• 17 Feb

    PECULIARITA’ DEL
    MONACHESIMO IRLANDESE:
    il terzo tassello delle radici cristiane europee

    di padre Attilio Franco Fabris cp
    Casa di Preghiera Sant’Andrea
    Abbazia di Borzone
    16041 Borzonasca – GE

    Dobbiamo riconoscere che il monachesimo celtico, di cui san Colombano è certamente la figura più significativa, è purtroppo un tesoro sconosciuto. Una trascuratezza abbastanza grave se, come pensano numerosi storici, il monachesimo irlandese dovrebbe essere riconosciuto a tutti gli effetti come il terzo tassello di un mosaico che venne a forgiare dal V al X secolo le radici dell’Europa cristiana.

    La nostra identità culturale europea è certamente frutto del monachesimo benedettino capace di operare una sapiente rilettura della tradizione monastica orientale e della romanità che dal sud risale il continente, è ancora sicuramente frutto della coraggiosa apertura missionaria e capacità di inculturazione nell’Europa dell’est da parte dei santi Cirillo e Metodio, ma anche, come cercheremo di evidenziare, frutto del contributo originalissimo e di certo non marginale che dal nord venne da parte del monachesimo celtico.

    Premesse generali

    A livello storico l’Irlanda rappresenta un caso unico nell’arco dei secoli che vedono la formazione dell’identità del nostro continente. Fu infatti una nazione, l’ultima terra che si apriva sull’oceano, che rimase ai margini della grandi vicende storiche europee soprattutto nei secoli V e VI. Gli stessi romani non conquistarono mai realmente l’isola e questa non fu neppure grandemente interessata dalle grandi trasmigrazioni barbariche che interessarono invece il resto dell’Europa nei secoli che a noi interessano.

    Questa “marginalità” permise il formarsi di una certa autonomia e strutturazione culturale, sociale e religiosa tipica seppur sempre saldamente ancorata alla radice continentale, non riscontrabile nel resto dell’Europa.

    La fede cristiana giunse in Irlanda ad opera di sporadici missionari e di mercanti. Giunse probabilmente dalla Gallia e dalla Scozia già alla fine del IV secolo, se già nel 341 papa Celestino I invia in Irlanda Palladio come primo vescovo “ad Scottos in Christum credentes”, ovvero alle comunità cristiane già presenti sull’isola.

    Ma la conversione totale dell’isola, attuatasi nell’arco di pochi decenni, è da attribuirsi all’opera di san Patrizio (432-461), successore di Palladio. L’evangelizzazione sia di Palladio come di Patrizio avvenne senza traumi: si tratta di un dato abbastanza insolito se non unico, infatti in Irlanda non ci furono missionari martiri. Questo perché il cristianesimo seppe sapientemente avvicendarsi all’antica cultura celtica senza imporre fratture. Come non ricordare ad esempio l’episodio in cui a Patrizio preso da scrupoli e incerto se conservare e utilizzare i poemi pagani appare un angelo che lo consiglia di usarli saggiamente traendone insegnamenti cristiani?

    Sembra che sia stato san Patrizio ad introdurre ufficialmente l’istituzione monastica in Irlanda anche se alcuni storici sostengono l’esistenza di qualche comunità monastica precedente a lui. Patrizio fu un innamorato del monachesimo, si era infatti formato alla sua missione in Gallia nell’importante centro monastico di Lérins. Patrizio arrivato in Irlanda fondò ad Armagh la prima sede vescovile ma unitamente vi volle anche un monastero. Già durante il suo episcopato sorsero nell’isola numerosissimi monasteri ed egli poté gloriarsi, nelle sue “Confessiones” di aver fatto entrare nella vita monastica numerosi “figli e figlie di re”.


    Nascita del monachesimo irlandese

    Nel IV e V secolo il monachesimo nato in oriente aveva già trovato diffusione nell’area del Mediterraneo attraverso numerose fondazioni monastiche sorte soprattutto sulle sue isole tra le quali è da ricordare anzitutto Lérins che fu in quei secoli il centro monastico più importante.

    A partire dal secolo V e VII i monasteri in Irlanda si moltiplicano in modo quasi prodigioso. Questa profusione di fondazioni monastiche, avvenuta in pochissimo decenni, fa sì che si possa affermare che il cristianesimo irlandese abbia di fatto assunto sin dall’origine una matrice essenzialmente monastica.

    Citiamo alcune delle fondazioni monastiche più importanti.

    Intorno al 500 sant’Enda fonda un primo insediamento monastico irlandese nelle isole Aran, che fu in seguito denominata l’”Isola dei Santi”. A questo primo monastero nella stessa zona se ne aggiunsero poi molti altri. Questi monasteri ricopersero un’importanza notevole come scuole di spiritualità monastica a cui accorsero generazioni di aspiranti monaci.

    San Finnian fu invece il fondatore di Clonard, intorno al 500. Egli fu definito il “maestro dei santi d’Irlanda”, in quanto dal suo monastero uscì un folto gruppo di monaci che fu denominato “i dodici apostoli d’Irlanda”  che a loro volta furono fondatori di numerosi monasteri.

    San Cirian intorno al 545 fonda Clonmachnoise, uno dei principali insediamenti monastici d’Irlanda, l’unico a non essere sottoposto ad un legame con uno specifico clan con la conseguenza di svolgere un notevole influsso anche politico.

    Altro grande monastero fu quello di Bangor, presso l’attuale Belfast, fondato da san Cumgall nel 558 e che divenne un famoso centro spirituale e culturale nel quale visse e si formò lo stesso san Colombano.

    San Columba fu il fondatore, nel 563, di un importantissimo monastero irlandese nell’isola di Jona sulle coste scozzesi. Nonostante la sua dislocazione mantenne una forte giurisdizione in Irlanda.

    Non bisogna neppure scordare l’importante presenza di monasteri femminili. La prima fondazione fu opera di santa Brigida discepola di san Patrizio. Il suo monastero ebbe sede ad Ardagh. Seguirono altre fondazioni femminili tra le quali nel 470 del monastero “doppio”, ovvero maschile e femminile,  di Kildare che divenne un grande centro sia culturale che caritativo.

    San Colombano proveniente da Bangor invece fu il grande e primo propagatore del monachesimo irlandese nel continente avendo fondato lui e i suoi discepoli, durante i suoi pellegrinaggi, numerosi monasteri tra i quali occorrerà ricordare Auxerre, Luxueil, San Gallo e Bobbio.

    A tutti questi fondatori e monasteri se ne potrebbero aggiungere moltissimi altri degni di nota a testimoniare dell’enorme vitalità del fenomeno monastico irlandese a partire dal V secolo.

    Una straordinaria espansione

    Questa straordinaria espansione monastica avvenuta nell’arco di pochi decenni, vera peculiarità del monachesimo celtico, fu dunque un successo dovuto a diversi fattori tra cui il favorevole terreno socioculturale e religioso celtico in cui esso venne a stabilirsi.

    La società irlandese era di tipo strettamente patriarcale e tribale. L’economia era legata all’allevamento, alla pesca, e in minor misura, dato il contesto geografico, all’agricoltura. Non dimentichiamo poi le attività commerciali via mare. Non esistevano centri cittadini, si ignorava il concetto di stato. La cultura era di tipo orale, l’alfabeto praticamente sconosciuto (si utilizzava raramente solo quello ogamico).  La popolazione era raccolta in “clan”, ovvero gruppi familiari che includevano non solo la famiglia in senso stretto, ma anche antenati, collaterali, discendenti e parenti acquisiti, comprendendo varie decine di persone a capo di cui stava il capoclan. Più clan formavano una tribù (“tuath” in scozzese). Era al clan – e non all’individuo – che spettava la proprietà della terra: la proprietà privata vi era sconosciuta.  A capo di ogni tribù era posto un re (in gallico “rix”) con pieni diritti di vita e di morte sui sudditi. Accanto poi alla nobiltà troviamo un ruolo rilevante riservato ai “bardi” e ai “druidi”. I “bardi” erano i trasmettitori del sapere del popolo, una sorta di poeti professionisti che venivano istruiti per memorizzare e comporre le tradizioni e i miti. Essi furono stimati e protetti anche nell’epoca cristiana: san Columba più volte prese le loro difese. I sacerdoti “druidi” invece rappresentavano una casta potente e rispettata la cui influenza era non solo religiosa ma anche sociale; spesso erano anche filosofi, scienziati, maestri, giudici e consiglieri del re. La religione da essi coltivata aveva forti caratteristiche naturalistiche legate alla forza misteriose, cicliche e minacciose della natura. Una religione cupa che si scontrò, anche se non con la violenza, già  a partire da san Patrizio con l’annuncio cristiano. Scontri tra druidi e evangelizzatori,e prove di “forza spirituale” sono narrati a lungo nelle vite dei primi santi irlandesi. Anche dalla religione druidica il cristianesimo seppe utilizzare miti e espressioni religiose purificandole e rileggendole alla luce dell’evento cristiano: così ad esempio il valore simbolico delle sorgenti, di alcuni alberi, del fuoco, di alcune isole, e così via. Classico l’esempio del monastero di Kildare dove dieci monache avevano il compito di mantenere vivo perennemente un fuoco considerato sacro.

    Ora, tribù, clan e monastero in certo qual modo tendono ad equivalersi nella loro valenza sociale possedendo strutture organizzative molto simili. In entrambe ad esempio la figura del capoclan e dell’abate, ha un ruolo determinante non solo in vista dell’autorità e del potere ma della propria identificazione. Notiamo a questo proposito un particolare importante: il termine “monasterium”, in celtico “muintir”,  non definisce, come sul continente, il luogo quanto invece la comunità monastica stessa. È un dato che ci permette di comprendere come fondamentale per il monaco celtico fosse la sua appartenenza che si definiva a partire dal gruppo più che da un luogo fisico come è nell’accezione benedettina.

    Tranne qualche sporadico caso, i monasteri venivano fondati a partire da una donazione di terre ad un monaco proveniente da qualche clan, il quale ne diveniva generalmente anche abate istituendovi una sua regola. La successione degli abati prevedeva generalmente che fossero membri della medesima famiglia del fondatore facendo sì che la proprietà terriera rimanesse nell’ambito del clan in ottemperanza alla tradizione celtica che prevedeva il trasferimento del possesso fondiario solo all’interno della medesima famiglia. Questo comportava un forte legame tra monastero e tribù, e non mancano casi (come nella vicenda di san Columba e san Finnian) in cui vediamo monasteri il lotta tra loro perché coinvolti nelle vicende dei clan corrispettivi.  L’insieme delle fondazioni e dei territori facenti capo ad un’abbazia madre costituiva ciò che veniva chiamata “paruchia”: si tratta di una vera e propria circoscrizione di tipo religioso e sociale autonoma e sottomessa all’autorità dell’abate., che si trova di fatto ad avere la responsabilità di una sorta di vera e propria “tribù monastica”.

    L’organizzazione episcopale legata soprattutto al contesto e al ruolo sociale della città fu, almeno nei primi secoli, impossibile importarla in Irlanda nonostante gli sforzi di san Patrizio. Il monastero invece ben s’adattò al carattere sociale celtico: la conseguenza fu che l’abate di fatto venne a prendere il posto giuridico del vescovo al quale non rimase che un semplice ruolo liturgico e sacramentale. Non era raro che l’abate avesse tra i suoi sudditi diversi monaci consacrati vescovi. Scrive san Beda a questo proposito: “Quest’isola suole avere sempre come rettore un abate che è prete, al cui volere non solo tutta la regione è soggetta ma anche, con inusitato ordine gerarchico, gli stessi vescovi, secondo l’esempio di quel primo maestro (san Columba) che non fu vescovo, ma prete e monaco”.

    Tutti i monasteri celtici dovettero così assumersi il compito della cura pastorale delle popolazioni presenti nel loro territorio; questo fece sì che praticamente tutti i monaci fossero anche sacerdoti. Un’altra conseguenza imposta da questo dato di cose fu che la vita di questi monaci non fosse strettamente claustrale, e la “stabilitas”, caratteristica del monachesimo benedettino, non fosse considerata un obbligo monastico fondamentale.

    La struttura del monastero celtico

    Non dobbiamo immaginare un monastero irlandese sullo stile di un tipico monastero medievale. Esso assomigliava maggiormente ai primi insediamenti monastici d’oriente della valle del Nilo denominati laure.

    Anzitutto il luogo dove almeno originariamente sorgeva il monastero era sempre appartato, selvaggio, molto spesso su di un’isola. Alla fine del V sec. san Macan ci lascia una descrizione  sulla qualità del luogo da preferire: un eremitaggio solitario con “una piccola fonte dalle acque chiare, dove tutti i peccati vengono purificati dalla grazia santificante”, un boschetto piacevole “ben protetto dai venti”, con “un ruscello possibilmente ricco di trote e salmoni”, un orticello ben rasato con terra molto fertile, “buona per ogni tipo di frutti”. Un luogo dunque solitario, che faciliti il distacco dal mondo e la contemplazione e che possa assicurare nello stesso tempo il proprio sostentamento.

    Le tecniche di costruzione seguite per erigere il monastero sono quelle della società celtica e così anche la sua struttura: esso è costituito da semplici capanne rotonde di legno o pietra, abitate da due o tre monaci, raccolte attorno ad o più chiese.  Accanto alla chiesa si trova un refettorio con la relativa cucina, una biblioteca con il suo scriptorium, le officine per il lavoro perché il monastero deve sostentarsi autonomamente. Molto spesso unita al monastero troviamo la “Guest House”, la foresteria, dove gratuitamente per tre giorni e tre notti vengono accolti pellegrini e viandanti. Il tutto è circondato da un fossato e una palizzata o muraglia di difesa contrassegnata da grandi croci scolpite nella pietra.

    Solo in epoca più tarda, circa il IX sec., all’interno del recinto del monastero vengono costruire le tipiche torri coniche (ne rimangono circa 80) in pietra alte circa 150 piedi e larghe venti suddivise in sei o sette piani comunicanti da scale a pioli ed illuminate da finestre. Sono strutture difensive erette durante il periodo delle invasioni vichinghe.

    L’abito del monaco consiste in sandali, una tunica bianca (simile a quella dei sacerdoti druidi), un mantello di lana ruvida e un cappuccio. Anche la tonsura (uno dei motivi di tensione con Roma) è diversa: la rasatura dei capelli avviene solo nella parte anteriore del cranio mentre sulla nuca i capelli vengono lasciati crescere (anche questa usanza druidica).

    Circa invece il vitto è previsto un unico pasto dopo nona costituito da pane, legumi, latte e derivati, cereali, pesce. Le bevande consentite sono acqua e birra. La carne è permessa solo in occasioni speciali. Un detto monastico del periodo afferma ironicamente che il pasto consisteva in “pane, acqua,legumi oppure legumi, acqua e pane”.

    La vita monastica

    Ogni monastero adotta una sua regola e le sue consuetudini. Generalmente è lo stesso  fondatore che stabilisce la sua “regola” caratterizzata comunque da elementi comuni e sempre improntata da un grande rigore ascetico. A partire dal 590 la Regola che si affermò maggiormente non solo in Irlanda ma anche sul continente, prima ancora della Regola di san Benedetto, fu la “Regula Monachorum” redatta da san Colombano. Fu composta dal santo durante la sua permanenza nel monastero di Luxeuil, da lui fondato. Essa è articolata in dieci capitoli, è accompagnata dalla Regula Coenobialis suddivisa in due parti: la prima denominata Regula coenobialis Patrum (costoro sono i grandi fondatori monastici irlandesi che lo hanno preceduto) e la seconda Regula coenobialis fratrum. La Regula Monachorum tratta soprattutto delle virtù e della spiritualità del monaco (obbedienza, silenzio, digiuno, disprezzo dei beni terreni, ripudio della vanità, castità, preghiera, discrezione, mortificazione della superbia e dell’orgoglio, buon esempio), ma essa non ci dice quasi nulla circa alcuni aspetti concreti della vita e della struttura della comunità (es. economia, ammissione, elezione dell’abate…). La Regula Coenibialis ci appare invece come un “Penitenziale”, ovvero una raccolta di indicazioni pratiche circa le penitenze cui sottomettere il monaco in caso di mancanze alla regola. L’importanza della Regula Monachorum colombaniana è confermata dal fatto che fu approvata ufficialmente dal concilio di Macon nel 627. Ma già qualche decennio dopo sul continente ad essa fu affiancata la regola benedettina onde mitigarne il rigore. Nel 643 a Bobbio troviamo già la tipica presenza di un monastero dalla “regula duplex”: colombaniana e benedettina.

    La disciplina ascetica monastica veniva assicurata anzitutto dall’obbedienza totale e indiscussa all’abate e dall’esercizio della carità fraterna. Per Colombano la famiglia monastica si costituisce attorno alla figura e al ruolo dell’abate che raduna attorno a sé dei discepoli e costituisce insieme a loro una famiglia. Colombano sempre nella sua Regola, in cui l’obbedienza è posta non a caso al primo e ultimo capitolo, chiede al monaco un’obbedienza pronta e totale perché è chiamato ad imitare “il Cristo che ha obbedito a suo Padre sino alla morte”.

    L’abate veniva assistito nella direzione della comunità spesso molto numerose (non mancarono alcuni centri che giunsero ad avere addirittura più di mille-duemila monaci) da dei “seniores”, generalmente monaci anziani e stimati. Troviamo inoltre le figure dell’ “oeconumus” che si prende cura degli aspetti materiali della gestione della comunità, dello “scriba” probabilmente un segretario, dell’addetto agli ospiti, del cuoco, del dispensiere.

    La liturgia monastica, che vedeva i monaci radunarsi più volte a ore precise in chiesa sia di giorno che di notte, consisteva nella recita dei Salmi e nella s.Messa quotidiana privata. Alcune regole prevedevano la memorizzazione completa del salterio da parte di ciascun monaco. La liturgia veniva cantata su musiche celtiche, accompagnate dal suono della cetra, tipico strumento musicale celtico. L’ufficio notturno era il più prolungato. Colombano nella Regola  prevede sino a tre alzate notturne per la preghiera comunitaria. Da notare anche che numerosi elementi rituali e liturgici furono ripresi direttamente dalla liturgia orientale.

    Una caratteristica devozione monastica irlandese era la recita delle cosiddette “loricae” ovvero lunghe preghiere composte da numerose invocazioni ripetute. Questi testi costituiscono uno dei contributi più originali del cristianesimo celtico (la più famosa rimane quella di san Patrizio) e che si riaggancia per alcuni aspetti alla cultura druidica precristiana.

    Lo stile monastico era di stampo essenzialmente cenobitico ma dalle fonti sappiamo che molti cenobiti fin dal VI secolo lasciavano, con il permesso dell’abate, il cenobio per scegliere la vita eremitica (il loro deséart) per sempre o per tempi limitati. Questo avveniva generalmente in prossimità del monastero stesso o su piccole isole dei dintorni. Non di rado poi in questi eremi sorgevano nuovi monastero come accade ad esempio sulle isole Aran o a Clonfert.

    Lo stile di vita era contrassegnato da un forte rigore ascetico, forse con influssi semipelagiani (non dimentichiamo che Pelagio era di origine bretone). Questo aspetto è nell’immaginario collettivo forse l’elemento peculiare dell’antico monachesimo irlandese. Troviamo negli usi monastici una serie impressionante di pratiche ascetiche e penitenziali: ad esempio la recitazione di tutto il salterio con le braccia in croce (cross fighell), le restrizioni del sonno, l’immersione nell’acqua gelida. Il digiuno era previsto due giorni alla settimana (al mercoledì e al venerdì). In quaresima se ne aggiungevano altri due e uno durante l’avvento e dopo pentecoste. Di Finiann di Clonenagh, maestro di  san Comgall fondatore di Bangor il monastero di Colombano, è scritto: “Il generoso Fintan non consumò nulla nella sua vita se non pane di orzo ammuffito e l’acqua torbida dell’argilla”. Altra usanza ascetica di origine orientale era la ripetizione di numerose genuflessioni o prostrazioni: di un anacoreta si narra ne compisse settecento ogni giorno! Evidentemente l’antropologia che soggiace a tutto questo vede la carne come un nemico da combattere, cosicché la vita del monaco assume inevitabilmente i connotati di uno strenuo combattimento contro le passioni. Si tratta di un accento antropologico diverso da quella che appare nella regola di Benedetto in cui non compaiono e non vengono richieste al monaco imprese ascetiche eroiche ma sarà privilegiata la virtù dell’obbedienza e dell’umiltà. Se da un lato effettivamente vi furono eccessi in merito, non mancò anche un ridimensionamento, talvolta anche critica, delle eccessive penitenze corporali: san Colombano nella sua Regola insiste molto sulla virtù della discrezione: “Coloro che vivono senza discrezione inevitabilmente cadono nell’eccesso, il quale è sempre contrario alle virtù, che stanno in mezzo, tra due eccessi opposti” (Regola, VIII). Ma nello stesso tempo non esita a presentare al monaco un cammino quanto mai esigente, il cui obiettivo fondamentale rimane l’annientamento dell’amore al proprio io che si oppone al comandamento dell’amore di Dio e del prossimo: Il monaco in monastero viva sotto l’autorità di un solo Padre e insieme con molti fratelli, affinché impari da uno l’umiltà, da un altro la pazienza; uno gli insegni il silenzio, l’altro la mansuetudine; non faccia ciò che vuole, mangi ciò che gli è prescritto; non possieda se non ciò che ha ricevuto, compia il lavoro che gli è assegnato; sia sottomesso a chi non vorrebbe; si corichi stanco, sonnecchi camminando e sia costretto ad alzarsi quando non ha ancora finito di dormire; offeso taccia; tema chi gli è preposto al monastero come un padrone, ma insieme lo ami come un padre; creda che qualunque cosa gli comandi, è per lui vantaggiosa; non osi giudicare una decisione dei superiori, lui il cui dovere è obbedire e di compiere ciò che è giusto, secondo le parole di Mosè: Ascolta Israele! (Dt 6,4), con quel che segue” (Regola, X).

    Certamente ci si presenta una vita contrassegnata da un grande rigore ascetico, ma non privo di aspetti di grande tenerezza. San Columba chiamava i suoi monaci “i miei bambini”. Leggendo la regola di san Colombano e le istruzioni è possibile intravvedere il suo desiderio che nella comunità si viva nell’armonia, nel perdono vicendevole e nell’attenzione premurosa a non ferire l’altro con parole o gesti. Nell’XI “Istruzione” Colombano scrive: “L’amore non è una fatica; l’amore è quanto vi è di più dolce, di più salutare, di più sano per il cuore. Se infatti il cuore non è ormai esanime per i vizi, la guarigione per esso sta nell’amare e in ciò che piace a Dio; tuttavia niente è più gradito a Dio che l’amore”.

    Interessante poi vedere come questa stessa tenerezza si allarghi fino a comprendere anche la natura, in particolar modo gli animali. A questo proposito l’aneddotica agiografica presenta tratti che la avvicinano moltissimo al francescanesimo, notevole ad esempio la scena in cui il monaco Giona descrive san Colombano nella “Vita” in cui il santo monaco è presentato quasi un nuovo Adamo nel giardino terrestre prima del peccato: “Un discepolo attestava di aver sovente visto che, quando si ritirava in solitudine per digiunare e pregare, nelle sue passeggiate era solito chiamare a sé gli animali selvatici e gli uccelli; accorrevano essi al suo cenno, e lui li toccava accarezzandoli con la mano. Da parte loro, le fiere e gli uccelli gli saltellavano attorno, al colmo della gioia… Il medesimo testimone assicurava di aver visto spesso quella bestiola che si chiama comunemente scoiattolo, lanciarsi giù, al suo richiamo, dalle cime più alte degli alberi, accovacciarglisi nella mano, saltargli al collo, entrargli in seno e sgusciarne fuori” (cap. XV).

    Altro aspetto peculiare del monachesimo irlandese fu l’usanza della manifestazione-confessione spesso quotidiana dei pensieri e azioni del singolo monaco, fatta al proprio padre spirituale (anmachah). Per facilitare il compito del padre spirituale furono redatti i minuziosi Penitenziali dove ad ogni colpa, ma tenendo conto con sano realismo di tutte le attenuanti e condizionamenti, veniva corrisposta la pena conseguente. A questa prassi si sottomisero non solo i monaci ma poco a poco anche i laici. Dobbiamo riconoscere che i “Penitenziali”, nonostante i loro limiti oggettivi, furono ottimi strumenti di direzione spirituale che permisero di affinare la coscienza morale e religiosa dell’occidente cristiano Ricordiamo che proprio a partire da quest’usanza monastica irlandese andò configurandosi la prassi del sacramento della confessione individuale come è da noi ancora oggi conosciuta e praticata.


    La “Peregrinatio pro Christo” e i suoi risvolti missionari

    Vogliamo accennare ad un aspetto importante relativo all’ascetismo monastico irlandese: la “peregrinatio pro Christo” o “peregrinatio pro amore Dei”. Alcuni cronisti narrano che nell’anno 891 alcuni monaci irlandesi approdarono sulle coste della Cornovaglia dentro un “curragh” senza remi: “essi desideravano – precisa il cronista – esiliarsi per amore di Dio”. Molti monaci irlandesi dal VI al XI secolo abbracciarono la peregrinatio come particolare forma ascetica. Essa era di origine orientale, era denominata xenetèia ovvero vivere da stranieri. Questi monaci decidendo di abbandonare  definitivamente la propria patria sceglievano come loro “diseart” la navigazione lasciandosi trasportare dalle correnti di fiumi o mari; poco importava loro dove sarebbero approdati: l’importante era abbandonarsi alla volontà di Dio.

    Tra i primi monaci pellegrini ricordiamo il monaco San Cataldo, discepolo di san Patrizio, che dopo un pellegrinaggio in Terra Santa divenne vescovo a Taranto, e poi San Columba che accettò sotto obbedienza questa forma ascetico-penitenziale recandosi in Scozia fondandovi il monastero di Jona. Il monaco Giona scrive del suo maestro san Colombano, il più celebre pellegrino per le vie dell’Europa: “Egli fu preso dal desiderio di divenire pellegrino ricordando che il Signore diede questo comando ad Abramo:” Lascia il tuo paese, la tua famiglia e la casa di tuo padre e va verso il paese che io ti indicherò” (Vita I,4).  Sempre nella Vita è scritto: “Avendo riconosciuto che la volontà del giudice clemente è con loro, salirono su una nave e si avventurarono sui flutti lungo rotte sconosciute” (1,4).

    Ma il racconto più famoso e fantastico (ma nulla toglie ad un suo fondamento storico), un vero e proprio bestseller medioevale del IX sec, rimane certamente la “Navigatio Sancti Brandani”. Si tratta di un racconto leggendario che tuttavia reca traccia di un effettivo pellegrinaggio compiuto dall’abate Brandano. Il genere letterario celtico precristiano dell’ “Immram”, ovvero del viaggio fantastico e avventuroso dell’eroe, viene qui utilizzato per descrivere le grandi gesta di un nuovo eroe: il santo, il nuovo eroe della fede. La Navigatio sancti Brandani narra la vicenda del monaco Brandano che con un gruppo di altri dodici monaci (il numero non è casuale e ricorre in altri testi agiografici) lascia il suo monastero imbarcandosi per raggiungere l’Isola dei Beati, una sorta di anticamera del paradiso, che un eremita gli aveva narrato essere al di là del mare. Essi viaggiano per sette anni di isola in isola incontrando meraviglie, pericoli e mostri. Dopo essere sfuggiti alle bocche dell’inferno, un’isola di fuoco attorniata da un mare in ebollizione (probabilmente un vulcano islandese), essi giungono finalmente alla Terra dei Beati. Dopo averne gustato le delizie finalmente tornano, con un viaggio di altri sette anni, portando con sé frutti e pietre preziose.

    L’idea di fondo che sottostà alla scelta del farsi pellegrini verso il regno di Dio vuole essere un rivivere nella propria carne e nella propria storia l’esperienza di fede del grande patriarca Abramo in cammino verso la terra della promessa.

    Una fede dunque che non rimane un assunto di verità astratte a cui aderire solo mentalmente ma che si trasforma in un invito a farne concretamente esperienza.  Illuminante un passo delle Istruzioni di san Colombano: “Occupiamoci dunque delle cose divine per non rimanere legati alle cose umane; e così come veri pellegrini sia sempre presente in noi l’anelito alla patria e la sua nostalgia sempre ci sospinga. I viandanti desiderano ardentemente la fine della via, per cui anche noi, che siamo viandanti e pellegrini, riflettiamo incessantemente sulla meta del cammino, cioè della nostra vita: la meta della nostra via, infatti, è la nostra patria… Non amiamo dunque la via più della patria per non perdere la patria eterna; la nostra patria è tale che è nostro dovere amarla. Conserviamo perciò salda in noi questa convinzione così da vivere nella via come viandanti, come pellegrini, come ospiti del mondo” (cap. VIII).

    Monaci evangelizzatori

    Una conseguenza importante e provvidenziale di queste “peregrinazioni monastiche” verso terre ignote fu che questi monaci pellegrini si trasformarono, si direbbe loro malgrado, in evangelizzatori o rievangelizzatori delle terre sulle quali approdavano divenendo nello stesso tempo propagatori del loro ideale monastico.

    Saranno frutto di queste “peregrinatio” i numerosi monasteri fondati da san Colombano e dai suoi discepoli che di fatto, non scordiamolo, rappresentano la prima diffusione monastica sul continente europeo: possiamo trovare infatti la loro presenza non solo in Gallia, Germania, Svizzera, Belgio, Italia ma anche in Ungheria, Groenlandia e fino in Russia nei pressi di Kiev.

    Questa evangelizzazione dei monaci irlandesi andò incrociandosi con la simmetrica diffusione monastica benedettina che invece risaliva il continente mentre quella irlandese lo discendeva, dando così vita simultaneamente alla cristianitas medievale europea (la stessa denominazione di Europa data al nostro continente è testimoniata per la prima volta proprio da san Colombano in una sua lettera indirizzata al papa Gregorio Magno).

    È possibile affermare che l’opera dei monaci irlandesi di fatto precedette e preparò il lavoro che fu successivamente dei monaci benedettini. Lo spirito di ordine e di organizzazione del filone monastico benedettino non avrebbe potuto probabilmente portare tutti i suoi frutti se non fosse stato preceduto dall’azione ardente, e se vogliamo avventurosa e focosa, dei monaci irlandesi.

    A questa loro missionarietà, essendo non voluta come obiettivo primario, mancò l’aspetto organizzativo e il loro metodo missionario rimase troppo individualistico. Questi furono i suoi punti deboli che ne determinarono il veloce tramonto: l’attività missionaria irlandese iniziò a declinare già poco dopo la morte di san Colombano.

    Ma ciò nulla toglie al ruolo fondamentale che di fatto essa ebbe nell’evangelizzazione dell’Europa favorendo così la formazione delle sue comuni radici.

    Centri di cultura

    Non possiamo non accennare infine al ruolo altrettanto fondamentale che il monachesimo irlandese svolse in ordine alla produzione e conservazione del patrimonio culturale della latinità e cristianità. Mentre il resto dell’Europa conosceva il declino della civiltà romana e il buio culturale dei secoli V e VI, l’Irlanda divenne, proprio grazie ai suoi centri monastici, pressoché l’unico luogo in cui la cultura veniva preservata e promossa.  Questo fu reso possibile dal fatto che sin dall’inizio i monasteri assunsero la fisionomia non solo di importanti luoghi spirituali ma anche di formidabili centri culturali capaci di irradiare la loro azione non solo in Irlanda, bensì in tutto il continente europeo.

    Di fatto i monasteri divennero proprio in quei secoli i primi grandi centri abitati d’Irlanda, trasformandosi non rare volte in vere e proprie cittadelle universitarie a cui approdavano non solo monaci ma bensì anche laici desiderosi di una solida formazione provenienti non solo dall’isola ma anche da tutta Europa. Ciò era molto ben visto se un monaco scrive che i monasteri accoglievano tutti “molto benignamente e davano loro gratuitamente il cibo per il giorno e i libri per studiare, e inoltre li istruivano senza compenso”. Come non ricordare che John Scoto Eriugena insegnante di filosofia a Parigi, e Dagoberto II e Alfredo re di Francia furono tra gli alunni di monasteri irlandesi. E così anche Dungalo monaco a Bangor, che nel 782 divenne preside della scuola palatina  la futura università di Parigi, e che fu poi inviato da Carlo Magno a Pavia per dirigervi anche là la scuola palatina che divenne successivamente l’università? Anche lo stesso Alcuino consigliere di Carlo Magno fu educato nell’ambito del monachesimo irlandese.

    Uno strumento essenziale che rese possibile tutto questa fecondità culturale fu l’introduzione in Irlanda dell’alfabeto latino e della sua scrittura: anche l’antica cultura celtica quasi completamente affidata alla sola memoria dei bardi veniva così salvaguardata: non possederemmo infatti il vasto patrimonio culturale celtico precristiano se non vi fosse stato l’intervento della cultura monastica. La cultura monastica celtica non distrusse la cultura precedente ma seppe conservarla, purificarla e trasmetterla. Ma non solo: anche la maggior parte dei testi classici storici, poetici e filosofici della latinità sono giunti a noi solo grazie alle trascrizioni avvenute nell’ambito dei monasteri irlandesi a scopo formativo.

    Ovviamente lo studio della Sacra Scrittura formava la base di ogni studio e insegnamento. Lo studio dei classici, della grammatica, filosofia, astronomia, aritmetica era in vista dell’approfondimento scritturistico perché, non dimentichiamolo, la scuola monastica era ed è  in primo luogo una “scuola” di ascesi e di vita cristiana. Infatti la maggior parte dei primi commentari biblici altomedievali tra il 650 e l’850 furono scritti da monaci irlandesi.

    Ma attenzione: la cultura monastica irlandese non fu solo ripetitiva: l’incontro tra la cultura celtica con la cultura latina e la tradizione orientale fece sì che, nei secoli d’oro del monachesimo, in Irlanda nascesse una cultura originale capace di esprimere in modo creativo l’incontro di queste altre culture.  Sicuramente l’arte della miniatura esprime emblematicamente la capacità di assumere e rileggere dati culturali celtico-precristiani, latini e orientali in una sintesi di straordinaria bellezza e creatività: basti osservare quei capolavori che sono i manoscritti di Durrow (a. 680) o di Kells (VIII sec.) .

    Questa felice simbiosi si riscontra anche nella “Celtic Cross”. È una croce scolpita su pietra composta dall’intersezione di una croce cristiana con un cerchio quest’ultimo simbolo celtico della terra e del sole e dunque del ciclo continuo della vita e della morte. Questo ciclo infinito pregno di angoscia rappresentato dal cerchio trova nel cristianesimo il proprio centro e la soluzione: il Cristo ci appare vincitore e giudice. Sui lati vengono scolpiti generalmente altri elementi: apostoli, santi, scene della vita della Bibbia. Ma non mancano straordinarie riprese di motivi geometrici celtici. Ormai l’accesso alla conoscenza è aperta a tutti, senza quella segretezza iniziatica caratteristica del druidismo..

    Conclusione

    L’evoluzione del monachesimo celtico fu molto veloce, ma altrettanto veloce fu il suo declino. Già nel 664 l’importante sinodo di Whitby aveva iniziato l’operazione di assimililazione del cristianesimo celtico con la Chiesa cattolica romana: risolvendo a favore di quest’ultima i problemi man mano sorti che rappresentavano motivi di tensione (il ruolo del vescovo, la data della pasqua, la tonsura, il rito del battesimo e dell’ordinazione episcopale, ecc…).

    Anche la regola monastica colombaniana ben presto venne di fatto a trovarsi accompagnata e poi sostituita da quella benedettina. Nel XIV e XV secolo molti antichi monasteri irlandesi erano in declino, sia per carenza di disciplina religiosa o per difficoltà economiche, sia per mancanza di monaci: per questo motivo i monasteri vennero per lo più ripopolati con monaci di altra origine, mentre altri furono soppressi. Nel 1862 papa Pio IX soppresse l’ultimo monastero irlandese in Germania.

    Ciò tuttavia nulla toglie al ruolo decisivo che, anche se durato pochi secoli, seppe avere anche la cultura monastica celtica in ordine alla costruzione di quella christianitas radice dimenticata della cultura e dell’identità europea. Scrissero nel ‘73 i vescovi irlandesi in occasione dell’entrata dell’Irlanda nell’’Unione Europea: “Anche se la nostra è una piccola nazione, noi non siamo mai andati in Europa mendicando col berretto in mano, ma vi siamo andati ai tempi di san Colombano e San Cataldo con la testa alta, perché avevamo molto da dare e da portare. …La nostra parte in Europa è stata sempre da un punto di vista spirituale e culturale più che politico ed economico, una voce che si leva a favore dei valori perenni e della speranza cristiana”.

    Un ruolo decisivo dunque quello del monachesimo irlandese, unitamente a quello di Benedetto, Cirillo e Metodio; un ruolo che speriamo sia riconosciuto anche ufficialmente dalla Chiesa Cattolica con la proclamazione di san Colombano compatrono d’Europa, e un ruolo che venga riconosciuto speriamo anche dalla cultura “laica” che con verità sappia vedere nell’opera di tutte queste grandi figure quella base di valori e ideali forti che hanno permesso alla nostra Europa di crescere nella consapevolezza della sua identità che speriamo non venga relegata ai soli aspetti economici, pena il suo declino.


    Appendice: l’abbazia di Borzone fondazione colombaniana?

    Vorrei fare un accenno a quello che potremmo definire un contenzioso storico tuttora irrisolto: mi riferisco alla fase di fondazione del monastero di Borzone situato sull’Appennino Ligure, nella Val Sturla, nell’entroterra di Chiavari. La presenza monastica benedettina è certa a partire dal 1184, data in cui i monaci provenienti dall’abbazia francese della Chaise Dieu (dal nome dell’Abbazia  madre situata nell’Alvernia e allora già largamente rappresentata in Italia con diverse fondazioni) prendono possesso del monastero e dei suoi territori.

    Il periodo antecedente a questa data è invece oscuro mancando una documentazione certa. Ma nello stesso tempo diversi elementi fanno supporre una precedente presenza monastica. Ma di che tipo?

    Varie ipotesi sono stante tentate: si trattava di una dipendenza colombaniana di Bobbio o di s. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia? Non mancano alcuni che affermano una presenza monastica bizantina o di un insediamento ariano. La stessa datazione dell’edificio della chiesa è tuttora motivo di discussione: si va dal V al XIII secolo! La maggior parte degli studiosi tuttavia data l’edificio intorno all’VIII-IX sec.

    Sembra che nel luogo in cui sorge l’abbazia di Borzone i Bizantini avessero eretto al tempo della “guerra gotica”, nella prima metà del VI sec., un baluardo difensivo e doganale sede di un distaccamento militare, a presidio di un itinerario transappenninico (le famose “vie del sale”) che dalla regione rivierasca conduceva in Val Padana. Di questo insediamento militare sembrerebbe rendere testimonianza parte della struttura dell’antica torre campanaria.

    Quando e da chi sulle rovine della fortezza bizantina fu edificata la chiesa con annesso monastero col titolo originario di s. Giorgio e successivamente di Sant’Andrea continua, come detto, ad essere motivo di incertezza e discussione storica.

    Due documenti, anche se controversi storicamente, attesterebbero la presenza di un nucleo monastico a Borzone di antica data: il primo è del 774 in cui Carlo Magno delimitando la giurisdizione del monastero di Bobbio, il quale nel VIII-IX secolo aveva esteso la sua influenza in tutta la Val Sturla sino al mare, cita Borzone, e il secondo è del 972 in cui Ottone I riconferma la giurisdizione di Bobbio citando espressamente “il monastero e la villa di Borzono“. Ma il primo documento certo che menziona chiaramente il monastero di Borzone è una bolla di papa Callisto II (1119-1124) dell’11 aprile 1120 che ne conferma il possesso all’Abbazia di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia essa pure colombiniana per dotazione del re longobardo Liutprando (712-744).  Sembra dunque più che plausibile indicare, come d’altronde un’ininterrotta tradizione locale  conferma,  che Borzone sia stata all’origine una fondazione colombaniana probabilmente (e stranamente!) dipendente direttamente dall’abbazia di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia.

    Le circostanze per cui il nome del monastero di Borzone non compaia negli antichi documenti bobbiesi insieme con l’altra che la bolla papale citi invece Borzone  assieme ad altre dipendenze pervenute all’abbazia pavese proporrebbero una datazione dell’origine di Borzone intorno alla prima metà dell’VIII secolo. Se tali ipotesi corrispondono a verità, anche il suo assoggettamento alla ricca e potente abbazia di Pavia potrebbe risalire alle origini, ovvero come detto alla prima metà dell’VIII sec., ad opera dello stesso re Liutprando.

    Venendo poi meno a Borzone l’originaria presenza monastica colombaniana l’arcivescovo di Genova Ugo della Volta (1163-1188) accolse, nel 1184, la richiesta di Lantelmo undicesimo abate de “La Chaise Dieu” di poter attuare una fondazione anche in Liguria. Da questa data la storia dell’Abbazia di Borzone si fa finalmente esplicita.

    Ma per ora l’“enigma Borzone” permane. Agli storici… l’ardua sentenza.


    BIBLIOGRAFIA  ESSENZIALE

    Giona di Bobbio, Vita di san Colombano e dei suoi discepoli, a cura di i. Biffi e a. Granata, Milano 2001.

    J. Le Goff, Il Medioevo. Alle origini dell’identità europea, Ed Laterza

    O. Loyer, Les chrétientés celtique, Paris 1965

    L. Dattrino, Il primo monachesimo, Roma 1984, pp. 64ss.

    San Patrizio, Gli scritti di san Patrizio. Alle origini del cristianesimo irlandese, Roma 1985

    K. Bihlmayer-H.Tyechle, Storia della Chiesa, Vol. I, pp. 285-6 Brescia 1986

    A. Magnani, La navigazione di San Brandano, Palermo 1992

    C. H. Lawrnce, Il monachesimo medievale-Forme di vita religiosa in occidente, Cinisello Balsamo, 1993

    San Colombano, Istruzione e Regola dei monaci, Seregno 1997

    T. Cahill, Come gli irlandesi salvarono la civiltà. La storia mai raccontata del ruolo eroico dell’Irlanda dal crollo romano alla nascita dell’Europa medievale, Roma 1997
    H. Absconditus, Dio è corazza dei forti-Testi del cristianesimo celtico (VI-X sec.), Rimini 1998

    P. Deseille, Il vangelo nel deserto, Qiqaion, 2000, pp. 109-114

    G. Iorio, Terra di san Patrizio, storia dell’Irlanda medievale, Rimini 2005

    J. J. O’ Riordain, I primi santi d’Irlanda – vite e spiritualità, Milano 2005

    AA.VV, San Colombano abate d’Europa, Forlì 2007

    M. Pacaut, Monaci e religiosi nel medioevo, Mulino, 2007

    O. Garbarino, La vicenda architettonica della chiesa dei ss. Giorgio e Andrea di Borzone e alcune riflessioni sui caratteri delle plebs militari longobarde in Monaci, milites e coloni, Genova, 2000

    D. Citi, Guida all’abbazia di Borzone, Genova 1994

  • 03 Feb

    Open Land Art 2009 a Borzone

    Open Land Art secondo quanto recita il titolo stesso, è “arte aperta”. In molti sensi: in primo luogo perché le opere sono distribuite all’interno di un ampio parco naturale, secondariamente perché la rassegna è veramente “aperta” a quanti hanno qualcosa di significativo da dire. Il visitatore si troverà confrontato non solo con le opere, ma anche con un luogo incontaminato e denso di storia, in cui il tempo sembra essersi fermato. L’ampio spazio in cui le opere saranno installate è un territorio vissuto, in cui il lavoro dei campi si intreccia, in modo sorprendente e naturale, con questa iniziativa che vuole mettere a contatto diretto artisti, operatori del mondo dell’arte e semplici appassionati dell’espressione umana. Nata con l’intento di rendere l’arte accessibile a tutti, la rassegna, che si estenderà in un territorio agricolo-boschivo di oltre 50.000 metri quadrati in Località Borzone, è ad ingresso gratuito e resterà aperta per tutta l’estate dal 26 luglio al 26 settembre. Open Land Art ha l’ambizione, come ben indicato nel titolo, di essere “arte aperta”: le modalità espressive degli artisti, che si troveranno ad interagire con gli ampi spazi del territorio e con una natura ancora estremamente fresca e incontaminata, saranno molto diversificate e rappresenteranno molte delle tendenze dell’arte contemporanea. La caratteristica del luogo è oltremodo importante poichè in questo luogo sorge l’antica e superba abbazia di Borzone. Qui i Bizantini eressero al tempo della “guerra gotica”, nella prima metà del VI sec., un baluardo difensivo sede di un distaccamento militare, a presidio di un itinerario transappenninico che dalla regione rivierasca conduceva in Val Padana. Quando e da chi sulle rovine della fortezza bizantina fu edificata la chiesa con annesso monastero col titolo di Sant’Andrea continua ad essere motivo di incertezza e discussione storica. Il documento che menziona per la prima volta il monastero di Borzone è una bolla del 1120 di papa Callisto II (1119-1124) che ne conferma il possesso all’Abbazia di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia, ma molti indizi inducono a ritenerlo di fondazione più antica.Se tali ipotesi corrispondono a verità, anche il suo assoggettamento alla ricca e potente abbazia di Pavia potrebbe risalire alle origini, nella prima metà dell’VIII sec., ad opera re longobardo Liutprando (712 – 744) L’abbazia stessa essendo opera d’arte indiscussa è l’emblema, il logo maestoso che indicherà l’inizio del percorso dove la plasticità delle forme dell’opera scultorea, sia essa di carattere figurativo o astratto, troveranno nel confronto con gli elementi di natura (tronchi secolari, distese di prati, zone boschive) un motivo ulteriore di espressione e di declinazione della propria presenza. Gli Artisti Sono complessivamente una decina gli artisti italiani ed europei che saranno presenti in mostra questa prima edizione (l’elenco definitivo sarà disponibile entro la metà di giugno). Concerto A segnare la cadenza della giornata di inaugurazione saranno proprio le campane dell’antica Abbazia che eseguiranno una sinfonia appositamente scritta per l’occasione e mai altrove presentata, dai compositori di musica contemporanea Philip Corner e Valerio R. Pizzorno .

  • 02 Feb

    La Via dei monaci

    di Pietra Martina

    Un antico itinerario percorso dai pellegrini valorizzato dalla Provincia di Genova

    Francesco Gambino

    In occasione del Giubileo del 2000 e nel quadro di una serie di iniziative volte a valorizzare il patrimonio culturale e storico del proprio territorio, la Provincia di Genova ha promosso, con l’iniziativa Sentieri della Memoria, la conoscenza e la valorizzazione di due percorsi utilizzati nell’antichità da pellegrini e viandanti. Lo ha fatto realizzando e distribuendo, con la collaborazione della sezione genovese dell’Associazione Italiana Cultura e Sport, un’originale brochure contraddistinta da un logo raffigurante un pellegrino in marcia e contenente: un passaporto da convalidare in appositi punti-tappa, la mappa del percorso e diverse schede con immagini a colori e notizie storico-artistiche. I punti più importanti del percorso sono stati poi segnalati con appositi cartelli informativi. L’invito era chiaro: stimolare cittadini e turisti a ripercorrere lento pede quelle antiche tracce e conoscere così località, beni storici e artistici spesso poco conosciuti.
    L’itinerario proposto si sviluppa nel levante del territorio provinciale e può essere considerato come una delle numerose diramazioni di quell’importante rete di vie di comunicazione costituita dalla Via Francigena, percorsa a partire dall’XI secolo da migliaia di pellegrini diretti a Roma.
    Fu in questo periodo infatti che si diffuse il pellegrinaggio verso i più importanti luoghi di culto della cristianità, con la nascita di importanti vie di comunicazione che dal nord Europa portavano verso il sepolcro di Cristo in Terra Santa, le tombe degli apostoli Pietro e Paolo a Roma e verso Santiago di Compostela in Galizia dove erano conservate le spoglie dell’apostolo Giacomo (Santiago in spagnolo). Su questi itinerari sorse una costellazione di chiese, monasteri, luoghi di sosta con hospitalis che costituiscono tuttora un immenso patrimonio di arte e cultura.
    Una delle direttrici più importanti era proprio la Via Francigena, così denominata perché attraversava la Francia nel suo lungo percorso da Canterbury verso Roma. In realtà, più che di una via, è forse più corretto parlare di un’area di transito, un insieme di itinerari che da nord convergevano a sud scavalcando le Alpi attraverso i valichi del Moncenisio e del Gran San Bernardo.
    La via dei monaci di Pietra Martina inizia nel territorio di Rezzoaglio, in Val d’Aveto, e giunge sulla costa a Chiavari, passando per i territori di Borzonasca, Mezzanego, San Colombano Certenoli, Carasco e Cogorno. Il suo itinerario originario saliva a Villa Cella da Rezzoaglio e proseguiva poi per il passo delle Rocche e, toccando le frazioni di Temossi e Caregli, scendeva direttamente a Borzonasca. Da qui giungeva poi a Chiavari passando per Carasco e la località di Ri.
    Il percorso prende il nome dalla località di Petramartina, dove nel 1103 frate Alberto e altri sette monaci benedettini del monastero di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia fondarono un piccolo cenobio dedicandolo a San Michele (sostituito nel 1655 con San Lorenzo). La piccola cella monastica fu collocata nella zona in cui oggi sorge il borgo di Villa Cella (da cui il toponimo), in prossimità del Passo delle Rocche, dove l’antica strada che da Rezzoaglio portava alla Valle Sturla e poi al litorale superava il crinale: ciò a dimostrazione dell’importanza di queste vie di transito appenniniche che da un lato portavano verso il pavese e dall’altro verso la Valle Sturla e la costa.
    L’insediamento monastico era compreso nel territorio della Corte di Alpepiana, anch’essa dipendente dal monastero pavese, verso il quale i monaci si erano impegnati a versare annualmente 20 soldi, 20 forme di formaggio e 20 libbre d’olio. Proprio la produzione dell’olio, ricavato da possedimenti terrieri sulle alture di Rapallo, dimostra i rapporti della cella con l’area costiera. Il fatto poi che Gerardo di Cogorno sia stato abate di Sancti Michaelis de Petramartina nel 1232 e successivamente del monastero di Sant’Andrea di Borzone nel 1244 conferma i collegamenti tra la Val d’Aveto e la Valle Sturla.
    L’insediamento religioso si caratterizzò non solo per l’attività di assistenza a pellegrini e viandanti, ma anche per quella relativa alla cura del territorio: agli stessi monaci benedettini sono attribuiti lo svuotamento e la bonifica del lago-palude che occupava la piana di Cabanne, un tempo feudo dei Della Cella, famiglia che si sostituì ai de Meleto ricoprendo un ruolo primario nel controllo dei traffici commerciali della zona.

    Punto di partenza dell’itinerario è Rezzoaglio, centro turistico dell’alta Val d’Aveto. Citato per la prima volta nel 1211 in un documento di permuta con la locale famiglia dei de Meleto, fu feudo dei Malaspina per investitura di Federico Barbarossa.

    Da qui l’itinerario originario saliva a Villa Cella, dove i resti dell’insediamento religioso fondato dai monaci pavesi sono ancora oggi riconoscibili anche se inglobati nella costruzione di un mulino ad acqua attivo fino al dopoguerra. Toccando poi le frazioni di Temossi e Caregli, scendeva direttamente a Borzonasca.
    Antico centro dell’alta Valle Sturla, Borzonasca conserva nel suo territorio uno dei più importanti complessi monastici medievali e una delle più antiche fondazioni benedettine della Liguria: l’abbazia di Sant’Andrea nella località di Borzone, lungo quell’importante via di comunicazione che collegava le antiche saline di Chiavari alla Val Padana. La sua fondazione trova origine nell’impulso del re longobardo Liutprando che, alla fine del VII secolo, affidò ai monaci di Bobbio la costruzione del monastero. L’abbazia fu eretta così nel 1184 dal benedettino Ugone della Volta ed è monumento nazionale dal 1910. La sua attuale struttura, con la caratteristica torre quadrata, risale alla ricostruzione avvenuta nel 1244 e che una lapide sulla parete est della torre attribuisce al già citato abate Gerardo di Cogorno.
    Nei pressi di Borzonasca, nella frazione di Levaggi, è possibile vedere l’Oratorio di N.S. del Perpetuo Soccorso che presenta tuttora le caratteristiche tipiche dell’hospitalis per pellegrini: portico ad ampie arcate e corpo centrale allungato per l’ospitalità e il riparo notturno, con il piano superiore probabilmente destinato al ristoro e alla degenza dei malati.
    La via dei pellegrini continua toccando le località di Borgonovo e Prati, entrambe frazioni di Mezzanego, centro abitato della valle Sturla che vanta nel suo territorio numerosi ponti medievali che, insieme agli ospedali, erano strutture fondamentali per il transito dei pellegrini. Spesso, nel Medioevo, lo stesso termine ponte aveva un significato più ampio di quello attuale, indicando un complesso di strutture ricettive situate accanto o nei pressi dello stesso ponte costruzione. Si ipotizza che una di queste strutture possa rinvenirsi proprio a Prati di Mezzanego dove un’antica costruzione in pietra fa corpo unico con il ponte costruito sul Rio Carnella.
    Proseguendo si entra nel territorio di San Colombano Certenoli, borgo cresciuto in epoca romana intorno al monastero benedettino intitolato proprio a San Colombano, il monaco irlandese fondatore nel 614 del monastero di Bobbio.
    Il tragitto tocca poi Carasco, centro di convergenza di diversi itinerari tra la riviera e la catena appenninica e importante nodo commerciale durante il Medioevo. Posseduto in parte dal monastero di San Giovanni di Pavia, Carasco conserva nelle sue frazioni numerose testimonianze di insediamenti religiosi. Poco prima del paese, situata sulla sponda sinistra del torrente Sturla, sorge la chiesa di Santa Maria di Sturla (detta di San Pellegrino) già citata in documenti risalenti al 1253. Nella località di Comorga sono rinvenibili invece i resti -di epoca anteriore al X secolo- di uno dei primi insediamenti bobbiesi della zona.
    Di rilievo è poi la Prioria di Graveglia, situata alla confluenza dell’omonimo torrente in una località che figurava già intorno al Mille su diplomi imperiali e bolle pontificie. Dal XIV al XVI secolo la giurisdizione su Graveglia fu affidata all’Abbazia di Borzone, retta dai monaci benedettini francesi di Clermont. Oltre Carasco, nella frazione di San Lazzaro, sorge l’omonima cappella con annesso hospitale fondata dalla famiglia dei Fieschi e ricordata nel testamento del cardinale Luca Fieschi del 1252.
    Una deviazione verso levante porta alla Basilica dei Fieschi nella località di San Salvatore di Cogorno, uno dei più importanti e meglio conservati monumenti romanico-gotici della Liguria fatto erigere nel 1245 da Sinibaldo Fieschi dei Conti di Lavagna (poi Papa Innocenzo IV) e ultimato dal nipote Cardinale Ottobono Fieschi, poi Papa Adriano V.
    Proseguendo in direzione del litorale e di Chiavari, l’itinerario tocca il luogo dove sorgeva l’antico borgo di Ri con la chiesa-ospedale di Maria Maddalena: i resti della pieve medievale sono ora incorporati in un abitazione privata. Nella zona, caratterizzata dalla presenza dell’Entella e ricordata anche da Dante nella Divina Commedia, erano presenti anche altre strutture religiose destinate all’assistenza dei viandanti come l’hospitale di San Cristoforo e, sulla collina che separa Chiavari da Zoagli, l’importante Santuario di Nostra Signora delle Grazie. Edificato alla fine del XIV secolo, l’edificio presenta in facciata il caratteristico porticato simbolo dell’antica funzione di ricovero e riparo.
    I numerosi edifici religiosi costituiscono un ricchissimo patrimonio architettonico e storico della stessa Chiavari, importante centro costiero del levante genovese di origini antichissime. Risale infatti al 1959 la scoperta di una necropoli protostorica, testimonianza della presenza di un insediamento organizzato sulle sponde del Rupinaro già 2700 anni fa. Nodo stradale in epoca romana, la cittadina è attraversata dai caratteristici porticati medievali.
    La sua chiesa più antica è quella di San Giacomo di Rupinaro, originaria del VII secolo, più volte distrutta e ricostruita. Il suo nome originario era San Giacomo dell’Arena, a conferma che prima del 1300 la località probabilmente si affacciava su una spiaggia e che il mare giungeva fin quasi ai piedi della collina. Poco distante sorgeva un altro edificio con funzioni di assistenza, l’hospitale di San Giacomo di Rupinaro: ulteriore testimonianza che queste località rappresentarono luoghi di transito su quei lunghi e faticosi itinerari percorsi dai pellegrini verso le loro mete devozionali.
    Queste vie divennero poi grandi arterie di comunicazione e favorirono la circolazione di uomini, conoscenze, idee e tradizioni, stimolando un fervido scambio culturale tra le genti d’Europa e lo sviluppo di traffici e relazioni commerciali.


  • 01 Feb

    Il Santuario della Madonna

    del Monte di Mulazzo (SP)

    e in monaci di Borzone


    ll santuario della Madonna del Monte risale al XII secolo quando i monaci benedettini dell’abbazia di Borzone crearono un priorato dedicato alla vergine. L’edificio, a 970 metri d’altezza, isolato da folti boschi, è in stile romanico. Il portico ed il campanile in fronte rimandano allo stile di alcune costruzioni francesi. All’interno, dietro l’altare è incisa sul muro la data del 1302, ritenuta da molti l’anno della fondazione, ma probabilmente data dell’ampliamento della cella benedettina. Altre due date sono presenti nel santuario: una del 1502 ai piedi di un bassorilievo raffigurante la Madonna col Bambino e un’altra del 1505 incisa sull’architrave della porta. I monaci vi rimasero fino all’inizio del XVI secolo e poi lo lasciarono, per tornare all’abbazia di Borzone, a sua volta venne abbandonata nel 1536. Nel 1548 il marchese Ottaviano Malaspina di Mulazzo ne divenne proprietario. Seguirono anni di incuria e di abbandono, fino al 1887, quando un decreto della S. Congregazione del Concilio diede il santuario, come cappellania, alla parrocchia di Pozzo. Negli ultimi tempi è stato ristrutturato il porticato romanico, l’interno, l’esterno e l’antica prioria.

    Il santurio della Madonna del Monte

  • 30 Gen

    Secondo la tradizione, il Volto megalitico sarebbe un’effigie di Cristo, scolpita,forse come ex voto, dai frati che un tempo abitavano l’Abbazia di Borzone, in ringraziamento per l’avvenuta cristianizzazione della vallata. A seguito dell’ abbandono del convento da parte dei frati, il volto fu sommerso dalla vegetazione e dimenticato. Oggi è stata avanzata l’ipotesi che la grande scultura si possa far risalire al paleolitico superiore, cioè ad un periodo variabile da 20.000 a 12.000 anni fa. Infatti sono state ravvisate notevoli somiglianze tra le tecniche di lavorazione ed il soggetto stesso di quest’opera da un lato, e molti menhir antropomorfi rinvenuti in varie località d’Europa ed appartenenti alla stesso periodo dall’altro. Qualunque sia la verità, essa resta un’opera grandiosa. La scultura è ben visibile dalla strada, poichè è stata ripulita e disboscata la parte anteriore della rupe. La vista del monumento desta una grande impressione, per le gigantesche dimensioni (circa m. 7 di altezza per 4 di larghezza, che ne fanno la scultura rupestre più grande d’Italia e forse d’Europa), per la collocazione incombente sull’osservatore e per la bellezza dei luoghi, in gran parte sfuggiti all’aggressività dell’uomo moderno. Il Volto megalitico è scolpito su di una rupe situata nel comune di Borzonasca, in provincia di Genova. Per giungervi, si lascia l’autostrada Genova-Livorno al casello di Lavagna e da qui si procede verso Carasco e poi Borgonovo. Si attraversa quindi il paese di Borzonasca e si seguono le indicazioni per l’Abbazia di Borzone(di epoca medievale, anch’essa merita una visita). Si giunge ad un bivio: a destra si arriva all’Abbazia, a sinistra si prosegue per il passo delle Rocche. Dopo poche minuti si arriva alla rupe. Bisogna prestare molta attenzione, perchè il Volto non si vede arrivando da questa direzione, ma è visibile dal lato opposto e attualmente vi sono, come unica indicazione, due piccoli segnali sbiaditi. Comunque la rupe si nota qualche minuto prima perchè spunta assai aspra dalla vegetazione. Alla base del monumento si può lasciare l’automobile. Il sentiero che porta alla base del volto richiede un’ascesa di 10 minuti, ma è molto aspro e non privo di pericoli, specialmente se accompagnati da bambini. Dalla sommità della rupe si ha un ampio panorama sulle vallate circostanti.

  • 29 Gen

    La chiesa o prioria di Sant’Eufemiano è un edificio religioso della frazione di Graveglia nel comune ligure di Carasco, nella val Fontanabuona in provincia di Genova. La comunità parrocchiale fa parte della diocesi di Chiavari. La chiesa fu costruita dai monaci colombaniani dell’abbazia di San Colombano di Bobbio, intitolandola al santo Eufemiano, nella frazione di Graveglia[1]. In zona vi era inoltre il monastero di Comorga, sempre gestito dagli stessi monaci che come prioria amministrava il territorio. Nel XIII secolo la proprietà delle terre di Graveglia passarono dai monaci di Bobbio ai Benedettini, subentrati ai colombaniani nell’abbazia di Sant’Andrea di Borzone (Borzonasca). La sua prioria fu data in commenda, all’inizio del XVI secolo, alla Santa Sede che con breve del 6 novembre 1519 concederà il patronato alla famiglia locale dei Ravaschieri. Eredita in seguito dalla famiglia Solari la curia arcivescovile di Genova decise di sospendere il giuspatronato familiare e, nel 1873, di conferire il beneficio priorale mediante un apposito concorso ecclesiastico. L’attuale chiesa fu eretta nel 1866 e consacrata il 12 maggio del 1868 dall’arcivescovo genovese monsignor Andrea Charvaz.


  • 28 Gen
    Eredità celtica all’Abbazia di Borzone?

    A Borzonasca, in provincia di Genova, singolari volti scolpiti nella roccia rimandano alla tradizione celtica di collocare guardiani simbolici per proteggere i luoghi sacri.

    Risalendo a nord ovest dell’Abbazia, in località Rocche, si incontra un singolare mascherone scolpito nella roccia, probabilmente con intenzioni protettive. La testa, dotata di capigliatura fluente e di un inconsueto copricapo sacerdotale, fa pensare a un contrassegno, volto a ribadire la sacertà del luogo e a difenderlo da energie negative e influenze perturbatrici.

    Ancora teste umane, questa volta di piccole dimensioni, compaiono in veste di guardiani anche sugli stipiti e sulle locali fontane. Non è inverosimile che si tratti di una tradizione ereditata dai Celti, che usavano conservare come amuleti e inchiodare sulla soglia le teste mozze dei nemici.

    Sempre nei dintorni, presso il rifugio Monte Aiona, in località Prato Molle, si può osservare una rara formazione geologica, forse un meteorite, che si racconta dotata di incredibili proprietà: infatti, devierebbe con forza l’ago della bussola e, se percossa, risuonerebbe come una campana.

    Laura Tuan

  • 27 Gen

    ABBAZIA DI BORZONE:

    IL REBUS DI BORZONE

    di Paolo Mira

    La storia dell’abbazia di Borzone inizia “ufficialmente” nel 1120 con una bolla di papa Callisto II, ma tanti sono gli indizi che fanno pensare a una sua origine molto più antica. Stiamo parlando dell’abbazia ligure di Sant’Andrea di Borzone, nei pressi di Lavagna. Dalla storia sappiamo che, nel luogo in cui sorge l’attuale complesso, i Bizantini eressero al tempo della “guerra gotica”, nella prima metà del VI secolo, un baluardo difensivo a presidio di un collegamento viario tra la riviera e la pianura Padana.
    Quando e da chi sulle rovine della fortezza bizantina fu edificata la chiesa di Sant’Andrea con l’annesso monastero continua a rimanere motivo di incertezza e discussione. Il primo documento scritto, infatti – come accennato – è la bolla pontificia del 1120, nella quale Callisto II confermava il possesso del cenobio di Borzone all’abbazia di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia.La tradizione locale indica il nostro monastero come fondazione dell’abbazia piacentina di San Colombano di Bobbio; tuttavia la mancanza di Borzone negli antichi documenti bobbiesi e la sua presenza nella bolla papale tra le dipendenze pervenute all’abbazia pavese – essa pure colombiniana per dotazione di re Liutprando – proporrebbero una retrodatazione della sua erezione forse alla prima metà dell’VIII secolo, a opera dello stesso re longobardo.
    Nella seconda metà del XII secolo, venuti a mancare i monaci colombiniani, l’arcivescovo di Genova Ugo della Volta nel 1184 decise di restaurare il complesso ormai cadente e chiamò la congregazione benedettina francese di “La Chaise Dieu”. Accettata la donazione i benedettini garantirono la loro presenza a Borzone fino agli esordi del XVI secolo. Nel 1535 l’abbazia divenne commenda, realtà che durò fino al 1847. Tra gli abati commendatari vi furono figure di spicco come il cardinale Michele Ghislieri, il futuro papa San Pio V. Dopo le soppressioni Borzone divenne chiesa parrocchiale, nel 1910 fu dichiarata monumento nazionale, mentre dal 2000 si sta procedendo a un delicato intervento di restauro dell’intero complesso, al fine di dare vita a una “Casa di Preghiera e Accoglienza”, un luogo dello spirito alla cui base stanno l’ascolto della Parola e la preghiera, l’accoglienza, il silenzio e la solitudine, l’essenzialità e la gratuità.
    “La chiesa abbaziale – spiega padre Attilio Fabris, responsabile della Casa di preghiera, oltre che profondo conoscitore della storia del cenobio – è un vero gioiello artistico e un monumento fra i più importanti del patrimonio storico e architettonico ligure. La muratura esterna e interna della facciata e dei fianchi corrisponde, con poche modifiche, a quella originaria, probabilmente dell’VIII-IX secolo, giocata sulla bicromia dei due materiali di costruzione impiegati – pietra e mattone – e sulle ritmate proporzioni del doppio ordine di arcatelle cieche, che ininterrottamente la percorrono, dando un’impressione di grande armonia e raffinatezza nonostante la povertà dei materiali”.L’austerità architettonica è ingentilita all’interno da opere di grande rilievo artistico. Al centro del presbiterio, vi è l’altare maggiore, opera in stucco risalente alla prima metà del XVIII secolo, sormontato da un grande crocifisso coevo, attribuito alla scuola del Maragliano, uno dei più importanti scultori in legno, donato all’abbazia dall’allora cardinale Spina, vescovo di Genova, in qualità di abate commendatario. Sul lato sinistro del presbiterio vi è, invece, un bel tabernacolo in ardesia datato il 1513. Pregevoli anche gli altari della navata: quello dedicato a Sant’Anna del 1755, con una statua seicentesca che la raffigura, e quello di Maria Vergine, commissionato nel 1644 dall’abate Gaspare Gazzolo, con una scultura in marmo raffigurante la Vergine con il Bambino.
    Nella parete absidale, era un tempo collocato – oggi al Museo Diocesano di Chiavari – un grande polittico, opera del pittore di origine milanese Carlo Braccesco, realizzato nel 1484.Accanto alla chiesa, sorge, infine, la possente torre campanaria che presenta una muratura di circa un metro di spessore; incastonata in essa si trova un’importante lapide, un tempo forse collocata all’interno della chiesa, che recita: “MCCXLIII abbas gerardus de cucurno natus fecit fieri has ecclesia et turrem”, certamente a documentare importanti lavori di ammodernamento voluti nel 1243 dall’abate Gerardo di Cogorno, nella medesima epoca di costruzione della vicina e famosa basilica di San Salvatore dei Fieschi a Lavagna.
    Per chi è disposto a un’ultima fatica, dopo aver ammirato il cipresso plurisecolare del sagrato, annoverato tra le piante monumentali della Liguria con i suoi cinque-sei secoli di vita, va segnalato il misterioso “Volto megalitico di Gesù Cristo”, in località Rocche di Borzone. Si tratta di un grande masso, scoperto nel 1965, che raffigura un volto umano dell’altezza di circa 7 metri.

    COME RAGGIUNGERE BORZONE

    L’abbazia di Sant’Andrea di Borzone si trova in Liguria e, più precisamente, in Val Sturla, nei pressi di Lavagna. E’ facilmente raggiungibile utilizzando l’autostrada Genova-Livorno, uscendo al casello Lavagna. Si prosegue, quindi, per 10 km in direzione Carasco-Borzonasca e giunti a Borzonasca, deviando a destra, con altri 3 km di strada si sale all’abbazia di Borzone. Quest’ultimo tratto è percorribile in auto, ma per i più volenterosi anche a piedi, in quanto i pullman sono impossibilitati a salire a causa delle misure ristrette della strada.
    Responsabile dell’abbazia e della “Casa di preghiera” Sant’Andrea è padre Attilio Fabris, che può essere contattato al numero
    0185.340056.
    Per ulteriori informazioni e approfondimenti storico-artistici è possibile consultare il sito: www.abbaziaborzone.it.


    Pubblicato su: “Segno”, mensile
    dell’Azione Cattolica Italiana

    n° 1 – Gennaio 2010

  • 26 Gen

    PROVINCIA DI GENOVA Piano Territoriale di Coordinamento

    DESCRIZIONE FONDATIVA Cap. 7 – GRADO DI STABILITA’ AMBIENT 81 ALE E SUSCETTIVITA’ ALLE TRASFORMAZIONI – Ambito 2.6

    Area : 2 – TIGULLIO

    Ambito : 2.6 – STURLA : Borzonasca, Mezzanego


    GRADO DI STABILITA’ AMBIENTALE E SUSCETTIVITA’ ALLE TRASFORMAZIONI

    Valori presenti sul territorio

    • SUOLO – Rappresentano valori le seguenti situazioni:

    − permeabilità del suolo : in corrispondenza delle terrazze fluviali dello Sturla e del T. Penna, laddove sono presenti alluvioni permeabili per porosità, ancorché in modo disomogeneo.

    • AMBIENTE – Rappresentano valori le seguenti situazioni:

    − generalizzata buona condizione dell’aria ;

    − buona qualità complessiva delle acque presenti nell’ambito, risultando assenti, o di modesta entità, le situazioni di compromissione ;

    − presenza di zone di protezione faunistica :

    − Zone di ripopolamento e cattura : “Monte Bozale” (Borzonasca), “Monte Aiona” (Borzonasca); “Monte Ramaceto” (Borzonasca) ;

    − Oasi faunistiche : “Monte Zatta” (Mezzanego, Borzonasca) ;

    − Foresta demaniale del Monte Penna;

    − Foresta demaniale di Monte Zatta, ubicata a ridosso della caratteristica cresta montuosa a doppia sommità, con una maggior estensione sui versanti meridionali (comune di Ne);

    − presenza del Parco naturale regionale dell’Aveto.

    • INFRASTRUTTURE – Rappresentano valori le seguenti situazioni:

    − Nell’ambito si rileva la presenza di molte percorrenze con valenza turistica :

    − Strada Provinciale n. 26bis e 27 della Valmogliana e di Cassego. La strada del Bocco ha un’evidente funzione di itinerario turistico, struttura di accesso ad escursioni montane e ad attività di fruizione del tempo libero sul territorio;

    − Strada Provinciale n. 49 di Sopralacroce. Anche in questo caso la specializzazione prevalente è quella turistica, rivolta sia agli insediamenti di Perlezzi, Prato, Zanoni, Vallepiana, Belvedere, per i quali svolge un supporto di percorso residenziale, sia per le diramazioni di itinerari escursionistici verso il Bocco da una parte e verso le catene montane dell’Aiona e del Penna dall’altra;

    − Strada di Giacopiane. La strada che conduce al lago di Giacopiane fornisce diversi spunti per la fruizione turistica, dal breve anello di Gazzolo, al vivaio forestale, al passaggio in quota attorno al monte Bregaceto, all’anello viario che circonda l’invaso del lago.

    • SERVIZI – Rappresentano valori le seguenti situazioni:

    − Presenza delle strutture turistiche interne al parco dell’Aveto;

    Polarità dell’importante testimonianza storico architettonica dell’Abbazia di Sant’Andrea di Borzone.

    • INSEDIATIVO – Rappresentano valori le seguenti situazioni:

    Sistema insediativo urbano

    − nuclei urbani storici, a Borzonasca e Borgonovo, in quanto espressivi, per l’organizzazione dell’edificazione e per le relative tipologie edilizie, della fase più avanzata e matura dell’organizzazione del sistema insediativo presente nell’ambito;

    − aree libere nel sistema urbano, a Borgonovo di Mezzanego, costituite dalle due piane agrarie poste in sponda destra dello Sturla, in quanto concorrono a delimitare il passaggio dal territorio rurale del versante esposto ad est e quello urbanizzato;

    Sistema Insediativo rurale

    − nuclei rurali ed insediamenti frazionali, in quanto espressione del sistema insediativo originario di mezzacosta, specie nei nuclei storici di Perlezzi, Prato Sopra la Croce, Zanoni, Vellepiana, Belvedere e con il nucleo di Borzone;

    − territorio rurale in generale, per la rilevante partecipazione alla definizione dei quadranti paesistici e la conservazione della sua identità ed organizzazione territoriale, ed in particolare, negli ambiti che circondano i nuclei e gli aggregati storici in quanto elemento essenziale per la leggibilità dell’organizzazione agraria, nel versante a ponente dello Sturla, dalla località di Levaggi – La Costa sino ad Acero, nella valle di Borzone e nel ventaglio dell’alta Val Penna, a monte di Prato Sopra la Croce, Zanoni e Belvedere;

    Sistema naturalistico

    − territorio non insediato, specie quello compreso nel Parco dell’Aveto e segnalandosi, in particolare, la faggeta del M.te Zatta con l’insediamento della Fondazione Devoto.

    • PAESAGGIO – Rappresentano valori le seguenti situazioni:

    − aree agrarie o terrazzate in ambito urbano ed a margine, a Mezzanego, le piane alluvionali nel fondovalle del T. Sturla, in sponda destra tra Campovecchio e Borgonovo, utilizzate per colture agrarie;

    − edifici specialistici dismessi di valore paesistico : a Borzonasca, la Malga di Zanoni ed il fabbricato ex Albergo Passo del Bocco a Mezzanego, la Fondazione Devoto a Giaiette, il fabbricato ex albergo sul Passo del Bocco, l’edificio produttivo ex fabbrica nocciole a Prati, in prossimità del ponte romano, l’antica Fornace sulla SS 586;

    − manufatti emergenti reali e virtuali (P.T.C.P. e relativi Studi Propedeutici);

    − Aree protette regionali : l’ambito fa parte del Sistema di Aree di Interesse naturalistico – ambientale dell’Aveto

    (L.R.50/89 e L.R.12/95);

    − situazioni naturalistiche, morfologiche e geomorfologiche di particolare rilievo : zone umide montane in regione Gasparelle, Moglia Grande, Pascoli di Per lezzi; siti rocciosi di interesse naturalistico del crinale Valle Sturla – Valli Nure e Taro, le Comunaglie e le foreste frazionali (faggete) del M. Ramaceto, elementi emergenti sono le dorsali principali costituite dagli spartiacque con il T. Aveto a nord, con il Taro ad est, con il T. Lavagna ad ovest, e dai crinali secondari all’interno del bacino dello Sturla ; i sistemi di vette, con le vette più elevate ed incombenti dei M. Aiona (1701 mt) e M. Penna (1735 mt), ma anche i M. degli Abeti (1542 mt), M. Bocco (1084 mt), i passi e valichi, fra tutti il Passo della Forcella (875 mt), le foreste del Bregaceto, le faggete sopra Giaiette, i laghi Malanotte e Giacopiane, le praterie e piane in quota, la zona umida di Prato Mollo;

    − vincolo paesistico ambientale : il territorio dell’ambito in questione presenta vaste aree, in particolare quelle caratterizzate dal valore della montagna appenninica, (zone verdi, specie endemiche rare, configurazioni morfologiche, valli, corsi d’acqua) interessate da vincoli paesistico – ambientali ; nel complesso, quindi, l’ambito risulta adeguatamente tutelato, dovendosi riconoscere che le motivazioni originarie risultano in gran parte ancora coerente con lo stato del territorio.

    • SOCIO ECONOMICO – TURISMO – Si evidenziano i seguenti valori :

    a livello di ambito

    − Facilità di accesso dalla fascia costiera;

    − Presenza di pregi ambientali e storico culturali significativi ai fini del turismo, con particolare riferimento al territorio compreso nel Parco naturale dell’Aveto;

    − Presenza di nuove piccole strutture ricettive in fase di realizzazione.

    a livello di Comune :

    − a Borzonasca : Elevata estensione territoriale con bassa densità di popolazione ; presenza di pregi ambientali e storico – culturali (Abbazia di Sant’Andrea di Borzone);

    − a Mezzanego : Popolazione residente in lieve crescita ; presenza di un significativo territorio agrario su fasce coltivate a noccioleti ; presenza nel passato di una intensa attività di lavorazione del legname, di cui rimane una segheria (dismessa) ; facilità di accesso dalla fascia costiera.

    SITUAZIONI DI CRITICITA’

    • SUOLO – Rappresentano fattori di criticità le seguenti situazioni:

    − fenomeni di rischio idraulico :

    − T. Sturla, in corrispondenza delle aree fluviali contigue al corso d’acqua principale situate

    prevalentemente in sponda sinistra immediatamente a monte (località Chiesola) e di alcune porzioni in comune di Mezzanego ;

    − fenomeni di instabilità diffusa, particolarmente rilevante in corrispondenza dei nuclei di Prato Sopralacroce e Bertigaro;

    − condizione di bassa permeabilità, diffusa su Borzonasca, presente prevalentemente nei versanti del T. Penna.

    • AMBIENTE – Rappresentano fattori di criticità le seguenti situazioni:

    − presenza di inquinamento atmosferico, di origine prevalentemente domestica, nelle aree urbanizzate di fondovalle dello Sturla in corrispondenza delle località Prati e Borgonovo di Mezzanego ;

    − inquinamento di tipo atmosferico (polveri sospese) e di tipo acustico, a carattere puntuale, in corrispondenza degli ambiti di cava in attività (in particolare la Cava di Pietra, ubicata nel fondovalle presso confine con il comune di Carasco) ;

    − lieve inquinamento del tratto del T. Sturla compreso tra il centro urbano di Borzonasca e il confine con il comune di Carasco ;

    − prevalenza degli scarichi civili rispetto agli scarichi di pubblica fognatura nei territori di entrambi i comuni, ma più rilevante in Mezzanego, in ragione della presenza di un sistema insediativo connotato da una elevata “dispersione” territoriale.

    • INFRASTRUTTURE – Rappresentano fattori di criticità le seguenti situazioni:

    − gli attraversamenti dei centri di Prati, Borgonovo e Borzonasca dell’asse portante del sistema infrastrutturale dell’ambito, costituito dalla SS n. 586 dell’Aveto, che percorre l’intero fondovalle dello Sturla e risale poi fino al valico della Forcella per entrare nella valle dell’Aveto, in ragione della insufficienza e dell’inadeguatezza del tracciato rispetto alla duplice funzione urbana e territoriale che ivi viene ad assumere.

    • SERVIZI – Rappresentano fattori di criticità le seguenti situazioni:

    − l’attuale scarsa dotazione di servizi territoriali che può costituire un elemento di debolezza in relazione al

    progressivo accrescimento di peso del polo di Carasco;

    la carenza di attrezzature a servizio della viabilità turistica in un ambito prevalentemente caratterizzato da valori naturalistici e paesistici, quali laghi, foreste demaniali, zone umide, testimonianze storico architettoniche (l’Abbazia di Sant’Andrea di Borzone), contesti rurali tradizionali, malghe, ecc.;

    − la mancata valorizzazione della Colonia del M. Zatta, situata in territorio comunale di Mezzanego in una zona di notevole interesse naturalistico (Oasi faunistica e Parco Regionale).

    • INSEDIATIVO – Rappresentano fattori di criticità le seguenti situazioni:

    − La pressione che può essere esercitata sulle aree rurali libere presenti nel fondovalle, attorno ai centri di Borzonasca, Borgonovo e Prati di Mezzanego, tendente alla loro utilizzazione a fini edificatori;

    − La criticità dell’assetto degli insediamenti produttivi nella zona di Costa del Canale, ove la riorganizzazione funzionale e la riqualificazione paesistica sono condizioni indispensabili per lo sfruttamento delle risorse spaziali ancora disponibili;

    − L’inadeguatezza della rete viaria di impianto territoriale secondario, costituita prevalentemente dalle strade provinciali che innervano e permettono l’accessibilità al vasto territorio rurale, dovendosi segnalare, in particolare, la situazione di insufficienza della viabilità comunale lungo la direttrice Borzonasca, Levaggi, Belpiano, Acero e Passo della Forcella;

    − I punti di insufficienza e pericolosità della SS 586, in corrispondenza della località di Vignolo Piano e dell’attraversamento di Borgonovo.

    • PAESAGGIO – Rappresentano fattori di criticità le seguenti situazioni:

    − infrastrutture di rilevante impatto ambientale : a Borzonasca, la diga e relative sistemazioni d’area dell’invaso artificiale di Giacopiane e dell’invaso in prossimità del Passo del Bocco;

    − artificializzazioni degli ambiti fluviali : a Borzonasca, le opere collegate al Lago Giacopiane (T. Calandrino) e gli attraversamenti e le situazioni di disordine nel T. Sturla, in prossimità dei centri edificati ; a Mezzanego, le opere di copertura e sistemazioni improprie delle sponde del T. Sturla verso lo sbocco nel T. Entella;

    − elettrodotti : la rete attraversa il territorio dell’ambito longitudinalmente da Mezzanego a Borzonasca capoluogo, lungo il fondovalle del T. Sturla, e trasversalmente il Comune di Borzonasca dal Capoluogo fino all’isola amministrativa di Giaiette;

    − cave, discariche, riempimenti : a Borzonasca, il Frantoio alta Val di Taro e la cava in località Belvedere di Sopralacroce ; a Mezzanego, la cava di pietra e frantoio, la cava di Costa del Canale, la cava di arenaria in costa di Cicana;

    carenze nella tutela paesistico ambientale : la zona dell’Abbazia di Borzone non risulta adeguatamente tutelata, non sussistendo vincoli di tipo specifico di cui alla L. 1497/39 e s.m.i., che evidenzi, con l’imposizione di un vincolo non generico, la presenza di un bene che integra valori vegetazionali e costruiti, ed il contesto a contorno della stessa.

    • SOCIO ECONOMICO – TURISMO – Si evidenziano i seguenti fattori di criticità :

    a livello di ambito

    − Pendolarismo verso la fascia costiera;

    − Scarsa iimprenditorialità e specializzazione turistica;

    − Difficoltà di mobilità e conseguente isolamento della popolazione nelle parti alte del territorio.

    a livello di Comune

    − a Borzonasca : l’incidenza della popolazione anziana e la scarsa specializzazione turistica;

    − a Mezzanego : la scarsa presenza di mentalità turistica e lo spiccato pendolarismo verso la fascia costiera.

  • 26 Gen

    Il Volto Megalitico di Borzone

    di Jonathan Ferroni

    Una delle opere più importanti ed enigmatiche della storia ligure si trova a Borzone, comune di Borzonasca, nell’alta Valle Sturla. Il borgo, raccolto intorno ad un’abbazia del X secolo intitolata a S. Andrea, è poco più che un pugno di case. La strada, malagevole e stretta, si snoda per gli ameni dintorni tra boschi, torrenti e speroni di roccia. Ed è proprio una di quelle aspre rocce che ospita un grande tesoro della preistoria ligure. Si tratta di una colossale effige, scolpita nella dura pietra, che raffigura evidentemente i tratti di un volto umano. L’opera, alta più di sette metri e larga circa quattro, si staglia sopra la strada che collega con Borzone lo sperduto borgo di Zolezzi. L’effige, infatti, fu scoperta nel 1965 da un assessore della provincia di Genova, il quale si trovava in loco proprio per effettuare un sopralluogo della strada, allora in fase di costruzione. Il gigantesco volto presenta sicuramente i tratti fondamentali del viso umano: occhi, naso, mento, una sorta di busto e qualcosa sul lato destro che alcuni dicono essere capelli ma che, a mio parere, vuole rappresentare un orecchio. Dopo la “scoperta” del colosso, si venne a sapere che gli indigeni lo conoscevano già e che ci vedevano il volto di Cristo, la cui costruzione era attribuita ai monaci che un tempo abitavano l’abbazia di S. Andrea, in funzione di ex voto. A tutt’oggi, la scarsa segnaletica locale lo indica come “Volto di Cristo megalitico”. Tuttavia, visitando il sito, si comprende come quest’ipotesi sia infondata, sia per la posizione e per l’orientamento, sia per la tipologia di lavorazione dell’opera. La lavorazione è, infatti, molto primitiva e i tratti somatici sono resi solo rozzamente, scevri di particolari o caratteri individualizzanti. Anche la posizione del volto, non visibile da Borzone o dall’Abbazia e posizionato “di spalle” a entrambi, non fa certo pensare ad una pia opera di monaci. La conservazione del manufatto, infine, lascia pensare che esso sia veramente molto più antico di quanto la memoria orale cristianizzata ricordi. Alcuni studiosi, infatti, lo avrebbero datato al Paleolitico Superiore (20000 – 12000 a.C.), trovando una compatibilità con le tecniche di lavorazione di quell’epoca. L’ipotesi, assai affascinante, si sta facendo largo, pian piano, tra quei pochi che si sono interessati al Volto. Si tratta sicuramente di un’ipotesi fondata anche se, per ora, indimostrabile poiché, come al solito, l’archeologia ufficiale non si è minimamente interessata a condurre ricerche in questo senso. Un’opera di questo calibro trova al mondo soltanto due simili, uno in sicilia, a Petralia Sottana, dove sono state identificate titaniche sculture su pareti di roccia viva e l’altro agli antipodi, in Nuova Zelanda, chiamato Colosso di Whangape. Il Volto di Borzone è stato ricavato in uno sperone di roccia, sul lato nord, tramite l’asportazione di materiale. Il naso, il mento e l’orecchio, infatti, sono stati rappresentati in rilievo, eliminando il materiale intorno. Stessa cosa vale per l’occhio destro, mentre il sinistro appare in negativo, cioè concavo; l’effige appare priva di bocca. Sotto al mento si nota, invece, una prosecuzione della lavorazione, forse per rappresentare una sorta di busto o petto che, comunque, apparirebbe molto sproporzionato rispetto alla testa. Di fianco al mento, sulla sinistra, potrebbe esserci un altro nucleo iconico scolpito, che appare in rilievo, anche se è difficile comprendere cosa rappresenti e di che natura sia. Anche in basso, poco sotto il “busto”, potrebbe esserci una parte lavorata dall’uomo, che spicca per la sua convessità ma, anche in questo caso, è arduo ipotizzare un’interpretazione. Sulla sinistra dell’opera, invece, è possibile osservare un ampio distacco del blocco roccioso su cui essa è scolpita, rispetto alla roccia madre. Questo fenomeno ha dato origine ad una fessura che si collega con il retro, attraverso cui filtra la luce, che alcuni hanno interpretato come un tentativo di tridimensionalità o, almeno, di prosecuzione della scultura. Personalmente, non sono d’accordo con questa ipotesi in quanto il fenomeno appare del tutto naturale e, inoltre, la situazione geologica potrebbe essere stata ben diversa nel Paleolitico. Direi che si potrebbe dividere l’opera in diverse parti: 1. La linea del volto, che definisce il mento e arriva fino alle tempie, disperdendosi poi nella roccia grezza sopra gli occhi, delineando una ampia fronte 2. Gli occhi, di cui il sinistro in negativo e il destro in rilievo 3. Il naso e la linea delle sopracciglia 4. L’orecchio 5. Il “busto” o comunque la lavorazione sottostante il mento 6. La scolpitura alla sinistra del mento, di dubbia natura 7. La scolpitura sotto al “busto”, anch’essa di dubbia natura Si noti, inoltre, che il Volto è segnato da due vistose scanalature orizzontali, forse di origine erosiva, poste a sinistra del naso. L’azione erosiva frontale è evidente e, forse, potrebbe aver cancellato una lavorazione della bocca, originariamente esistente. È assai arduo dare una interpretazione all’effige, affermare se si tratti di un volto maschile o femminile. I tratti sono essenziali, manca qualsiasi segno di espressività e caratterizzazione. È stato supposto, come sempre, che si tratti del volto di una divinità, anche se tale ipotesi è del tutto opinabile. Potrebbe trattarsi di un volto apotropaico, come i tanti – di più ridotte dimensioni – che si possono osservare in molti borghi della Liguria. Potrebbe essere legato a funzioni funerarie, potrebbe essere molte altre cose. I termini di paragone mancano del tutto e gli studi sono ancora agli albori. In ogni caso, credo non sia illogico affermare che, verosimilmente, il Volto doveva essere visibile dal luogo di insediamento dei suoi creatori e forse il suo sguardo doveva vegliare proprio sulla comunità. Se questo è vero, allora l’accampamento paleolitico a cui appartenevano i creatori del Volto doveva trovarsi dove oggi si trovano gli abitati di Perlezzi e Sopralacroce. In ogni caso, la zona è ricca di grotte ed anfratti naturali ancora inesplorati che, forse, custodiscono tracce preziose del passato. Attualmente, il Volto è sconosciuto alla maggior parte delle persone. Ciò è dovuto all’assoluta mancanza di interesse da parte delle istituzioni locali a pubblicizzarne l’esistenza. A monte di questo, credo ci sia una mancanza di coscienza del patrimonio nostrano che, in questo modo, non viene riconosciuto e, quindi, valorizzato. Cosa piuttosto triste se pensiamo che il Volto Megalitico di Borzone è la più grande scultura rupestre d’Europa e, forse, del Mondo.

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