani”, che cosa fa Gesù con le sue mani?  “Gesù si alza da tavola e, preso un asciugatoio, se lo cinge attorno alla vita; poi comincia a lavare i piedi dei discepoli” (Gv 13,1-5).

    Lavare i piedi degli altri?  Un lavoro da schiavi!  Anzi, neppure: non lo si poteva imporre a uno schiavo ebreo.  E che dire d’un maestro che lava i piedi ai discepoli?  Follia impensabile!  Invece no: lezione profetica, lezione di cose:

    Voi mi chiamate maestro e Signore e dite bene, perché lo sono.  Se dunque io, il signore e il maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri.  Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi.  In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone” (13 -16).

    Pagare di persona, nei servizi più umili e più pesanti: questo è lasciar vivere in sé il Cristo che si è mangiato, “corpo donato, sangue versato per molti”.

    Subito dopo, attorno alla tavola eucaristica, i dodici arriveranno a litigare per il primo posto.

    “Chi è il più grande tra voi”, dirà Gesù, “diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve.  Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve?  Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,24-27).

    Perciò “chi vuol essere il primo tra voi, sarà il servo di tutti.  Il figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,44-45).

    E’  il “Servo” annunciato da Isaia 53

    S.  Paolo riassume così la legge eucaristica della lavanda dei piedi: “Mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri (Gal 5,13).

    “Figlioli, ancora per poco sono con voi… Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri.  Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,31ss).

    Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati.  Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.  Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando… Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri. (Gv 15,12-17)

    Questo “gli uni gli altri” ‘ ripetuto attorno alla prima tavola eucaristica, rinvia ai partecipanti della stessa tavola eucaristica.

    Si amano essi tra loro?

    Perché è questo il “segno” della “chiesa una”.  Non ce n’è un altro.

    “COME IO VI HO AMATI, COSI’ AMATEVI ANCHE VOI GLI UNI GLI ALTRI”

    Coloro che ricevono l’Eucaristia sono più strettamente uniti a Cristo. Per ciò stesso, Cristo li unisce a tutti i fedeli in un solo Corpo: la Chiesa. La Comunione rinnova, fortifica, approfondisce questa incorporazione alla Chiesa già realizzata mediante il Battesimo. Nel Battesimo siamo stati chiamati a formare un solo corpo. L’Eucaristia realizza questa chiamata: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il Sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,16-17)…

    L’Eucaristia impegna nei confronti dei poveri. Per ricevere nella verità il Corpo e il Sangue di Cristo offerti per noi, dobbiamo riconoscere Cristo nei più poveri, suoi fratelli (cfr. Mt 25,40).

    Tu hai bevuto il Sangue del Signore e non riconosci tuo fratello. Tu disonori questa stessa mensa, non giudicando degno di condividere il tuo cibo colui che è stato ritenuto degno di partecipare a questa mensa. Dio ti ha liberato da tutti i peccati e ti ha invitato a questo banchetto. E tu, nemmeno per questo, sei divenuto più misericordioso (s. Giovanni Crisostomo).

    Catechismo della Chiesa Cattolica, 1396-1397

    ***

    L’eucaristia è segno di condivisione di fede e di vita, non si possono disgiungere questi due elementi. Divenuti una cosa sola con Cristo sacrificato, condividiamo poi, con tutti quanto è rappresentato dal pane e dal vino: ovvero la vita. E’ sacrilega dunque l’eucaristia celebrata nella divisione, nel rifiuto, nel disprezzo dell’altro.

    Cfr       1Cor 11,17-29

    1Cor 10,16-17

    At 4,32-35

    ***

    San Giovanni riportando il racconto dell’ultima cena, presenta l’eucaristia attraverso il gesto della lavanda dei piedi e della consegna del comandamento nuovo. E’ questa la sua grande catechesi sull’eucaristia.

    Cfr       Gv 13,1-16

    Gv 15,12-17

    Lc 22,24-27

    Mc 10,44-45

    Gal 5,13

  • 16 Feb

    IL COMPIMENTO

    9. NUOVA ED ETERNA ALLEANZA CON I “DODICI”

    L’eucaristia è il sacramento dell’amore di Dio.

    Con una convinzione esultante e non sradicabile prendiamo coscienza  che Dio crea l’universo solo per unire a sé nell’amore tutti gli uomini.  Per renderli partecipi di tutta la sua vita, compresa la divinità.  Per diventare egli stesso partecipe di tutta la loro vita di uomini,

    Questo è il grande amore: un matrimonio, l’alleanza. Dio si incarna per sposare l’umanità.

    Viene a cercare la sua povera fidanzata là dov’essa è, dove non può non essere: nella condizione di creatura; per “farla passare” alla condizione divina. E’ “la pasqua”! Insieme “passano da questo mondo al Padre”; e lo sposo conduce, innalza la sposa: “Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato, siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo” (Gv 17,24).

    L’antico testamento, attraverso il quale ci viene raccontata la storia in cui Dio e l’uomo si cercano, s’incontrano, fanno conoscenza, si frequentano, si fidanzano, diventano “sposi” nel senso di “promessi”, questo testamento è nell’ordine delle preparazioni: non ci lascerà a metà strada in questa storia d’amore; è l’aurora dell’incarnazione di Dio e, con e in Gesù, avranno luogo le nozze eterne.

    C’è un vecchio libro di Fornari, sempre bello da leggersi che dice, cominciando la storia del Cristo, press’a poco così: “Gesù è giunto a noi come un uomo che viene da lontano e in un primo momento s’odono i suoi passi come un rumore appena percettibile, poi sempre più sicuri sino a che si comprende ch’egli è presente tra noi”.  Ecco la storia della redenzione che possiamo ritrovare riaprendo il Libro che è rimasto troppo a lungo chiuso per noi: l’antico testamento con i suoi personaggi, con le sue approssimazioni che annunciano il Cristo che s’avvicina a noi. (Paolo VI)

    Si tratta dunque d’un vero e proprio matrimonio?

    Si tratta dell’unico matrimonio vero e proprio! Gli altri – anche i nostri più bei matrimoni terreni – ne sono soltanto una pallida e lontana immagine, una scintilla della “fiamma di Jahvé”, dice il Cantico dei Cantici.  Dio si incarna per sposare l’umanità nel senso più forte del termine, cioè per fare eternamente con essa un unico essere, un’unica carne:

    I due formeranno una carne sola”

    “lo sono nel Padre e voi in me e io in voi” (Gv 14,20).

    Non con un abbraccio passeggero e, tutto sommato, superficiale, in cui ognuno resta esterno all’altro, ma con una sorta di fusione che è comunione intimissima tra due esseri. Il desiderio dell’amore è la fusione: sussistere unicamente per donarsi, per “passare” totalmente all’altro, per lasciarci consumare dall’altro, diventando in qualche modo suo cibo, il pensiero del suo spirito, il cuore del suo cuore, la carne della sua carne; e reciprocamente, accogliere totalmente l’altro, perché nulla di lui mi resti estraneo, perché egli formi un tutt’uno con me.  Fusione, senza confusione.

    Il gesto dell’amore, il bacio, è già più simbolico del mangiare e del bere: è meno pregnante.  Il mangiare e il bere sono i simboli più forti dell’intimità.  E l’intimità di coloro che si amano non è forse il primo cibo?  Non è la vita stessa?

    Il desiderio dell’amore è la fusione, senza confusione; ed è questo il desiderio di Dio stesso, folle d’amore per l’umanità.

    Così, il famoso testo biblico e il grande mistero che esprime: “I due formeranno una carne sola” – non riguardano innanzitutto i matrimoni dei figli e delle figlie di Adamo.  “Lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesaproclama s. Paolo (Ef 5,31-32).

    Purtroppo, l’ardente desiderio dell’amore umano – formare un tutt’uno – non si realizza mai completamente e definitivamente.  Per fondersi veramente, sarebbe necessario morire a questo corpo che divide più di quanto unisca.

    Soltanto Cristo, poiché è Dio, può fare un’unica cosa con l’umanità sua fidanzata; solo lui può essere per lei la carne della sua carne, donandosi a lei come un “vero cibo”.

    E’ necessario, certamente, ch’egli muoia allo stato corporale di questo mondo; ma al di là della morte, nella sua condizione di risorto, può donarsi come cibo e bevanda, poiché tutte le barriere umane sono abolite per il corpo glorioso.  L’uomo e Cristo diventano così veramente uno: l’uomo mangia Dio e così sono due in una sola carne.

    Che tutti siano una sola cosa.  Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu m’hai mandato.  E la gloria che tu hai dato a me io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola.  Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me. (Gv 17,21-23)

    Il pasto eucaristico è innanzitutto questo: comunione con Dio.

    Non si tratta perciò di condividere solo e in primo luogo il pane e l’amicizia con i fratelli: questa via orizzontale è chiusa e breve.  Chiusa per la giustapposizione impermeabile dei corpi; breve per la piccolezza dei nostri cuori.

    La realtà primaria dell’eucaristia, che non dobbiamo mai dimenticare, consiste nel fatto che essa è in primo luogo una fusione, senza confusione, di Dio con l’uomo.

    La seconda consiste nel fatto che si tratta dell’”uomo”, d’ogni uomo, e non solo di me.  Dio s’è incarnato, unendo a sé personalmente l’uomo chiamato Gesù, allo scopo di sposare l’intera umanità attraverso l’uomo Gesù.

    Cristo muore e risorge, facendosi cibo per diventare la carne della carne di tutta l’umanitàL’incarnazione non si conclude nel Cristo, ma in tutta l’umanitàDio s’è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio.  Ogni uomo!

    A tavola con i dodici

    Dopo l’ingresso trionfale in Gerusalemme, Gesù, per non essere arrestato e ucciso prima della “sua ora”, passa le notti in casa dei suoi amici di Betania o nel giardino del Getsemani.  Durante il giorno, le folle entusiaste dei pellegrini accorsi per le feste pasquali lo mettono al riparo da un colpo di mano.  Per quattro giorni conduce questa vita sfibrante e braccata. Venuto il giovedì – che sarà il primo giovedì santo – in segreto per non dare a Giuda utili informazioni, Gesù manda Pietro e Giovanni incontro all’uomo con la brocca d’acqua, un amico, che gli aprirà la “grande sala con i tappeti già pronta” per i pasti festivi (Mc 14,12-15).

    Essi devono infatti preparare un pasto festivo, quello della più gioiosa festa ebraica: la pasqua.

    Venuta la sera, Gesù giunse con i dodici” (Mc 14,17) nella sala preparata per il pasto pasquale.

    Dodici persone sono intorno a Gesù: “amici”, eccetto Giuda, che Gesù inviterà a lasciare l’assemblea prima dell’eucaristia; degli iniziati, “a cui egli ha fatto conoscere tutto ciò che ha udito dal Padre” (Gv 15,15).  Non ci si comunica in qualunque disposizione di coscienza e di fede.  “Voi siete mondi, ma non tutti“, ha detto Gesù (Gv 13, 10).

    E non ci si comunica da soli.  “L’eucaristia non è semplicemente un ‘mangiare Cristo’; è un ‘mangiare Cristo insieme. Questo ‘insieme’ è già quello del semplice pasto umano, dove il cibo condiviso lega i commensali e spesso li riconcilia.

    Nel sacramento dell’altare questo cibo è Gesù Cristo e Gesù Cristo stesso unisce i credenti, egli che è ricevuto da tutti senza essere diviso: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo?  E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?  Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,16-17).  Alla mensa di Dio, è Gesù Cristo che ci unisce e non primariamente il fatto di essere insieme” (Raymond Didier).

    “Venuta la sera”, dunque, “Gesù giunse con i dodici”.  Non si dice: con Maria e i cugini di Nazaret… La pasqua normale si celebrava in famiglia, con un agnello immolato ogni dieci persone.  Che cosa vuol indicare il Signore alla sua chiesa?  Certamente: “Il tuo parentado è più vasto: ogni uomo è tuo fratello, perché ogni uomo è mio fratello“.

    Durante la vita pubblica, Cristo ha preso le distanze dalla sua famiglia secondo la carne.  Solo nella fede si scopre e può essere vissuta l’unica fraternità che Gesù Cristo riconosca e che sia degna del cuore universale di Dio… Ci si ricordi l’episodio riferito da Luca (8,19ss): “Fu annunziato a Gesù: ‘Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti’.  Ma egli rispose: ‘Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”

    La cena di Gesù, dunque, non è un pasto familiare, ma un pasto comunitario.  La grazia filiale della salvezza ci deve far passare dal gruppo “naturale”, “chiuso”, a una chiesa “aperta” radunata dalla fede in Gesù, dall’amore per Gesù, dall’amore vicendevole di tutti per tutti, dall’accoglienza del primo venuto, dell’ultimo venuto, di ogni stirpe, lingua, popolo, nazione… di ogni età!

    Ma perché dodici, non di più, né di meno?

    Questo “dodici” è il numero simbolico della pienezza.  Giacobbe ebbe dodici figli, da cui uscirono le dodici tribù che costituirono la totalità dei popolo di Dio fino a Gesù.  Ma Israele era solamente il nucleo del popolo definitivo di Dio, l’umanità, come la ghianda è solo il seme della quercia.  Gesù, venuto per radunare tutti gli uomini nella sua alleanza d’amore, scelse dodici apostoli come embrione del popolo allargato: dello stesso popolo, ma universale.

    Poi venne uno dei sette angeli che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli, e mi parlò: “Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell’agnello”.  L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio.  Il suo splendore è simile a quello d’una gemma preziosissima ‘ come pietra di diaspro cristallino.  La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte; sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele.  A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte.  Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’agnello. (Ap 21,9-14)

    Ecco perché questo “dodici” è così importante per la chiesa fino a che essa resta in Giudea: è significativo, per il mondo ebraico, della missione universale della chiesa, dell’amore universale di Dio, dell’offerta universale della salvezza e dell’eucaristia.  Subito dopo l’ascensione del Signore, il primo atto ufficiale di Pietro è quello di proporre l’elezione di uno che prende il posto di Giuda (At 1, 15ss).  Così, essi saranno dodici per la pentecoste e per la partenza missionaria verso “la totalità” degli uomini.

    Tutta l’umanità, dunque, è invitata, con i dodici, attorno alla tavola eucaristica.  Tutti sono presenti al dono dell’amore.  Il sangue del calice che tutti bevono “è il sangue dell’alleanza, versato per molti” (Mt 26,28; Me 14,24), offerto quindi ai “molti”, alla moltitudine: “Prendete e bevetene tutti”.  Gesù non è forse stato “formato e stabilito come alleanza del Popolo”, della moltitudine (Is 42,6)?

    Il termine “molti“, ripreso dagli evangelisti dell’ultima cena, corrisponde al “tutti” di cui parla s. Paolo a proposito della redenzione (Rm 5,15 ss): ambedue traducono il termine “moltitudine”, che è come un termine tecnico della bibbia per designare la totalità degli uomini e, nello o, il legame di parentela umana che li rende membri della stessa famiglia.

    L’eucaristia pasquale di Gesù e della chiesa raduna dunque sì una famiglia, secondo la tradizione ebraica, ma si tratta di tutta la famiglia umana.  E’ il senso teologico di quella meravigliosa immagine, dopo la moltiplicazione dei pani: quando tutti si furono saziati, si raccolsero dodici ceste di pezzi avanzati!  Chi aveva portato le ceste?… E perché dodici? E per chi tutto questo pane miracoloso avanzato e raccolto?  Per tutta l’umanità di tutti i secoli, per voi, per me, per la moltitudine, per la totalità. Dodici è la cifra biblica della pienezza.

    Gesù, dopo una notte passata in preghiera sul monte, aveva “scelto e costituito” i dodici, come ci dice Marco (3,13-19) che ce ne dà la lista, con Pietro a capo.  Sono gli stessi dodici, soltanto loro, che si trovano ora riuniti per l’istituzione eucaristica e a cui Gesù dirà: “Tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi.  Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti” (Gv 15,15-16).  Solo a essi dirà: “Fate questo in memoria di me“.,

    Siamo qui al livello della libertà di Dio e del suo Cristo.  Il Signore è giunto all’ora del suo testamento, al vertice della sua alleanza.  Testamento, alleanza: sono “disposizioni” che hanno valore solo nella piena libertà. Gesù dice dunque ai dodici: lo ‘dispongo’ per voi del regno, come. il Padre ne ha ‘disposto’ per me.  “Siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele” (Le 22, 29-30), cioè: voi governerete il popolo di Dio.

    “Per questo”, dichiara il Vaticano II, “i presbiteri sono consacrati da Dio, mediante il vescovo, in modo che, resi partecipi in modo speciale del sacerdozio di Cristo, nelle sacre celebrazioni agiscano come ministri di colui che ininterrottamente esercita la sua funzione sacerdotale in favore nostro nella liturgia, per mezzo del suo Spirito… Con la celebrazione della messa offrono sacramentalmente il sacrificio di Cristo” (PO 5: EV I, 1252).

    Il ministro manifesta che l’assemblea non è proprietaria del gesto che essa sta per compiere, che essa non è padrona dell’eucaristia: la riceve da un altro, il Cristo vivente nella chiesa.  Pur continuando a essere membro dell’assemblea, il ministro è anche l’inviato che significa l’iniziativa di Dio e il legame della comunità locale con le altre comunità nella chiesa universale” (Accordo ecumenico di Dombes sull’eucaristia).

    la nuova ed eterna alleanza con i Dodici

    La celebrazione del sacrificio eucaristico è totalmente orientata all’unione intima dei fedeli con Cristo attraverso la comunione. Comunicarsi è ricevere Cristo stesso che si è offerto per noi. Catechismo della Chiesa cattolica 1382

    ***

    L’eucaristia riunisce le nostre vite divise nella divinizzazione uniforme, e mediante l’adunanza deiforme dei separati, ci fa dono della comunione e dell’unione a Colui che è Uno. Dionigi Areopagita

    ***

    L’eucarestia è segno vivo dell’amore con cui Dio ama ciascuno di noi, e desidera che entriamo in comunione di vita con lui per sempre. Essa è “matrimonio-alleanza”.

    Cfr.      Gv 17.24

    Gv 14.20

    Ef 5,31-32

    ***

    Nella sua condizione di risorto Gesù può donarsi come cibo e bevanda per noi, infatti le barriere strettamente umane sono già abolite nel suo corpo glorioso. L’uomo e Cristo diventano così veramente uno: l’uomo mangia Dio e così sono due in una sola carne

    Cfr.      Gv 17,21-23

    1Cor 10,16-17

    ***

    Gesù celebra la cena con gli apostoli: non è un pasto familiare ma comunitario. E’ la Chiesa composta da coloro che hanno seguito Gesù, è la comunità radunata dalla fede in lui: aperta all’accoglienza di chiunque voglia condividere la sua esperienza.

    Nei dodici sono invitati tutti coloro i quali aderiranno all’annunzio della morte e risurrezione del Signore: costituiscono il nuovo popolo santo di Dio dilatato fino agli estremi orizzonti

    Cfr.      Lc 8,19ss

    Ap 21,9-14

    ***

  • 15 Feb

    LE PREPARAZIONI

    8. Le quattro notti


    Nello spirito degli ebrei contemporanei di Cristo – e di conseguenza nello spirito degli apostoli e di Gesù stesso – la pasqua non commemorava soltanto la notte dell’uscita dall’Egitto.

    La tradizione teologico-liturgica ebraica vi aveva aggiunto il “memoriale” di altre tre notti, di altre tre “nascite”, riassumendo così, come vedremo, tutta la storia della salvezza, dalla creazione fino alla fine del mondo.

    Infatti nella versione aramaica della bibbia, quella stessa che leggeva Gesù (il Targum palestinese), Esodo 12,42 era commentato dal famoso Poema delle quattro notti. Eccone la traduzione:

    Quattro notti sono state iscritte nel “Libro dei Memoriali”:

    La prima notte fu quella in cui Jahvé si manifestò sul mondo per crearlo; il mondo era deserto e vuoto e le tenebre ricoprivano l’abisso.  La parola di Jahvé fu la luce e questa cominciò a brillare, la chiamò: prima notte.

    La seconda fu quando Jahvé si manifestò ad Abramo, che aveva cento anni, e a Sara che ne aveva ottanta perché si adempisse la scrittura: forse Abramo può generare e Sara partorire?

    Isacco aveva trentasette anni, quando fu offerto sull’altare. I cieli sono discesi, si sono abbassati, e Isacco ne vide le perfezioni; e tali perfezioni oscurarono i suoi occhi.  E la chiamò: seconda notte.

    La terza notte fu quando Jahvé apparve agli egiziani nel cuor della notte: la sua mano (sinistra) uccideva i primogeniti degli egiziani e la sua destra proteggeva i primogeniti d’Israele, perché si adempisse ciò che la scrittura dice: Israele è mio figlio, il mio primogenito.  E la chiamò: terza notte.

    La quarta notte (sarà) quando il mondo arriverà alla sua fine per essere dissolto; i gioghi di ferro saranno spezzati e le generazioni dell’empietà saranno distrutte.  E Mosè uscirà dal deserto e il re messia dall’alto dei cieli…

    E’ la notte della pasqua per il nome di Jahvé, notte stabilita e riservata per la salvezza di tutte le generazioni d’Israele.

    Il tempo durante il quale gli israeliti abitarono in Egitto fu di quattro-centotrent’anni.  Al termine dei quattrocento-trent’anni, proprio in quel giorno, tutte le schiere del Signore uscirono dal paese d’Egitto.  Notte di veglia fu questa per il Signore per farli uscire dal paese d’Egitto.  Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli israeliti, di generazione in generazione. (Es 12,40-42)

    Gesù la sera della risurrezione disse ai suoi discepoli stando in mezzo a loro: “Sono queste le parole che vi dicevo quando stavo ancora con voi: bisogna che si compiano, tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei profeti e nei salmi”.  Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle scritture e disse: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme.  Di questo voi siete testimoni”. (Le 24,44-48)

    “Non è certamente di poca importanza, se vogliamo comprendere il mistero eucaristico, riflettere che, per gli apostoli presenti all’ultima cena e più ancora per Cristo, la festa ebraica che intendevano celebrare commemorava, a dire il vero, tutta la storia della salvezza – passata e futura – com’è raccontata nelle nostre bibbie cristiane, dal primo versetto della genesi: “In principio Dio creò il cielo e la terra’, fino all’ultimo versetto dell’apocalisse: “Vieni, Signore Gesù” (Stanislas Lyonnet).

    Ma dobbiamo allora porci due domande:

    La pasqua celebrata da Gesù è un “memoriale”.  Che cosa vuol dire?

    Essa “commemorava” tutta la storia della salvezza. Come?

    Il Targum palestinese, che abbiamo appena letto, dà testimonianza di tutto ciò che la festa pasquale era, al tempo di Gesù, per la fede tradizionale del popolo di Dio: si commemoravano “le quattro notti” della storia della salvezza iscritte nel “libro dei memoriali”.  Che cos’è questo “Libro dei memoriali”, o dei “ricordi”?

    E’ un modo di parlare molto concreto, come quando noi diciamo: “Prendo nota di questo nella mia memoria”, o “Scrivo il tuo nome nel mio cuore”.

    Si tratta di quei “libri celesti” senza pagine in cui Dio “registra” i nomi dei suoi amici, le opere del suo amore per il suo popolo, le persone e le cose che “non vuole dimenticare”.

    Nella liturgia, questi “memoriali” sono un richiamo sia per gli uomini, sia per Dio:

    –   un richiamo per gli uomini dei benefici di Dio operati nel passato; per ridestare in loro il ringraziamento e la fedeltà;

    –   un richiamo per Dio di tutto ciò che ha operato; perché si ricordi del suo amore.

    Il ricordo di Dio non è però mai una semplice evocazione del passato, corrisponde sempre a un nuovo intervento del suo amore. Dio non “rumina” i suoi ricordi, ne rende nuovamente attivo il beneficio; ne continua la grazia, attuale, perenne.

    Quando perciò Dio “si ricorda”, avviene qualcosa: viene creata una nuova situazione o restaurata un’antica.

    Celebrare un “memoriale” del passato significa provocare un evento reale nel presente, e non una semplice evocazione.

    La pasqua del nuovo testamento, l’eucaristia, riveste perciò anche questo duplice aspetto dinamico di ringraziamento da parte dei cristiani e di impegno salvatore da parte di Dio.

    Quando diciamo che l’eucaristia è un memoriale, siamo nell’alveo della teologia pasquale di Gesù e del suo tempo.

    La messa è un memoriale.  Memoriale di che cosa?  Della morte e della risurrezione di Gesù Cristo: “Fate questo in memoria di me”, “celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio…”.

    Il Signore Gesù ha insistito nel presentare la cena come “la pasqua”; ha orchestrato gli avvenimenti in modo che la cena e il suo sacrificio coincidessero con la pasqua ebraica.  La pasqua ebraica non è perciò sostituita, ma assunta, “portata a compimento” dalla pasqua cristiana. Con l’eucaristica siamo nel cuore della “notte pasquale”.

    In “memoriale” dell’uscita dall’Egitto (Es 1 1,4ss e 12,6), la pasqua si celebrava di notte. Il Signore istituì dunque l’eucaristia sul far della notte: “venuta la sera” (Mt 26,20; Mc 14,17): “Era notte” (Gv 13,30); “il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane…” (1Cor 11,23).

    La notte è sorella della morte. E’ il “luogo” dei banditi di ogni specie (Gb 24,13ss), l’immagine dell’oscura potenza del peccato, di satana e del male (Lc 22,53; Gv 1, 5; 1Ts 5,4-8; At 26,18; Col 1,13).

    Lo stesso Poema delle quattro notti raduna, nel memoriale della notte pasquale, le quattro grandi tappe della storia della salvezza, ciascuna delle quali è, a suo modo, una creazione, una nascita, una liberazione: quattro grandi tappe da cui sorgono, sempre più “nuovi”, una nuova umanità, “cieli nuovi e terra nuova”.

    1.    “In principio Dio creò il cielo e la terra”, completamente nuovi. Fu la nascita dei mondi, dei viventi, dell’uomo e della donna.  La “genesi”. Prima tappa redentrice, perché strappò l’universo alla notte, alla morte del nulla.  Ogni eucaristia ne è il “memoriale”.

    2.    “Memoriale” inoltre di Abramo, quando Dio parlò a quest’umanità pagana.  E’ l’aurora della prima rivelazione, la nascita (spirituale) del primo “amico di Dio”, la creazione d’una stirpe spirituale di credenti; l’umanità salvata nasce dalla cenere sterile e ancor più dalla fede di Abramo; “ri-creazione” di Isacco, risuscitato in un certo senso sull’altare del suo sacrificio.

    3.    “Memoriale” inoltre – soprattutto – della creazione d’Israele come popolo.  “Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito” (Es 4,22).  La sua nascita è la liberazione dall’Egitto: “nasce” nella notte della pasqua in cui, protetto dal sangue dell’agnello, nutrito dalla sua carne, si mette in cammino verso la terra promessa.  “Saranno dimenticate le tribolazioni antiche… Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuove terre; non si ricorderà più il passato” (Is 65,16s).

    4.    Infine, la pasqua ebraica annunciava e la pasqua di Gesù inaugurava la quarta notte: quella del messia atteso.  Gli “ultimi tempi”, creati sulla croce, nati dal fianco squarciato, mentre il cielo si oscura prefigurando una notte, annunciano e affrettano il giorno definitivo del Signore, l’ottavo giorno, la parusia.

    S. Paolo collega proprio gli “ultimi tempi” al mistero eucaristico: “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (1Cor 11,26).

    E s. Paolo può fare questo collegamento, perché prima di lui l’ha fatto il Signore stesso: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio” (Lc 22,15-16).

    (“nell’attesa della tua venuta…”ci fa proclamare la liturgia subito dopo il momento della consacrazione).

    Sarà allora la creazione “definitiva”, la nascita piena degli uomini e del mondo finalmente liberati (cfr. Rm 8,18ss).  “Secondo la promessa di Dio”, dice s. Pietro, “noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2 Pt 3,13).

    Il contesto pasquale, che Cristo ha voluto per il suo sacrificio e per la cena, dona al mistero eucaristico tutta la sua dimensione di abbraccio dell’intera storia della salvezza:

    “Io sono l’alfa e l’omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che ‘ viene, l’onnipotente” (Ap 1,8).

    Come l’ago magnetizzato è rivolto verso il polo, anche a distanza di migliaia di chilometri, così l’antico testamento è rivolto verso la persona del Cristo” (Jacques Loew), verso le nostre eucaristie.

    LE QUATTRO NOTTI

    Secondo la Sacra scrittura, il memoriale non è soltanto il ricordo degli avvenimenti del passato, ma la proclamazione delle meraviglie che Dio ha compiuto per gli uomini (cfr Es 13,3). La celebrazione liturgica di questi eventi, li rende in un certo modo presenti e attuali. Proprio così Israele intende la sua liberazione dall’Egitto: ogni volta che viene celebrata la Pasqua, gli avvenimenti dell’Esodo sono resi presenti alla memoria dei credenti affinché conformino ad essi la propria vita.

    Nel Nuovo testamento il memoriale riceve un significato nuovo. Quando la Chiesa celebra l’Eucaristia, fa memoria della Pasqua di Cristo, e questa diviene presente: il sacrificio che Cristo ha offerto una volta per tutte sulla croce rimane sempre attuale (cfr. Ebr 7,25-27): “Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato, viene celebrato sull’altare, si effettua l’opera della nostra redenzione” (LG 3).

    Catechismo della Chiesa Cattolica, 1363-1364

    * Il memoriale riveste un duplice richiamo:

    –   richiamo per l’uomo affinché non dimentichi i benefici operati da Dio, facendo suscitare in lui la lode e il ringraziamento, e la fiducia che Dio come ha agito nel passato farà lo stesso per il futuro.

    –   Richiamo per Dio perché si ricordi del suo amore, della sua misericordia. Quando Dio “si ricorda” quel ricordo genera un evento reale nel mio presente. La grazia dell’evento mi è resa sempre disponibile.

    Nella mia esperienza di cammino di fede vivo la dimensione del memoriale nel suo duplice aspetto?

    * L’eucaristia è memoriale della morte e risurrezione del Signore:

    –   mi richiama l’evento salvifico operato da Cristo a beneficio di tutti noi

    –   richiama il Padre a rendere disponibile ogni volta che la si celebra la grazia di quella morte e risurrezione.

    Cosa comporta questa riflessione per la mia vita?

    * La pasqua cristiana, l’eucaristia rappresenta il sunto, il compendio, la realizzazione di tutte le altre “pasque” veterotestamentarie. Ringrazio il Signore di darmi la frazia di poter vivere il mistero dell’eucaristia: l’economia nuova che riassume tutta la storia di Israele. Sono consapevole di questa grazia?

    * Un’ulteriore dimensione dell’eucaristia, pasqua cristiana, è la sua dimensione aperta al futuro di Dio: attendiamo cieli nuovi e terra nuova. Se l’eucaristia compendia le pasque antiche così essa preannuncia, prefigura, fa pregustare la pasqua definitiva: quando il regno di Dio sarà tutto in tutti.

    Vivo quest’attesa?

  • 14 Feb

    LE PREPARAZIONI


    7. Sacramento della Pasqua

    L’eucaristia, “sacramento dell’alleanza”, è anche il “sacramento della pasqua”.

    E’ il secondo aspetto della realtà eucaristica. Che cosa vuol dire?

    Questo termine – la pasqua – è come le vecchie monete di uso quotidiano: iscrizioni e immagini non sono più leggibili.  Non si sa più qual è l’origine precisa del termine che designa la festa più popolare degli ebrei e dei cristiani.  “Passaggio del Signore”? O dell’angelo sterminatore che “salta” le abitazioni segnate con il sangue?  “Passaggio” del mar Rosso? “Passaggio” verso il deserto?…

    “Saltare”, “passare”, poco importa: ebrei e cristiani sapranno che “pasqua” è il nodo della loro salvezza.


    1. “Mangiare questa pasqua con voi”

    Gesù è impaziente: il giovedì santo, affermerà: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione” (Lc 22,15).

    Per istituire l’eucaristia, aspetterà proprio la settimana della pasqua ebraica di quell’anno in cui l’odio è maturo per ucciderlo.

    Quando ormai il pericolo è imminente, “Gesù non si fa più vedere in pubblico tra i giudei; si ritira nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattiene con i suoi discepoli” (Gv 11,54).

    Quando la pasqua è però vicina, Gesù riappare; con passo deciso va incontro alla morte e trascina con sé gli apostoli impauriti.  Hanno luogo allora la provocatoria manifestazione delle palme, la cacciata dei venditori dal tempio, lo scontro aperto con i suoi avversari.

    Molti dei giudei che erano venuti da Maria (sorella di Lazzaro), alla vista di quel che egli aveva compiuto, credettero in lui… Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio… e da quel giorno decisero di ucciderlo.  Gesù pertanto non si faceva più vedere in pubblico tra i giudei; egli si ritirò di là nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattenne coi suoi discepoli.  Era vicina la pasqua dei giudei e molti dalla regione andarono a Gerusalemme prima della pasqua per purificarsi.  Essi cercavano Gesù e stando nel tempio dicevano tra loro: “Che ve ne pare?  Non verrà egli alla festa?”.  Intanto i sommi sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunziasse, perché essi potessero prenderlo. (Gv 11,45-57)

    E’ la sua ora.  E’ lui che fissa questa data della pasqua per il suo compimento: l’ora pasquale, né prima, né dopo.  Non ci si deve ingannare: il sangue che egli verserà è “il sangue dell’alleanza”, “il sangue dell’agnello” pasquale, il sangue annunciato dal rituale antico.

    Egli stesso indica esplicitamente il suo riferimento alla pasqua ebraica: “Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e che il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso” (Mt 26, 1).

    Manda Pietro e Giovanni a preparare quella pasqua ebraica, che dovrà essere l’ultima cena: “Andate e preparate per noi la pasqua, perché possiamo mangiare” (Lc 22,7).

    Durante il pasto, Gesù sottolinea la situazione della pasqua che sta per celebrare: non la abolisce, ma al contrario la porta “a compimento”, la “completa”. E il mezzo di questo “compimento” è l’eucaristia che istituisce: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio. “E preso un calice… Poi preso un pane…” (Lc 22,15ss).

    La cena del giovedì santo e il sacrificio del venerdì sono dunque, insieme, la pasqua ebraica in via di “compimento” verso la pasqua “che verrà ” alla fine dei tempi.

    Com’è possibile ignorare questi collegamenti? Che cosa comprendiamo del “Cristo, nostra pasqua, che è stato immolato” (1Cor 5,7), se non sappiamo ciò che ha riempito il cuore di Cristo e degli apostoli durante quell’ultima e prima pasqua del giovedì santo?  Che cosa era per loro la Pasqua?

    2. La pasqua primaverile e pastorizia

    Questa festa di origine cananea risale senza dubbio a molto tempo prima dell’esodo dall’Egitto.  Ha la stessa età della primavera, dei greggi e dei pastori.  E’ il “sacrificio di Abele”.

    “In origine, la pasqua è una festa di famiglia.  La si celebra di notte, nel plenilunio dell’equinozio di primavera, il 14 del mese di abib o delle spighe (chiamato nisan dopo l’esilio).  Si offre a Dio un animale giovane, nato nell’anno, per attirare le benedizioni divine sul gregge.  La vittima è un agnello o un capretto, maschio, senza difetti; non gli si deve spezzare alcun osso.  Il suo sangue è posto, in segno di preservazione, all’ingresso di ogni dimora” (DTB).

    La sua carne è mangiata con rispetto in segno di comunione con Dio.  Forse il termine “pasqua” deriva da una “festicciola” sacrificale attorno all’agnello, o al fuoco.

    L’Esodo darà poi a questa festa il suo significato definitivo: la pasqua nomade diventerà la pasqua ebraica. Ricorderà l’uscita dall’Egitto, la liberazione “con braccio potente”, l’alleanza rinnovata sul Sinai…

    Sarà la festa, sempre attuale, dell’onnipotenza e dell’amore di JHWH, per il passato, per il presente e per il futuro.

    3. Affamato, schiavo, straniero

    Abramo era nomade nel Negheb. E’ il “paese asciutto”, la regione meridionale della Palestina.  “Venne una carestia nel paese e Abramo scese in Egitto per soggiornarvi, perché la carestia gravava sul paese” (Gen 12, 1 0).  In tempi migliori, poi, tornerà in Canaan e vi prospererà.

    Ma suo nipote Giacobbe e la sua famiglia vi patiscono nuovamente la fame. Mangiare, mangiare per vivere, è sempre la prima verità umana… e sacramentale. Ripartono dunque per l’Egitto dove Giuseppe li sistema nel delta del Nilo.

    Là gli ebrei (= “quelli che vengono da altrove”, gli “stranieri”) vivono in pace e si moltiplicano per quattrocento anni. Verso il 1310 a.C., il faraone Seti I inizia a sviluppare il delta per la coltura intensiva del grano e la costruzione di città-deposito per il suo commercio.  Il successore Ramses II ricorre alla schiavitù: gli ebrei sono costretti a lavorare duramente.

    Affamato, schiavo, in una terra straniera: questa è la situazione del popolo di Dio seicento anni dopo Abramo.  Proprio quella del figlio “prodigo” di cui parlerà Gesù (Lc 15) per caratterizzare la condizione dell’uomo bisognoso di salvezza.

    Nella notte però spunta una luce.

    4. Colui che è presente

    Per fede Mosè appena nato fu tenuto nascosto per tre mesi dai suoi genitori, perché videro che il bambino era bello; e non ebbero paura dell’editto del re.  Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò d’essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato.  Questo perché stimava l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto; guardava infatti alla ricompensa.  Per fede lasciò l’Egitto, senza temere l’ira del re; rimase infatti saldo come se vedesse l’invisibile. (Eb 11,23-27)

    Un giorno, Mosè vede un sorvegliante egiziano che colpisce uno dei suoi fratelli ebrei.  Ribellatosi a tale angheria, Mosè colpisce a morte l’egiziano e deve fuggire nel deserto di Madian (Arabia Saudita).  Là mentre pascola il gregge sulle pendici del Sinai, (chiamato anche Oreb), esperimenta Dio come presente in un roveto ardente.  Il Signore gli dice:

    “Ho osservato la miseria del mio popolo.  Sono sceso per liberarlo… e per farlo uscire verso un paese bello e spazioso.  Va’. lo sarò con te… (il mio nome è) lo sono colui che sono” (Es 3,7ss).

    E’ il nome del Dio della storia: Jahvé, Emmanuele, “Dio-con-noi”…

    Dio è colui che è, “è colui che è presente” per agire.  Propone perciò la fede attraverso atti storici che cambiano l’avventura umana. Sarà questa la caratteristica fondamentale del cristianesimo autentico.  Dio non può rinnegare se stesso.

    Anche Gesù si presenterà come “colui-che-viene”.  Che viene per che cosa?

    “lo sono ‘Cristo’, dice Gesù, “ho ricevuto l’unzione per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione, per rimettere in libertà gli oppressi” (cfr. Lc 4,18ss).

    “Io sono” (Gv 8,58), “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), dice Cristo.  Ed è l’eucaristia che in primo luogo, assicura sacramentalmente questa presenza.

    Se non è presenza reale, e perciò presenza attiva, liberante, buona novella ai poveri, agli oppressi, non è più la presenza di Dio, ma il sonnifero dei privilegiati, degli incoscienti e dei linfatici.  Il Dio dell’eucaristia è in testa a un cammino di liberazione.  Comunicarsi significa partire, “camminare al seguito di”, più che adorazione e culto.  Il cammino del popolo “al seguito di” Jahvé, il cammino del cristiano “al seguito di” Gesù, nella povertà, nell’impegno, fino alla morte, sono la forma della stessa fede, sono lo stesso movimento, che continua.

    La comunione deve concludersi con la domanda di Saulo caduto a terra sulla via di Damasco: “Che devo fare,  Signore?” (At 22, 1 0; cfr. 9,6).

    5. L’agnello di Dio

    “lo sono il Signore!  Vi sottrarrò ai gravami degli egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi libererò con braccio teso” (Es 6,6).

    “Alla liberazione creatrice commemorata dalla pasqua e al carattere laborioso, oneroso della grande opera divina, corrisponde il titolo di “redentore”, già dato a Jahvé nell’antico testamento.  Il redentore è colui che redime uno schiavo e ne fa così un uomo libero.  Cf. per esempio, Lv 27,13,19 e 3 1; Is 44,23 o 48,20.  Ma l’applicazione a Dio salvatore del termine non conoscerà affatto sviluppi arricchenti prima dei nuovo testamento” (L. Bouyer)

    Ha allora inizio, contro gli oppressori, una serie di fatti molto colorita: le piaghe d’Egitto.  Una serie di sciagure in cui si legge chiaramente l’azione di Jahvé per forzare la mano al faraone.

    La piaga ultima e decisiva, la morte dei primogeniti, quella che effettivamente salverà Israele, coincide con il pasto dell’agnello pasquale e ne è il frutto (Es 12).

    Tale pasto comprende circostanze ed elementi “tipici”, che sono riconosciuti e rivissuti nell’eucaristia.

    E’ una grande partenza, di notte.  Ogni famiglia si prepara in silenzio, febbrilmente, con la cintura ai fianchi, i sandali ai piedi e il bastone in mano (Es 12,1 1).

    La nostra eucaristia è ancora un “passaggio”, una ” pasqua”, un esodo? Dovrebbe esserlo.  Noi non siamo di quaggiù!  Non siamo sedentari, insediati, ma nomadi.  La comunione è un cibo di viaggio, un pasto di tappa, per camminare senza venir meno fino al termine della traversata.  “Dio mio, sarà per questa notte?”.

    Si è scelto un agnello senza difetto. Uno per famiglia.  Lo si immola senza spezzargli alcun osso.  Il suo sangue, sulle porte, farà sì che siano “saltati”, quando passerà” l’angelo sterminatore.  La morte entrerà in ogni casa, che non sarà segnata con il sangue dell’agnello.

    Si mangerà la carne dell’agnello con il pane che, per la fretta, il popolo non avrà avuto il tempo di far fermentare, e con erbe amare, in contrasto con le cipolle d’Egitto che saranno rimpiante durante la traversata del deserto.

    La pasqua è un mistero a cui deve partecipare “tutta l’assemblea della comunità d’Israele” (12,6), e a cui, per altro verso, possono partecipare solo i membri di questo popolo (12,43-44).  Chi se ne astiene, si esclude dal popolo di Dio.

    L’israelita stesso può prendervi parte solo in unione con la totalità del suo popolo.  La Pasqua non è un rito individuale. Il popolo è salvato insieme, in uno stesso e unico “passaggio” dall’idolatria e dalla schiavitù alla libertà del deserto e all’alleanza con Dio: celebra e celebrerà continuamente la sua salvezza nel rito efficace dell’agnello pasquale…

    Cristo crocifisso è il vero agnello pasquale.  Paolo lo celebra come “nostra pasqua immolata” (1Cor 5,7).  Pietro ci ricorda che siamo stati “liberati con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia” (1 Pt 1, 19).  Giovanni Battista lo presenta come “l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29).  L’evangelista Giovanni sottolinea che i giudei hanno celebrato la pasqua la sera del venerdì santo; hanno perciò immolato l’agnello nel pomeriggio, proprio nell’ora della morte di Gesù; e conclude il suo racconto su un dettaglio che fa, dell’immolazione dell’agnello, una profezia di quella di Gesù: “Questo avvenne perché si adempisse la scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso” (19,36).  Nell’Apocalisse, infine, il salvatore ci è presentato per una trentina di volte come un agnello immolato e sempre vivo, in piedi, e signore della storia (cap. 5-7).

    Uno dei vegliardi allora si rivolse a me e disse: “Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?”.  Gli risposi: “Signore mio, tu lo sai”.  E lui: “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide coi sangue dell’agnello.  Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio notte e giorno nel suo santuario; e colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.  Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l’agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita.  E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi”. (Ap 7,13-17)

    L’agnello di Dio, nel suo sacrificio pasquale, nella sua cena pasquale: questa è la messa…

    Un popolo muore, perché non mangia la carne dei Figlio dell’uomo e non beve il suo sangue.  Un popolo ha la vita eterna, perché mangia la sua carne e beve il suo sangue (Gv 6,53ss).

    Un mondo sfugge ai colpi dello sterminio, perché le sue “porte” sono bagnate con il sangue dell’agnello.

    Di qui deriva il dialogo che precede il nostro accostarci alla mensa dell’agnello pasquale:

    Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi!

    Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.


    6. La traversata del deserto


    Sotto i colpi dello sterminatore, l’Egitto lascia la presa e Israele fugge.  Solo Dio poteva – e solo Dio può – strappare il suo popolo alla schiavitù e all’idolatria.  L’ha fatto attraverso il “vaglio” del deserto.

    Il deserto è il “passaggio” necessario verso la terra delle promesse.  Per gli ebrei, fu il periodo del meglio e del peggio: del meglio per il cammino con Dio, la povertà senza attaccamento, l’alleanza del Sinai; del peggio per gli sguardi indietro verso le pentole dell’Egitto, il vitello d’oro, la prostituzione e le apostasie (Nm 20-25).

    Infedeltà dell’uomo, della chiesa, pazienza e perdono di Dio.  Questi tratti duraturi, ciclici, rimarranno, fino alla fine dei tempi, le caratteristiche del cammino della coppia dell’alleanza: l’uomo e Dio.

    La liberazione non ha mai termine; le purificazioni del deserto sono sempre da ricominciare; le misericordie gratuite del Signore non si stancano; la terra promessa è sempre da conquistare…

    Tutto questo “passaggio”, inaugurato con la pasqua ebraica, che apre il ciclo dell’esodo, continua e si consumerà nella pasqua della nuova ed eterna alleanza. E’ la pasqua eucaristica di cui la prima era soltanto la figura.  La carne dell’agnello e il pane azzimo della prima pasqua dell’esodo saranno sostituiti, durante il cammino, dalla manna miracolosa e piena d’ogni dolcezza”.

    Sfamasti il tuo popolo con un cibo degli angeli, dal cielo offristi un pane già pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto.  Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i tuoi figli; esso s’adattava al gusto di chi lo inghiottiva e si trasformava in ciò che ognuno desiderava. (Sap 16,20-21)

    Cesserà di cadere solo dopo la celebrazione della prima pasqua nella terra promessa.  Tuttavia, era soltanto un’immagine: “I vostri padri“, dirà Gesù, “hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti“.  Ed ecco la realtà: “Se uno mangia il pane vivo, disceso dal cielo, vivrà in eterno” (Gv 6,49).

    7. Il pasto e il sangue dell’alleanza

    La traversata del deserto è segnata dal più grande evento della storia ebraica: il rinnovamento dell’alleanza.  Un tempo, essa era stata stipulata con un amico, Abramo; ora è ripresa con il popolo dei suoi discendenti, per farne pienamente “il popolo di Dio… un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,6).

    Il Signore dà a Mosé per il popolo, le “dieci parole” (il “deca-logo”) e il codice dell’alleanza. Il popolo acconsente.  Resta da suggellare il patto nella forma dovuta (Es 24).

    Con un sacrificio, certamente, perché uno dei contraenti è la fonte della vita e d’ogni cosa.  Ma questo sacrificio sarà inserito in un rito di alleanza.

    Mosè… costruì un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele.  Incaricò alcuni giovani tra gli israeliti d’offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore.  Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare.  Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo.  Dissero: “Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!”.  Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!” (Es 24,4-8)

    Si tratta di diventare “fratelli di sangue”, “sposi di sangue”.

    Il sangue delle vittime è perciò sparso sia sull’altare che rappresenta Dio, sia sul popolo raffigurato da dodici stele: ormai un unico sangue, un’unica vita circolano nelle due parti contraenti e fanno, di due, come un solo essere vivente…

    Nelle vene del Figlio di Dio diventato figlio di Abramo, circolerà infatti un solo sangue, che sarà il sangue dell’ebreo e il sangue di Dio.  Un vero sangue d’uomo sarà il vero sangue di Dio.  E’ “il sangue dell’alleanza”  versato nell’unico sacrificio, il sacrificio della croce e della messa.  Il sangue del pasto eucaristico:  “Prendete e bevetene tutti, questo è il calice del mio sangue versato”.

    Un pasto eucaristico è presente anche all’alleanza del Sinai.  Dopo l’aspersione col sangue, Mosè, Aronne e i settanta anziani di Israele salirono sul Sinai.  “Essi videro Dio e tuttavia mangiarono e bevvero” (Es 24,1 1).  Come avvenne questo incontro?  Non lo sappiamo.  Ci sono però nel racconto due annotazioni di estrema importanza:

    – il popolo è l’invitato di Dio per un pasto gioioso che stabilisce la comunione tra i partecipanti e Dio;

    – questa comunione è l’inizio della visione di Dio.


    8. Alleanza e legge


    L’alleanza conclusa con il popolo del Sinai è profondamente diversa da quella conclusa con Abramo, almeno a un primo esame.  Questa era incondizionata, senza contropartita; quella del Sinai comporta il decalogo e il codice dell’alleanza.

    Si tratta di provocare la responsabilità dell’uomo, d’educare alla libertà questo popolo-neonato.

    A molti secoli di distanza, per l’esperienza fatta e per opera dello Spirito santo che lo ispirava, s. Paolo comprenderà che l’uomo è perduto, se si afferra solamente all’alleanza mosaica, per il fatto che egli è radicalmente peccatore.  Al di là delle sue opere, al di là della fedeltà ai precetti, l’uomo ha accesso alla salvezza solo nella alleanza di pura grazia, di pura amicizia, stabilita con Abramo e realizzata con la morte e la risurrezione di Gesù Cristo.

    Un testamento legittimo, pur essendo solo un atto umano, nessuno lo dichiara nullo o vi aggiunge qualche cosa.  Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse.  Non dice la scrittura: ,le ai tuoi discendenti”, come se si trattasse di molti, ma “e alla tua discendenza”, come a uno solo, cioè Cristo.  Ora io dico: un testamento stabilito in precedenza da Dio stesso, non può dichiararlo nullo una legge che è venuta quattrocentotrenta anni dopo annullando così la promessa.  Se infatti l’eredità s’ottenesse in base alla legge, non sarebbe più in base alla promessa; Dio invece concesse il suo favore ad Abramo mediante la promessa (Gal 3,15-18)

    Il sacramento più grande potrà essere solo quello della più grande misericordia:      il sacramento dell’amore di Dio.

    Un grande monaco del secolo XI esprime molto bene il cuore di Cristo quando scrive: “Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”, disse il creatore e il conoscitore della carne e dello spirito.  Per questo, avendo conosciuto la nostra debolezza, egli che ci ha creati, e avendo saputo la nostra impotenza di uomini fragili e disarmati a resistere al forte e all’armato, se non ci protegge colui che è più forte, ci ha donato, contro l’odio implacabile dell’antico avversario, la protezione invincibile del pane quotidiano… Egli che scruta i cuori con bontà, ha saputo ugualmente che la nostra strada di corruzione era tenebrosa e sdrucciolevole e che nessun uomo poteva percorrerla senza danno.  Per questo, poiché ogni giorno siamo esposti ai pericoli, ogni giorno cadiamo, ogni giorno siamo malati, si è degnato di offrirci la sua presenza ogni giorno nel mistero del suo corpo e del suo sangue, affinché da questa presenza siamo liberati, sollevati, e avviati alla convalescenza”  (Francon d’Afflighem).

    SACRAMENTO DELLA PASQUA

    “Il Signore, avendo amato i suoi, li amò sino alla fine. Sapendo che era giunta la sua Ora di passare da questo mondo al Padre, mentre  cenavano, lavò loro i piedi e diede loro il comandamento dell’amore (Gv 13,1-17). Per lasciare loro un pegno di questo amore, per non allontanarsi mai dai suoi e renderli partecipi della sua Pasqua, istituì l’Eucaristia come memoriale della sua morte e della sua risurrezione, e comandò ai suoi discepoli di celebrarla fino al suo ritorno, costituendoli “in quel momento sacerdoti della Nuova Alleanza”.

    Gesù ha scelto il tempo della Pasqua per compiere ciò che aveva annunziato a Cafarnao: dare ai suoi discepoli il suo Corpo e il Suo sangue.

    Celebrando l’ultima Cena con i suoi Apostoli durante un banchetto pasquale, Gesù ha dato alla pasqua ebraica il suo significato definitivo. Infatti la nuova Pasqua, il passaggio di Gesù al Padre attraverso la sua Morte e la sua Risurrezione, è anticipata nella Cena e celebrata nell’eucaristia, che porta a compimento la pasqua ebraica e anticipa la pasqua finale della Chiesa nella gloria del Regno”.

    Catechismo della Chiesa Cattolica, 1337-1339-1340

    ***

    La pasqua ebraica celebra la salvezza del popolo ebraico dalla strage dell’angelo sterminatore dei primogeniti egiziani. Il sangue dell’agnello asperso sugli architravi delle porte fa sì che il popolo eletto abbia la vita.

    In quella notte gli ebrei mangiano della carne di quell’agnello: in fretta perché la liberazione è imminente.

    Quel sangue e quell’agnello prefigurano il sacrificio di Cristo: il sacrificio che apre le porte della vita  al popolo salvato.

    Cfr.:  Es 12; 1Pt 1,19; Gv 1,29

    ***

    Lungo il cammino nel deserto ha luogo la solenne stipulazione dell’alleanza tra JHWH e il suo popolo. Un’alleanza stipulata nel sangue di un agnello asperso sull’altare e sul popolo ad indicare ormai una imprescindibile comunione di vita e di destino.

    Nel sacrificio eucaristico quel sangue è il sangue del Figlio di Dio dato a noi come bevanda: un’indissolubile comunione di vita e di destino.

    Cfr.: Es 24

    ***

    L’eucaristia ci si presenta dunque come pasqua, cammino da intraprendere dietro a Cristo, condividendo con lui il suo destino, nella fede che attraverso la sua morte perverremo alla sua risurrezione. L’eucaristia non ci ripiega, non ci ferma: al contrario mette in cammino, ci prospetta una direzione e una meta.

    Se il sacramento nella nostra vita personale e comunitaria non riveste tale dinamismo a che serve, quale il suo valore per noi?

  • 13 Feb

    LE PREPARAZIONI


    6. Sacramento dell’alleanza


    1. Introduzione

    Questo è il calice del mio sangue, il sangue della nuova ed eterna alleanza“. dicono tutte le preghiere eucaristiche.

    Parole che fanno eco agli evangelisti e a s. Paolo: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti” (Mt 26,28; Mc 14,24); “questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi” (Lc 22,20; 1Cor 11,25).

    I materiali di cui si serve l’eucaristia cristiana non sono affatto una semplice materia bruta, ma sono pietre già squadrate e sapientemente lavorate. Non uno iota solo di quanto già inciso sarà cancellato.  Non possiamo partire da zero con le prime formule eucaristiche cristiane, come non si può partire da zero col vangelo.  Nei due casi, per un disegno provvidenziale, abbiamo un antico testamento che non è possibile saltare a pie’ pari. Se infatti la provvidenza ha giudicato necessaria questa tappa, non abbiamo allora né il diritto né la possibilità di cancellarla con un colpo di spugna. (Bouyer)

    L’eucaristia è perciò dominata dall’idea, dalla realtà dell’alleanza, radicata nell’alleanza, “compie” l’alleanza.

    Sappiamo tutti che cosa sono le alleanze, di cui si porta al dito un piccolo segno; sappiamo che esse significano dono totale, corpo e anima, per tutta la vita, nell’amore.

    E’ necessario approfondire questo tema nella prospettiva dell’eucaristia.

    L’eucaristia, infatti, è il “sacramento dell’alleanza”; il sangue prezioso è il “sangue dell’alleanza”.

    Come la intendiamo?  Come la viviamo?

    2. Le alleanze della promessa

    Parlando del tempo della loro vita pagana, s. Paolo scrive ai cristiani di Efeso: “Ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo” (Ef 2,12).

    Giudica perciò d’estrema importanza per la salvezza questo diritto di cittadinanza nell’Israele spirituale.

    E noi?  Sappiamo che ci sono queste alleanze, questi “patti della promessa”, senza i quali saremmo “senza speranza e senza Dio in questo mondo”?  Promessa di che cosa?  In virtù di quali alleanze?

    Se ci si accosta all’alleanza del Sinai, saremo rinviati ad Abramo: il Signore rinnova con Mosè l’alleanza conclusa con Abramo. Matteo e Luca, ritengono di capitale importanza sottolineare con una genealogia che Gesù era figlio di Abramo, a causa della promessa! (Cfr.  Mt 1,1ss; Lc 3,23ss).

    E i due grandi cantici evangelici – il Benedictus e il Magnificat – che la liturgia cristiana riprende ogni giorno, a lodi e a vespri, come i pilastri della sua fede e della sua speranza, questi due cantici ricordano Abramo a proposito dell’incarnazione di Gesù e della salvezza del mondo:

    “Ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, dei giuramento fatto ad Abramo, nostro padre…”

    “Si è ricordato della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, al Abramo e alla sua discendenza per sempre”.

    3. Abramo: Il padre di tutti i credenti

    Con Abram, che Dio chiamerà Abraham dopo l’alleanza (Gen 17,5), la Bibbia raggiunge la storia.  Tutto ha inizio verso l’anno 1850 a.C., al tempo della prima dinastia di Babilonia, e in alcune città (Ur, Harran) che gli scavi archeologia degli ultimi cinquant’anni ci hanno restituite, con innumerevoli documenti dell’epoca, in particolare con migliaia di tavolette scritte, archivi dei re di Mari capitale della Caldea.

    Giosuè disse a tutto il popolo: “Dice il Signore, Dio d’Israele: i vostri padri, come Terach padre d’Abramo e padre di Nacor, abitarono dai tempi antichi oltre il fiume e servirono altri dei.  Io presi il padre vostro Abramo da oltre il fiume e gli feci percorrere tutto il paese di Canaan”. (Gs 24,2-3)

    Proprio in questo luogo e in questo tempo Dio prende l’iniziativa di “rivelarsi”.  Abramo vive un’esperienza interiore che lo domina: Dio gli parla.

    “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre…” (Gn 12).

    Quando la parola di Dio esce dal silenzio è sempre per strapparci verso un “altrove”; verso lui stesso.

    E’ il movimento della salvezza.  Dio non si rivolge a nessuno per lasciarlo al suo passato, alla sua terra, ai suoi idoli, alla sua personale sicurezza.  Bisogna “passare” fiumi, deserti, e cambiare terra e divinità.

    Prima tappa della fede: lasciare la presa, senza rete di salvataggioNon saper nulla di quel paese… perché l’unico paese in cui ci si può fermare è Dio.

    Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati da lontano, dichiarando d’essere stranieri e pellegrini sulla terra.  Chi dice così, infatti, dimostra d’essere alla ricerca d’una patria.  Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità dì ritornarvi; ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste.  Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città. (Eb Il, 13 -16)

    La lettera agli Ebrei (1 1,8ss) l’autore ci mostra in tutta la sua grandezza la fede del patriarca: “Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava.  Per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa.  Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso: la Gerusalemme celeste”.

    Era il primo aspetto della “promessa”: una terra, nuova e sconosciuta.

    Ed ecco il secondo: “Farò di te un grande popolo“, dice Dio, “e ti benedirò, renderò grande il tuo nome.  In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra.  A quest’uomo di settant’anni e a Sara che è sterile, Dio darà un popolo di discendenti; anzi di più: “in lui si diranno benedette tutte le famiglie umane“, i suoi figli saranno numerosi come la polvere della terra e come le stelle del cielo (Gn 13, 16; 15,5), “a lui e alla sua discendenza è data la promessa di diventare erede del mondo” (Rm 4,13), la promessa, cioè, che ogni uomo, ebreo o non ebreo, sarà debitore della vita eterna a colui di cui Abramo è l’antenato, Gesù, compimento di questa promessa.

    Abramo “amico di Dio” (Is 41,8), partì: credette alla divina parola e attese l’impossibile.  Per questo, “nessuno ci fu simile a lui nella gloria” (Sir 44,19).

    Le tradizioni ebraica e cristiana lo proclamano “padre di tutti coloro che credono” (Rm 4,1 1).

    Tutta la storia del popolo di Dio, tutta la storia della salvezza parte da questa chiamata e da questa risposta.

    Da questa sorgente aperta nella sterilità di Abramo, sostituita dalla sorgente aperta nella verginità di Maria, e dalla loro duplice fede che dice sì senza batter ciglio.

    C’è forse qualche cosa impossibile per il Signore?” (Gen 18,14).

    Questa frase annuncia il concepimento miracoloso d’Isacco, ed è ripresa dall’angelo dell’annunciazione per garantire a Maria il concepimento verginale di Gesù.(Lc 1,37)

    Questa fede prepara e accoglie l’incarnazione del Figlio di Dio, figlio di Abramo, figlio della Vergine, fratello universale di tutti gli uomini, vita e salvezza del mondo.


    4. Gesù: La nuova ed eterna alleanza

    In realtà, con la sua pasqua – la sua morte e risurrezione – Gesù, “figlio di Abramo… figlio di Dio” (Lc 3),

    –   entra personalmente nella beatitudine eterna, la vera terra promessa che noi non conosciamo, e ne apre le porte a tutto il genere umano;

    –   attira a sé, orizzontalmente, “tutti gli uomini” (Gv 12,32), tutto il popolo di Dio, e ne fa una sola famiglia di fratelli; di più: un solo corpo (Rm 12,5), dunque una sola discendenza spirituale d’Abramo, il frutto della sua fede: “I figli che Dio mi ha dato” (dice Gesù) sono la “stirpe d’Abramo” (Eb 2,13 e 16);

    –   attira a sé verticalmente, verso il Padre presso cui è salito, questo popolo di Dio che nasce, cammina e muore, di generazione in generazione, fino alla parusia finale: discendenza universale promessa ad Abramo.

    Per mezzo dell’eucaristia, egli continua e termina felicemente il suo “compimento” in una incessante migrazione, un incessante “passaggio”, “oltre il fiume” della morte, verso l’eternità: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54).

    Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo.  Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.  E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza d’Abramo, eredi secondo la promessa. (Gal 3,26-29)

    5. Alla maniera di Melchisedek

    La Lettera agli Ebrei riassume questo mistero della storia della salvezza nei seguenti termini:

    “Il Figlio, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Mechisedek(5,9-10).

    Nello stesso modo Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli disse: Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato.  Come in un altro passo dice: Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchisedek.  Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek. (Eb 5,5-10)

    Eccoci rinviati ad Abramo dallo stesso nuovo testamento.  Per indicare che cosa?

    Abbiamo visto che Abramo è superiore a Mosè.

    Di conseguenza, il sacerdozio di Aronne, fratello di Mosè, sarà ugualmente sostituito, in Gesù Cristo, da un sacerdozio superiore, “alla maniera di Melchisedek” (Eb 7,1-28), dal sacerdozio che Abramo ci fa scoprire: quello delle nostre eucaristie.

    Ecco i fatti: alcuni re predoni hanno rapito Lot, suo nipote, con la famiglia e i beni. Abramo e la sua truppa li inseguono, li raggiungono e riportano indietro nipote, famiglia, beni e il “di più” di un ricco bottino.  Sulla via del ritorno, passano per una città chiamata Salem – “la pace” – che diventerà poi celebre e santa sotto il nome di Gerusalemme.  Ora, questa “città-la-pace” è governata da un re di cui non si conoscono né gli ascendenti né i discendenti, e che ha nome Melchisedek, “re-di-giustizia”.  Egli è anche sacerdote: “sacerdote del Dio altissimo, creatore del cielo e della terra” (Gen 14,18-19),  sacerdote del vero Dio, l’unico, quello di Abramo e di Gesù Cristo.

    Questo personaggio misterioso è presentato dal Salmo 110 come una figura del Messia, re e sacerdote.  Tale applicazione al sacerdozio di Cristo è sviluppata nella lettera agli Ebrei al cap. 7.

    La tradizione patristica ne sottolineerà gli aspetti importanti:

    A. Melchisedek comincia con l’ “offrire pane e vino”.  A che scopo?  Per un’offerta rituale?  No!  Per condividerli con Abramo e il suo seguito. E’ un gesto di ospitalità, un rito di accoglienza per gli stranieri. E’ anche un pasto – sacro o no, è secondario -, un pasto condiviso tra due stirpi, in segno di alleanza fraterna.

    In questo pane e questo vino presentati ad Abramo, i santi padri vedranno una figura dell’eucaristia, e insieme un vero sacrificio.  Tale interpretazione è entrata nel canone della messa (canone romano).

    B. Poi Melchisedek “benedisse Abramo e questi “gli diede la decima di tutto”.  Come è stato sottolineato, il ruolo principale è tenuto qui da Melchisedek, sacerdote non ebreo; di fronte a lui Abramo l’ebreo, antenato dei sacerdoti levitici, occupa un grado inferiore.  Attraverso Melchisedek, Abramo si inchina davanti a Gesù Cristo e riceve da lui il pane e il vino.

    C. Inoltre, il personaggio, il nome, i titoli di re-sacerdote, il fatto che non ha ricevuto un’investitura terrena, tratteggiano così bene le caratteristiche di Gesù che molti padri hanno affermato che in lui era apparso il Figlio di Dio in persona.  Gesù, in ogni caso, sarà “sacerdote alla maniera di Melchisedek”.

    Anzitutto il suo nome tradotto significa re di giustizia; è inoltre anche re di Salem, cioè re di pace.  Egli è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio e rimane sacerdote in eterno” (Eb 7,2-3).

    Sul portale di Reims, Melchisedek, in abiti sacerdotali, tiene in mano una pisside e presenta un’ostia ad Abramo che è vestito come un guerriero medioevale, con le mani giunte per ricevere il sacramento.  Anche l’atrio settentrionale di Chartres rappresenta Melchisedek con in capo la tiara di sommo pontefice e in mano un incensiere e una pisside.  Gli scalpelli degli scultori hanno tenuto conto di tutta la tradizione patristica e liturgica. Il sacerdote eterno, Gesù, dà l’eucaristia a tutto il popolo di Dio nella persona del suo antenato nella fede, Abramo.

    6. L’alleanza senza condizioni

    Prima di Abramo e da sempre, l’alleanza era una pratica giuridica e sociale molto in uso tra gli uomini.  Questo rito era un contratto, con diritti e doveri reciproci. Patti di amicizia, di pace, di vassallaggio, tra individui o tra gruppi stipulati attraverso un rito specifico:  “Le parti si impegnano con giuramento.  Si dividono in due degli animali e si passa tra le metà pronunciando delle imprecazioni contro gli eventuali trasgressori (si invoca su chi sarà infedele la sorte di quegli animali fatti a pezzi).  Infine si stabilisce un memoriale: si pianta un albero. o si erige una pietra che saranno ormai i testimoni del patto” (DTB).

    Dio contratta ufficialmente con il suo amico Abramo secondo questo rito abituale. E’ utile leggere, al capitolo 15 della Genesi, la messinscena degli animali divisi e di Dio, sotto forma di fiaccola ardente, che accetta di essere “tagliato in due”, se viene meno alla sua promessa!

    (Dio) condusse fuori (Abram) e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle” e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”.  Egli credette al Signore che glielo accreditò come giustizia.  E gli disse: “lo sono il Signore che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese”.  Rispose: “Signore mio Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?”.  Gli disse: “Prendi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un piccione”.  Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra…. Quando, tramontato il sole, s’era fatto buio fitto, ecco un forno fumante e una fiaccola ardente passarono in mezzo agli animali divisi.

    In quel giorno il Signore concluse questa alleanza con Abram. (Gen 15,4-18)

    Si tratta d’una promessa.  Dio non chiede nulla, non mercanteggia.  E Abramo non dà nulla, non promette nulla, non dice nulla. Abbiamo qui la differenza radicale con le alleanze umane.

    Dio promette tutto e darà tutto.  Un volta per sempre, Dio s’impegna a condurre l’uomo alla felicità nella terra di Dio.

    Questa promessa ci riguarda, ciascuno personalmente, allo stesso modo di Abramo!  Per quanto grandi possano essere i nostri peccati, Dio non potrà contraddirsi, e ne è una testimonianza “a caldo” la straordinaria contrattazione del capitolo 18 in favore di Sodoma, in cui Abramo si stanca alla fine di intercedere per il perdono.  L’amicizia, la misericordia, da parte di Dio, non verranno mai meno, mentre Dio attende in cambio solo la fiducia e l’amore: “Cammina davanti a me e sii perfetto“.

    Neppure questa è una “condizione”.  L’amore infinito di Dio è incondizionato:

    Se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2 Tm 2,13).

    Abramo ha lasciato tutto, ma d’ora in poi la sua sicurezza – e la nostra – sarà la fedeltà di Dio.

    Fedeltà fino alla morte… Per noi che siamo infedeli, lui sarà “tagliato in due” in occasione della pasqua, nell’alleanza di sangue del suo sacrificio.  “Corpo spezzato… sangue versato”… sulla croce, sull’altare.

    “Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio” (1 Pt 3,18).

    7. Il sacrificio di Abramo

    L’altare?  Abramo ne dovrà innalzare ora uno sul monte Moria (Gn 22) e, come il Padre celeste, sacrificarvi sopra il figlio. Dopo dieci anni di vita errabonda e di fede, ha infatti avuto un figlio, Isacco.  Un unico figlio: attraverso di lui e solo attraverso di lui potranno realizzarsi le promesse di Dio: “Sarai padre di un popolo e questo popolo avrà una terra; e questa terra sconosciuta radunerà tutti i popoli, tuoi figli‘ .

    Ora Dio gli dice: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco e offrilo in olocausto! “.

    Abramo non lo sa, ma noi sappiamo che Dio ha un figlio, un unico Figlio, il prediletto.  Sa che cosa domanda. (Anche Maria conoscerà questo strazio).

    Abramo, l’amico di Dio, “il credente”, dà subito la testimonianza assoluta: “Abramo si alzò di buon mattino, spaccò la legna…” (Gen 22,3).

    Pensa forse che Dio si smentisca?

    Eredi quindi si diventa per la fede, perché ciò sia per grazia e così la promessa sia sicura per tutta la discendenza, non soltanto per quella che deriva dalla legge, ma anche per quella che deriva dalla fede di Abramo, il quale è padre di tutti noi.  Infatti sta scritto: Ti ho costituito padre di molti popoli; (è nostro padre) davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono.  Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza.  Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara.  Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio. (Rm 4,16-20)

    Ascoltiamo ancora la lettera agli ebrei 11,17ss:

    Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome.  Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti. Per questo lo riebbe e fu come un simbolo.

    Un simbolo del sacrificio e della risurrezione di Gesù Cristo.

    Era il mese di Nisan (dalla metà di marzo alla metà di aprile). E’ questa la vera fecondità di Abramo: per virtù della fede, egli genererà l’Isacco della risurrezione.

    Ed è questa la vera nascita di Isacco: quella notte in cui questo “primogenito”, quest’unico, fu “saltato” dalla morte, perché la fede di Abramo lo vedeva già “risorto”…

    Pasqua del primogenito Isacco sull’altare di Abramo, “saltato” dalla morte sterminatrice per virtù della fede di suo padre.

    Pasqua di Gesù Cristo, primogenito del Padre, sgozzato sull’altare della croce e risuscitato perché la morte ”salti” per sempre tutti coloro che non rifiuteranno di aver fede in lui.

    Pasqua dell’Eucaristia “carne data per la vita del mondo” (Gv 6,51) – in cui coloro che non la “salteranno” troveranno vita e risurrezione: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno (6,54).


    IL SACRAMENTO DELL’ALLEANZA

    “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò  tutti a me” (Gv 12,32). L’elevazione sulla croce significa e annunzia l’elevazione dell’Ascensione al cielo. Essa ne è l’inizio. Gesù Cristo, l’unico sacerdote della Nuova ed Eterna Alleanza “non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo…, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore” (Ebr 9,24). In cielo Cristo esercita il suo sacerdozio in permanenza, “essendo egli sempre vivo per intercedere” a favore di “quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio” (Ebr 7,25). Come “sommo sacerdote dei beni futuri” (Ebr 9,11) egli è il centro e l’attore principale della Liturgia che onora il Padre nei cieli”. Catechismo della Chiesa Cattolica, 662

    ***

    Dio stipula con Abramo una promessa: una terra, una discendenza, una benedizione. Gli chiede di fidarsi, di porsi in cammino verso un “altrove”, è un primo “passaggio”, una prima “pasqua”. Cfr.    Gn 12; Ebr 11,13-16

    ***

    Gesù si colloca nella linea delle promesse fatte ad Abramo, le porta a compimento:

    –       entra personalmente nella beatitudine eterna, la vera terra promessa

    –       attira a sé tutti gli uomini facendone un corpo solo, una sola discendenza che prolunga spiritualmente quella di Abramo

    –       attira a sé verso il Padre il popolo che Dio gli ha donato.

    L’eucaristia attualizza continuamente queste realtà contenute nella promessa

    Cfr.    Gal 3,26-29

    ***

    Melchisedek è prefigurazione del sacerdozio vero ed eterno di Cristo.

    È solo il sacerdozio di Cristo, che è vittima pura e sacerdote vero allo stesso tempo, a portare a realizzazione solo ciò che l’antico sacerdozio preannunciava: la nostra piena comunione con Dio.

    Cfr.    Ebr 5,5-10

    Ebr 7,2-3

    ***

    JHWH propone ad Abramo un’alleanza che domanda solo ad Abramo la fede. Un’alleanza che consiste nella promessa. Qui è la rivelazione di un amore di Dio verso l’umanità incondizionato, un amore che domanda solo fiducia e amore. Dio non potrà mai ritrattare la sua alleanza: Dio è amore

    Cfr     2Tm 2,13

    1Pt 3,18

    ***

    Il racconto del sacrificio di Isacco propone alla nostra meditazione il gesto di fede incondizionata di Abramo, ma nello stesso tempo è annuncio del sacrificio dell’unigenito che il Padre lascerà compiersi sul Calvario.

    Cfr     Rm 4,16-20

    Ebr 11,17ss

  • 12 Feb

    le preparazioni

    5. SACRAMENTO DELLA CREAZIONE


    Per tornare al sacramento dell’eucaristia, se vogliamo, al di là dei simboli, coglierne la smisurata portata, dobbiamo risalire i tempi, oltre Gesù Cristo, fino all’inizio del tempo, “in principio”, alla creazione.


    Egli è prima di tutte le cose

    La salvezza dell’uomo è legata alle alleanze d’amore che Dio non cessa di cercare, di moltiplicare con lui.

    E questo a partire dalla creazione, che è la prima “grazia”, la prima alleanza, il primo “sacramento” dell’incontro col Padre.

    La realtà di Dio è di essere amore.  La realtà della creazione è di essere il suo primo gesto d’amore per noi.  Un gesto sconfinato come l’universo.

    Un gesto permanente, di ogni istante, perché la creazione non è un “anticamente”, ma un “ora”, come una sorgente.  La creazione è il cuore di Dio che non cessa di donarsi.

    Ma può un cuore restare pago di un primo gesto d’amore, fosse anche importante?  E’ forse sufficiente, per essere padre o madre, concepire un figlio?… Resta da “farlo”: metterlo al mondo, nutrirlo, formarlo, liberarlo, “allevarlo”, finché diventi “grande”, come i genitori, al loro livello.

    La creazione è dunque qualcosa che Dio sta “perfezionando”.  E’ qualcosa che, dopo l’inizio, sale verso una maggiore bellezza, verso una maggiore vita, coscienza, umanizzazione, divinizzazione.  “Sale”?  No: è attratta, sollevata verso un polo divino che non è altro che Gesù Cristo “primogenito di ogni creatura: tutto è stato fatto in lui e in vista di lui”.

    Sappiamo che nei cromosomi dell’ovulo umano, fin dal primo giorno della fecondazione, i “geni” sono già presenti e attivi per assicurare la trasmissione dei caratteri ereditari che la crescita metterà in risalto.  Chi fosse in grado di leggere la programmazione prodigiosamente miniaturizzata iscritta nell’embrione microscopico, saprebbe anche subito che cosa sarà quel bambino, eccettuate, è chiaro, le sue libere scelte.  Può conoscere perfino il colore degli occhi e dei capelli!

    Allo stesso modo, fin dalla creazione, una forza vitale chiama e trae l’umanità e il mondo verso la pienezza, che è Dio.  Tale forza è una Persona, il Verbo, il Verbo incarnato: Gesù Cristo nel cuore del mondo per trasformarlo e portarlo fino alla divinizzazioneFin dal “principio”, l’uomo e l’universo sono programmati da Gesù Cristo risorto. Il codice – cioè il senso scritto ma segreto – il codice per un’autentica interpretazione del mondo è, ci dice san Paolo, “Cristo in voi, speranza della gloria” (Col 1,27).

    Il Figlio eterno del Padre è creatore, insieme al Padre e allo Spirito. E’ l’alfa (prima lettera dell’alfabeto greco), il principio del mondo, ma ne è anche l’omega (l’ultima lettera), il compimento.  E il punto di partenza e di arrivo, e tutto ciò che vi è in mezzo.  Infatti, con la sua incarnazione, è entrato nella storia e nella creazione, uomo fra gli uomini, materia in mezzo alla materia, per condurre ogni cosa alla pienezza della vita divina, perché lui solo ne conosce la via.  Egli solo è la via.

    “Egli è generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra…

    Tutte le cose sono state create

    per mezzo di lui e in vista di lui.

    Egli è prima di tutte le cose

    e tutte sussistono in lui.

    Egli è anche il capo del corpo…

    Egli è il principio…

    Perché piacque a Dio di fare abitare in lui

    ogni pienezza (della divinità e dell’universo)”

    (Col 1, 15ss).

    E’ la messa che guida

    Questo sconfinato movimento di divinizzazione è significato e realizzato in maniera particolarmente intensa dall’eucaristia.

    Alla consacrazione il pane e il vino, elementi materiali del mondo, sono mutati in corpo e sangue del Figlio di Dio!  Per la potenza dello Spirito, la creazione è investita dalla luce sovrana del risorto e diventa la pienezza che egli stesso è: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue!”.

    “Essa non è più semplicemente segno di Dio (mostra cioè la sua esistenza per il solo fatto di essere uscita dalle sue mani); non è più solamente portatrice della sua grazia (come gli altri sacramenti).  Essendo transustanziata, essa è vita eterna, il corpo del Figlio di Dio.

    L’eucaristia rivela così il senso ultimo dell’atto creatore di Dio, la vocazione di tutta la creazione.  Questa suprema significazione non consiste nella sua uscita da Dio, nella sua creazione dal nulla (ex nihilo), come se Dio, dopo averla tenuta nelle sue mani, la lanciasse nella cieca danza dei secoli, nel nulla del mondo cosmico che gira in tondo senza mai avanzare.

    Si tratta piuttosto, d’una progressione della materia verso l’uomo, dell’uomo verso Cristo, e di Cristo verso il Padre.

    Tale ritorno della creatura a Dio è significato, in una maniera che supera tutti gli altri sacramenti, dall’eucaristia.  Il momento della consacrazione, quando il pane e il vino, frutti della terra e del lavoro dell’uomo, diventano il corpo di Cristo, compie in un batter d’occhio il cammino dei secoli verso Dio.  Predestinato dal Padre, chiamato all’esistenza nel Figlio, condotto dallo Spirito che muove tutti i figli di Dio, l’uomo – e la creazione ch’egli riassume in sé – torna nel seno del Padre, dove si trova il Figlio e dove regna l’amore dello Spirito.

    La creazione, nata nel cuore di Dio e ora transustanziata nell’eucaristia, ritorna nel cuore di Dio per esservi eternamente lode e gloria della sua grazia” (Ef 1,6)” (Lucien Deiss).

    La transustanziazione realizza nel pane e nel vino la vocazione dell’uomo e la fine dell’universo. Nell’eucaristia avviene per due elementi di questo mondo ciò che deve avvenire per il mondo intero e per l’uomo stesso, quando li si considera alla luce della risurrezione” (Gustave Martelet).

    E’ perciò l’eucaristia che “guida”.  E’ la messa che anticipa la fine dei tempi, realizzando il divenire divino dell’uomo e dell’universo.

    “Pegno della gloria futura” canta dell’eucaristia l’antifona di s. Tommaso.

    L’eucaristia è il grande sacrificio di lode attraverso il quale la chiesa parla a nome dì tutta la creazione.  Infatti il mondo che Dio ha riconciliato con se stesso, è presente a ogni eucaristia: nel pane e nel vino, nella persona dei fedeli e nelle preghiere che offrono per se stessi e per tutti gli uomini.  I fedeli e le loro preghiere, poiché sono uniti nella persona dei Signore e alla sua intercessione, sono trasfigurati e accolti.  Così l’eucaristia rivela al mondo ciò ch’esso deve diventare. (Consiglio ecumenico delle chiese, 1976)

    IL SACRAMENTO DELLA CREAZIONE

    Puoi meditare il testo di Colossesi 1,15-20: il primato di Cristo su tutte le cose. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e in vista di lui. L’Eucaristia esprime fin da ora questa certezza.

    * * *

    Un pegno di questa speranza e un viatico per il cammino il signore lo ha lasciato ai suoi in quel Sacramento della fede nel quale degli elementi naturali coltivati dall’uomo vengono tramutati nel Corpo e nel Sangue glorioso di Lui, in un banchetto di comunione fraterna che è pregustazione del convito del cielo. Gaudium et Spes, 38

    * * *

    Di questa grande speranza, quella dei “nuovi cieli” e della “terra nuova nei quali abiterà la giustizia” (2Pt 3,13), non abbiamo pegno più sicuro, né segno più esplicito dell’Eucaristia. Ogni volta infatti che viene celebrato questo mistero, “si effettua l’opera della nostra redenzione” (LG 3) e noi spezziamo “l’unico pane che è farmaco d’immortalità, antidoto contro la morte, alimento dell’eterna vita in Gesù Cristo” (sant’Ignazio d’Antiochia). Catechismo della Chiesa cattolica, 1405

    * * *

    Il mondo è stato creato come un processo di celebrazione, per partecipare della grazia e divenire Eucaristia attraverso l’offerta degli uomini. Ed è proprio ciò che il Cristo, Adamo definitivo, ha realizzato. Con la sua morte e la sua risurrezione, ha fatto passare l’universo nella gloria. Nell’Eucaristia ci viene offerto questo modo  di essere trasfigurato della creazione, affinché anche noi possiamo unirci a quest’opera di risurrezione. “Il pane della comunione” – dirà san Giovanni Damasceno – “non è semplice pane, ma pane unito alla divinità”, non con un nuovo processo di incarnazione, ma mediante l’assimilazione al corpo di Cristo. Il pane e il vino sono trasformati in corpo e sangue di Cristo, e con ciò stesso “pienificati”, trasfigurati secondo la loro destinazione originaria” Olivier Clement

    * * *

    Ed è perché noi siamo sue membra e siamo nutriti per mezzo del creato – creato che lui stesso ci dona facendo sorgere il sole e cadere la pioggia – che il calice, tratto dal creato, egli lo ha dichiarato suo proprio sangue, mediante il quale il nostro sangue si fortifica, e il pane, tratto dal creato, egli lo ha proclamato suo proprio corpo, medinte il quale si fortificano i nostri corpi. Sant’Ireneo di Lione

  • 11 Feb

    I SIMBOLI


    4. Il  pasto eucaristico


    Un pasto condiviso

    Il pane e il vino, “frutti della terra e del lavoro dell’uomo”, sono naturalmente destinati a essere condivisi a tavola.

    Il Signore, infatti, istituì l’eucaristia “mentre cenavano” (Gv 13,2), cioè durante un pasto: “a mensa con i dodici” (Mt 26,20).

    Quando fu l’ora, Gesù prese posto a tavola e gli apostoli con lui (Lc 22,14)

    L’eucaristia è un pasto condiviso: “Prendetelo e distribuitelo tra voi“(Lc 22,17).

    Un pasto condiviso è molto di più del nutrirsi e del dissetarsi!

    Mangiare e bere possono anche essere soltanto atti animali; e se le bestie lo fanno fianco a fianco, ne nasce una lotta, perché ciascuna vuole avere tutto per sé, senza alcuna condivisione; non mangiano “insieme”, ma come rivali.

    Per l’uomo “umanizzato”, al contrario, il più piccolo pasto è già un importante gesto umano ricco di simbologia. E’ una celebrazione rituale della famiglia, della fraternità, dell’amicizia, dell’ospitalità, della riconciliazione.

    Si comprende allora perché il simbolo del sacramento dell’eucaristia non è anzitutto l’atto del mangiare, ma quello del condividere nella comunione fraterna.  Il simbolismo degli elementi eucaristici si colloca dunque all’interno della simbologia di un pasto fraterno, e da questo trae anzitutto il suo primo significato.  Il sacramento dell’eucaristia è il condividere-mangiare Cristo insieme.

    Non confondere “pasto” e “presenza reale”

    Ogni sacramento è presenza di Cristo.  Troppo spesso si è confuso “presenza reale” e “sacramento dell’eucaristia”…

    A che cosa giova la presenza dei viveri nella dispensa, o anche sulla tavola?  Certamente tale presenza è necessaria: “non si vive di belle parole”, diceva Molière.  Ma non si vive neppure della sola presenza reale di questi alimenti.  Si vive biologicamente del mangiare e del bere, si vive umanamente del mangiare e del bere insieme, nella condivisione fraterna, si vive divinamente del mangiare e del bere Cristo insieme.

    Il sacramento istituito da Cristo è, infatti, la “frazione del pane” consacrato, la condivisione del vino consacrato.

    Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue“, certamente. La presenza reale è un aspetto molto importante: ma a che scopo?  Per “prendere e mangiare”, per “prendere e bere”, per “distribuire tra voi”.  Ecco il sacramento.

    “Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. lo sono il pane vivo, disceso dal cielo.  Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita dei mondo”.  Allora i giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”.  Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita.  Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.  Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.  Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. (Gv 6,48-56)

    Poiché nella riforma protestante l’eucaristia era vista come un puro simbolo, la controriforma e il concilio di Trento hanno insistito a tal punto sulla presenza reale da far passare in second’ordine, se non dimenticare, gli aspetti essenziali: “Mangiate… Bevete….

    Il giansenismo peggiorò la situazione: invece di mangiare l’ostia, come aveva detto il Signore, la si adorò perdutamente, a distanza.  La partecipazione al sacramento fu sostituita dalla devozione all’ostia consacrata: processioni, omaggi, benedizioni del santissimo sacramento…

    Tale mentalità è ancora in molti radicata.  Contate gli adulti che si comunicano alla domenica… Dopo le confessioni pasquali, contate le brave persone che “osano” accostarsi alla tavola sacra più di una o due volte, per poi passare il resto dell’anno senza “prendere e mangiare”.

    Contate i parroci che consacrano il pasto del giorno e dividono questo pasto con l’assemblea, come richiede il concilio… e il buon senso (SC 55):

    Molti preferiscono ricorrere ancora alla pisside di riserva nel tabernacolo della presenza reale, impoverendo così il segno sacramentale, e perciò il sacramento stesso.

    Il “segno” eucaristico è un’assemblea che consacra e condivide un pasto sacrificale.


    Un pasto è un’assemblea

    Purtroppo, il nostro mondo burocratizzato, industrializzato, schiacciato dal “progresso”, non ha più il tempo di radunarsi gratuitamente e di condividere fraternamente tra convitati. Ci si accontenta.  Ci si nutre, è vero: si ingoia, talvolta ci si “abbuffa”; oppure si sbocconcella in fretta uno spuntino; o ancora, ci si dirige velocemente al self-service in cui, con il vassoio in mano, si segue la coda fino alla cassa, poi si cerca – non un volto, questo no! – ma un tavolo vuoto in cui mangiare a raffica, senza una parola, e finalmente tutto è concluso… Siamo proprio dei sottosviluppati!

    Nella Bibbia e presso i popoli che noi chiamiamo “primitivi”, poiché il ritmo industriale non ha distrutto in essi i valori umani, ogni pasto introduce nella grandezza, nell’incontro con gli altri, con l’Altro…

    Il ruolo naturale del pasto, infatti, oltre ad alimentare, è di riunire. Il pane suggerisce, come abbiamo ricordato, la collaborazione di una catena di lavori e di lavoratori; suggerisce anche, e maggiormente, il raduno familiare attorno alla tavola, la comunità dei convitati, la comunione degli spiriti e dei cuori, la condivisione degli alimenti terrestri e spirituali.

    Se manca l’affetto, almeno un legame d’onore unisce ogni partecipante a tutti gli altri e tutti a ciascuno.  Non si invita un nemico; oppure, se lo si invita, non vi è gesto più espressivo di perdono.

    “Ma ecco, la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola.  Il figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito; ma guai a quell’uomo dal quale è tradito!”.  Allora essi cominciarono a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto ciò. (Lc 22,21-23)

    Non si accetta un invito se non per andarvi in spirito di fraternità.  Nelle saghe tedesche, non si può uccidere l’invitato.  Nel mondo arabo, è un delitto mostruoso tradire la convivialità.  Essere traditore proprio mentre si prende il boccone dell’amicizia significa essere posseduti dal demonio, come Giuda (Gv 13,27).

    Un pasto “umano” raduna dei fratelli, o rende fratelli coloro che raduna.

    Un pasto rende fratelli

    In una tribù, in una famiglia, si è fratelli e sorelle perché si discende da comuni antenati: si è ricevuto la vita dalla stessa fonte.  Ma se in realtà non si è fratelli, in quanto si appartiene a famiglie o a tribù diverse?  Resta allora un mezzo di “fraternizzare” sempre attuabile: condividere un pasto.

    Infatti, si trae vita dagli stessi piatti, dallo stesso calice: si è perciò ormai fratelli.  Tale è il senso del pasto condiviso presso coloro che si osa definire “primitivi”.  Tale è il senso del pasto condiviso nella bibbia e nel vangelo.

    Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicano e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli.  Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: “Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicano e ai peccatori?”.  Gesù li udì e disse: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati.  Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio.  Infatti non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori. (Mt 9,10-13)

    Abbiamo qui il senso sconvolgente dei pasti di Gesù.  “Costui mangia insieme ai pubblicano e ai peccatori! ” dicono i farisei scandalizzati. il profeta di Dio, e in lui Dio stesso, si comporta come fratello dei peccatori; vuol essere della loro tribù, del loro clan, dalla loro parte… e mangerà con i suoi, i peccatori: pubblicani, prostitute, Zaccheo, Levi… Questa grande misericordia li farà ritornare.

    Se, per coloro che hanno conservato il senso dei valori profondi, un pasto comune fa rinascere dalla stessa fonte, quanto più ciò è vero a proposito di quel pasto che è l’eucaristia condivisa.  A quella tavola del pane di vita si realizza l’unità reale e misteriosa della chiesa. Comunicando con lo stesso Cristo, noi comunichiamo con gli altri.

    Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo?  E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?  Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,16s).

    Un pasto è parola

    Nelle “scorpacciate” del robot umano, la bocca è soltanto mascelle sul piatto.

    Nelle agapi fraterne, il mangiare insieme è innanzitutto labbra, lingua e sorriso: è parola, è “conversazione”: condivisione di novità, idee, sentimenti, più che di pane e di sale.  Soprattutto quando il vino dà libera corsa alla gioia espansiva e alle confidenze.  Allora si mette sulla tavola quanto c’è nella testa e in fondo al cuore: pene, preoccupazioni, gioie, speranze.

    La messa, soprattutto nel corso dei secoli di latino e di gerarchismo, non ci ha abituati a parlare alla tavola santa.  Tanto più che proprio lì la parola raggiunge il suo vertice nelle parole della consacrazione: “Questo è il mio corpo…”

    E’ perciò necessario ritrovare non solo il senso pieno di questa tavola della parola, ma anche le parole spontanee improvvisate che ciascuno si sente di dire nell’incontro caldo e fraterno.  Altrimenti i giovani andranno a cercare nelle sette quella calda atmosfera che Cristo amava condividere con i discepoli.

    Un pasto è condivisione

    Un pasto è infine condivisione, perché è amicizia.  Amare significa condividere.

    Come abbiamo detto, un pasto fatto da ciascuno per conto suo non è più un pasto.  Il gesto allora non ha più alcun senso umano, soprattutto tra cristiani.  Lo afferma con forza san Paolo scrivendo ai Corinti.  Il pane, i cibi sono per ognuno; il calice deve passare di mano in mano, di labbro in labbro.  Come sono per tutti e per ciascuno gli sguardi, i sorrisi, le idee e le parole.  Condividere!

    Ma condividere è ben diverso che dare…

    Si dà ciò che è proprio.  Il dare porta perciò gli altri a essere “debitori”

    E’ la mano che permette all’uomo di presentarsi a tavola col volto eretto.  Infatti, senza la mano, sono la mandibola o la mascella o il becco o la zanna ad afferrare direttamente gli alimenti; ciò comporta una violenza.  Ma quando la mano, diventata libera per la posizione verticale dell’uomo, afferra gli alimenti, allora la faccia sottratta alla violenza, si ricompone e si umanizza per funzioni diverse da quella alimentare.  In questo modo la faccia diventa volto, ossia sorriso, sguardo, e soprattutto parola. Il sorriso e lo sguardo sono già, in un certo senso, delle parole. (F. Varillon, s.j.)

    Non posso condividere, se non ciò che ho coscienza di aver prima ricevutoNon condivido ciò che è mio; condividiamo del nostro, perché il Padre celeste ce l’ha dato. lo non sono la fonte del mio amore, come di nessun’altra cosaHo coscienza d’aver ricevuto tutto, e innanzitutto questi fratelli e queste sorelle che mi donano la gioia di ammettermi a condividere tutto ciò ch’essi sono e questi semplici cibi che Dio ci offre insieme.

    Così la condivisione è riconoscenza: riconoscenza di Dio e riconoscenza degli altri; riconoscenza verso Dio e riconoscenza verso i fratelli. E’ la via dell’umiltà e del ringraziamento, della “benedizione” e dell’eucaristia”.

    “Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.  Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo” (At 2,44-47).

    IL PASTO EUCARISTICO

    «La comunione eucaristica ha un carattere tutt’altro che intimistico e sentimentale. Far comunione con il Signore crocifisso e risorto significa donarsi con lui al Padre e ai fratelli: “A noi che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo, perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito. Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito” (Pregh. Euc.III). Il Signore Gesù viene a vivere in noi e ci assimila a sé: “La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandanto me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (Gv 6,55-57). La vita che egli comunica è la sua carità verso il Padre e verso tutti gli uomini.

    Unendoci a sé, Gesù Cristo ci unisce anche tra noi: lo esprime bene il segno del pane e del vino, condivisi in un convito fraterno. I molti diventano un solo corpo in virtù dell’unico pane (Cfr 1Cor 10,17): “Mistero di amore! Simbolo di unità! Vincolo di carità!””(sant’Agostino). Come i chicchi di grano si fondano in un solo pane e gli acini di uva in un solo vino, così noi diventiamo uno in Cristo (Didaché 9,4). L’eucaristia presuppone, rafforza e manifesta l’unità della Chiesa. Esige l’unità della fede e impegna a superare le divisioni contrarie alla carità (Cfr 1Cor 11,18).»


    Dal Catechismo degli Adulti, La verità vi farà liberi, 691-692

    • Il simbolo primario dell’Eucaristia non è anzitutto il mangiare, ma il condividere lo stesso cibo. Le nostre eucaristie sono espressione anzitutto di questa condivisione, o si risolvono in atti strettamente “individuali” che interessano solo me, ma non coloro che mi sono accanto?

    • Un pasto raduna fratelli e rende fratelli. Non si mangia insieme al proprio nemico le nostre eucaristia assumono nei gesti, nelle parole il nostro essere riuniti fraternamente? E’ possibile celebrare l’eucaristia quando esistono tensioni, inimicizie, calunnie, divisioni all’interno della propria comunità. Non è questa un mangiare e un bere il corpo e sangue del Signore indegnamente? Cor 10,16ss

    • L’Eucaristia è anzitutto gesto di condisione e di fraternità. Si condivide ciò che tutti abbiamo ricevuto. Condividere e riconoscere che l’iniziativa non è nostra, che tutto è dono datomi e datoci per essere spezzato fra tutti nessuno escluso. At 2,42-47

    • Medito qualche passo evangelico in cui contemplo Gesù che “condivide” il pasto con i pubblicani e peccatori, scandalizzando i religiosi benpensanti. Condivedere è entrare in comunione, è fare alleanza. E Gesù mangia con i peccatori. Cosa mi suggerisce questa meditazione: Mt 9,10-13

  • 10 Feb

    I SIMBOLI

    3. PANE E VINO

    La sera del giovedì santo, “mentre mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede (ai dodici), dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”.  Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti.  E disse: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti.  In verità vi dico che non berrò più del frutto della vita fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio” (Mc 14,22-25).


    Gli alimenti base

    Il pane e il vino sono gli alimenti base, simbolo di tutti gli altri, almeno nella nostra civiltà occidentale.  Si mangia il proprio pane, lo si bagna nelle lacrime, o nella gioia, o nel sudore, o nel sangue; ci si guadagna il pane, cioè la nostra stessa vita; al Padre si chiede il pane quotidiano, cioè ciò che è necessario per vivere.

    Il vino, poi, è necessario per un pasto completo e festoso.  Altrimenti si è condannati a mangiare pane secco.  Aggiunge  certamente una nota di festa, di allegria, senza la quale “non è più vita”.  L’uomo infatti non vive soltanto di pane; ha bisogno, per digerirlo, di quel minimo di gioia di cui il succo dell’uva è il simbolo efficace:

    “Il vino è come la vita per gli uomini, purché tu lo beva con misura.

    Che vita è quella di chi non ha vino?

    Questo fu creato per la gioia degli uomini.

    Allegria del cuore e gioia dell’anima

    è il vino bevuto a tempo e a misura”.

    (Sir 31,27s).

    Fai crescere il fieno per gli armanti e l’erba al servizio dell’uomo,

    perché tragga alimento dalla terra:

    il vino che allieta il cuore dell’uomo;

    l’olio che fa brillare il suo volto

    e il pane che sostiene il suo vigore.

    (Sal 104,1,14-15)

    Frutti della terra

    Per preparare la vita e la festa eterne, Gesù “prende il pane e un calice di frutto della vite”.

    Questi elementi, per lui innanzitutto e anche per coloro che gli stanno intorno, sono carichi di tutto un simbolismo, e, prima ancora, di tutta una potenza evocatrice che chiameremo “naturale”, purché non dimentichiamo che per il semita – e per il cristiano – tutta la natura è dono e presenza di Dio.

    In primo luogo, come diceva la preghiera ebraica di benedizione ripresa oggi nella messa, il pane e il vino sono “frutti della terra“.  Radicati nella terra, vi raccolgono tutte le energie profonde e oscure del suolo per viverne e farcene dono.  Spuntando subito alla superficie e insieme continuando a succhiare tutte le potenze del terreno, fanno proprie, per crescere, tutte le energie del cielo: assimilano la pioggia e il vento, la luce e il calore, i raggi e le forze cosmiche.  Nel frumento e nell’uva si dà appuntamento tutto l’universo.

    Così, il cosmo intero si concentra sulla tavola dell’uomo, e costui è perciò invitato alla tavola da lui preparata dalla provvidenza del Padre.

    Alimenti vegetali

    Anche gli alimenti a base di carne sono, a loro modo, frutti della terra, perché gli animali traggono la loro sussistenza dall’aria, dal suolo e dal fondo marino.  Tuttavia, il Signore non ne farà la materia eucaristica.

    Il pane e il vino sono alimenti vegetali.  Si possono individuare alcune motivazioni:

    * La Genesi ci presenta le piante e i frutti come il menù esclusivo dell’uomo in un mondo senza peccato dove non si versa il sangue, né quello dell’uomo, né quello degli animali:

    “Dio creò l’uomo a sua immagine… e disse: Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo” (Gn 1,29).

    Il creatore sottomette all’uomo tutti gli animali della terra; ma il suo cibo saranno i frutti e le piante… il suolo sarà avaro solo dopo il peccato.

    Da quel momento, saranno meno vegetariane le indicazioni date alla generazione peccatrice del diluvio: “Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do’ tutto questo, come già le verdi erbe.  Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue” (9,3s).

    Per quanto riguarda il pesce, che non ha sangue, figura molte volte nel menù dei pasti evangelici di Gesù, prima e dopo la risurrezione.

    Per questo motivo rimase nel rituale eucaristico di alcune comunità primitive.  Non è inoltre il pesce, con le sue lettere greche, il simbolo del Messia?  Tuttavia, pur avendo (per due volte) moltiplicato dei pesci con i pani, Cristo, nell’ultima cena, consacrò e distribuì il pane e il vino…

    * Se la materia dell’eucaristia è costituita da elementi vegetali, ciò non significa certamente che Gesù voglia promuovere una dieta vegetariana.

    Era però assolutamente necessario prendere le distanze dai sacrifici di animali, il cui sangue scorreva a fiotti nei bacini del tempio: occorreva mettere in evidenza che si era di fronte a una nuova alleanza.

    * Era soprattutto necessario sottolineare che un solo sacrificio fu offerto una volta per tutte, un solo sangue versato una volta per tutte. E’ il grande tema della lettera agli ebrei, soprattutto ai capitoli 9 e 10.  Il pasto sacro dei cristiani non verserà dunque altro sangue: è memoriale, cioè ricordo e presenza sacrificale della croce, ripresentazione dell’unico sangue versato in sacrificio sul Calvario.

    Riassumendo: questi vegetali – pane e vino – sono sufficientemente diversi dai sacrifici pagani e ebraici per evitare ogni equivoco. E sono sufficientemente espressivi a livello simbolico del sacrificio di Gesù.


    Se il chicco di grano non muore

    Il frumento e l’uva, infatti, non sfuggono al passaggio attraverso la morte per giungere alla loro utilizzazione.  Per diventare pane, i chicchi di frumento sono macinati; per diventare vino, i grappoli d’uva torchiati e come dissanguati.

    Nella scrittura e nel linguaggio corrente, la macina evoca la sofferenza, e il torchio lo stritolamento della tortura, il sangue versato.

    Il Signore ha pigiato come uva nel tino la vergine figlia di Giuda (Lam 1,15)

    Gettò l’uva nel grande tino dell’ira di Dio (Ap 14,19)

    Se il chicco di grano caduto a terra non muore, rimane solo (Gv 12,24)

    E’ necessario insistere sull’alimento del pane.  Se il vino è privilegiato alle nozze di Cana (Gv 2), il pane lo è maggiormente, moltiplicato sul monte e commentato nel discorso del pane di vita (Gv 6).  E Gesù stesso si paragona al chicco di grano (12,24): se non muore, rimane solo, sterile; ma se cade in terra e muore, produce molto frutto.

    Il suo futuro è di morire in terra per risorgere e moltiplicarsi in messe.  Ma il significato della messe è di essere nuovamente falciata, battuta, macinata, impastata, cotta e, finalmente, spezzata.

    Attraverso questa duplice morte essa dà il pane che farà vivere l’uomo.

    Immagine espressiva di Gesù stritolato nella passione, morto in croce, sepolto, per risuscitare e diventare, sotto l’umile apparenza del mangiare, quel pane vivente e che fa vivere: l’eucaristia.

    Nel pane e nel vino è rappresentata la tragedia della morte dell’Unigenito per la vita di tutti gli altri.

    Il calice del mio sangue

    La vendemmia rappresenta un destino simile a quello della mietitura: essere schiacciati per saziare l’uomo e inebriarlo.

    Fermiamoci un momento su ‘ questo “calice”.  Cristo “prende un calice” di vino rosso.  Dice: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue” (1Cr 11,25), nel mio sangue versato.

    Un sangue può essere versato in un incidente, in una emorragia, in una operazione chirurgica, in un delitto.  Tale sangue non ha più alcun valore, proprio perché è versato, perduto: il paziente ne è privato, svuotato. E’ un sangue che non si raccoglie, perché non si sa che cosa farne.  Lo si getta negli scarichi e se ne lavano i segni.

    Ma il  sangue può essere prelevato da un donatore. E allora è raccolto con molta cura: è una partecipazione di vita in favore d’un malato anemico o d’un ferito dissanguato.

    Un sangue può infine essere versato in sacrificio religioso.  Allora è scelto: si sacrifica il meglio che si ha. E’ versato, ma raccolto perché non vada perduto.  Deve infatti essere offerto. E forse sparso in libagione o condiviso in aspersione, se non addirittura come bevanda.

    Il “calice” ci dice dunque subito di quale sangue si tratti nell’eucaristia: sangue prezioso, raccolto per essere offerto, in un calice per passarlo a tutti, perché ciascuno ne beva.  “Il sangue della nuova alleanza versato in un calice” significa il dono della vita e dei sangue di Cristo, offerto al Padre come sacrificio di valore infinito e ai cristiani in comunione di salvezza.

    Il calice della benedizione” (1 Cor 10, 16) sostituisce in modo definitivo “il calice dell’ira” (Ger 25,15ss).

    Così mi disse il Signore, Dio d’Israele: “Prendi dalla mia mano questa coppa di vino della mia ira e falla bere a tutte le nazioni alle quali t’invio, perché ne bevano, ne restino inebriati ed escano di senno dinanzi alla spada che manderò in mezzo a loro”.  Presi dunque la coppa dalle mani del Signore e la diedi a bere a tutte le nazioni alle quali il Signore m’aveva inviato: a Gerusalemme e alle città di Giuda, ai suoi re e ai suoi capi, per abbandonarli alla distruzione, alla desolazione, all’obbrobrio e alla maledizione, come avviene ancora oggi; anche al faraone re d’Egitto, ai suoi ministri, ai suoi nobili e a tutto il suo popolo; alla gente d’ogni razza e a tutti i re del paese di Uz…

    (Ger 25,15ss)


    Frutto della terra e del lavoro dell’uomo

    Il pane e il vino, “frutti della terra”, non sono prodotti grezzi; sono anche i “frutti del lavoro dell’uomo”.  “Con il sudore del tuo volto mangerai il tuo pane” (Gen 3,19).  Perciò il pane e il vino sono anche degli uomini.

    Degli uomini con la loro dimensione spirituale, con la loro attività intelligente. Infatti, il pane e il vino sono alimenti elaborati, perciò propri dell’uomo.  Il Signore non ha scelto frutti di alberi, carne, miele: di questi si cibano anche gli animali; basta brucare, raccogliere, cacciare.  Il pane e il vino invece è necessario produrli, e saperli produrre bene.

    Il pane e il vino non rappresentano perciò soltanto la vita dell’uomo in ciò che ha di più istintivo – nutrirsi -, ma anche in ciò che comporta di più attivo, di più industrioso, di più intelligente.  Sono più espressione dell’uomo creatore, che del consumatore.

    Offrendo a Dio il pane e il vino, perché siano trasformati nel suo corpo e nel suo sangue, gli offriamo anche la nostra attività manuale e intellettuale, la nostra storia umana, ed egli le integrerà al suo sacrificio per comunicare loro una dimensione divina ed eterna.  La nostra, e quella di tutto il mondo del lavoro.

    Il pane e il vino sono inoltre rappresentano la fatica, le speranze, il sudore degli uomini con le loro pene. Sono stati dei lavoratori a seminare, mietere, macinare e impastare questo pane.  Dei vignaioli hanno scassato il terreno roccioso e piantato la vigna, hanno irrigato, sarchiato, potato, solfatato ogni pianta molte volte, sotto il sole a picco, per produrre questo vino.  Vi hanno sudato sangue e acqua, come Cristo nella sua agonia.

    Sulla nostra tavola e sui nostri altari ci sono i loro sudori e le loro pene. E vi sono rappresentati tutti i lavoratori del mondo.  Il sacrificio eucaristico sarà fatto anche dalle loro giornate di fatica, dalla vita che hanno dato anche per i loro fratelli.

    Il pane e il vino, infine, sono degli uomini insieme al lavoro, ognuno fedelmente al suo posto nella lunga catena che ci permette di spezzare il pane e riempire i bicchieri.  Dal lavoratore agricolo che apre il terreno con la vanga o il trattore, fino al garzone del fornaio che corre di primo mattino, perché alcuni amano il pane appena sfornato.  Nativi e immigrati, conservatori e progressisti, credenti e non credenti, capitalisti e socialisti… Insieme.  Si sono dati la mano per questo pane e questo vino.  Tutti sono dunque presenti, insieme, per noi, in questo boccone di pane, in questo sorso di vino.

    Sulla tavola eucaristica, come sulla tavola della mia famiglia, trovo così la solidarietà degli uomini nella loro diversità, la catena dei lavoratori nelle loro dissomiglianze, addirittura nelle loro opposizioni.

    Tutta questa convergenza degli uomini è ripresa da Cristo – “Attirerò tutti a me” -, assunta da Cristo, offerta al Padre in sacrificio da colui che è “la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione(Ef 2,14).  Tutti quanti gli uomini che lavorano si danno perciò convegno, senza saperlo, alla messa, in quel pane e quel vino che sono il loro lavoro collettivo!

    A noi tocca saperlo e essere, con Cristo, il loro legame cosciente e stupito, la loro preghiera e la loro “comunione”, e non soltanto coloro che ne “approfittano”.  Tale raccolta, attraverso di noi, di tutto il mondo dei lavoratori è uno dei maggiori compiti del nostro sacerdozio di battezzati.

    Come questo pane spezzato era prima sparso qua e là su per i colli e, raccolto, divenne una cosa sola, così si raccolga la tua chiesa dai confini dei la terra nel suo regno; poiché tua è la gloria e la potenza, per Gesù Cristo nei secoli! (Didaché)


    I SIMBOLI: IL PANE E IL VINO

    Dal Catechismo della Chiesa Cattolica

    Al centro della celebrazione dell’Eucaristia si trovano il pane il vino i quali, per le parole di Cristo e per l’invocazione dello Spirito Santo diventano il Corpo e il Sangue di Cristo… i segno del pane e del vino continuano a significare anche la bontà della creazione. Così, all’offertorio, rendiamo grazie al Creatore per il pane e per il vino (cfr. Sal 104,13-15), “frutto del lavoro dell’uomo”, ma prima ancora  “frutto  della terra” e “della vite”, doni del Creatore. Nel gesto di Melchisedek, re e sacerdote che offrì “pane e vino” (Gn 14,18), la Chiesa vede una prefigurazione della sua propria offerta (cfr. Canone Romano).

    Nell’Antica Alleanza il pane e il vino sono offerti in sacrificio tra le primizie della terra, in segno di riconoscenza al Creatore. Ma ricevono anche un nuovo significato nel contesto dell’esodo: i pani azzimi, che Israele mangia ogni anno a Pasqua, commemorano la fretta della partenza liberatrice dall’Egitto; il ricordo della manna del deserto richiamerà sempre ad Israele che egli vive del pane della Parola di Dio (cfr. Dt 8,3). Il pane quotidiano, infine, è il frutto della Terra promessa, pegno della fedeltà di Dio alle sue promesse.

    Il “calice della benedizione” (1Cor 10,16), al termine della cena pasquale degli ebrei, aggiunge alla gioia festiva del vino una dimensione escatologica, quella dell’attesa messianica della restaurazione di Gerusalemme.

    Gesù ha conferito la sua Eucaristia conferendo un significato nuovo e definitivo alla benedizione del pane e del vino.

    I miracoli della moltiplicazione dei pani, allorché il signore pronunciò la benedizione, spezzò i pani li distribuì per mezzo dei suoi discepoli per sfamare la folla, prefigurano la sovrabbondanza di questo unico Pane che è la sua Eucaristia (cfr. Mt 14,13-21; 15,32-39).

    Il segno dell’acqua trasformata in vino a Cana (cfr. Gv 2,11) annunzia già l’Ora della glorificazione di Gesù. Manifesta il compimento del banchetto di nozze del regno del Padre, dove i fedeli berranno il vino nuovo (cfr. Mc 14,25).

    nn. 1333-1335


    Esercizio di meditazione sul segno del pane e del vino

    Ti invito a compiere oggi una meditazione semplicemente sul pane.

    In u n primo tempo limitati a meditare su questo alimento così comune sulle nostre tavole. Lascia che il pane ti parli. Lascia entrare in te tutta la sua ricchezza di senso.

    Formula a te stesso domande sulla sua origine e il suo cammino, che l’ha portato sin qui, davanti a te.

    In un secondo tempo fissa la tua attenzione sulla necessità di nutrirti per vivere.

    In un terzo tempo lascia che il pane ti parli attraverso il suo valore simbolico.

    Fermati più che puoi su un punto.

    Lascia poi che la parola “pane di vita” risuoni dentro di te.

    Tutto questo di preparerà ad accogliere il mistero dell’Eucaristia nello stupore e nel rendimento di grazie.

  • 09 Feb

    I SIMBOLI

    2. VIVERE L’EUCARISTIA

    Ciò che Gesù ha istituito nell’eucaristia è un’azione che coglie la realtà più naturale del mondo per trasformarla totalmente con la sua risurrezione.

    Rimaniamo perciò ancora su quest’aspetto primario dei simbolo sacramentale: il nutrimento.

    Attraverso la Bibbia, Israele appare – come tutti i popoli antichi e moderni – innanzitutto come un popolo che ha fame e sete, che va di pozzo in pozzo, di mietitura in mietitura, dal pascolo all’albero da frutto, dal latte alla carne del suo gregge.  E’ un popolo che mangia.

    Ma “mangia prendendo dalle mani di Dio” (Qo 2,24).

    Sa che tutto ciò che esiste è dono di Dio. E questo fa sì che egli possa conoscere, gustare la paternità di Dio. Ancora quest’esperienza gli permette di fare esperienza di una comunione con Dio.  Il frutto e l’acqua, il latte e la carne, l’aria e il sole sono l’amore divino fatto nutrimento e vita per l’ uomo.

    Così Dio “benedice” tutto ciò che crea.  Ciò significa che egli fa della creazione il segno e il mezzo della sua presenza, del suo amore, della sua rivelazione all’uomo.

    Ma, dirà qualcuno, l’uomo non è il solo ad aver fame.  Tutto ciò che vive, vive di cibo.  Anche l’animale mangia dalle mani di Dio! …

    Certamente, ma la vocazione dell’uomo nell’universo è unica: tutti gli altri mangiano e vivono per essere al servizio dell’uomo, per essere eventualmente suo cibo.  Questo è il senso di quella solenne presentazione dell’Eden in cui spetta ad Adamo di “dare un nome” a ogni creatura, cioè di prenderne possesso come dono di Dio e di rendergliene grazie (Gn 2,19).


    Benedire Dio – Rendere grazie

    Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome. Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici.  Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie; salva dalla fossa la tua vita, ti corona di grazia e di misericordia; egli sazia di beni i tuoi giorni e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza.

    (Sal 103,1-5)

    L’uomo è il solo a cui sia chiesto di “benedire” Dio per il cibo e la vita, come anche per tutta questa natura che riceve da lui.  Solo all’uomo è chiesto di rispondere alla benedizione di Dio con una personale “benedizione” di riconoscenza.

    Dio ha benedetto il mondo, l’uomo e ogni creatura per l’uomo, sua prima creatura; ha benedetto il settimo giorno, cioè il tempo dell’uomo.  Ciò significa che ha riempito tutto ciò che esiste con la sua bontà, che ha fatto ogni cosa “molto buona” per amore verso l’uomo.

    Alla manifestazione dell’amore di Dio, della sua benedizione, che sgorga nella creazione e nella storia umana rispondono normalmente il ringraziamento e la lode dell’uomo. Tale benedizione, rendimento di grazie, è di per sé già un atto cultuale. Già in essa si esercita la sua “vocazione sacerdotale”. E’ la maniera più naturale di vivere per chi sa che il mondo è dono di Dio.

    Dio si rivela creando meraviglie; l’uomo risponde “benedicendo” il Dio delle meraviglie.  Questa è l’eucaristia.

    “Benedizione” ed “eucaristia” hanno praticamente il medesimo significato: “azione di grazie”,  “ringraziamento”.

    Se non è negativamente condizionato dall’ambiente, l’uomo conosce spontaneamente questo senso divino degli alimenti che sostengono la sua vita: sono per lui un collegamento con il Dio vivente.  Altrimenti, c’è la rottura.

    Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò.

    (Gen 3,6)

    Non è un caso che la rappresentazione biblica della caduta sia centrata sul nutrimento.  L’uomo e la donna hanno mangiato dell’albero che sta in’ mezzo al giardino, hanno morso il frutto proibito: immagine di un mondo non più riconosciuto, non più ricevuto come un dono di Dio, e quindi in un atteggiamento di “‘azione di grazie”, di “‘eucaristia”

    E’ il peccato di una moltitudine di uomini che vedono il mondo come una realtà opaca e non attraversata dalla presenza di Dio.  A molti, purtroppo, sembra naturale non vivere in rendimento di grazie – in eucaristia – per il dono che Dio ci ha fatto del mangiare, del bere, e della vita di cui sono la radice quotidiana.  Errore di coloro che, la domenica, preferiscono lavorare per il cibo, piuttosto che offrire l’eucaristia a colui che fa vivere.

    Offerta – Sacrificio

    Lo sguardo della fede ci spinge irresistibilmente a far risalire verso Dio tutto ciò che da lui riceviamo in questa vita.

    Nelle religioni non si è trovato di meglio che sacrificare-offrire alla divinità il nostro nutrimento e addirittura la vita stessa.

    La funzione “eucaristica” primordiale dell’uomo è di offrire a Dio la sua vita, attraverso il nutrimento che ne è il simbolo espressivo.

    “Prendere nelle nostre mani il mondo intero come si prenderebbe una mela”, ha detto un poeta russo.  Non per rubarla e mangiarla nella ribellione o nell’indifferenza, ma per “offrirla” in riconoscenza a colui dal quale tutto abbiamo. E’ il gesto che Adamo non ha saputo fare. E’ il gesto del “sacrificio”.

    Il sacrificio dovrebbe essere l’atto più naturale dell’uomo.  I pagani stessi ne hanno trovato spontaneamente la strada.  Il sacrificio è amore, è un ri-conoscere che ciò che possiedi non è tuo, è perciò ringraziamento.

    Come cristiani questa azione di rendimento di grazie, di benedizione, di sacrificio lo compiamo “in Cristo”.

    Egli, nuovo Adamo, ha offerto tutto; ha compiuto una volta per tutte questa eucaristia,  offrendo” la sua vita, “sacrificando” la sua vita al Padre e a tutti i fratelli.  Cristo è l’unico perfetto, autentico “grazie” del mondo al Padre, la sola eucaristia.

    Quale albero è più bello della croce?  Quale frutto più meraviglioso di colui che pende da quel legno d’amore? Si è dato a noi; lo raccogliamo per offrirlo al Padre.

    Egli lo ripone nuovamente nelle nostre mani, perché noi viviamo per esso.  Questo è il sacrificio, l’eucaristia, l’alimento di vita eterna.

    In ogni eucaristia veniamo e ritorniamo con le nostre con le nostre povere vite da offrire.  Ed ecco che le nostre mani sono ricolmate in misura abbondante e traboccante del Corpo di Cristo, di questo pane in cui tutto è offerto, tutto sacrificato.  Nelle nostre mani, nelle nostre vite, il Padre vede soltanto il suo Figlio prediletto.

    Per il fatto che Dio crea con sapienza, la creazione ha un ordine: “Tu hai disposto tutto con misura, calcolo e peso” (Sap 11,20). Creata nel e per mezzo del Verbo eterno “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15), la creazione è destinata, indirizzata all’uomo, immagine di Dio chiamato ad una relazione personale con Dio…La creazione è voluta da Dio come un dono fatto all’uomo, come un’eredità a lui destinata e affidata.

    (Catechismo della Chiesa Cattolica 299)

    Dio ha creato tutto per l’uomo (cfr GS 12; 24; 39), ma l’uomo è stato creato per servire e amare Dio e per offrirgli tutta la creazione

    (Catechismo della Chiesa Cattolica 358)

    La presentazione delle oblate (l’offertorio): vengono recati poi all’altare, talvolta in processione, il pane e il vino che saranno offerti dal sacerdote in nome di Cristo nel sacrificio eucaristico, nel quale diventeranno il suo Corpo e il suo sangue. E’ il gesto stesso di Cristo nell’ultima Cena “quando prese il pane e il calice”. “Soltanto la Chiesa può offrire al Creatore questa oblazione pura, offrendogli con rendimento di grazie ciò che proviene dalla sua creazione” (Sant’Ireneo di L.). La presentazione delle oblate all’altare assume il gesto di Melchisedek e pone i doni del Creatore nelle mani di Cristo. E’ lui che, nel proprio sacrificio, porta allla perfezione tutti i tentativi umani di offrire sacrifici.

    (Catechismo della Chiesa cattolica, 1350)

    * Tutto ciò che ti circonda è dono di Dio e ti permette di fare continuamente esperienza di comunione con lui.

    Tutto deve portare l’uomo ad innalzare un inno di benedizione e di rendimento di grazie (eucaristia)

    Cfr Sal 103;  1 Cor 1,4 ; Fil 1,3;  Col 1,3,  1 Tess 1,2;  2,13 ; 2 Tess 1,3

    * Il peccato è misconoscere che ciò che possiedi, ricevi, usi: tutto proviene dalle mani di Dio. E’ la pretesa da parte dell’uomo di appropriarsi dei doni di Dio. In tale direzione l’uomo diviene incapace di “fare eucaristia” della creazione dono di Dio a lui.

    Cfr Gn 3,6

    * L’uomo per vocazione è chiamato al rendimento di grazie e al sacrificio. Ovvero alla capacità di ri-offrire ciò che ha  ricevuto al donatore. E’ questo un gesto non solo di umiltà, ma soprattutto di gratitudine e amore. Tale gesto è stato compiuto perfettamente e una volta per tutte da Gesù sulla croce. Ad esso la nostra vita è chiamata a confrontarsi e a strutturarsi. Non ti viene chiesto un sacrificio solo di cose, ma anche di te stesso. E’ questa la conformazione a Cristo perfetta.

    Cfr. Mc 10,45; Lc 22,37; Is 53,10ss; Gv 17,19; 1Pt 2,5; Rm 12,1; 15,16; Fil 2,17; 4,18; Ebr 13,15


  • 08 Feb

    I SIMBOLI


    1.    UN NUTRIMENTO

    Per permetterci di incontrarlo nei sacramenti, Cristo si è reso presente e operante in atti profondamente umani:

    l’acqua nel battesimo

    l’olio nella confermazione.

    Egli usa queste realtà “sopranaturalizzandole”, ovvero non svuotandole della loro consistenza umana, quotidiana. Ma proprio partendo da questi significati naturali ne fa dei segni efficaci della sua azione divina.

    Questo appare evidente anche nell’eucaristia.

    Ritrovare i simboli

    Occorre a malincuore riconoscere che i simboli istituiti dal Signore utilizzando realtà quotidiane ed immediate lentamente sono stati “incelofanati” dalla storia, da un concetto di sacralità che li ha resi spesso ridotti a pura  cerimonia.

    Dove sono concretamente i segni dello spezzare il pane, del prendete e mangiatene tutti. Tante difficoltà e motivi storici e pratici hanno avuto la meglio sulla verità del segno.

    Occorre realmente sperare che nelle nostre liturgie la realtà del segno riacquisti realmente il suo spessore autenticamente umano carico di significato e di calore.

    Quello che noi chiamiamo il sacrificio della messa, Gesù l’ha istituito come un pasto: La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda (Gv 6,55).

    Si tratta di un pasto fraterno: Prendetelo e distribuitelo tra voi (Lc 22,17)

    Un pasto in cui l’alimento è rappresentato dal pane e dal vino.

    Sono realtà ricche di significato umano.

    Gesù le usa per parlare del suo sacrificio: del suo corpo e del suo sangue sacrificati e glorificati, per parlare della comunione con lui e tramite lui col Padre e tra di noi.

    Ma quale il motivo per cui Gesù sceglie il segno del pasto per comunicarci realtà di fede fondamentali?

    Mangiate e bevete

    Per vivere occorre nutrirsi: è un dato questo di ogni giorno. Non ne possiamo fare  a meno. E per mangiare occorre dipendere da altro (vegetale e animale). Siamo esseri dipendenti.

    Il Creatore fin dall’inizio ha provveduto a questo, alla nostra sussistenza.

    Purtroppo l’uomo occidentale, che soffre per sovranutrimento, ben pasciuto, non percepisce più l’aspetto meraviglioso e tragico di questo suo radicarsi nelle forze del cosmo.

    Il povero che può fare affidamento solo sul suo raccolto e sul suo bestiame conosce bene invece questa esperienza.

    Mangiare il pane e bere il vino significa poter sussistere. Significa riconoscere che la tua vita non è autosufficiente, dipendi dal creato e dal Creatore che ne è il signore: è lui solo il Vivente.

    (cfr. Dt 32,39; Tb 13,2; Sap 16,13; Sal 23).

    E’ evidente trasporre questo sull’eucaristia: Come senza pane e senza vino, o qualcosa di corrispondente, i corpi più vigorosi subito vengono meno, così, senza la forza del corpo e del sangue di Cristo, le anime più sante sono destinate alla morte. E come il pane e il vino sostentano la nostra vita naturale, così il Signore Gesù, con il dono continuo della forza di grazia rappresentato dal pane e dal vino, sostiene veramente quella vita spirituale che ci ha procurato con la sua croce” (John Wesley).

    Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue

    Per mezzo del cibo e della bevanda, l’uomo “comunica” con l’universo e l’universo “comunica” con l’uomo.

    Il filosofo tedesco Feuerbach ha detto: L’uomo è ciò che mangia!. Voleva dire che l’uomo non ha alcuna dimensione spirituale; che non è altro che materia destinata a distruggersi.

    Tuttavia possiamo in questa frase ritrovare anche una concezione religiosa sia dell’uomo che del mondo.

    1.     L’uomo immagine di Dio, figlio di Dio, è l’invitato alla tavola del cosmo. Divenendo “ciò che mangia” integra il mondo con la sua carne e con il suo sangue.

    Prende dell’universo, lo assimila, lo fa suo. “Comunica” ovvero con il mondo materiale di cui può dire: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”.

    La creazione in un certo senso, attraverso l’uomo che la assimila, “comunica con l’uomo”, diventa il suo corpo, il suo spirito, il suo cuore, la su azione, il suo amore, la sua preghiera, la sua fede.

    2.     Questa apertura dell’uomo e dell’universo si proietta sempre più in alto, più in alto dell’uomo stesso. Infatti Dio si è fatto carne, ha posto la sua dimora in mezzo a noi. Gesù Uomo-Dio comunicherà con il cosmo e il cosmo con Dio, perché lui stesso ha avuto bisogno di mangiare e di bere. Ciò che lui ha assimilato è divenuto suo corpo e suo sangue, corpo e sangue divini.

    3.     Questa ascesa trova il suo punto di convergenza nell’eucaristia.

    La creazione  fornisce al Cristo Uomo-Dio il pane e il vino, che lo Spirito trasforma nel suo Corpo e nel suo sangue. L’uomo mangerà e berrà di questo pane e di questo vino transustanziati: l’uno e l’altro saranno così “assimilati” al Cristo risorto.

    Dio potrà dire a questi elementi, a me che li consumo, all’assemblea che partecipa: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue… Costoro, insieme, uno per uno, sono il mio corpo.


    I SIMBOLI: IL NUTRIMENTO

    “L’eucaristia protegge il mondo e già l’illumina segretamente.

    L’uomo vi ritrova la sua filiazione perduta, attinge la sua vita a quella di Cristo, l’amico segreto, che divide con lui il pane del bisogno e il vino della festa. Il pane è il suo corpo e il vino è il suo sangue; in questa unità nulla ci separa da cose e persone. Ci può essere qualcosa di più grande? E’ la gioia della pasqua, la gioia della trasfigurazione dell’universo. Noi riceviamo questa gioia nella comunione dei santi e nella tenerezza della Madre Chiesa. Allora nulla ci fa più paura. Abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha per noi, siamo degli dei. Ormai tutto ha senso. Tu e tu ancora, avete un significato. Tu non morirai Quelli che ami, anche se li credi morti, non moriranno. Ciò che è vivente è bello, fino al più piccolo filo d’erba, fino all’attimo fuggente che ti ha fato sentire nelle tue vene la pienezza dell’esistenza, tutto sarà vivente per sempre. Anche la sofferenza e la morte hanno un senso, diventano gli itinerari della vita. Tutto è già vivente perché Cristo è risorto” Atenagora.

    * Il condividere il pasto: prova ad elencare il simbolismo e il valore ad esso attribuito che tale gesto assume nella tua esperienza.

    * Siamo essere bisognosi, dipendenti. Per vivere dobbiamo mangiare. Mangiare è riconoscere che siamo mortali, non autosufficienti. In fin dei conti è riconoscere che dipendi da un Altro che solo è “il Vivente”

    Cfr. Gn 1,9ss; Dt 32,39; Tb 13,2; Sap 16,13; Sal 23; Sap 2,24

    * Mangiando di ciò che Dio ha creato per te tu integri in te la creazione. Lo fai tuo. Tu comunichi con l’universo e l’universo comunica con te: attraverso di te la creazione diventa corpo, cuore, azione, amore, preghiera, lode, riconoscenza…

    * Il Verbo di Dio ha scelto di farsi carne. Ha assimilato in sé la sua stessa creazione, l’ha fatta sua (ha mangiato e ha bevuto). Tutto ciò che ha fatto suo è divenuto suo corpo e suo sangue.

    * La creazione fornisce al Cristo Uomo-Dio pane e vino perché nella potenza dello Spirito egli li trasformi nel suo corpo e nel suo sangue. L’uomo ne mangia. L’uno e l’altro sono assimilati al Corpo del Cristo risorto. Egli può dire: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue… Costoro, che hanno mangiato di me, sono mio corpo.”

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