• 20 Set

    Chi non è contro di voi è per voi  Lc 9,49-50

     di p. Attilio Franco Fabris

    Sempre nell’ottica dell’autoaffermazione vediamo ancora i discepoli impegnati a porre rigidi confini che divengono vera e propria intolleranza per quelli che stanno “al di fuori” della loro cerchia.

    Se nel brano precedente Gesù si identifica con il bimbo, il “più piccolo”, ora si identifica con l’anonimo emarginato dalla comunità. Così dopo aver smascherato il delirio di grandezza del singolo discepolo, ora intende smascherare quello dell’intera comunità.

    Al mistero di Dio che si fa il “più piccolo” mettendosi al servizio di tutti, svuotando se stesso, corrisponde l’egoismo dell’uomo che si gonfia  e mette il proprio io o il noi al di sopra di tutti operando separazioni e divisioni.

    Ciò che vale per il discepolo che ricerca il modo per essere “il più grande” ma vale anche per la la Chiesa, la comunità dei discepoli.

    Questa per essere fedele al suo Signore deve continuamente rinnegare se stessa, il “noi” e farsi piccola. Perché il “noi” rischia sempre di voler sostituirsi al Signore nella ricerca della propria grandezza e del proprio potere. Si potrebbe parlare di un peccato di… ecclesiolatria! Un peccato che distrugge la chiesa stessa, perché il “noi” che vuole separarsi dall’ “altro” in forza propria, esclude noi dalla comunione con il Signore.

    La comunità dei discepoli corre sempre il pericolo di diventare un “noi” centrato su di sé, invece che sul Signore da seguire. La conseguenza è questo “noi” diviene una solidarietà aggressiva, dettata dalla paura e dal voler difendere il proprio nome che si forma escludendo altri.

    Il testo esclude categoricamente il “noi” come fondamento della Chiesa: “nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” (1Cor 3,11).

    Altrove Gesù affermerà che: Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde (11,23), così che la discriminante per essere chiesa è l’essere “con lui”  e  non l’essere “con noi” riferito alla Chiesa. La Chiesa non preesiste a Cristo e neppure lo sostituisce. Essa non può mai identificarsi con Cristo, anche se Cristo si identifica con essa. Il Signore trascende sempre la stessa Chiesa e in questo modo fa sì che essa rimanga aperta e nella tensione continua che la fa abbracciare tutti, perché in tutti vede dei fratelli.

    Il rischio è sempre quello di stravolgere il rapporto di fede per cui il Signore è ridotto a strumento in funzione del “noi” ecclesiale! Per questo c’è chi fa parte della chiesa visibile ma non di quella invisibile, come c’è chi fa parte della quella invisibile e non di quella visibile.

    Essa è veramente cattolica quando non esclude nessuno e rispetta la libertà di tutti. Ogni diversità allora non solo è tollerata, ma considerata positiva (1Cor 12) perché l’ unità della Chiesa non è un modello socio-culturale-politico o una spartizione di potere, ma è il nome di Gesù che è stato escluso da ogni potere.

    La Chiesa è la sposa che si prepara alla nozze con l’Agnello, ed è necessariamente una, ma essa ha la prerogativa di un destino universale per cui la comunità non pretende che gli altri la seguono (“non segue noi!” v. 49) ma che tutti seguano il Signore.

    v. 49   I discepoli si sono sforzati nel voler impedire che un estraneo al gruppo potesse compiere esorcismi nel nome di Gesù. Ci troviamo in una situazione similare alla precedente. I discepoli devono imparare ad acquisire una mentalità accogliente.[1]

    Le parole di Giovanni sono l’immediata risposta a quanto Gesù ha detto circa l’accoglienza del “più piccolo” fatta “nel suo nome”. Siamo nella linea della più netta incomprensione (cf v.45) che esprime un atteggiamento diametralmente opposto a quello del Signore.

    Maestro abbiamo visto uno scacciare i demoni”: la vittoria sul male è lo scopo della missione di Gesù e della Chiesa. Ed è solo in forza nel nome di Gesù che il male può essere sconfitto, non in forza del proprio (cf At 19,15: Alcuni esorcisti ambulanti giudei si provarono a invocare anch’essi il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi, dicendo: «Vi scongiuro per quel Gesù che Paolo predica». Facevano questo sette figli di un certo Sceva, un sommo sacerdote giudeo. Ma lo spirito cattivo rispose loro: «Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?»).

    nel tuo nome”: (cf v. 48) è nel nome di Gesù che è possibile accogliere la diversità dell’altro, ponendosi a servizio del “più piccolo”.

    e lo impedivamo”: è un imperfetto che indica un tentativo ripetuto e non riuscito. Invano la comunità vuol impedire l’opera di salvezza di questo discepolo anonimo ed escluso, e per fare questo cerca l’avvallo di Gesù. Ciò dimostra che ai discepoli non sta a cuore tanto la salvezza dei fratelli, quanto l’affermazione di se stessi e l’esclusiva dell’appoggio del Signore. Non interessa loro tanto la liberazione dal male, quanto paradossalmente la sua affermazione.

    perché non segue noi”: ciò che sta a cuore ai discepoli non è seguire Gesù ed essere con lui. Infatti Gesù non è neppure nominato con pronome (non potevano dire: “Non ti segue con noi”?). La formula indica un orgoglio collettivo tanto disastroso come quello individuale. Tale orgoglio cerca invece del bene dei fratelli l’affermazione del “noi” mediante l’esclusione degli altri.

    Un tale atteggiamento arriva all’aberrazione del Gott mit uns servendosi di Dio per esaltare se stessi, e si può arrivare a questo pensando di agire giustamente! Questo accade ogni qual volta la comunità cristiana pone al centro se stessa invece di Cristo piccolo ed escluso.

    È il capovolgimento radicale della fede, quasi che noi non dovessimo seguire lui ma lui seguire noi facendosi garante dei nostri interessi di parte (Cf 1Sam 4,3: Quando il popolo fu rientrato nell’accampamento, gli anziani d’Israele si chiesero: «Perché ci ha percossi oggi il Signore di fronte ai Filistei? Andiamo a prenderci l’arca del Signore a Silo, perché venga in mezzo a noi e ci liberi dalle mani dei nostri nemici»).

    Ovunque la comunità dei discepoli impedisca il bene o esclusa qualcuno, essa cade nel peccato di non voler seguire il Signore Gesù bensì che lui “segua” lei.

    v. 50 La risposta di Gesù si oppone  decisamente all’intenzione discriminatoria dei discepoli: non impedite!. Ed egli motiva tale posizione con un proverbio: Chi non è contro di voi è per voi! (In Mc è alla prima persona plurale “noi”; Lc pone l’accento sulla comunità).[2]

    Emerge la convinzione dell’evangelista che il Risorto è efficacemente presente anche al di fuori dei canali istituiti dalla Chiesa.[3]

    “non glielo impedite”: questo atteggiamento del “noi” è un impedimento a vincere il maligno, anzi fa fare alleanza con lui (cf Mc 8,32s).

    Se Gesù si è fatto piccolo ed escluso per accogliere e includere tutti, anche noi dobbiamo lasciare ogni ricerca di potere e di grandezza personale e comunitaria per non escludere nessuno. Bisogna bandire ogni autoesaltazione tanto personale che comunitaria, superare ogni forma di associazionismo, di ghetto, di partitismo che ha come centro di aggregazione il “noi” e si cementa solo in quanto riconosce negli altri dei nemici e concorrenti. È una solidarietà negativa che, per essere tale ha bisogno di mettersi “contro” gli altri.

    Chi non è contro di voi è per voi”: Gesù prende le distanze da questo “noi” e si allontana da una tale comunità: non tollera essere chiamato “noi” e non si include con loro: li chiama “voi”. Gesù non può identificarsi con chi esclude qualcuno!

    Questa parola di Gesù non indica semplicemente una tolleranza illimitata. Essa invece indica la direzione per leggere la vera cattolicità della Chiesa che è chiamata ad allargare la cerchia di coloro che seguono Cristo, abbracciando tutti, nessuno escluso. Solo allora Gesù potrà dire “noi” perché si sentirà incluso anche lui che si è fatto l’ultimo di tutti. Allora sarà il Regno, le nozze con la Sposa!

    Una cattolicità fondata sull’unico Padre dell’unico Signore di tuttiche è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,6). È un’unità che rispetta la libertà, che non impone nessun giogo a nessuno e tende a formare un corpo con tutte le sue differenziazioni e nel rispetto reciproco.

    Quindi il termine dell’unità non è il “noi” dei discepoli, ma l’ “io” di Cristo, unico Signore: è lui che si deve seguire ed è “con lui” che bisogna stare.

    Da ciò si comprende che le difficoltà all’interno e all’esterno della comunità sono sempre dovute dalla ricerca dell’autoaffermazione dell’io (vv 46-48) e del noi (vv 49-50). Queste difficoltà si risolvono ponendo sempre e solo al centro il nome del Signore.

    L’appartenenza al “noi” visibile non è dato dal “seguire con noI”, ma dal seguire l’unico Signore e operare insieme a lui vincendo il male. Non la Chiesa fa il Cristo, ma è il Cristo che fa la Chiesa. E la Chiesa forma un “noi” definibile e visibile, voluto dal Signore, ma che deve sempre restare aperto e centrifugo: perché la sua essenza è fuori di lei.

    La tensione tra libertà e istituzione è inevitabile ed è un bene, perché il “noi” resti proteso ad accogliere il diverso e si mantenga insieme uno e diffrenziato. Questa unità nell’amore esige e sopporta tanta diversità e pluralismo quanto è stretto il vincolo di amore all’unico Signore.

    Il cap. 9 iniziava con il mandato dei discepoli di cacciar dei demoni (v.1). Ora come conclusione della sezione si termina ricordando a questi stessi discepoli che il Signore può agire anche fuori di tale potere istituito: l’importante è che ne gioiscano senza temere la concorrenza: Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. Questi lo fanno per amore, sapendo che sono stato posto per la difesa del vangelo; quelli invece predicano Cristo con spirito di rivalità, con intenzioni non pure, pensando di aggiungere dolore alle mie catene. Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene. (Fil 1,15-18).

    Piste di meditazione

    C’è sempre il rischio di anteporre il “noi” a Cristo, nella ricerca di un’autoaffermazione che dimentica il nostro essere costruiti su di un unico fondamento che è Cristo.

    È lui che dobbiamo seguire, e il nostro “noi” si radica solo nel suo “io”. Ogni qualvolta dimentichiamo questo stravolgiamo la realtà e il dinamismo della comunità.

    Gesù invita la comunità a permanere in un atteggiamento fondamentale di accoglienza e di stima nei confronti di tutti: nessuno è escluso dal suo abbraccio. Solo in questo modo rimane fedele al suo Signore che si è fatto il più piccolo e il più ultimo affinché il nostro abbraccio non lasciasse fuori nessuno.



    [1] Chiaramente sottostante è un problema pastorale serio: quanto valore ha un’attività svolta “nel nome di Gesù” al di fuori della comunità cristiana? (Fli 1,15).

    [2] Il riferimento storico del proverbio sembra risalire alla guerra civile tra Pompeo e Cesare (I sec a.C.). Le due frasi sono riportate da Cicerone.

    [3] Luca vuol vedere una mentalità di accoglienza richiesta nei rapporti fra i credenti estesa anche allo straniero, a quelli che benché non cristiani, agiscono come persone che sono “vicine al Regno di Dio” (anche se non può essere letto isolatamente come abolizione di ogni distinzione!).

     

  • 23 Ago
    1. Li farà mettere a tavola e passerà a servirli

    Luca 12,35ss.

     

    L’indicazione al versetto 35 del cap.12 di Luca è: “Siano i vostri fianchi cinti e le lampade accese”. Questa espressione la ritroviamo nelle indicazioni che Mosè dà per la prima Pasqua: “Ecco in quale modo mangerete, con i fianchi cinti, pronti per la partenza, e i sandali ai piedi, il bastone in mano. Lo mangerete in fretta. E’ la Pasqua del Signore”.  Cosa significa  “cingere i fianchi”? A quell’epoca l’indumento degli uomini era una lunga tunica, ma quando si doveva lavorare o quando si doveva partire per un viaggio, questa tunica era di impaccio, arrivava infatti fino ai piedi, allora cosa si faceva? Si prendeva il lembo della tunica, la si raccoglieva e la si metteva nella cinta ai fianchi, di modo che ci fosse più agilità di movimento. Per cui “cingere i fianchiindica un atteggiamento di servizio – erano i servi che avevano i fianchi cinti per essere sempre pronti al servizio – e di cammino verso una meta.

    La caratteristica che allora Gesù chiede ai discepoli è di avere un atteggiamento abituale di servizio, e di prontezza nel mettersi in cammino dietro di lui verso la pienezza della liberazione.

    Servire significa nutrire, rafforzare, comunicare vita: e questa è un’immagine dell’eucaristia, bellissima, che abbiamo nel vangelo di Luca, confermata dalle parole di Gesù, durante l’ultima cena.

    Abbiamo poi l’immagine delle lampade accese. Perché queste lampade accese? Anche questa è un’indicazione che troviamo nel libro dell’Esodo. Si richiedeva che nella tenda dove si pensava ci fosse la presenza del Signore, ci fosse sempre una lampada accesa[1]. Ebbene con questo invito l’evangelista ci sta dicendo che la comunità di Gesù è il nuovo santuario dove si manifesta e si irradia la presenza e l’amore del Signore.

     

    Continua Gesù “E voi siate simili ad uomini che attendono il loro signore quando torna dalle nozze in modo che, arrivando e bussando, subito gli aprano”. Gesù si paragona ad una sposo di ritorno dalle nozze.  Nella tradizione dell’Antico Testamento è consuetudine presentare il Signore come sposo del suo popolo. Perché “il signore” deve bussare? Se è il padrone di casa avrà ben le chiavi!  Ebbene Gesù non impone mai la sua presenza, ma sempre la propone; lui non obbliga, ma si offre.  C’è un richiamo di questo nell’Apocalisse, al capitolo 3: “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”.  Anche qui ritroviamo un’immagine eucaristica.

    Beati quei servi che troverà vigilanti – cioè svegli in atteggiamento di servizio – vi assicuro”, e qui c’è la sorpresa. Immaginiamo questa immagine di un padrone che arriva a casa sua a tarda notte, bussa, trova i servi ancora svegli che gli aprono, cosa fa? E’ normale, non si farà servire dai servi? Invece c’è un capovolgimento, un sovvertimento dei valori: “Vi assicuro che si cingerà” esattamente come si erano cinti i servi e il padrone – Gesù – lui si cingerà i fianchi per servire i servi. Il distintivo di Gesù non sono i paramenti sacri, non sono emblemi o segnali di gradi religiosi; il distintivo di Gesù, l’unico distintivo che Gesù mai si toglie, è il grembiule del servizio.

     

    Continua: “Vi assicuro che si cingerà, li farà giacere”, a tavola, ecco l’immagine dell’eucaristia, “e, passando, li servirà”.  E’ clamoroso quello che Gesù sta dicendo, è completamente nuovo. Chi si poteva sdraiare durante la cena o durante il pranzo? Soltanto i signori. Ovvero quelli che avevano dei servi che li servivano. Da sempre si pensava che i servi dovessero servire il loro padrone, e questo veniva applicato anche alla liturgia. La liturgia era un servizio di lode, un sacrificio, che gli uomini rendevano a Dio.  Ma qui è tutto il contrario. Nell’eucaristia il Signore fa giacere i suoi discepoli, ed è lui che si fa servo degli uomini perché gli uomini si sentano signori.

    Ed essere signori significa essere pienamente liberi; c’è un dono prezioso che Dio ci dà e ci offre, un dono che, una volta conquistato non può essere tolto: è la libertà. Nell’eucaristia il Signore ci fa sentire dei signori perché passa lui a servire i suoi.

     

    Perché questo? Perché servire gli altri stanca, servire gli altri significa consumare energie, servire gli altri significa dissipare le forze. Allora c’è un momento in cui la comunità viene fatta riposare ed è il Signore che passa servendo, ovvero comunicando la sua stessa energia, in un crescendo senza fine. Più noi serviamo gli altri e più dobbiamo permettere al Signore di comunicarci la sua energia d’amore.

    Ma i discepoli questo non lo capiscono (cfr Gv 13), ci vorrà tempo, infatti litigheranno tra di loro per sapere chi è il più importante. Ebbene Gesù li richiama e dice “Io sono in mezzo a voi come colui che serve”.

    E, Gesù continua “E se nella seconda e nella terza vigilia troverà i suoi servi ancora svegli, beati loro”. Il servizio di Gesù consente ai discepoli di essere continuamente in una disposizione di servizio. L’eucaristia è ciò che assicura – potremmo dire in un linguaggio attuale – la ricarica di energie da parte di Gesù per poi essere di nuovo capaci di trasmettere agli altri amore.

    In altre parole: nell’eucaristia Gesù si fa pane perché quanti lo accolgono siano poi capaci di farsi pane per gli altri.

    (sintesi di una conferenza di p. A.Maggi)

     

     



    [1] Da qui l’uso nelle chiese cattoliche della lampada accesa posta accanto al tabernacolo dove viene conservata l’eucarestia.

  • 19 Ago

    Fino alla misura di Cristo

    Lectio di Ef 4,11-16

     

    La Conferenza Episcopale Italiana ha posto come tema di riflessione pastorale per questo decennio l’“Educare alla vita buona del Vangelo”. La Chiesa è consapevole che oggi affrontare il problema educativo è un compito urgente sia per quanto riguarda gli obiettivi come i metodi. Il disorientamento, associato a una quasi generale mancanza di maturità umana e spirituale, è realmente un flagello nella nostra società. Educare significa “far crescere”, “far maturare”: alla sua base sta dunque la consapevolezza che l’uomo non è un “dato di fatto” acquisito alla nascita una volta per tutte, e neppure che la sua crescita, in tutte le sue dimensioni, sia realtà scontata e connaturale che “va da sé”. L’educare esige che prima si dia insieme, educatore ed educando, la risposta ad una domanda di fondo che esige una risposta: chi è l’uomo? A cosa tende? Chi è chiamato a diventare? La risposta nel nostro contesto culturale non è né chiara né tantomeno univoca.  Le proposte sono molte, di cui molte insufficiente altre totalmente erronee.

    Per la comunità dei discepoli di Gesù l’obiettivo fondamentale è promuovere lo sviluppo della persona nella sua totalità, in quanto soggetto in relazione, secondo la grandezza della vocazione dell’uomo e la presenza in lui di un germe divino. «La vera formazione consiste nello sviluppo armonioso di tutte le capacità dell’uomo e della sua vocazione personale, in accordo ai principi fondamentali del Vangelo e in considerazione del suo fine ultimo, nonché del bene della collettività umana di cui l’uomo è membro e nella quale è chiamato a dare il suo apporto con cristiana responsabilità» (Paolo VI). Tutti sono responsabili dell’educazione di sé stessi e di conseguenza degli altri; e come credenti sappiamo che primo protagonista della spinta a crescere è lo Spirito. Egli “forma il cristiano secondo i sentimenti di Cristo, guida alla verità tutta intera, illumina le menti, infonde l’amore nei cuori, fortifica i corpi deboli, apre alla conoscenza del Padre e del Figlio, e dà «a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità»”. Lui dobbiamo invocare come energia sempre viva, luce e acqua che fa crescere ciascuno fino “alla statura di Cristo”.

    Lectio

    Con il quarto capitolo si apre la seconda parte della lettera ai cristiani di Efeso caratterizzata da maggiori riferimenti alla vita cristiana inserita nella vita quotidiana: in questa seconda parte Paolo desidera tracciare i tratti fondamentali che devono contraddistinguere la “vita nuova” del credente la quale è scaturita dalla fede e dal battesimo. Una vita nuova che dovrà coincidere sempre più con i tratti della vita stessa di Cristo (Gal. 2,20). Tutto questo esige un cammino di crescita, un luogo educativo adatto, degli strumenti appropriati: la fede non è un dato di fatto acquisito una volta per tutte.

    Il nostro brano racchiude perciò una forte esortazione affinché i credenti “crescano” ogni giorno di più (v. 15) nell’assimilazione del mistero del Signore Gesù, in modo che sia lui a vivere sempre più in loro stessi. Quanto più crescerà Cristo in noi, tanto più egli penetrerà le profondità del nostro cuore e della nostra mente, che “cresceranno” ovvero si conformeranno sino alla misura della sua stessa mente e del suo stesso cuore.

    Al v. 11 Paolo afferma che nella Chiesa i carismi per l’utilità comune sono diversi. Una comunità pienamente matura ha molte membra con funzioni diverse che si articolano perfettamente per lo scopo comune del bene e della crescita dell’intero corpo. Il fine di questa diversità e vitalità non è esclusivamente il bene dell’individuo, ma ha come scopo il “preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo” (v. 12). Qui troviamo l’indicazione di un “perfezionamento”, di una crescita nella conformità a Cristo non solo di ciascun credente, ma di tutta la Chiesa “corpo di Cristo”. Anch’essa è chiamata a crescere vero la maturità di sposa di Cristo.

    “Finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (v. 13). Se c’è perfezionamento nelle membra; se la loro funzione matura; allora tutto il corpo si edifica nell’unità della fede e della comunione in Cristo. Allora si diventa uomini e donne cresciuti sino alla “misura della pienezza di Cristo”. Detta così questa considerazione sembra quasi di importanza relativa, invece è di necessità assoluta, perché è necessario per la crescita armonica e fruttuosa del singolo credente e della Chiesa essere uniti nella fede perché così che non saremo più fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all’errore” (v. 14). Senza il presupposto di un solido fondamento unitario della fede il credente sarebbe nella situazione spiritualmente infantile. Se questo accadesse egli non sarebbe in grado di raggiungere la propria identità spirituale, sarebbe impreparato a far fronte alle offerte di tante “false dottrine” “in balia delle onde” trasportati qua e là.  

    Al contrario, agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo” (v. 15). Agire secondo verità nella carità” significa che occorre tradurre in termini concreti di amore la rivelazione donataci da Cristo. Questo è crescere nella fede in tutte le dimensioni del nostro essere: intelligenza, volontà e affettività secondo un ben preciso progetto e orientamento: “tendendo a lui che è il capo Cristo”. Non si tratta dunque nel cammino di crescita di raggiungere un qualche obiettivo morale ma di essere pronti a vivere una comunione sponsale con la persona stessa di Cristo Gesù.

    Meditatio

    Poiché siamo stati fatti ad immagine di Colui che è la fonte di ogni vita, e la vita in se stessa è energia che si espande e cresce, ogni essere umano nasce con il bisogno impellente di portare a compimento se stesso. La vita è una chiamata a crescere e questa chiamata è accompagnata dall’istintivo desiderio di scoprire il senso della propria esistenza. Il nostro crescere abbisogna di una direzione (Ql 3,11). Un po’ come per una pianta che istintivamente cresce verso la luce.

    Potrà sembrare banale ma un essere vivente per crescere non basta che venga all’esistenza! In altre parole: non basta che Dio desideri la nostra crescita spirituale o che noi desideriamo ardentemente “realizzarci” nella vera vita: per poter registrare una progressiva e reale maturazione cristiana occorre vivere un’autentica vita spirituale (Mc 4,30-32). Perché questo accada occorre abbandonare lo stato infantile per tendere alla maturità che si identifica con la capacità di agire nella vita con libertà e responsabilità: ma qual è l’obiettivo finale di tale crescita? Ogni caratteristica del nostro corpo fisico è “programmata” dalla nascita e dipende da precise istruzioni registrate in microscopici “nastrini” di sostanza genetica (il famoso DNA) presente nel nucleo di ogni cellula. In essi Dio ha “scritto” l’intero progetto del nostro corpo: colore degli occhi, tipo e colore dei capelli, grado di elasticità della nostra pelle, qualità delle unghie, efficienza muscolare, statura, ecc… Se nulla ne ostacola l’espressione e lo sviluppo (denutrizione, stress, malattia, incidenti, morte), nel tempo tutti questi caratteri si manifestano fino ad un massimo stabilito dal progetto registrato. Ma esiste anche un preciso “DNA spirituale” che i credenti ricevono nel momento della loro “nuova nascita” battesimale. In esso è registrato un progetto spirituale (forse più conosciuto con il nome di “progetto di Dio”);  se nulla ostacola l’espressione e lo sviluppo di questo progetto, nel tempo, tutte le sue caratteristiche spirituali previste si manifesteranno nella vita di un figlio di Dio fino ad un massimo stabilito dal Signore. Qual è questo grado spirituale, verso cui dovrebbe tendere ogni credente?  La misura è quella della perfetta statura di Cristo (Ef 4,13). In altre parole: è il nostro divenire sempre più conformi a Cristo, secondo la cui immagine, come dice la teologia orientale, siamo stati creati e progettati.

    L’ambito in cui questa crescita può avvenire in modo reale e armonico è solo la Chiesa, che si concretizza nella propria comunità. San Cirillo d’Alessandria lo esprime molto bene in un suo testo:  “O allievi della divina pedagogia! Orsù, completiamo la bellezza del volto della Chiesa e corriamo, noi piccoli, verso la Madre buona; diventando ascoltatori del Logos, glorifichiamo il divino piano provvidenziale, grazie al quale l’uomo viene sia educato dalla pedagogia divina che santificato in quanto bambino di Dio: è cittadino dei cieli, mentre viene educato sulla terra; riceve lassù per Padre colui che in terra impara a conoscere”.

    La maggior parte dei battezzati purtroppo dimentica o tralascia questa dimensione dinamica ed essenziale della vita cristiana. Ci si limita ad assolvere solo alcuni doveri religiosi. La vita spirituale ne risulta spenta e senza…spinta. Magari si ricercano obiettivi di per sé buoni, come l’impegno nel sociale, nel volontariato, nelle opere religiose… ma tutto questo non è sufficiente per realizzare in tutte le sue dimensioni il progetto di crescita iscritto nel cristiano… perché, spiritualmente parlando, c’è un inconsapevole bisogno di “crescere” in conformità al nostro DNA costitutivo e primario che è il nostro vivere sponsalmente in Cristo. Finché l’uomo resta lontano da Dio, magari impegnato per le cose “da fare per Dio”, questo compito di “crescita” non può essere appagato (Gv 17,3; 10,10).

    Risulta evidente dal brano biblico proposto che il desiderio dell’apostolo Paolo sia quello di vedere ogni membro del Corpo di Cristo che è la Chiesa, crescere, prosperare, affinché possa prendere il proprio posto nella famiglia di Dio collaborando in modo adulto e responsabile all’opera che Dio ha affidato a lui e che nessun altro potrà mai svolgere al suo posto. Anche l’apostolo Pietro si esprime in termini simili a quelli di Paolo quando, parlando della comunità cristiana usa l’immagine di un’immensa costruzione in fieri, un grande “edificio spirituale” che è il risultato dell’aggiunta di un “mattone su mattone” che si identifica in ogni singolo credente (cfr 2Pt 1,5-8).

    Purtroppo accade, come sopra accennato, che molti cristiani, tra cui anche uomini e donne consacrati, non realizzano pienamente questo privilegio e responsabilità di appartenere in modo vivo e maturo all’edificio spirituale del corpo di Cristo. Essi pensano di poter agire come credono, fare e disfare della loro vita a proprio piacimento, senza alcun concreto riferimento a Cristo capo (Gal 4,19,20; 5,7; 1Cor 11,22). La Parola di Dio insegna perciò che la crescita spirituale non è scontata: non basta che un neonato venga alla luce per avere la matematica certezza che diventerà un adulto fisicamente forte e mentalmente valido: ci sono precisi meccanismi ed inevitabili esigenze da soddisfare per determinare il buon esito di una crescita (Sal 129,6; Gb 8,11; Mt 13.4-8). E la spinta alla crescita spirituale viene da Dio e da Dio solo,  ma esige esige anche il nostro assenso e la nostra collaborazione! (1Cor 3,6,7; Gn 4,6,10; Ez 16,6).

    La Scrittura ci rivela che Dio non è un genitore “sbadato”: Egli protegge il suo popolo e ne accompagna la crescita (Is 27,2-3) accettando il reale “rischio educativo” per usare l’espressione di don Giussani, derivante dal rispetto della libertà dell’altro. Se Dio svolge con grande attenzione quest’opera di accompagnamento, vuol dire che ci sono dei reali pericoli! Satana e il peccato, a cui egli induce l’uomo, mirano sicuramente ad arrestare, in mille modi diversi, la crescita spirituale. Il peccato è veleno per la crescita della “nuova creatura” e ogni volta che esso riesce a fare breccia nelle difese e a penetrare nella vita di un credente, provoca una “battuta d’arresto” nella crescita e, se non c’è una pronta “disintossicazione” (conversione e confessione), esso porta alla malattia e ad un’inevitabile morte per avvelenamento! La nostra crescita se non siamo vigilanti rischia continuamente di bloccarsi, regredire, deviarsi o addirittura spegnersi.

    Infine non dimentichiamo, sulla linea della stessa riflessione paolina, che la crescita e la maturazione spirituale è in vista sicuramente del bene dell’individuo che è un membro del corpo ecclesiale, ma in concomitanza questa stessa crescita e maturazione fa sì che lo stesso corpo della Chiesa possa svilupparsi armonicamente sempre più.  Non è indifferente perciò che io riesca o meno a raggiungere la misura della mia maturità in Cristo: ne va a discapito non solo la mia realizzazione ma anche quella della Chiesa di cui ciascuno deve sentirsi responsabile. Di questa realtà ben pochi ne sono consapevoli poiché vivono la fede in modo individuale il che è immaturità. Quando una macchina ha tutti gli ingranaggi collocati al proprio posto, funziona in modo perfetto. Nel campo della meccanica c’è bisogno di chi progetta, di chi costruisce pezzi, di chi li assembla, di chi collauda il lavoro terminato, di chi gestisce il macchinario. Così, in certo qual modo, è della Chiesa. Il lavoro di ciascuno serve per rendere completa e perfetta, adulta, l’opera di Dio. Non vedranno sicuramente buoni giorni tutti quelli che manomettono, modificano, deturpano, secondo il loro piacimento e gusti, il sistema di salvezza assemblato direttamente dal Signore! Ci troviamo così di nuovo dinanzi all’invito di Paolo a ricercare costantemente l’“unità dello fede e della conoscenza di Cristo” perché tutto e tutti possano giungere alla maturità della fede. Scriveva il beato cardinal Neuwann con estrema chiarezza: “Dio mi ha creato perché gli rendessi un particolare servizio; mi ha affidato un lavoro che non ha affidato ad altri. Ho la mia missione, che non saprò mai in questo mondo, ma mi sarà detta nell’altro. Non so come, ma sono necessario ai suoi fini, necessario nel mio posto come un Arcangelo nel suo; […] ho una parte in questa grande opera; sono un anello della catena, un legame di parentela tra le persone. Non mi ha creato per nulla. Io farò il suo lavoro”.

    Oratio

    Isacco della Stella fu abate cistercense inglese nel secolo XIII.  Nei suoi numerosi scritti affiora costantemente l’immagine mariana applicata sia alla Chiesa che e al singolo credente: come Maria che fa crescere in lei e dà alla luce fisicamente il Figlio di Dio così la Chiesa e ogni cristiano concepisce e partorisce spiritualmente, per mezzo dello Spirito, il Cristo l’uomo nuovo per donarlo al mondo.  Solo nella maturità della fede questo concepimento e parto è possibile a va a buon termine e il Cristo non ne viene “abortito”. Chiediamo allora a Maria la grazia dell’obbedienza alla fede, di un sì perseverante, che permetta allo Spirito di generare, far crescere e partorire Cristo in noi e al mondo.

    Che il Figlio di Dio
    già formato in te, o Maria,
    cresca in te,
    fino a diventare immenso.
    Ed egli sarà per te
    un sorriso,
    un’esultanza,
    una pienezza di gioia
    che nessuno potrà toglierti.

    Attilio Franco Fabris
    Casa di Preghiera Sant’Andrea
    Abbazia di Borzone
    16041 – Borzonasca – Ge
    www.abbaziaborzone.it

  • 28 Mag

    GESÙ FRA I DOTTORI

    (Lc 2,41-52)

     

    La famiglia di Nazareth ci viene sempre proposta come modello a cui conformare la nostra famiglia.
    Leggendo questo passo molti di voi si saranno chiesti: ma come fanno a proporci questa famiglia come modello se succede una cosa di questo genere? Pensate un attimo, questi genitori sono così sbadati che perdono il figlio. Questa senz’altro è la prima impressione ma questa distrazione ci permette in effetti di capire qual è la realtà del rapporto che esiste nell’ambito di quella famiglia, sia tra i genitori che tra i genitori ed il figlio.

    Innanzi tutto il racconto inizia con un’affermazione: “I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua“. Questo è quello che veniva fatto da tutti gli ebrei osservanti e quindi Maria e Giuseppe si mettono tra coloro che sono osservanti; la cosa bella che viene sottolineata è che vanno entrambi, il che significa che pregano insieme, significa che hanno un’esperienza di preghiera insieme, che è un’esperienza esaltante. Non solo. Per gli ebrei la maggiore età si raggiunge a dodici anni; Gesù viene portato a Gerusalemme quando egli ebbe dodici anni; lo avviano, lo abituano a frequentare il tempio, la festa prima dell’età alla quale diviene obbligatoria la partecipazione al culto.

    Questo ci fa notare una differenza sostanziale con quello che avviene oggi. Per gli ebrei la fede è una cosa per adulti. Chi è che va, chi è che frequenta il tempio, chi è che si impegna nella sua vita di fede? Soltanto gli adulti, bisogna avere almeno dodici anni per frequentare il Tempio, gli altri, i bambini non vanno nel Tempio, devono giocare, devono dedicarsi ad altro. Che cosa succede nella nostra società? Spesso avviene l’opposto, cioè quando i bambini sono piccoli gli facciamo fare il segno della croce, gli facciamo fare la… preghierina, li accompagniamo al Catechismo, gli facciamo fare la Comunione e spesso anche la Cresima e poi… arrivederci e grazie: forse li rivediamo al momento del matrimonio. Fondamentalmente stiamo instillando nelle nuove generazioni un’idea che è fortemente sbagliata, quella che la fede sia una cosa per bambini; una volta che si è grandi non ce n’è più bisogno. Gli ebrei ci dicono esattamente l’opposto.
    La fede è qualcosa per adulti, di persone dotate della ragione.
    Perché? A che cosa serve la fede? La fede dà le risposte alle nostre domande fondamentali; un bambino non si chiede: Da dove viene? Chi è? Dove va? Perché vive? Queste domande ce le facciamo noi adulti, non se le fanno i bambini. E la fede può rispondere a queste domande, certamente non anzitutto alle domande dei bambini. In effetti, se ci guardiamo intorno, quello che sta succedendo è proprio questo: li accompagniamo fino a dodici anni e poi invece di condurli al tempio li facciamo andar via.

    Ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero“. Qui possiamo sottolineare due cose ma bisogna che prima ci soffermiamo su quelle che erano le abitudini del tempo.
    Quando si viaggiava in carovana, avviene ancora da qualche parte nel mondo, si formavano due gruppi, da una parte le donne e da un’altra gli uomini. I bambini, che non avevano ancora dodici anni, potevano scegliere di stare o con la mamma oppure – visto che era un maschietto – con il papà.
    Né Giuseppe né Maria si preoccupano di cercarlo: questo ci dice qual era il rapporto tra questi genitori ed il figlio: era un rapporto di serenità, di tranquillità. Gesù era un bambino obbediente, per cui se si era detto che la carovana partiva ad una certa ora Gesù sarebbe stato lì perché questa era la sua abitudine ed i genitori di questo erano certissimi, per cui non si sono posti il problema.
    Maria avrà pensato che Gesù era con Giuseppe e Giuseppe viceversa. Quand’è che se ne accorgono? Quando si fa sera, la carovana si ferma ed i nuclei familiari si ricompongono. A quel punto Giuseppe chiede a Maria: “Gesù…?”. Maria dice a Giuseppe: “Gesù…?”. Però ancora non si preoccupano, come capita oggi; quando i nostri figli sfuggono al nostro controllo ci sono veri momenti di panico. Che fanno Giuseppe e Maria? Si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti.
    Questo ci dà un altro spaccato di quella che era la vita di allora e ci spiega che in una comunità contribuisce a guardare, ad educare i bambini anche il contesto in cui vivono, e quindi anche parenti e conoscenti per cui un bambino può benissimo stare un’intera giornata senza che i genitori l’abbiano sotto controllo perché c’è una comunità che lo segue ed è attenta a quelle che potrebbero essere le sue esigenze. Era un fatto normale.

    Pensate invece quello che succede oggi se non ci sono i nonni che ci controllino i figli, che siano a disposizione, siamo completamente isolati, cioè non c’è comunità; oltretutto siamo talmente ossessionati da tutto quello che sentiamo e leggiamo, che veramente pensare a un bambino comunque lontano da noi ci terrorizza. Ma non è questo il concetto della famiglia!
    Qui possiamo quasi immaginare una parrocchia ideale: una parrocchia ideale è fatta da una comunità di famiglie, che non solo educano i propri figli ma partecipano della vita comune aiutando gli altri, dandosi reciprocamente una mano: forse è una società idilliaca, ma certamente questo è possibile se c’è un’apertura verso gli altri e non c’è quella che oggi si sta consolidando, cioè la famiglia mononucleare, dove esistono solo genitori e figli e tutto il resto non conta più niente. C’è un certo recupero dei nonni nel periodo in cui i bambini sono piccoli dopo di che anche i nonni cominciano ed essere pesanti perché possono essere invadenti.
    Il Vangelo ci rappresenta una situazione completamente diversa ed è una situazione in cui si può essere tranquilli. Esaurita questa ricerca, tornano indietro. Non è che vanno a cercare da un’altra parte; questo mostra che sono molto attenti, sanno già Gesù dov’è. Se Gesù non c’è sanno già dov’è.

    Infatti il testo dice: “Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio“. L’idea dei “tre giorni” ci vuole richiamare altri “tre giorni” in cui Gesù non è stato a disposizione dei suoi genitori, è sparito dalla loro vista; sono i tre giorni della passione; Cristo muore, sparisce, per ritornare “risorto” il terzo giorno. Questi tre giorni sono da contare alla stessa maniera; gli ebrei non contano i giorni sulle 24 ore, ma per la presenza del sole; quindi i tre giorni indicati sono il primo, di andata – visto che avevano viaggiato tutto il giorno – un altro giorno per tornare e la mattina del terzo giorno, così come la mattina del terzo giorno Cristo risorge, vanno direttamente al tempio perché sanno di trovarlo lì.

    E lì lo trovano, ma come lo trovano? Seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. Che idea vi fate di Gesù che in mezzo ai dottori li ascolta e li interroga? Che cosa fa Gesù? La prima interpretazione che viene data è che Gesù sia in mezzo ai dottori ad insegnare. Ma un insegnante prima spiega e poi interroga. Invece Gesù prima ascolta e poi interroga. Di chi è la funzione di chi ascolta e poi interroga? Chi ascolta e poi interroga è il giudice, che ascolta la deposizione, interroga e poi dà la sentenza. È questo, forse, il punto centrale di questo racconto.

    Chi giudicherà il mondo di oggi? Chi ci giudicherà? Saranno i nostri figli! I nostri errori, le nostre scelte, se buone o cattive, non le giudicheremo noi ma i nostri figli. Questo ci dice che cosa dobbiamo fare. Gesù dice E tutti quelli che l’udivano – quando il giudice dice è la sentenza, quando dice qualcosa è la conclusione del processo, di quello che ha ascoltato ed interrogato – erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.

    Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Tutti quelli che sentivano erano stupiti, anche i genitori.

    Questa è una cosa grande: i nostri figli ci stupiscono! Perché ci stupiscono? Perché i nostri figli non sono la nostra copia, essi hanno la loro autonomia, sono liberi; ci stupiscono perché le loro scelte vanno in direzioni diverse. Ed allora che cosa significa far nascere un bambino, mettere al mondo un figlio? Certamente non significa averne la gestazione per 9 mesi, ma significa farlo diventare uomo, educarlo, far sì che sia un uomo autonomo e libero. Restarono stupiti!
    È la fatica di credere al mistero che cresce nella concretezza della vita coniugale e familiare, carica di gioie e di problemi.

    Gesù adolescente crea problema, progressivamente si rivela nella sua divinità. Maria e Giuseppe “si stupivano delle cose che si dicevano di lui”, con trepidazione si chiedevano: che sarà di Gesù?
    Lo accettano nella sua alterità divina ma devono entrare negli orizzonti di un disegno più grande. Prendono coscienza del divario tra il progetto di Dio ed il progetto che essi avevano sognato.

    E sua madre gli disse. I genitori erano due, sua madre parla anche per conto del padre, quindi la loro intesa, il loro comunicare non era un prevaricare di uno sull’altro: erano profondamente uniti come erano uniti nella preghiera: infatti le parole che dice sono: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo“. Tuo padre ed io! Maria sapeva che Giuseppe non era il padre, non è che lo ignorasse ed allora perché dice “tuo padre ed io“? Perché Giuseppe era veramente il padre di Gesù; Gesù lo chiamava papà, ma perché? Perché per essere padre non bastano i dieci minuti che sono necessari per concepire un bambino; si è padri tutti i giorni perché tutti i giorni si dà la vita, tutti i giorni si aiuta il figlio a crescere, a diventare uomo: allora si è veramente padre, questa è la vera paternità al di là di quella strettamente biologica.
    Quindi Giuseppe è veramente padre anche se non lo è sul piano biologico.

    Angosciati! Che cosa è l’angoscia? I figli ci fanno angosciare. Come prima abbiamo parlato di stupore, che è qualcosa di positivo, perché c’è dentro la meraviglia della sorpresa, ora parliamo di angoscia, che ha invece una connotazione negativa perché la nostra angoscia non è tanto quella che ci viene dai figli ma quella che ci viene da noi stessi quando scopriamo di non essere adeguati per il nostro compito. Molto spesso non siamo capaci di essere genitori; genitori non si diventa per caso, sul piano biologico lo si può essere anche per caso, ma per essere genitori veramente ci si costruisce tutti i giorni. Si commettono degli errori, certamente, ma dobbiamo fare in modo di cercare di essere adeguati a quelle che sono le attese dei figli. Quindi è scoprile la nostra inadeguatezza la vera angoscia. Non è per il fatto che non sapevano dove fosse Gesù, non era il suo smarrimento o la sua perdita la causa dell’angoscia di Maria e Giuseppe.
    La vera angoscia era che il figlio li aveva stupiti, li aveva sorpresi e quindi si erano accorti di essere inadeguati per questo figlio
    .

    Ed egli rispose: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?“. Se un nostro bambino di dodici anni, di fronte alla domanda dei genitori che dicono di essere angosciati e che lo cercano perché sono angosciati, rispondesse in questa maniera, che cosa saremmo portati a fare? È abbastanza immediato pensare: adesso gli do un bel ceffone e così impara a rispondere come si deve un’altra volta! Però, anche questo fa parte di quella che è la sorpresa perché Gesù perché non dovevano farlo: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?“. Qui Gesù non parla di Giuseppe, qui sta parlando di Dio; ma quello che dice lo dice ad ognuno di noi: i figli non sono nostri, non sono nostra proprietà, non sono un possesso.
    C’è un proverbio cinese che dice che noi ai nostri figli diamo due cose: le radici e le ali, le ali sono tanto più forti e robuste quanto più le radici sono profonde, quindi quanto più il terreno nel quale li abbiamo fatti crescere è fecondo, è ricco, non è arido. Quindi su questo ci giudicheranno i nostri figli, sul terreno che abbiamo messo loro a disposizione, su come li abbiamo aiutati, li abbiamo sostenuti nella loro crescita, li abbiamo aiutati a diventare uomini.

    Però non è facile come ci dice il Vangelo: “Ma essi non compresero le sue parole“.
    Tante volte noi i figli non li capiamo, tante volte capita ancora oggi; che cosa si fa quando non si capisce? Ecco, se leggiamo appresso ora che Gesù ha fatto la lezione, ora che ha detto che le cose per cui è venuto sono altre, che li ha messi a posto, da questo momento in poi in casa comanda lui! No.

    Partì dunque – sembra una continuazione del discorso precedente – con loro e tornò a Nazareth e stava loro sottomesso“. Ecco, Gesù sa qual è la sua missione, glielo dice, però cresce: la sua crescita è perché impara innanzi tutto ad ubbidire, ad essere umile, ad essere sottomesso.
    Quando noi ci abituiamo ad obbedire sapendo quali sono i nostri limiti e quali i nostri compiti, questo ci aiuta a crescere, non con la prepotenza, non battendo i pugni, non facendo i capricci, non vincendo con i capricci; sono cose che sappiamo.

    Gesù stava loro sottomesso. Giuseppe è una grande figura di padre vicino e presente ma “Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore.” Il verbo serbare ci fa pensare al momento più bello del rapporto tra una madre ed il figlio, che è il rapporto prima della nascita, quando il figlio viene serbato nel proprio corpo, e quindi continua questo rapporto con il figlio anche quando il figlio ha una età diversa; non si smette di essere genitori quando i figli sono grandi; si è genitori anche quando i figli raggiungono la maggiore età e seguono la loro strada.

    E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini. Ecco Gesù è Dio, però cresceva in sapienza, che cosa significa? Che Gesù come uomo si è fatto carico della nostra limitatezza; non sapeva della sua missione, non era a conoscenza di quello che sarebbe stato il suo compito come uomo e quindi come tale, lui come tutti noi, ha sopportato il peso della crescita, il peso di apprendere, di studiare, di approfondire: “cresceva in sapienza, età …” – cosa questa normale, ma soprattutto cresce “…in grazia davanti a Dio e agli uomini.
    Cresce il suo rapporto di uomo che riconosce in Dio il vero Padre.

  • 24 Mag

    Offrite voi stessi in sacrificio

    Lectio di Rm 12,1-2

     

     di p. Attilio Franco Fabris

     
    Iniziamo la nostra lectio con una testimonianza tratta dagli scritti del beato Edward Giovanni Maria Poppe, sacerdote (Temsche in Belgio 1890 – Moerzeke-lez-Termonde 1924). Fu un grande pedagogista dell’Eucarestia. Istituì infatti la «Lega della Comunione frequente» tra i bambini e le operaie. Per i fanciulli della «Crociata eucaristica Pio X» di tutto il Belgio, pubblicò un settimanale apposito. Costretto a vivere su una poltrona per motivi di salute – morì a soli 34 anni – scrisse opere di grande valore spirituale. Scrive con parole che possono essere un sunto del suo insegnamento: “Restate ostia con l’Ostia. La nostra vita non ha alcun senso se non siamo vittime. Senza quest’opera di continua “victimatio”, le nostre preghiere e i nostri colloqui spirituali si riducono a chiacchiere superficiali, le nostre prediche sono semplici parole gettate al vento… Un cuore di sacerdote che non sanguina non è un cuore di sacerdote”.

    Giovanni Maria ci insegna l’essenziale della vita cristiana: unirsi totalmente  e concretamente a Cristoche ci ha già incorporati a sé nel battesimo e nell’eucarestia, e questo al fine di poter offrire, come sacerdoti, ostia per ostia,  con lui, per e in lui la nostra vita in offerta al Padre per la sua gloria e in espiazione dei peccati nostri e del mondo intero.

    Nel rito di benedizione dell’altare troviamo un distinto richiamo alla vita cristiana chiamata a divenire offerta cultuale al Padre: “Dona a noi tuoi fedeli che ci accostiamo al Cristo pietra viva di essere in lui edificati in tempio santo, per offrire sull’altare del nostro cuore in sacrificio spirituale la nostra vita realmente vissuta a lode della tua gloria” (Benediz. 1282). Chiediamo allora allo Spirito che questo diventi esperienza concreta per la vita di ciascuno di noi “vissuta a lode della gloria di Dio”.

    Lectio

    Paolo dopo aver affrontato nei primi capitoli (1-11) della Lettera ai Romani l’annuncio della salvezza offerta da Dio all’umanità attraverso il dono della fede in Cristo, nei cc.12-15 prosegue indicando quali sono le conseguenze che scaturiscono dall’accoglienza di questo annuncio. È la cosiddetta parte “parenetica” della lettera tutta tesa ad offrire ai cristiani di Roma indirizzi concreti e pratici del come vivere la grazia battesimale che pone il credente a camminare “in una vita nuova” (6,4). Da quanti per il battesimo sono divenuti membra vive del corpo di Cristo ci si attende che cerchino anzitutto di vivere all’insegna della carità che riassume tutta la legge; solo una vita imperniata sull’amore è gradita a Dio. La sintesi che Paolo offre è che i cristiani sono chiamati a vivere la propria esistenza in “questo mondo” in una costante offerta d’amore di se stessi a Dio e ai propri fratelli: è questa la “vita nuova”.

    Il testo che vogliamo meditare sono i primi due versetti del cap. 12 che fanno da introduzione a tutto l’insegnamento successivo.  

    Il v.1 inizia con l’appellativo dato ai cristiani di “fratelli”. È il titolo usuale usato all’interno delle prime comunità cristiane: l’essere fratelli non ha nulla a che fare con parentele di famiglia perché in tutti scorre lo stesso sangue –l’eucarestia ne è sacramento-, potremmo dire così, di Cristo nostro fratello che fa di noi fratelli e figli dello stesso Padre. I credenti perciò sanno di vivere per la fede e il battesimo una comunione che è più forte di quella del sangue.  

    Vi esorto”: Paolo si rivolge alla comunità di Roma in qualità di apostolo e dunque con un’autorità che sa essergli data dall’alto. L’apostolo sa di essere voce stessa di Dio. L’espressione andrebbe tradotta con un “vi esorto insistentemente”: quindi ciò che verrà detto riveste molta importanza.

    Per la misericordia di Dio”: è incerto se questo inciso sia riferito a ciò che precede o segue. Nel primo caso è l’amore di Dio la motivazione che spinge Paolo a parlare. Nel secondo caso l’offerta di se stessi sarebbe motivata dall’amore di Dio nei nostri confronti. E’ comunque l’amore di Dio che sta alla base dell’agire sia dell’apostolo come degli altri fedeli. Non siamo noi a far sì che il vangelo trasformi le nostre e altrui esistenze, ma è questo amore straordinario che cambia radicalmente il cuore di tutti.

    Ad offrire i vostri corpi”: il verbo non indica solo un generico “a mettersi a disposizione”. Esso riveste invece il significato cultuale di “offrire un sacrificio”. Se nel sacrificio giudaico c’è l’uccisione della vittima, ora lo stesso verbo in senso figurato viene applicato all’esistenza del cristiano.  Il “corpo” (sòma) è l’aspetto biologico, visibile e dunque concreto di noi stessi. Offrire il proprio corpo allora equivale a offrire “se stessi totalmente”, anima e corpo, senza alcuna “riserva”. È ciò che Paolo aveva precedentemente annotato: “Non mettete le vostre membra a disposizione del peccato come armi di ingiustizia, ma mettete voi stessi a disposizione di Dio, come persone tornate in vita dalla morte, e offrite le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia” (6,13). Questo nostro “corpo” un tempo dominato dal peccato era divenuto “corpo di morte” (7,24), ma nel battesimo il principio del nostro essere non è più il peccato apportatore di morte ma lo Spirito vivificante che viene a invaderci totalmente, anima e corpo. In tal modo l’uomo intero è divenuto capace di divenire sacerdote e offerta gradita a Dio. È questa la “giustizia” ovvero la giusta corrispondenza al disegno originario voluto dal Creatore.

    L’offerta del proprio corpo a Dio è definito da Paolo un “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”. Qui il paragone è in riferimento alle vittime sacrificali del culto giudaico e dei culti pagani. Non è più perciò un culto “morto”che offre a Dio animali uccisi. Ma è un culto “vivo” che unito a quello eterno di Cristo diviene “santo e gradito” al Padre. È ciò che Gesù preannunciava alla samaritana presso il pozzo di Sicar:  “Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori” (Gv 4,23).

    Continuando nella stessa linea Paolo dice “E’ questo il vostro culto spirituale”. Si potrebbe anche tradurre “è questo il culto che conviene alla vostra natura di esseri ragionevoli”; ovvero un culto guidato dal “logos”, dalla ragione e perciò dalla consapevolezza di cui godono solo gli uomini e non un culto in cui si offrono animali irragionevoli. Il “culto spirituale” corrisponde all’effettiva comprensione che l’uomo centro di tutta la creazione è chiamato ad esservi in qualità non di despota ma di sacerdote abilitato a innalzare a nome di tutta la creazione la lode, il ringraziamento (eucarestia), l’adorazione e questo a partire da se stesso, unico essere dotato di logos, di ragione. Probabilmente qui intravediamo anche una sfumatura polemica in opposizione a un culto tutto esteriore, formalistico che non coinvolge la vita, ovvero un culto che manca dell’essenziale culto della propria vita (il cuore) e che veniva già denunciato da tutta la predicazione profetica (cfr Os 6,6; Sal 50,14.23). Nel cristiano che ha ricevuto il dono dello Spirito il culto viene dunque a permeare ogni realtà a partire da se stessi: “Se viviamo grazie allo Spirito, dobbiamo anche camminare secondo lo Spirito”.

    Dopo questa presentazione generale dell’intera vita cristiana chiamata a divenire un vero sacerdozio e culto, Paolo esprime il medesimo concetto in termini imperativi e al negativo. E siamo al v.2.

    Non conformatevi alla mentalità di questo mondo”. “Questo mondo” è segnato dal peccato, dalla lontananza da Dio, dal dominio di Satana. Il battezzato è morto a “questo mondo” essendo entrato a far parte del “mondo nuovo” (il “regno di Dio”) già presente nella storia anche se in germe: perciò ai discepoli di Gesù è dato di vivere già in un “mondo nuovo” (cfr Fil 3,21; Gal 1,4). In Gal 5,24 Paolo aveva detto: “Coloro che appartengono a Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e le sue concupiscenze”. Ora l’espressione “aver crocifisso” rimanda alla dimensione sacrificale e cultuale del sacrificio di Cristo al quale il cristiano si assimila mediante la morte dell’ ”uomo vecchio” interamente sprofondato in “questo mondo”.

    Ma trasformatevi” (o “lasciatevi trasformare”) dalla grazia di Dio, ossia attraverso l’azione dello Spirito Santo. In che cosa consiste questa trasformazione? Paolo risponde: “rinnovando completamente il vostro modo di pensare” (“rinnovando la vostra mente”). Questa “vita nuova” non è una verniciatura esterna che lascia però la realtà sottostante quale era, essa invece è una autentica trasformazione interiore, che comporta un rinnovamento del “nous” ovvero del dinamismo con cui operiamo i nostri giudizio intellettivi e morali. Si tratta di acquisire una “mente” non più governata dalle passioni del corpo che fanno propri criteri di “questo mondo”, perché ha ormai fatto sua la “mente” di Cristo stesso: “Noi abbiamo la mente (pensiero) di Cristo” (1Cor 2,15). Il cristiano non ragiona più con i parametri dell’uomo vecchio guidato dalle sue passioni ma con i parametri di Cristo, uomo nuovo. Questo “modo di pensare di Cristo” aiuterà di conseguenza il cristiano e la comunità a “discernere la volontà di Dio”. Ora la volontà del Padre è l’unica realtà che Cristo ha cercato sempre e di cui si è cibato sino alla fine. Facendo nostro il pensiero di Cristo entreremo nella volontà del Padre con la certezza così di perseguire “ciò che è buono, gradito e perfetto”. “Fare la volontà del Padre” sarà il culto spirituale che salirà a Dio come “sacrificio di soave odore”.

    Meditatio

    La “Lumen gentium” afferma, riprendendo le parole della prima lettera di Pietro, che tutti i battezzati costituiscono “un sacerdozio regale”. Questa affermazione viene fatta ancor prima di trattare il sacerdozio ministeriale, e quindi ne è in qualche modo una premessa. Il ministero episcopale, presbiterale e diaconale è un servizio all’interno della comunità a beneficio del sacerdozio comune. Prima della distinzione tra vocazioni diverse all’interno del popolo di Dio occorre perciò riconoscere la presenza di un fondamentale sacerdozio comune che scaturisce dal sacramento del battesimo.  Dice l’Apocalisse che Dio Padre “ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il nostro Dio” (5,10).  Sempre lo stesso importante documento conciliare ribadisce che a tutti i battezzati “Cristo… concede anche una parte della sua funzione sacerdotale per esercitare un culto spirituale, affinché sia glorificato Dio e gli uomini siano salvati” (n.34).

    Questo nostro comune sacerdozio scaturisce dalla consacrazione che lo Spirito santo, nel sigillo sacramentale del battesimo e della confermazione, ha attuato in noi rendendoci capaci di offrire al Padre tutta la nostra vita, e l’intera creazione, in un “sacrificio spirituale”.  Nel cuore della liturgia eucaristica il celebrante chiede esplicitamente che lo Spirito “faccia di noi un sacrificio perenne gradito” (Preg. Euc. III) al Padre ed elevato unitamente al sacrificio di Cristo. Il nostro sacrificio spirituale trova nell’eucarestia il suo punto di forza, la sua sorgente e il suo sbocco naturale.

    Cosa comporta concretamente questo sacerdozio? Che culto il Padre si attende da ciascuno? Sempre la Lumen gentium esplicita: “Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio, offrano se stessi come vittima viva, santa, gradita a Dio, rendano ovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della speranza che è in loro della vita eterna (cfr1Pt 3,15)” (n. 10). E ancora si sottolinea che questo sacerdozio si esercita “con la partecipazione ai sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abengazione e l’operosa carità” (n. 10). Quindi ci viene detto che esercitiamo con diritto il nostro sacerdozio comune attraverso la partecipazione ai sacramenti, in modo particolare l’eucarestia, attraverso la preghiera, la testimonianza, la nostra carità. Le occasioni dunque non mancano: ma occorre esserne consapevoli!

    Il nostro battesimo, e la professione religiosa che ne è esplicitazione, racchiude in sé una dimensione cultuale che non si esaurisce certamente nel momento liturgico ma viene ad inglobare per sempre tutta l’esistenza del discepolo. Siamo uniti indissolubilmente a Cristo e con Lui, per Lui, in Lui possiamo offrirei nostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”. San Gregorio Magno afferma che chi ridona a Dio ciò che ha ricevuto in dono compie non solo un sacrificio, ma un “olocausto”, ovvero un atto totale di offerta. Quindi accogliendo il dono della consacrazione il religioso si impegna a fare della propria vita un “olocausto” a Dio perché restituisce a Dio tutto ciò che è e ciò che ha: così l’intera vita diventa un ininterrotto atto di culto a Dio. Recita il canone 607 del Diritto Canonico: “La vita religiosa, in quanto consacrazione di tutta la persona, manifesta nella Chiesa il mirabile connubio istituito da Dio, segno della vita futura. In tal modo il religioso porta a compimento la sua totale donazione come sacrificio offerto a Dio, e con questo l’intera sua esistenza diviene un ininterrotto culto a Dio nella carità”. La nostra consacrazione è dunque atto di offerta e di culto sia perché siamo entrati totalmente, anima e corpo, nell’alleanza sponsale con Cristo. E questo comporta un’espropriazione di sé che si concretizza nell’impegno a vivere la  povertà, la castità e l’obbedienza.

    Dovremmo allora interrogarci se viviamo la nostra realtà di consacrazione battesimale e religiosa nella consapevolezza di essere chiamati a divenire concretamente un “culto spirituale” per la gloria di Dio. Nella vita di una persona consacrata dovrebbe essere sempre presente la coscienza che nell’osservanza quotidiana dei voti essa presenta a Dio l’offerta cultuale che ha promesso nel giorno della professione. In questo senso è possibile affermare che il consacrato è nello stesso tempo, come Cristo sulla croce, vittima e sacerdote. Il rischio infatti è quello di riprenderci pian piano, magari senza accorgercene, quello che un giorno abbiamo donato in sacrificio. E allora la consacrazione e il nostro sacerdozio comune perde la sua verità.

    Ma se questo atto di “olocausto” si realizza allora la nostra vita si trasforma realmente in una continua eucarestia che prolunga e prepara quella sacramentale che si celebra all’altare. E come il sacrificio di Cristo si riversa a beneficio della salvezza di tutti, così anche la nostra vita divenuta offerta-sacrificio, unita al suo, collabora alla redenzione del mondo intero.

    Il nostro donarci quotidiano – diremmo il “nostro sacrificarci” – magari nascosto e dimenticato, in questa visione di fede assume sempre un valore straordinario. Un gesto, una sofferenza, una carezza, una parola, un servizio umile può trasformarsi in un atto di culto di straordinaria potenza che offriamo al Padre, sapendo che è da lui accolto perché vi intravvede l’amore stesso del Figlio. Origene commentando il libro del Levitico, essenzialmente un testo sacerdotale, ad un certo punto scrive: “Ignorate forse che anche a noi, cioè a dire tutta la Chiesa di Dio, a tutto il popolo dei credenti, fu dato un sacerdozio?…Se io amo i miei fratelli fino a donare la mia vita per essi, se combatto fino alla morte per la giustizia e la verità, se mortifico il mio corpo astenendomi da ogni concupiscenza carnale, se il mondo è a me crocifisso e io crocifisso al mondo, io ho offerto un olocausto all’altare di Dio e sono così il sacerdote del mio sacrificio” (Om. In Lev.)

    Oratio

    Concludiamo la nostra lectio con le parole di Teresa di Gesù Bambino. Ella ha saputo cogliere, nell’apparente banalità del quotidiano, una via di perfezione che seppur definita “piccola” contiene la sapienza straordinaria della croce che appare follia al mondo. Impariamo ad offrirci nelle piccole cose per essere pronti ad offrire a Dio, con Cristo, la nostra stessa vita come “vittima d’olocausto all’amore misericordioso”:

    Per vivere in un atto di perfetto amore, mi offro come vittima d’olocausto al vostro amore misericordioso, supplicandovi di consumarmi senza posa, lasciando traboccare nella mia anima i flutti d’infinita tenerezza che sono racchiusi in voi, e così possa diventare martire del vostro amore, o mio Dio.

     

     

     

  • 20 Mag

    AFFAMATI E ASSETATI DI GIUSTIZIA
    Mt 6,5

     

    di p. attilio franco fabris

    1.  AFFAMATI E ASSETATI

    Quando pensiamo alla parola affamati pensiamo a essere affamati di hamburger, di vittoria sportiva, o affamati di amore per una persona speciale, o di potere, ma essere affamati di giustizia, per come la intende Gesù, certamente molti non l’hanno mai sentita o la ignorano. Sei mai stato davvero affamato o assetato? Hai mai sofferto la fame o la sete? La maggior parte di noi oggi nel mondo occidentale non ha questa necessità, abbiamo cibo in abbondanza. Nell’antichità, però, anche se le persone lavoravano, avevano una paga bassa e per questo motivo non mangiavano la carne che una sola volta a settimana, se andava bene. Inoltre quello che mangiavano era proprio l’indispensabile e qualche volta provavano la fame. L’acqua potabile non era a portata di mano come adesso e si soffriva di più la sete. A chi di noi, soprattutto d’estate non è capitato di avere sete, che può essere subito soddisfatta. Nell’antichità avevano meno comodità, non si aveva acqua dal rubinetto, la vita doveva essere attentamente pianificata per avere la disponibilità di acqua sufficiente per rimanere in vita.

    Persone che hanno vissuto sulla loro pelle l’esperienza della sete e della fame, raccontano di essere stati disposti a correre rischi di vario genere e di essersi esposti a numerosi pericoli pur di poter estinguere quella fisiologica esigenza che li attanagliava. L’emergenza di ingerire liquidi e cibo giunge a tal punto da essere travolgente.

    Ora Gesù, nelle beatitudini, parla di “fame” e di “sete” in rapporto alla giustizia. Non è possibile comprendere la vita di Gesù di Nazareth senza la “fame e sete di giustizia”, ovvero, senza l’esistenziale sua passione per il Regno, che ha dato senso ed unità piena al suo stile di vita, alla sua predicazione, alle sue scelte, alla sua coerenza ed alla sua azione. La causa principale che mosse la vita di Gesù e la spiegazione delle condizioni radicali del discepolato fu sostanzialmente il desiderio ardente, fame e sete appunto, di creare le condizioni affinché  il Dio-Abbá potesse regnare, che fosse accettata la sua paternità-maternità, la quale potesse generare nuove relazioni di fraternità tra gli esseri umani e tra questi ed il resto della creazione.

    Questo cosa significa per il discepolo?

    Affamati e assetati” di giustizia indica un desiderare fortemente qualcosa, quindi una passione. Secondo alcuni studiosi i due verbi (affamati e assetati) si intensificano l’uno con l’altro e indicano appunto un ardente o appassionato desiderio, un desiderio da soddisfare a tutti i costi, infatti chi ha fame o sete cerca subito e si da fare per soddisfare questa necessità. Questa fame e questa sete di cui parla Gesù, sono simili a quello di un uomo che potrebbe morire di fame per mancanza di cibo o morire di sete per mancanza di acqua. Dunque la fame e la sete a cui si riferisce Gesù, non è quella fame e quella sete che risolvi con uno spuntino o una bibita. È quella fame e quella sete estrema, come se fossero diversi giorni che non si mangia e si sta per morire. Insieme, questi due verbi descrivono desideri profondi che non  sono passeggeri. Sono il desiderare con tutto il cuore una necessità vitale con la consapevolezza che senza giustizia non puoi vivere.  

    Il verbo “affamati e assetati (participio presente attivo) secondo gli studiosi, indica che la fame e la sete non è qualcosa di momentaneo, passeggero, ma è qualcosa di continuo, un desiderio quotidiano di tutta la vita! Quindi un credente quotidianamente desidererà ardentemente la giustizia!

    L’aver “fame e sete” è un segno di vita. È chiaro che una persona morta non ha appetito, anche se gli presentassimo cibo prelibato, non sarebbe stimolato e non muoverebbe nemmeno un dito. Quindi spiritualmente parlando chi non ha fame e sete di giustizia è morto, non ha una relazione con Dio, non è salvato, ma morto spiritualmente (cfr Efesini 2:1-3). Questo significa che è proprio questo desiderio che ci fa capire se la fede è viva o languisce. M.L. Jones diceva: “Non conosco test di verifica migliore per valutare la genuinità di una professione di fede cristiana. Infatti, se questo verso della Bibbia rappresenta per voi una delle affermazioni più meravigliose della Parola di Dio, allora sicuramente siete dei veri cristiani. Se non è così, fareste meglio a esaminare di nuovo i fondamenti su cui poggia la vostra professione di fede”. Per te questa è un’affermazione meravigliosa? Allora sei veramente un credente vivo!!

    È un segno di buona salute. Una delle domande più importanti che un medico fa ad un paziente è: “Come va il vostro appetito?”  Questo perché la mancanza di appetito è sempre un motivo di preoccupazione e potrebbe essere un sintomo di una grave malattia. Lo stesso principio vale in termini spirituali. Quando uno che si professa cristiano ha poco o nessun appetito per le cose di Dio, significa che c’è qualcosa di seriamente compromesso! Quando un credente non ha quel desiderio profondo della comunione con Dio, quando trascura la preghiera, i sacramenti, la comunità vuol dire che quel credente è  malato spiritualmente! 

     

    2.  DI GIUSTIZIA

    L’etimologia “justitia” rimanda al latino “jus” ovvero al diritto di ciascuno di avere ciò che gli è dovuto. Nella Bibbia è impossibile comprendere ed interpretare il termine “giustizia” su di un piano esclusivamente giuridico (la “giustizia distributiva”).  E allora domandiamoci: a che cosa si riferisce la “giustizia” di cui Gesù ci chiede di aver fame e sete?

    A)  La giustizia appartiene a Dio.

    La giustizia è un attributo di Dio, è una qualità, una caratteristica di Dio:

    Salmi 11:7: Poiché il Signore è giusto; egli ama la giustizia; gli uomini retti contempleranno il suo volto.

    Deuteronomio 32:4: Egli è la rocca, l’opera sua è perfetta, poiché tutte le sue vie sono giustizia. È un Dio fedele e senza iniquità. Egli è giusto e retto.

    La giustizia di Dio equivale alla coerenza con se stesso. Quello che noi chiamiamo la fedeltà di Dio alle sue promesse. Dire allora che Dio è giusto significa che Dio fa quello che ha promesso di fare.

    Ma in base a che cosa Dio è fedele e quindi “giusto”? Solo è in relazione a se stesso, Dio non ha altri standard (metri di misura) che la sua stessa natura ed essenza.  La sua eterna essenza è eterna giustizia (Salmi 111:3 ; Salmi 119:142 ; Isaia 51:8; Salmi 19:9; 119:137-138 ) che non vuole compiere una qualunque azione che non sia perfettamente buona e santa. Se volesse agire scorrettamente, egli agirebbe pertanto contro la sua natura, il che sarebbe assurdo:

    Daniele 9:14: Il  Signore, il nostro Dio, è giusto in tutto quello che ha fatto  (cfr. Salmi 145:17 ; Geremia 9:24 ).

    La giustizia di Dio è legata alla sua fedeltà all’Alleanza con il suo popolo. In base a questo patto la sua giustizia si manifesta come liberazione e salvezza del suo popolo ( Isaia 46:12-13 ; Isaia 51:5-6 ; Salmi 31:1 ; Salmi 85:8-11 ).

    In relazione con quest’aspetto Dio è giudice giusto perché libererà il povero e l’oppresso e stabilirà il suo diritto (Salmi 7:9 ; Salmi 9:1-4 ; Salmi 103:6,17 ; Salmi 34:16-22 ; Salmi 72:1-4 ; Salmi 82 ; Isaia  11:4).

    B).  La giustizia di Dio è stata comunicata all’uomo attraverso il Vangelo di Gesù.

    Paolo afferma in Romani 1:16-17 : Infatti non mi vergogno del vangelo; perché esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede; del Giudeo prima e poi del Greco;  poiché in esso la giustizia di Dio è rivelata da fede a fede». Nel Vangelo vediamo che è rivelata una giustizia che proviene da Dio e che soddisfa Dio! La giustizia di Dio è legata anzitutto al dono che egli fa all’umanità di suo Figlio, il quale divenuto uomo come noi adempie eternamente e perfettamente all’Alleanza. E solo lui può giustificarci perché di per sé nessuno può vantare una tale giustizia davanti a Dio! (cfr Salmi 130:3 ). Tutti gli uomini sono peccatori e destinati a perdizione ma Dio giustifica in Cristo i credenti, li dichiara giusti: questa è la giustizia di Dio rivelata nel Vangelo. Filippesi 3:8-9 : io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo  e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede.

    Dio giustifica i credenti in Gesù in due modi:

    • Facendo ricadere sul Figlio il nostro peccato. Gesù è agnello che liberamente si carica del nostro male e ne porta fino in fondo le conseguenze.

    • Facendo sì che possiamo partecipare in base alla fede e al battesimo della giustizia di Gesù. Essa viene celebrata/rinnovata ogniqualvolta si celebra l’Eucarestia che è “remissione dei peccati”.

    C). L’uomo reso capace di opere di giustizia

    La giustizia di cui partecipiamo attraverso la grazia di Gesù deve occupare un posto importante nel nostro rapporto con Dio. “Giustizia” in questo senso è il vivere in conformità all’evangelo,  cercando di vivere in conformità con la volontà di Dio. È una condizione gradita a Dio perché è la nostra risposta alla giustizia di Dio, che attraverso il dono della grazia ci rende capaci di rispondere liberamente a lui con “opere di giustizia”.  Fame e sete di giustizia” non è altro che il desiderio di entrare nel Regno di Dio e di operare perché esso sia seminato già ora nei solchi della storia. E questo soprattutto attraverso l’esercizio della condivisione fraterna.

    Il desiderio di giustizia è la conseguenza del fatto che siamo stati salvati, giustificati. Giovanni dice: ” Se sapete che egli è giusto, sappiate che anche tutti quelli che praticano la giustizia sono nati da lui”. (1 Giovanni 2:29).

    L’evidenza che siamo figli di Dio, che siamo nati da Lui è assomigliare a Gesù, praticare la giustizia! Sempre Giovanni dice: Figlioli, nessuno vi seduca. Chi pratica la giustizia è giusto, com’egli è giusto.  Colui che persiste nel commettere il peccato proviene dal diavolo, perché il diavolo pecca fin da principio. Per questo è stato manifestato il Figlio di Dio: per distruggere le opere del diavolo. Chiunque è nato da Dio non persiste nel commettere peccato, perché il seme divino rimane in lui, e non può persistere nel peccare perché è nato da Dio.  In questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chiunque non pratica la giustizia non è da Dio; come pure chi non ama suo fratello.” (1 Giovanni 3:7-10).

    In questo senso il mondo non incoraggia alla vera giustizia, basta fare un giro in un’edicola, in internet o vedere i programmi in televisione e ci accorgiamo che non c’è nessun o quasi incoraggiamento a ricercare un carattere e una condotta santa, ma a ricercare solo il proprio interesse o tutt’al più a puntare il dito sull’ “ingiustizia” altrui mai sulla propria.

    Ovvio che le nostre opere di giustizia non sono improntate ad una religiosità “farisaica” che attraverso di esse ricerca una propria giustizia che non vuole abbisognarsi della grazia (cfr Matteo 23:25 ). L’ubbidienza a Dio secondo la giustizia approvata da Dio, nasce dal cuore e non è pretesa di autosufficienza, (1 Samuele 16:7 ), non è religione vanagloriosa, ma si rivela attraverso opere di misericordia, tenerezza e perdono (Matteo 6:1-5 )

     

    3. SARANNO SAZIATI

    Con la scelta del verbo “saziare“, in luogo di “nutrire”, l’evangelista vuol sottolineare che gli “affamati e assetati” verranno abbondantemente, appagati da Dio, il quale soddisferà pienamente la loro esigenza di giustizia: “Beato colui che semina un seme di giustizia, perché mieterà sette volte tanto” (2 Enoch 42,8). Gesù in due diverse occasioni la prima con la samaritana con l’acqua e l’altra dopo la moltiplicazione del pane con il pane, afferma che l’acqua che Lui da disseterà e anche il pane sazierà in eterno, ovviamente riferendosi alla salvezza alla vita eterna (Giovanni 4:10-14 ; Giovanni 6:34-35 ; cfr. Apocalisse 7:16). La fonte della sazietà è Dio (forma del verbo saziati- chortazomai è al passivo).

    Saziati” è una parola molto forte, esprimeva l’alimentazione e l’ingrasso degli animali con foraggi e cereali, indica il dare cibo in abbondanza e quindi avere la fame soddisfatta. La stessa parola la troviamo quando Gesù fece la seconda moltiplicazione dei pani e dei pesci e la folla mangiò e fu saziata (Marco 8,8).

    La sazietà della fame e della sete fanno parte delle promesse nell’Antico Testamento. La sazietà della fame e della sete si riferisce al bisogno di salvezza. In diversi passi Dio promette a Israele il ristabilimento e il rinnovamento di Israele,  trasformando il deserto in lago, spandendo le acque sul luogo assetato  (Isaia 41:17-18 ; Isaia 44:3). Quindi non ci sarà più fame e sete (Isaia 49:8-10 ; Ezechiele 34:29 ; Ezechiele 36:29).

    Isaia 55:1-5 : O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro venite, comprate e mangiate! Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte!  Perché spendete denaro per ciò che non è pane e il frutto delle vostre fatiche per ciò che non sazia? Ascoltatemi attentamente e mangerete ciò che è buono, gusterete cibi succulenti!  Porgete l’orecchio e venite a me; ascoltate e voi vivrete; io farò con voi un patto eterno, vi largirò le grazie stabili promesse a Davide. Ecco, io l’ho dato come testimonio ai popoli, come principe e governatore dei popoli.  Ecco, tu chiamerai nazioni che non conosci, e nazioni che non ti conoscono accorreranno a te, a motivo del Signore, del tuo Dio, del Santo d’Israele, perché egli ti avrà glorificato. Isaia qui si riferisce al banchetto escatologico.

    L’invito è per gli assetati e affamati ad andare a Dio, ovvero ad entrare nella sua alleanza, per essere saziati gratuitamente. La Bibbia descrive la salvezza e la comunione del credente con Dio in termini di banchetto con cibo abbondante e vini raffinati.

    Isaia 25:6-8 : Il Signore degli eserciti preparerà per tutti i popoli su questo monte un convito di cibi succulenti, un convito di vini vecchi, di cibi pieni di midollo, di vini vecchi raffinati. Distruggerà su quel monte il velo che copre la faccia di tutti i popoli e la coperta stesa su tutte le nazioni.  Annienterà per sempre la morte; il Signore, Dio, asciugherà le lacrime da ogni viso, toglierà via da tutta la terra la vergogna del suo popolo, perché il Signore ha parlato.

    Anche il nuovo testamento usa moltissimo le immagini del banchetto e delle nozze. Così anche in Matteo 8:11-12 : E io vi dico che molti verranno da Oriente e da Occidente e si metteranno a tavola con Abraamo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli,  12 ma i figli del regno saranno gettati nelle tenebre di fuori. Là ci sarà pianto e stridor di denti.   (Cfr. 2 Corinzi 11:2 ; Efesini 5:25-27 ; Osea 2:19-20 ).

    Quindi la beatitudine si conclude con una certezza, una promessa, dicendo che saranno “saziati” gli assetati ed affamati di giustizia. Essi potranno finalmente beneficiare dell’autentico ristoro non solo nella pienezza nel Regno, ma in parte già sin d’ora nella misura in cui ci poniamo a “cercare prima il Regno e la sua giustizia”. Il resto ci sarà dato in aggiunta.

    Già il solo volere, ciò che il Vangelo designa come fame e sete di giustizia, possiede la virtù miracolosa di farci pregustare questa beatitudine, la gioia di cercare il bene nostro e degli altri. Questo è già grande conforto per noi. La pace dello spirito ci può essere anticipata già nella fase preparatoria del compimento del nostro dovere, ch’è appunto la fase del desiderio, del proposito, del buon volere.

    E sovente avviene che questa aspirazione alla giustizia modifichi e purifichi nelle anime generose l’orientamento generale dei desideri insoddisfatti che rendono infelice l’esistenza, perché in genere tali desideri sono egoisti, non dettati dalla «giustizia» che nel Vangelo si raggiunge e si realizza nell’amore. Questo è già beatitudine, oggi, nella vita presente; e domani, in quella futura, in pienezza ed eternamente. Per cui i nostri sforzi oggi non sono vani e irrisori.

    Ma chi non ha fame e sete di giustizia non può essere saziato. Coloro che non appartengono a Cristo non sperimenteranno la sazietà! Solo gli affamati e assetati di giustizia saranno saziati. Che meravigliosa promessa! 

     

    Per la riflessione

    – Di che cosa ho fame e sete per la mia sussistenza? Provo ad elencare una piccola lista in ordine di priorità.

    – Questi desideri in quale misura possono essere appagati, sfamati, nella mia vita? Posso dirmi soddisfatto? Oppure sento di aver “fame e sete” di qualcos’altro?

    – In quale modo cerco di soddisfare la mia fame e sete?

    – Fame e sete di giustizia: in base alla spiegazione sento che questa beatitudine mi riguarda. Sotto quale aspetto? In che misura?

    – Gesù mi rivolge una promessa: la mia fame e sete saranno finalmente appagati, nella misura in cui cerco di pormi in armonia con il disegno del Padre nella mia vita. Dinanzi a questa promessa che lui mi fa come gli risponderei? Gli darei fiducia oppure risponderei che non si tratta altro che di vana consolazione destinata a finire come tutte le altre?

    – Questa beatitudine rivela la nostra condizione spirituale. La mancanza quasi o assoluta di questo desiderio spirituale  rivela la debolezza o la mancanza di maturità spirituale, rivela una fede debole e anemica oppure una mancanza di fede. Il cristiano che è in sintonia con il Signore ha appetito per le cose di Dio. Coloro che hanno fame e sete di giustizia hanno una passione per Dio, sono coloro che hanno fame e sete di Cristo!  (Giovanni 3:3-5 ; 2 Corinzi 5:17 ;Tito 3:4-7 ).

     

     

  • 15 Mag

    VITA SPIRITUALE

    di E. Bianchi

    Non si dà vita cristiana senza vita spirituale! Lo stesso mandato fondamentale che la chiesa deve adempiere nei confronti dei suoi fedeli è quello di introdurli a un’esperienza di Dio, a una vita in relazione con Dio. È essenziale ribadire oggi queste verità elementari, perché viviamo in un tempo in cui la vita ecclesiale, dominata dall’ansia pastorale, ha assunto l’idea che l’esperienza di fede corrisponda all’impegno nel mondo piuttosto che all’accesso a una relazione personale con Dio vissuta in un contesto comunitario, radicata nell’ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture, plasmata dall’eucaristia e articolata in una vita di fede, di speranza e di carità. Questa riduzione dell’esperienza cristiana a morale è la via più diretta per la vanificazione della fede.
La fede, invece, ci porta a fare un’esperienza reale di Dio, ci immette cioè nella vita spirituale, che è la vita guidata dallo Spirito santo. Chi crede in Dio deve anche fare un’esperienza di Dio: non gli può bastare avere idee giuste su Dio. E l’esperienza, che sempre avviene nella fede e non nella visione (cfr. 2 Corinti 5,7: «noi camminiamo per mezzo della fede e non ancora per mezzo della visione»), è qualcosa che ci sorprende e si impone portandoci a ripetere con Giacobbe: «Il Signore è qui e io non lo sapevo!» (Genesi 28,16), oppure con il Salmista: «Alle spalle e di fronte mi circondi […]. Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, tu sei là, se scendo agli inferi, eccoti» (Salmo 139,5 e sgg.). Altre volte la nostra esperienza spirituale è segnata dal vuoto, dal silenzio di Dio, da un’aridità che ci porta a ridire le parole di Giobbe: «Se vado in avanti, egli non c’è, se vado indietro, non lo sento; a sinistra lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a destra e non lo vedo» (Giobbe 23,8-9). Eppure anche attraverso il silenzio del quotidiano Dio ci può parlare. Dio infatti agisce su di noi attraverso la vita, attraverso l’esperienza che la vita ci fa fare, dunque anche attraverso le «crisi», i momenti di buio e di oscurità in cui la vita può portarci.
L’esperienza spirituale è anzitutto esperienza di essere preceduti: è Dio che ci precede, ci cerca, ci chiama, ci previene. Noi non inventiamo il Dio con cui vogliamo entrare in relazione: Egli è già là! E l’esperienza di Dio è necessariamente mediata dal Cristo: «nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» dice Gesù (Giovanni 14,6). Cioè l’esperienza spirituale è anche esperienza filiale. Lo Spirito santo è la luce con cui Dio ci previene e orienta il nostro cammino verso la santificazione, cammino che è sequela del Figlio: l’esperienza spirituale diviene così null’altro che la risposta di fede, speranza e carità al Dio Padre che nel battesimo rivolge all’uomo la parola costitutiva: «Tu sei mio figlio!». Sì, figli nel Figlio Gesù Cristo: questa la promessa e questo il cammino dischiusi dal battesimo! Come diceva Ireneo di Lione, lo Spirito e il Figlio sono come le due mani con cui Dio plasma le nostre esistenze in vite di libertà nell’obbedienza, in eventi di relazione e di comunione con Lui stesso e con gli altri.
Alcuni elementi sono essenziali per l’autenticità del cammino spirituale. Anzitutto la crisi dell’immagine che abbiamo di noi stessi: questo è il doloroso, ma necessario inizio della conversione, il momento in cui si frantuma l’«io» non reale ma ideale che ci siamo forgiati e che volevamo perseguire come doverosa realizzazione di noi stessi. Senza questa «crisi» non si accede alla vera vita secondo lo Spirito. Se non c’è questa morte a se stessi non ci sarà neppure la rinascita a vita nuova implicata nel battesimo (cir. Romani 6,4). Occorrono poi l’onestà verso la realtà e la fedeltà alla realtà, cioè l’adesione alla realtà, perché è nella storia e nel quotidiano, con gli altri e non senza di essi, che avviene la nostra conoscenza di Dio e cresce la nostra relazione con Dio. È a quel punto che la nostra vita spirituale può armonizzare obbedienza a Dio e fedeltà alla terra in una vita di fede, di speranza e di carità. È a quel punto che noi possiamo dire il nostro «sì» al Dio che ci chiama con quei doni e con quei limiti che caratterizzano la nostra creaturalità. Si tratterà dunque di immettersi in un cammino di fede che è sequela del Cristo per giungere all’esperienza dell’inabitazione del Cristo in noi. Scrive Paolo ai cristiani di Corinto: «Esaminate voi stessi se siete nella fede: riconoscete che Gesù Cristo abita in voi?» (2 Corinti 13,5).
La vita spirituale si svolge nel «cuore», nell’intimo dell’uomo, nella sede del volere e del decidere, nell’interiorità. È lì che va riconosciuta l’autenticità del nostro essere cristiani. La vita cristiana infatti non è un «andare oltre», sempre alla ricerca di novità, ma un «andare in profondità», uno scendere nel cuore per scoprire che è il Santo dei Santi di quel tempio di Dio che è il nostro corpo! Si tratta infatti di «adorare il Signore nel cuore» (cfr. I Pietro 3, I 5). Quello è il luogo dove avviene la nostra santificazione, cioè l’accoglienza in noi della vita divina trinitaria: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Giovanni 14,23). Fine della vita spirituale è la nostra partecipazione alla vita divina, è quella che i Padri della chiesa chiamavano «divinizzazione». «Dio, infatti, si è fatto uomo affinché l’uomo diventi Dio», scrive Gregorio di Nazianzo, e Massimo il Confessore sintetizza in modo sublime: «La divinizzazione si realizza per innesto in noi della carità divina, fino al perdono dei nemici come Cristo in croce. Quand’è che tu diventi Dio? Quando sarai capace, come Cristo in croce, di dire: “Padre, perdona loro”, anzi: “Padre, per loro io do la vita”». A questo ci trascina la vita spirituale, cioè la vita radicata nella fede del Dio Padre creatore, mossa e orientata dallo Spirito santificatore, innestata nel Figlio redentore che ci insegna ad amare come lui stesso ha amato noi. Ed è lì che noi misuriamo la nostra crescita alla statura di Cristo.

  • 21 Apr

    LA LUCE DELLA RAGIONE E L’ILLUMINAZIONE DIVINA

    A. La facoltà di conoscere

    La filosofia occidentale, sin dalla sue origini, è convinta che l’uomo sia capace di conoscere la realtà e che tutto ciò che esiste è conoscibile con l’intelletto (ens est intelligibile). Ma questo principio può essere applicato a Dio Essere Supremo?

    La risposta della filosofia scolastica[1] è semplice: Dio infinito può essere conosciuto pienamente soltanto con l’intelletto infinito, ovvero solo Dio conosce se stesso. La ragione umana, che è finita ed imperfetta, può conoscere Dio solo parzialmente. Il suo metodo può essere solo l’analogia, cioè a partire dalle cose create.

    L’apologetica è il trattato teologico che approfondisce il tema della conoscenza naturale di Dio.

    Si afferma che la dottrina mistica non predilige il percorso razionale per parlare di Dio. Ad esempio nel monachesimo troviamo scritto da san Colombano[2]: “Cerca la suprema scienza non attraverso dispute di parole, ma attraverso la perfezione dei buoni costumi; non con la lingua ma con la fede; essa nasce dalla semplicità del cuore; non vi si giunge attraverso i dotti ragionamenti che non si radicano nella pietà. Se cercherai con le argomentazioni della ragione l’Ineffabile, egli si farà  da te più lontano di quanto era; se cercherai con la fede troverai, la “Sapienza sta alle porte” (Pr 1,21), dove sempre dimora e in parte potrai vederla”. E nell’Imitazione di Cristo si elogia “più l’umile semplice che il superbo filosofo”. In effetti il sistema scolastico è troppo imperniato sulla ragione, rischiando di enfatizzare questa dimensione che non è l’unica presente nell’essere umano.

    Oggi la situazione è diversa. Vi sono pericoli di altro genere del tipo di una sorta di “sentimentalismo”, per cui è utile invitare a coltivare una sana ragione, una riflessione ben fondata anche nell’ambito della fede. Teofane il Recluso diffidente contro i troppo sentimentali dice: “La vita secondo la volontà divina è vita ragionevole… La luce della verità e la purezza della santità incoruttibile sono due aspetti della trasformazione spirituale del mio “io”. Per comprendere i comandamenti bisogna conoscere tutte le verità cristiane…A pensare sono tutti capaci. Usino, quindi questa facoltà per riflettere sulle cose serie, per conoscere la realtà”.

    B. Il senso del mondo visibile

    L’inizio della conoscenza umana è l’osservazione della realtà. Gli antichi filosofi osservando la natura cercavano di scoprire il principio che unisce la molteplicità, che dà l’unità, che crea per mezzo dei vari e ineguali fenomeni naturali, l’universo ordinato, il cosmo. Ma questi filosofi non erano d’accordo su dove cercare questo principio di unificazione (per Talete era l’acqua, Anassimandro proponeva l’Hapeiron….). Aristotele osservando che tutto ciò che esiste è destinato a decomporsi intuì che tale principio doveva essere cercato altrove, fuori della natura: scoprire la substantia, il pensiero che domina su tutto.

    I cristiani scorprono che questo logos  che soggiace a tutta la creazione è Cristo, Parola eterna di Dio. Per san Basilio Dio ha concepito tutta la creazione come una “scuola” per le anime, destinata a coloro che ricercano la sapienza divina, nascosta in tutte le cose nell’”opera dei sei giorni” (Exameron). Nemesio[3] fa un gioco di parole dicendo che non c’è nessuna cosa che sarebbe “non-logica” (alogon). Tutto ciò che esiste ha quancosa da dirci.

    Si tratta di comprendere giustamente il senso di ciò che ci circonda. Nelle canzoni spesso la gente non comprende il contenuto perché ascolta troppo il suono, la melodia, perdendo l’interesse per le parole e il cantante. Non capire il logos del creato è la stessa cosa! Si usano le cose del mondo senza aver riguardo all’intenzione divina per esse. I padri greci chiamavno questo esercizio “theoria fisica” (contemplazione naturale).

    Enrico Medi[4], astrofisico, possedeva questo sguardo contemplativo.egli scrive:Oh, voi misteriose galassie …, io vi vedo, vi calcolo, vi intendo, vi studio e vi scopro, vi penetro e vi raccolgo. Da voi io prendo la luce e ne faccio scienza, prendo il moto e ne fo sapienza, prendo lo sfavillio dei colori e ne fo poesia; io prendo voi stelle nelle mie mani, e tremando nell’unità dell’essere mio vi alzo al di sopra di voi stesse, e in preghiera vi porgo al Creatore, che solo per mezzo mio voi stelle potete adorare”.

    Potremmo aggiungere anche la testimonianza di una grande astronomo, Giovanni Keplero[5]  che compose una preghiera sullo stile dei salmi: “ Grande è il nostro Dio! Grande la sua potenza, la sua sapienza infinita. Lodatelo, cieli! Lodatelo, sole, luna e pianeti, con la lingua che vi è data per lodare il vostro Creatore. E anche tu, anima mia, canta, canta più che puoi l’onore del Signore! Da lui, in lui e per lui sono tutte le cose: quelle ancora sconosciute e quelle che già conosciamo.  A lui lode, onore e gloria, d’eternità in eternità! Ti rendo grazie, Creatore e Signore, di avermi dato questa gioia alla vista della tua creazione, questo godimento nel contemplare l’opera delle tue mani. Cerco di annunciare agli uomini lo splendore delle tue opere, nella misura che il mio spirito finito
    può cogliere l’infinito”.

    C. Senso spirituale delle cose

    Giungere ad intuire il mistero inerente alle cose creato è proprio di chi ha ricevuto il dono dell’intelletto (intus-legere). A ciascuno è dato di potervi accedere secondo la sua peculiarità scorgendo una dimensione del mistero (la totalità appartiene solo a Dio). Le vie possono essere diverse, ma sono in armonia. Provengono tutte da una sola parola, il Verbo di Dio, Gesù Cristo nel quale è la pienezza della rivelazione.

    Tutta la realtà dunque contiene in sé un senso “cristologico”. Nell’iconografia questo mistero è rappresentato dalla sapienza divina seduta in trono in mezzo ad un cerchio che rappresenta il creato. Con i suoi raggi penetra tutto, eppure rimane nascosta sotto l’iride della bellezza sensibile ed esterna. Accanto alla Sapienza coloro che la riconobbero per primi: la vergine Maria e Giovanni Battista.

    D. La “pratica”, via alla “teoria”

    Per acquisire questo senso spirituale non è sufficiente il naturale dono per la riflessione. Paolo apostolo ricorda che: “Nessuno può dire Gesù è il Signore se non nello Spirito santo” (1Cor 12,3). Il senso cristologico delle cose, la Sophia di Dio, è conoscibile solo da parte di coloro che hanno ricevuto l’ispirazione dello Spirito santo.

    Tuttavia tale illuminazione esige da parte nostra lo sforzo di purificarci, di liberarci dal peccato e dalla passioni, la purezza di cuore e la pratica delle virtù: “beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5,8). La purificazione dal peccato e la vita nelle virtù fu denominata dai padri greci con il termine “pratica” (praxis); la contemplazione con il termine “theoria”. Venne stabilito il principio che la “pratica” è la via alla “theoria”. In altre parole: per capire il senso del mondo e delle cose bisogna vivere bene. In questo senso gli uomini “carnali” (soggetti alle passioni) subiscono le illusioni dei sensi e dunque sono impediti a raggiungere la comprensione della verità.

    Tutto quello che incontriamo nel mondo riceve un doppio significato. La realtà è come il pane e il coltello. Chi sa tagliare riceve il nutrimento, chi non sa maneggiare il coltello non solo rimane affamato, ma anche si taglia.

     E.  Simboli spirituali

    Il significato del mondo e colto individualmente, tuttavia esistono alcune costanti che danno la possibilità di usare un linguaggio simbolico comprensibile a tutti nel parlare dell’esperienza spirituale. Nel medioevo erano amati i testi in cui si spiegavano i “simboli della natura”. Basterebbe poi leggere testi di mistici, oppure le opere di san Francesco di Sales che abbondantemente attinge alla natura per illustrare dottrine spirituali.

    Nella vita di s. Caterina da Siena si dice che ella “traduceva” tutto ciò che vedeva in linguaggio spirituale. Usiamo delle traduzioni per capire una lingua per noi incomprensibile. Il peccato e le passioni disordinate hanno reso il linguaggio del mondo parole straniere. Per mezzo della comprensione spirituale esse tornano a far parte della nostra lingua originaria. Ma la condizione è possedere uno sguardo di fede che perfezione l’intelletto.

    Una preghiera di Jacques Olier[6] esprime bene questo desiderio: “Mio Dio, io ti adoro  in tutte le tue creature, ti adoro vero e unico sostegno di tutto il mondo; senza di te nulla esisterebbe e nulla sussiste che in te. Ti amo, mio Dio, e lodo la tua maestà che appare  sotto l’esteriorità di tutte le creature. Tutto ciò che io vedo, o mio Dio, non serve che ad esprimere  la tua bellezza segreta e ignota agli occhi dell’uomo. Tu sei al fondo di tutto e ti manifesti sotto ogni cosa in qualcuna delle tue perfezioni 

    1. La fede e i suoi vantaggi

    Potremmo elencare in sei punti il valore della fede per la vita spirituale.

    1. La fede costituisce il fondamento della vita spirituale. Se il motto dei filosofi cinici[7] era “Ristampare le monete” ovvero dare un altro valore alle cose, questo vale molto di più per la fede: essa ci apre ad uno sguardo profondo, infinito ed eterno sulla realtà. Per questo di fatto la fede è l’inizio di una vita nuova.
    2. La fede ci unisce a Dio. Dio puro spirito può essere accostato solo attraverso la fede che opera nel profondo del cuore.
    3. La fede illumina l’intelletto. La mente si sviluppa con la conoscenza. Per mezzo della fede ci appropriamo della conoscenza di Colui che è la verità e la Vita (cfr Gv 14,6).
    4. La fede rafforza la volontà. Non può avere un carattere fermo chi non ha convinzioni costanti. La fede ci fa partecipare alla immutabile verità di Dio, essa si approfondisce e cresce pur rimanendo sempre la medesima. Tale diviene anche colui che vive secondo la fede.
    5. La fede è sorgente di consolazione.  La vera consolazione procede solo dalla verità. La fede è la verità che scaturisce dalla “Buona Notizia”.
    6. La fede è opera meritoria. L’insegnamento cattolico riconosce i “meriti”. La grazia è un dono di Dio che esige la nostra collaborazione. La cooperazione con Dio è un privilegio così grande che “merita” come ricompensa il regno di Dio, anche quando si tratta di una piccola opera che non necessariamente è esteriore.

    2.  Doppia concezione di fede

    Al tempo della Riforma vi furono discussioni sul rapporto tra fede e buone opere. Oggi appare chiaro che l’equivoco era dato dall’ambiguità dei concetti. Se ad un cattolico domandiamo cos’è la fede ci dirà che si tratta di aderire alle verità del credo e del catechismo, se domandiamo la stessa cosa ad un protestante dirà che la fede è un’illimitata fiducia accordata a Dio sull’esempio di Abramo. È chiaro che una tale fede in se stessa giustifica, mentre al contrario l’adesione semplicemente mentale ad un sistema di verità non ottiene la stessa cosa, essa resterebbe “morta senza le opere” (Gc 2,26).

    Allora come è possibile accordare queste posizioni? Ripartendo da una retta comprensione della realtà della fede. Il suo fondamento rimane una fiducia illimitata in Dio, la prontezza di accettare tutto ciò che egli propone. Ma proprio questa prontezza ci obbliga a raccogliere e conservare tutto ciò che Dio ci ha rivelato, la ricchezza del deposito della fede. Sono quindi ambedue aspetti inseparabili della fede: la fiducia in Dio e l’accoglienza delle verità di fede contenute nel catechismo.

    Origene bene esprime la necessità di ambedue gli aspetti della fede al fine di ottenere salvezza: Padre onnipotente, preghiamo la tua misericordia: donaci non solo di ascoltare la tua parola, ma anche di metterla in pratica. Distruggi in noi ciò che deve essere distrutto
    e vivifica ciò che deve essere vivificato. Concedici, Padre santo, di credere con il cuore, di professare con la parola, di confermare con le opere la tua alleanza con noi. Così gli  uomini, vedendo le nostre opere buone, glorificheranno te, Padre nostro che sei nei cieli

    3.La fede nella quotidianità

    La mancanza di fede si riflette in tutte le nostre relazioni con Dio: la preghiera diventa noiosa, i sacramenti vengono trascurati.

    Ma anche la relazione col prossimo viene intaccata dalla mancanza di fede: le relazioni diventano puramente umane, facilmente deteriorabili. La carità si affievolisce sino a spegnersi. Cercheremo di imporci in tutti i modi. L’umiltà scompare. La testardaggine, l’intolleranza, la sconsideratezza, la durezza nel giudizio, sono note di una fede debole.

    La fede imposta correttamente la nostra relazione anche con il creato, con le cose, il mondo e i suoi problemi. Si cammina nel mondo sapendo di non essere allo sbando di forze sconosciute, ma in mano alla Provvidenza di Dio.

    Scrive san Roberto Bellarmino[8]: Le montagne ci sembrano grandi perché sono vicine; le stelle, al contrario, anche se incomparabilmente più grandi, sembrano piccoli punti. Se fossimo in cielo, le stelle apparirebbero enormi, come infatti sono, e le montagne ci sembrerebbero granelli di sabbia. Gli uomini di questa terra, che hanno il loro cuore attaccato al mondo, considerano come enormi gli affari terreni. Quando ottengono un’eredità o raggiungono onori, sono colmi di gioia. Quando perdono una moneta, disturbano tutti coloro che sono vicini. Al contrario, colui che serve Dio, chi abita sull’alta torre della fede, è così lontano dalle cose di quaggiù, che tutti i cosiddetti grandi e importanti problemi gli appaiono come giochi di bambini. Paragonando con l’eternità tutte le sfortune del mondo, non le teme più dei morsi di una zanzara.

    Di fronte a questa testimonianza poniamone un’altra, quella di Lev Tolstoj[9], in cui si parla del processo della perdita della fede:   Persi la fede nello stesso modo in cui l’hanno perduta e continuano a perderla coloro che hanno ricevuto il nostro stesso tipo di educazione. Nella maggior parte dei casi ciò accade nel modo seguente: si vive come vivono tutti, e tutti vivono basandosi su principi che non solo non hanno nulla in comune con la fede professata, ma che anzi le sono generalmente contrari e opposti; la religione non entra nella vita, e non accade mai, sia nei rapporti con gli altri che in privato, di doverci confrontare o fare i conti con essa. Viene professata e praticata in qualche regione indeterminata, lontano dalla vita e indipendentemente da essa. Quando entriamo in contatto con la fede, la consideriamo normalmente come un fenomeno esteriore, non collegato all’esistenza.  Fondandosi sulla vita di un uomo e sulle sue azioni è assolutamente impossibile capire – sia ai giorni nostri che in passato – se costui sia credente o meno. Se vi è una differenza tra coloro che professano esplicitamente la fede e quelli che la negano, ebbene, tale differenza non va certo a favore dei primi. Sia ai giorni nostri che in passato, l’esplicita accettazione e professione della fede ortodossa si riscontra generalmente in persone ottuse, crudeli, immorali, con un alto concetto di se stesse, mentre l’intelligenza, l’onestà, la bontà, la rettitudine e il sentimento etico si ritrovano generalmente in persone che si professano non credenti.  Nelle scuole s’insegna il catechismo e si costringono gli allievi ad andare in chiesa; agli impiegati vengono richiesti dei certificati di comunione. Ma una persona del nostro ambiente, che abbia smesso di studiare e non occupi un posto nell’amministrazione dello stato, sia oggi sia – e ancor più – in passato, può vivere decine d’anni senza ricordarsi neppure una volta di vivere in mezzo a cristiani e di venir considerato egli stesso un seguace della religione ortodossa.  Quindi, sia oggi che in passato, la fede religiosa accettata passivamente e fondata su pressioni esteriori si dissolve a poco a poco sotto l’influenza delle conoscenze e delle esperienze della vita ad essa contrarie, e molto frequentemente accade che si viva a lungo immaginandosi di conservare intatta quella fede che ci è stata trasmessa sin dall’infanzia, mentre in realtà già da gran tempo in noi non ne è rimasta più traccia. Il mio amico S., uomo intelligente e sincero, mi ha raccontato come smise di credere. Aveva già ventisei anni e, trovandosi una volta a passar la notte fuori di casa durante una partita di caccia, la sera, prima di coricarsi, s’inginocchiò per recitare le preghiere secondo un’antica abitudine contratta fin dall’infanzia. Il fratello maggiore, che era a caccia con lui, se ne stava coricato sul fieno a guardarlo. Quando S. ebbe finito e si fu coricato a sua volta, il fratello gli chiese: “Così tu lo fai ancora?”.  Non si dissero altro, ma da quel giorno S. smise di recitare le preghiere e di recarsi in chiesa, e ormai da trent’anni non prega, non si comunica e non frequenta la chiesa. E questo non perché conoscesse le convinzioni del fratello e le avesse accettate, o perché avesse preso una qualsiasi decisione cosciente, ma soltanto perché le parole pronunciate dal fratello erano state come la pressione di un dito contro una muraglia che stava già per crollare sotto il suo stesso peso; quelle parole gli avevano fatto capire che là dov’egli credeva che ci fosse ancora la fede ormai da tempo c’era in realtà soltanto un vuoto, e che quindi le parole che diceva, i segni di croce e le genuflessioni che faceva durante la preghiera erano assolutamente privi di senso. Avendone riconosciuta l’assurdità, non poteva più continuare a ripeterli.  La stessa cosa è accaduta e accade – così almeno io credo – alla stragrande maggioranza delle persone. Parlo di quanti hanno ricevuto la mia educazione e sono sinceri con se stessi e non di coloro per i quali la fede è soltanto un mezzo per il raggiungimento di qualche fine temporale. (Costoro sono in realtà i più radicali miscredenti, giacché se per loro la fede è soltanto un mezzo per il raggiungimento di fini mondani, è chiaro che non può chiamarsi fede). Il mondo della scienza e quello della vita hanno ormai distrutto per loro l’edificio artificiale della fede, e qualora se ne siano resi conto hanno già sgombrato il posto vuoto, oppure non se ne sono ancora accorti. Io persi la fede trasmessami nell’infanzia più o meno allo stesso modo, ma con questa differenza: poiché avevo cominciato, appena quindicenne, a leggere opere di filosofia, la mia rinuncia alla fede religiosa fu ben presto cosciente. Fin dall’età di sedici anni per convinzione interiore smisi di pregare, di andare in chiesa e di digiunare. Non credevo in ciò che mi era stato insegnato nell’infanzia, ma credevo pur sempre in qualcosa, anche se non avrei assolutamente saputo dire in cosa. Credevo in Dio, o meglio non lo negavo, ma di quale Dio si trattasse non avrei saputo dirlo; non negavo il Cristo e il suo insegnamento, ma in che cosa consistesse questo suo insegnamento non avrei saputo dirlo.  Oggi, ricordando quei giorni, vedo chiaramente che l’unica mia vera fede – ossia quanto, escludendo gli impulsi animali, guidava la mia vita – era a quell’epoca la fede nell’autoperfezionamento. Ma in cosa consistesse e quale fosse il suo scopo, non avrei saputo dirlo. Cercavo di perfezionarmi intellettualmente, imparando tutto quel che potevo imparare e studiando tutto ciò verso cui la vita mi spingeva; cercavo di perfezionare la mia volontà ponendomi regole di comportamento che mi sforzavo di osservare; mi perfezionavo fisicamente compiendo esercizi di tutti i generi, esercitando la forza e la destrezza, abituandomi alla resistenza e alla temperanza con privazioni di ogni sorta. Era questo che io consideravo autoperfezionamento. All’inizio, naturalmente, si trattava di un perfezionamento morale, ma ben presto venne sostituito dall’autoperfezionamento in generale, ossia dal desiderio di diventare migliore non davanti a me stesso o davanti a Dio, bensì davanti agli altri. E ben presto questa aspirazione a diventare migliore al cospetto degli uomini si mutò in quella a diventare più forte, più famoso, più importante e più ricco di loro.

    d.  Mistica della luce

    Nel linguaggio della teologia spirituale si parla di “mistica della luce” e di “mistica delle tenebre”.

    Nel linguaggio dei mistici i termini “luce” e “tenebre” non hanno significato morale (bene-male): sono divenuti invece simboli della doppia via che conduce a Dio: della conoscenza intellettuale e della conoscenza intuitiva.

    Certamente a Dio andiamo per mezzo della mente intellettiva. Ma d’altra parte il cristiano non si riduce ad essere un razionalista: la mente umana afferra ben poco del mistero di Dio. Tuttavia più è purificata più viene introdotta nel mistero: dice Evagrio[10]: “La conoscenza della ss.ma Trinità è adeguata al grado di purezza e di integrità della mente”. Evagrio sa benissimo che non è facile raggiungere la meta di una mente totalmente purificata e integra. La mente ha bisogno di superare anche la sua “carnalità” rappresentata dall’immaginazione, dalla fantasia. Ora nessuna immagine prodotta dall’uomo può esprimere perfettamente Dio, per questo motivo i veri contemplativi cercano di liberarsi da tutte le immagini anche sante. Scrive Matta El Meskin: “durante la preghiera, non devi imma­ginarti nessuna forma esteriore di Dio Padre o del Figlio o dello Spirito santo, come se si tro­vassero al di fuori di te o come se il tuo occhio potesse contemplarli, perché è all’interno della tua anima che Dio si rende presente e non al­l’esterno. Senti allora la sua presenza, ma senza vederlo. «Prega il Padre tuo che è nel segreto» (Mt 6,6)”.

    Ma neppure questo sembra bastare. Noi pensiamo attraverso concetti e categorie mentali. Ma Dio nel quale tutto esiste non può essere contenuto in nessun nostro concetto.  Allora cosa rimane? Evagrio vede la soluzione in un intelletto totalmente liberato da immagini e concetti e ritornato perciò allo stato originale, illuminato perciò dalla grazia dello Spirito: qui allora vede Dio nella pura luce.  Questa è la direzione in cui si muove la mistica della luce

    l.     Mistica delle tenebre

    L’esperienza di Dio attraverso tenebre oscure è conosciuta dalla scrittura (cfr Es 19,9). Dio si rivela nella “nube”. Anche noi usiamo l’intelletto per avvicinarci a Dio, ma facciamo l’esperienza che questa luce è debole e non raggiunge mai realmente il mistero: si esaurisce prima. Con la ragione allora comprendiamo che Dio è sempre l’al-di-là-di-tutto: questa consapevolezza fu definita nel medioevo come “dotta ignoranza”.

    Allora bisogna accontentarsi? No. Il contemplativo continua il suo cammino, ma su un percorso diverso. Abbandona l’intelletto e va a Dio per la via dell’amore. I mistici orientali come san Gregorio di Nissa o lo PseudoDionigi areopagita parlano di ex-stasis,  ovvero di una uscita dallo stato intellettuale nelle tenebre dell’amore. L’ascesa mistica si svolge dunque in due tappe: prima l’intelletto sale per la montagna della conoscenza fino al termine delle sue possibilità, fino alla vetta. Ma non trovandovi ancora Dio, l’uomo prende le ali dell’amore per volare più in alto.

    In questo desiderio immenso mai appagato qui in terra, l’anima giunge alla conoscenza dell’immensità di Colui che lo ha suscitato. L’anima conosce Dio nella grandezza del proprio amore per lui.

    Via della luce e via delle tenebre non sono contraddittorie. La conoscenza del mistero di Dio esige l’operazione intellettiva, l’intelletto deve essere “illuminato” ci ricorda Evagrio, e Gregorio di Nissa è convinto che la vera “illuminazione” avviene tramite l’esercizio della carità che supera ogni intelletto. Nella mistica delle tenebre viene quindi messo in rilievo che Dio è carità (cfr 1Gv 4,8), e che può essere dunque conosciuto più perfettamente da coloro che lo amano.

    Come testo emblematico di questa corrente teologica possiamo riprendere un brano di san Gregorio di Nazianzio[11]: “Tu, l’al-di-là di ogni cosa, come chiamarti con un altro nome? Quale inno può cantarti? Nessuna parola può esprimerti. Quale spirito può afferrati? Nessuna intelligenza può immaginarti. Solo tu sei ineffabile, tutto ciò che si dice è uscito da te. Solo tu sei in conoscibile, tutto ciò che si pensa è uscito da te. Tutti gli esseri ti celebrano, quelli che parlano e quelli che non parlano. Tutti gli esseri ti rendono omaggio, quelli che pensano come quelli che non pensano. Il desiderio universale, il gemito di tutti aspira a te. Tutto ciò che esiste ti prega, e verso di te ogni essere che sa leggere il tuo universo, fa salire un inno di silenzio. Abbi pietà, Tu l’al-di-là d’ogni cosa,  come chiamarti con un altro nome?”.



    [1] Il carattere fondamentale della filosofia scolastica consisteva nell’illustrare e difendere le verità di fede con l’uso della ragione, verso la quale si nutriva un atteggiamento positivo. A tal fine, essi privilegiarono la sistematizzazione del sapere già esistente rispetto all’elaborazione di nuove conoscenze. L’intento degli scolastici era quello di sviluppare un sapere armonico, integrando la rivelazione cristiana con i sistemi filosofici del mondo greco-ellenistico, convinti della loro compatibilità, e anzi vedendo nel sapere dei classici, in particolare dei grandi pensatori come Socrate, Platone, Aristotele, Plotino, una conferma dei dogmi cattolici. Sulla base del rapporto tra fede e ragione che essi intravedevano nei testi greci, essi erano convinti di poter contrastare le tesi eretiche e cercavano di convertire gli atei. Dallo studio dei testi greci nasce il problema degli universali (cioè del logos, della forma) che viene sviluppato in modi differenti per tutta la scolastica. forma ante rem: l’essenza è prima della realtà (o della materia) come ritenevano Platone e Agostino d’Ippona; forma in re: l’essenza al di fuori della materia non ha alcun senso, come insegnava Aristotele; forma post rem: un semplice nome, ovvero convenzione che deduciamo dall’analisi delle caratteristiche di una serie. Tommaso, sulla scorta di Boezio, riteneva che gli universali esistessero sia ante rem come Idea nella mente di Dio, sia in re come forma delle varie realtà, sia post rem come concetto formulato nella mente dell’uomo. A Tommaso, sostanzialmente fautore di un indirizzo filosofico realista, si contrapposero i sostenitori del nominalismo, secondo cui l’universale era solamente un flatus vocis,[1] cioè appunto un nome e nient’altro. Poiché del resto la scolastica si sviluppò in varie scholae europee e quindi in realtà diverse, era inevitabile che in ogni schola, avendo esse differenti esigenze e finalità, i pensieri e i metodi acquistassero caratteristiche diverse. Vi erano quindi scholae più vive e attive dove spesso si accendevano contrasti tra gli intellettuali più conservatori e i maestri d’arte, i più innovativi. Gli scolastici svilupparono in tal modo un peculiare metodo di indagine speculativa, noto come quaestio,[2] basato sul commento e la discussione dei testi all’interno delle prime università. I vari dibattiti, tuttavia, dovevano seguire delle regole e dei riferimenti precisi, tra i quali vi era in particolare la logica formale di Aristotele.[3] Valevano poi le auctoritas, che erano rappresentate dagli scritti dei Padri della Chiesa (filosofia patristica), dai testi sacri, e da scritti della tradizione cristiana. Le auctoritates erano, in sostanza, la decisione di affidarsi ad una voce ufficiale e decisa dai concili, per cui esisteva l’auctoritas in campo medico (Galeno), quella in campo metafisico (Aristotele) e quella in campo astronomico (Tolomeo). Come già aveva fatto notare Scoto Eriugena, però, non era la ragione a fondarsi sull’autorità, ma l’autorità a fondarsi sulla ragione: gli Scolastici così mantennero sempre una forte coscienza critica verso le fonti del loro sapere.[4] Sarà il declino della fiducia nella ragione, a partire da autori come Guglielmo di Ockham, che porterà alla fine della Scolastica e dello stesso Medioevo. La Scolastica e la scienza. La  filosofia scolastica era particolarmente incentrata sullo studio del dogma religioso cristiano ma non solo. Gli scolastici diedero infatti un forte impulso anche allo sviluppo della scienza. Roger Bacon, ad esempio, pur restando fedele al metodo aristotelico, si occupò di filosofia della natura, basandosi sulle osservazioni degli eventi, e contestando alcuni elementi anti-scientifici del pensiero greco. Nel XII – XIII secolo, nell’ambito degli studi teologici che si tenevano nelle prime Università europee come Bologna, Parigi, Oxford, si svilupparono così diverse ricerche sulla natura, ovvero sul creato considerato opera di Dio, che avrebbero dovuto portare all’intelligibilità dell’opera di Dio creatore. Per i filosofi della natura del XII – XIII secolo la creazione era come un libro che andava letto e compreso, un libro che conteneva leggi naturali immutabili decise da Dio al momento della creazione. Tali studiosi pensavano che conoscere quelle leggi naturali avrebbe portato ad una conoscenza capace di avvicinare sempre più a Dio. In quest’ambito valevano come auctoritas anche filosofi dell’epoca greca e persino pensatori di origine islamica.[5] Oltre alla scienza, il metodo scolastico venne anche applicato agli studi di diritto, almeno a partire da Raniero Arsendi in avanti.
    [2] Colombano nacque tra il 540 e il 543 nella cittadina di Navan, nel Leinster (Irlanda centro-orientale).  Secondo la leggenda agiografica della sua vita, la madre, in attesa della sua nascita, avrebbe visto un sole uscire dal suo seno per recare al mondo una grande luce.  Colombano andò a scuola presso un maestro laico (fer-lèighin), apprendendo a leggere e a scrivere. Come gli altri giovani si occupava inoltre dei lavori della famiglia (allevamento del bestiame, conciatura delle pelli, caccia e pesca) e apprese anche a cavalcare e ad usare l’arco e la spada.  A quindici anni decise di farsi monaco, nonostante l’opposizione della madre. Abbandonò la famiglia e si recò al monastero di Clinish Island (Cluane Inis, in gaelico), sull’isola di Cleen dei laghi Lough Erne, dove venne accolto dall’abate Sinneill, che aveva studiato nel monastero di Clonard con Columba di Iona (Columcille). Qui Colombano studiò le Sacre Scritture e apprese il latino.  Terminati gli studi si trasferì presso il monastero di Bangor (Irlanda del Nord), dove sotto la guida dell’abate Comgall si praticava una stretta disciplina ascetica e la mortificazione corporale. Secondo la tradizione monastica irlandese, Colombano decise di seguire la peregrinatio pro Domino, partendo per fondare altri monasteri e diffondere la fede cristiana. Partito da Bangor verso il 590, all’età di 50 anni, si imbarcò con 12 monaci suoi compagni nel monastero di Bangor: Gall (san Gallo), Autierne, Cominin, Eunoch, Eogain, Potentino, Colum (Colomba il giovane), Deslo, Luan, Aide, Léobard, e Caldwald).  Visitò l’isola di Man e la piccola isola di San Patrizio, che secondo la leggenda custodiva la tomba di Giuseppe di Arimatea. Sbarcato quindi in Cornovaglia, visitò il monastero di Bodmin Moor fondato da san Gonion. Percorrendo l’antica strada romana che collegava Padstow con Fowey e Lostwithiel, visitò anche Tintagel e arrivò a Plymouth, da dove si imbarcò nuovamente per la Bretagna.  Approdò nella Francia merovingia nei pressi di Saint-Malo e di Mont-Saint-Michel, nel luogo dove in seguito venne posta una grande croce. Si recò quindi a Rouen, Noyon e Reims in Austrasia e passò in Burgundia dove regnava il re Gontrano. Grazie alle concessioni del re fondò tre monasteri (Annegray, Luxeuil-les-Bains e Fontaine-Chaalis).  Ad Annegray san Colombano e i suoi compagni riadattarono un antico castello diroccato, ed edificarono un monastero tra il 591 ed il 592, con una chiesa dedicata a san Martino. All’inizio i monaci vivessero di elemosina e questue, ma in seguito si dedicarono anche alla coltivazione dei campi. San Colombano si ritirava nelle grotte dei dintorni per vivervi da eremita.  La comunità monastica si ingrandì e fu presto necessario creare un nuovo centro monastico a 8 miglia verso sud-est, presso le rovine della città termale di Luxeuil, dove venne costruito un monastero con una chiesa dedicata a San Pietro. Un altro monastero, con una chiesa dedicata a San Pancrazio, venne fondato anche a Fontaines.  San Colombano si trasferì nel 593 a Luxeuil e vi eresse un nuovo monastero, da dove diresse i tre comunità con i suoi priori. Vi scrisse due regole, la Regula monachorum e la Regula cenobialis, e il Paenitentiale. La vita monastica era basata su pratiche ascetiche e sulla penitenza e comprendeva inoltre la pratica della lettura e scrittura quotidiane dei monaci, per alimentarne lo spirito: nei monasteri vennero anche fondati scriptoria.  I monasteri entrarono in conflitto agli inizi del VII secolo con l’episcopato francese: Colombano desiderava seguire le tradizioni della propria terra di origine ed ebbe particolare rilievo il differente calcolo della data della Pasqua. Colombano entrò in conflitto per questo motivo con il re merovingio della Burgundia Teodorico II, mentre Brunechil, nonna del re, fu fortemente irritata dalle sue critiche sul proprio comportamento. Nel 609 Colombano fu espulso da Luxeuil e fu messo in carcere a Besançon, da dove però, allentatasi la sorveglianza riuscì a fuggire per tornare a Luxeuil. Nuovamente arrestato, nel 610 fu condotto in barca lungo la Loira verso Nantes, da dove avrebbe dovuto ritornare per mare verso l’Irlanda con i suoi dodici compagni.  Secondo la leggenda agiografica durante il viaggio, giunti presso Tours, essendogli stato negato dai soldati il permesso di visitare la tomba di san Martino, il battello si diresse miracolosamente verso l’approdo, dove si incagliò e i soldati riuscirono a muoverlo di nuovo solo dopo che gli fu concesso quanto desiderava. A Nantes l’assoluta mancanza di vento impedì la partenza verso l’Irlanda e quando la scorta si fu miracolosamente addormentata, Colombano, sfuggì di nuovo alla sorveglianza.  Sfuggito al re burgundo, Colombano passò quindi in Neustria, verso Rouen, Soissons e Parigi. Qui regnava Clotario III, che gli concesse la sua protezione.  In Neustria santa Fara (Borgundofara), figlia di amici di Colombano, fondò l’abbazia femminile di Faremoutiers, mentre il santo e i suoi compagni e seguaci fondarono altri monasteri, tra i quali Remiremont, Rebais, Jumièges, Noirmoutier-en-l’Île, Saint-Omer (Passo di Calais).  Colombano si spostò quindi nel 611 alla corte di Teodeberto II, re d’Austrasia, passando per le città di Coblenza, Magonza, Strasburgo, Basilea e Costanza. Il re lo invitò ad evangelizzare le terre ancora pagane dei Sassoni e degli Alemanni lungo il fiume Reno e Colombano fondò un nuovo monastero a Bregenz, sulla riva del lago di Costanza, l’eremo di Sant’Aurelia.  Nel 612 Colombano decise di recarsi a Roma, per ottenere l’approvazione della propria regola da parte del papa Bonifacio IV. Lungo il cammino il suo discepolo san Gallo fu costretto a fermarsi perché ammalato e fondò in quel luogo l’abbazia di San Gallo.  Secondo la leggenda agiografica per essersi voluto fermare in seguito alla malattia, Colombano avrebbe imposto al discepolo di non celebrare più messa fino alla sua morte. Nel momento della morte di Colombano, Gallo avrebbe avuto in sogno la visione di Colombano che in forma di colomba bianca saliva al cielo e avrebbe celebrato dunque la sua prima messa in suo onore.  Giunto a Pavia, Colombano si pose sotto protezione del re longobardo Agilulfo, che era tuttavia ariano, e della regina Teodolinda, che gli chiesero un suo intervento nella spinosa questione tricapitolina. In cambio il santo ottenne la possibilità di creare sul suolo demaniale un nuovo centro di vita monastica. Il luogo, segnalato da un certo Giocondo, venne esaminato dalla stessa regina Teodolinda, salita sulla vetta del monte Penice, la quale chiese al santo di dedicare alla Madonna la piccola chiesetta in cima alla vetta, futuro santuario di Santa Maria.  L’area si trovava nel cuore dell’Appennino in una zona fertile e molto produttiva, dove abbondavano acque correnti e c’era pesce in quantità. Nella zona si trovavano anche antiche terme e sorgenti, sia termali che saline da cui si traeva il sale. La scelta del luogo ne faceva un avamposto religioso e politico controllato dal regno longobardo verso le terre liguri, ancora bizantine. Con il documento del 24 luglio del 613 che donava a Colombano il territorio per fondarvi il nuovo monastero, vennero attribuiti a questo anche la metà dei proventi delle saline del luogo, che appartenevano in precedenza al duca Sundrarit.  Colombano giunse a Bobbio nell’autunno del 614 con il proprio discepolo Attala, riparò l’antica chiesa di San Pietro (situata dove ora vi è il castello malaspiniano) e vi costruì attorno delle strutture in legno, che costituirono il primo nucleo dell’abbazia di San Colombano.  Secondo la leggenda agiografica, nonostante la presenza di una fitta boscaglia, che ostacolava il trasporto dei materiali da costruzione, san Colombano avrebbe sollevato i tronchi come fuscelli, facendo il lavoro di trenta o quaranta uomini. La leggenda riferisce anche dell’episodio dell’orso e del bue, che fu in seguito numerose volte raffigurato nell’arte: un orso uscito dalla foresta avrebbe ucciso uno dei due buoi aggiogato all’aratro di un contadino, ma san Colombano avrebbe convinto l’orso a lasciarsi aggiogare all’aratro per terminare il lavoro al posto del bue ucciso.  Nella quaresima del 615 Colombano si ritirò nell’eremo di San Michele presso Coli, lasciando a Bobbio come suo vice Attala, e tornando al monastero solo alla domenica. Qui gli giunse la visita di Eustasio, suo successore a Luxeuil, inviato dal re Clotario II, il quale aveva nel frattempo riunito sotto il suo dominio i tre regni merovingi precedentemente esistenti e desiderava il suo ritorno in Francia.  Colombano morì a Bobbio, nell’abbazia che aveva fondato, all’età 75 anni, la domenica 23 novembre del 615. Come secondo abate del monastero gli succedette Attala (615-627). La sua tomba si trova tuttora nella cripta dell’abbazia insieme a quelle degli abati suoi successori (Attala, Bertulfo, Bobuleno e Cumiano e di altri diciotto monaci e di tre monache.  Giona, monaco nell’abbazia di San Colombano a Bobbio, fu incaricato dall’abate Attala di scrivere una biografia in latino del santo che è la fonte principale per le vicende della sua vita.  
    [3] Nemesio (Νεμέσιος; IV secoloV secolo) è stato un filosofo greco antico e fu vescovo di Emesa. Della sua produzione ci è pervenuta l’opera Περὶ φύσεως ἀνθρωπου (Della natura dell’uomo). Si tratta di un’opera apologetica di ispirazione neoplatonica, importante per le testimonianze che dà sulle eresie e sulla filosofia greca.
    [4] Servo di Dio Enrico Medi (Porto Recanati, 26 aprile 1911Roma, 26 maggio 1974) è stato un scienziato e politico italiano, grande figura di scienziato cattolico italiano, unì al sapere scientifico una grande Fede. Direttore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vicepresidente dell’Euratom, fu un grande divulgatore di temi scientifici in assoluto e di temi scientifici correlati alla Fede cattolica. Fece parte dell’Assemblea Costituente e fu deputato del primo Parlamento della Repubblica Italiana. Si diplomò al liceo classico Istituto Massimo dei Gesuiti, divenendo il primo presidente della “Lega Missionaria Studenti“, da lui fondata insieme a Gabrio Lombardi.  Allievo di Enrico Fermi, si laureò in fisica pura nel 1932, a soli ventuno anni, con una tesi sul neutrone. Ottenne la libera docenza in fisica terrestre nel 1937 e nel 1942 vinse la cattedra di fisica sperimentale dell’Università di Palermo. Nel 1949 ottenne la cattedra di fisica terrestre all’Università di Roma.  Nel 1946 Medi fece parte dell’Assemblea Costituente ed in seguito fu deputato al parlamento nella prima legislatura della Repubblica Italiana.  Dal 1949 fu direttore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e nel 1958 divenne Vicepresidente dell’Euratom. Negli anni cinquanta condusse uno dei primi programmi televisivi di divulgazione scientifica, Le avventure della scienza. Il 20 luglio 1969 commentò e partecipò alla lunga diretta dello sbarco sulla Luna da Roma insieme a Tito Stagno, Andrea Barbato e Piero Forcella.  La sua carriera politica giunse al culmine nel 1971, risultando primo degli eletti al Consiglio Comunale di Roma, con 75.000 voti.  Tra i suoi lavori, ricordiamo le prime esperienze con il radar e l’ipotesi di fasce ionizzanti nell’alta atmosfera, oggi note come fasce di Van Allen, entrambi stroncati dal regime fascista e successivamente confermati da studiosi stranieri.  Venne nominato membro della Consulta dei laici per lo Stato della Città del Vaticano nel 1966[1].  Ricevette sepoltura nella tomba di famiglia nel cimitero di Belvedere Ostrense. È in corso presso la Diocesi di Senigallia la fase diocesana del processo di canonizzazione, che è stata aperta il 26 maggio 1996 introdotta dal Vescovo Mons. Odo Fusi-Pecci, per cui la Chiesa cattolica gli riconosce il titolo di Servo di Dio[1]..  
    [5] Nel 1591 intraprese lo studio della teologia a Tubinga, università protestante, dove insegnavano alcuni seguaci del copernicanesimo; tra questi vi era Michael Maestlin, che convinse Keplero della validità delle teorie di Niccolò Copernico. Nel 1594 Keplero divenne insegnante di matematica a Graz (Austria) e accettò un posto di matematico degli stati di Stiria. Tra le sue mansioni c’era quella di fare “pronostici”; gli capitò così di prevedere un inverno molto rigido, le rivolte contadine e la guerra con i Turchi. Anche negli anni a seguire non si sottrasse alla stesura di oroscopi, che si configurano come ritratti dal forte tratto psicologico. Nell’aprile 1597 sposò Barbara Mühleck, che gli dette due figli, ma morì prematuramente nel 1611. Sempre nel 1597 pubblicò l’opera Mysterium Cosmographicum, nella quale tentò una prima descrizione dell’ordine dell’Universo. Nel 1599 Tycho Brahe gli offrì un posto come suo assistente, che accettò l’anno dopo. Nel 1601, dopo la morte di Brahe, ne divenne il successore nell’incarico di matematico ed astronomo imperiale a Praga. Nel 1604 osservò una supernova che ancora oggi è nota col nome di Stella di Keplero. Le basi per le sue scoperte astronomiche furono gettate nel 1609, quando pubblicò Astronomia nova, in cui formulò le sue prime due leggi. Alla morte dell’imperatore Rodolfo II (1612), Keplero divenne “matematico paesaggistico” (Landschaftsmathematiker) a Linz (Austria). Il 15 maggio 1618 scoprì la terza legge che prende il suo nome, che rese nota l’anno dopo nell’opera Harmonice mundi. Nell’agosto 1620 la madre di Keplero venne accusata di stregoneria dalla Chiesa protestante e rilasciata solo nell’ottobre 1621. Lo scienziato morì a 58 anni a Ratisbona e venne qui sepolto. La sua tomba si perse nel 1632 quando le truppe di Gustavo Adolfo (impegnate nell’invasione della Baviera durante la guerra dei trent’anni) distrussero il cimitero; rimane però la lapide dove ancora oggi si può leggere l’epitaffio da lui stesso composto: “Mensus eram coelos, nunc terrae metior umbras. Mens coelestis erat, corporis umbra iacet”. (Misuravo i cieli, ora fisso le ombre della terra. La mente era nella volta celeste, ora il corpo giace nell’oscurità). 
    [6] Jean-Jacques Olier de Verneuil nacque a Parigi il 20 settembre 1608 in una nobile famiglia appartenente all’alta magistratura. Dopo gli studi di teologia in Sorbona, maturò la vocazione religiosa sotto la guida spirituale di san Vincenzo de’ Paoli, e venne ordinato sacerdote il 21 maggio del 1633. Dopo aver predicato per qualche tempo le missioni popolari in Alvernia, nel 1641 fondò a Vaugirard un seminario destinato alla formazione sacerdotale della gioventù: quando, nel 1642, Olier venne nominato parroco di Saint-Sulpice, la sede del suo istituto fu trasferita nei pressi della parrocchia, dove diede vita ad una compagnia di sacerdoti (detta di Saint-Sulpice) destinata alla direzione dei seminari. Nel 1652 lasciò il ministero pastorale per motivi di salute, pur mantenendo la direzione del seminario parigino. Morì a Parigi il 2 aprile 1657. Fu autore di numerosi scritti spirituali e mistici. 
    [7] I cinici (dal greco κύων, “cane”, soprannome di uno dei loro esponenti maggiori, Diogene) sono i seguaci della scuola filosofica di Antistene, una delle scuole socratiche minori, così chiamate per essere in qualche modo ispirate alla filosofia di Socrate. Il loro esponente più importante è Diogene di Sinope. Il nome sembra derivare o dal Cinosarge, l’edificio ateniese che fu la prima sede della scuola, o dalla parola greca per “cane”, appellativo che fu dato in senso dispregiativo ai cinici dalle correnti filosofiche avversarie. I cinici professavano una vita randagia e autonoma, indifferente ai bisogni e fedele al rigore morale. Dopo un periodo di declino per la scuola cinica, essa ebbe una ripresa in concomitanza alla corruzione del potere imperiale: si fece appello allora alla libertà interiore e all’austerità dei costumi. L’interesse della scuola fu prevalentemente etico, e il concetto di “virtù” assunse un nuovo significato in una vita vissuta secondo natura; l’ideale era divenuto l’autosufficienza (l’autosufficienza del saggio, condotta fino all’assoluta indipendenza dal mondo esterno, secondo il termine greco autàrkeia, ovvero autarchia, capacità di detenere il totale controllo su se stesso), portando alle estreme conseguenze il pensiero individualistico e utilitaristico proprio della sofistica. La tesi fondamentale di questa corrente di pensiero è la ricerca della felicità come unico fine dell’uomo; una felicità che è una virtù, e al di fuori di essa sussiste un disprezzo per ogni cosa che richiama comodità e agi. Comunemente il termine “cinismo” è stato associato in termini di sinonimia alla sfacciataggine, all’indifferenza. 
    [8] Era figlio di Vincenzo Bellarmino, magistrato e gonfaloniere di Montepulciano, e di Cinzia Cervini, sorella del papa Marcello II, molto pia e religiosa.  Nacque in una famiglia numerosa, terzogenito di cinque figli; di nobili origini poliziane, sia per parte paterna che materna, ma in via di declino economico. Fu battezzato dal cardinale fiorentino Roberto Pucci al quale probabilmente deve l’onore del suo primo nome, mentre il secondo è in riferimento a San Francesco d’Assisi, il santo onorato il 4 ottobre giorno della sua nascita; Romolo fu dato in onore di un antenato della famiglia.  Fin da piccolo ebbe una salute precaria e una forte vocazione religiosa. Dopo una iniziale educazione in famiglia, fu inviato per gli studi, insieme al cugino Ricciardo Bellarmino, a Padova secondo il desiderio del padre e con il permesso di Cosimo I granduca di Toscana come era obbligo a quel tempo, per chi volesse in età molto giovane studiare fuori del granducato di Toscana. A diciotto anni, proseguendo con questa sua vocazione al sacerdozio, ed affascinato dalla figura di Sant’Ignazio di Loyola, al carisma del quale legò poi tutta la sua vita, decise di far parte della Compagnia di Gesù. Insieme al cugino Ricciardo che condivise queste aspirazioni giovanili, ma che morì quattro anni dopo, entrò nel Collegio Romano il 20 settembre 1560 e il giorno dopo fece la sua prima professione religiosa; tutto questo però solo dopo che suo padre concesse il permesso a seguito delle pressioni materne, poiché egli avrebbe preferito, per suo figlio, una carriera politica laica.  Nonostante la sua parentela con papa Marcello II, si dimostrò sempre umile e studioso, tanto da essere in breve tempo elogiato da tutti coloro che lo conoscevano.  Fin da giovanissimo mostrò le sue ottime doti letterarie ed ispirandosi agli autori latini come Virgilio, compose diversi piccoli poemi sia in lingua volgare che in lingua latina. Uno dei suoi inni, dedicato alla figura di Maria Maddalena, fu inserito poi per l’uso nel breviario.  Studiò nel Collegio Romano dal 1560 al 1563, e fu condiscepolo di Cristoforo Clavio. Iniziò successivamente ad insegnare materie umanistiche prima a Firenze e poi a Mondovì, sempre in scuole del suo ordine religioso. In questa cittadina piemontese, si distinse come predicatore, nonostante non fosse ancora ordinato sacerdote, e si applicò allo studio del greco.  Nel 1567 iniziò a studiare in modo sistematico teologia a Padova, dove approfondì la teologia di San Tommaso d’Aquino. Dopo aver visitato Genova per un incontro di confratelli, avendo dimostrato ottime qualità di predicatore, fu inviato nel 1569 da San Francesco Borgia Preposito Generale dell’Ordine dei Gesuiti, a Lovanio nelle Fiandre, allora facente parte dei Paesi Bassi spagnoli; qui aveva sede una delle migliori università cattoliche e il giovane Bellarmino vi completò gli studi teologici, trovando inoltre l’ambiente adatto per acquisire una notevole conoscenza sulle eresie più importanti del suo tempo.  Dopo l’ordinazione sacerdotale avvenuta a Gand il 25 marzo del 1570, Domenica delle palme, guadagnò rapidamente notorietà sia come insegnante sia come predicatore; in quest’ultima veste era capace di attirare al suo pulpito sia cattolici che protestanti, persino da altre aree geografiche. Gli fu conferito l’insegnamento della teologia a Lovanio nel 1570, e qui rimase per sei anni, fino al 1576. Distintosi in questi anni per la sua dotta eloquenza e sorprendente capacità di controbattere efficacemente le tesi calviniste, che si diffondevano ampiamente nei Paesi Bassi spagnoli, fu richiamato a Roma da papa Gregorio XIII che gli affidò la cattedra di “Controversie”, cioè di Apologetica, da poco istituita nel Collegio Romano, attività che svolse fino al 1587. Da poco tempo si era concluso il Concilio di Trento e la Chiesa cattolica, attaccata dalla Riforma protestante aveva necessità di rinsaldare e confermare la propria identità culturale e spirituale. L’attività e le opere di Roberto Bellarmino si inserirono proprio in questo contesto storico della Controriforma. Egli si dimostrò adeguato alle difficoltà del compito. Gli studi che intraprese per applicarsi nell’insegnamento e nelle lezioni, confluirono successivamente nella sua grande e più famosa opera di più volumi: Le controversie, cioè “Disputationes de controversiis christianae fidei adversus hujus temporis haereticos”. Questa monumentale opera teologica rappresenta il primo tentativo di sistematizzare le varie controversie teologiche dell’epoca, ed ebbe un’enorme risonanza in tutta Europa; senza sviluppare nessuna aggressione polemica nei confronti della Riforma ma solo usando gli argomenti della ragione e della tradizione, Bellarmino espose in modo chiaro ed efficace le posizioni della Chiesa cattolica.  Presso le chiese protestanti in Germania ed in Inghilterra furono istituite specifiche cattedre d’insegnamento per tentare di fornire una replica razionale agli argomenti dell’ortodossia cattolica difesi da Bellarmino. A tutt’oggi non esiste altra opera di tale completezza nel campo apologetico anche se, come si può facilmente intuire, l’avanzamento degli studi critici ha diminuito il valore di alcuni degli argomenti storici.  L’instancabile azione di Bellarmino a difesa della fede cattolica, gli valse l’appellativo di “martello degli eretici”.  Nel 1588 Roberto Bellarmino fu nominato direttore spirituale del Collegio Romano. In questo periodo collaborò intensamente con l’autorevole papa Sisto V nella riedizione di tutte le opere di Sant’Ambrogio, anche se non sempre ben compreso dal pontefice. Sembra che Sisto V non avesse simpatie per l’Ordine dei Gesuiti e per lo stesso Bellarmino. Nel 1590 fu inviato, e qualcuno suppone per essere allontanato da Roma, con la legazione guidata dal cardinal legato Enrico Caetani che papa Sisto V aveva inviato in Francia per difendere la Chiesa cattolica nelle difficoltà scaturite dalla guerra civile tra cattolici ed ugonotti subito dopo l’assassinio del re Enrico III.  Mentre si trovava in Francia fu raggiunto dalla notizia che Sisto V, che aveva in precedenza calorosamente accettato la dedica della sua opera “Le controversie”, stava ora per proporre di metterne il primo volume all’Indice.  Il motivo era che nell’opera si riconosceva alla Santa Sede un potere indiretto e non diretto sulle realtà temporali; Bellarmino, la cui fedeltà alla Santa Sede era intensa e autentica, ne fu profondamente amareggiato.  Tale imminente condanna fu evitata solo per l’improvvisa morte di Sisto V il 27 agosto 1590, a seguito di complicanze di una malattia infettiva, forse malaria. Tale malattia infettiva colpì Roma in quel periodo molto pesantemente causando molti decessi. Anche il pontefice successivo, Urbano VII, morì per la stessa malattia dopo pochi giorni dall’elezione pontificia. Circa “Le controversie” invece il nuovo papa Gregorio XIV fu francamente entusiasta di quest’opera, tanto che concesse ad essa, persino l’onore di una speciale approvazione pontificia.  Quando la missione del cardinale Enrico Caetani era oramai al termine, Bellarmino riprese nuovamente il suo lavoro come insegnante e padre spirituale. Ebbe la consolazione di guidare negli ultimi anni della sua vita san Luigi Gonzaga, che morì appena 23enne al Collegio Romano nel 1591 dopo aver contratto un male per salvare un uomo affetto da peste ed abbandonato per strada. Bellarmino assistette Luigi Gonzaga fino al trapasso; e di lui negli anni successivi egli stesso ne promosse il processo di beatificazione presso la Santa Sede. Si augurò inoltre di poter avere la propria tomba vicino a quella del giovane e grande gesuita; cosa che effettivamente si realizzò.  In questo periodo egli fece parte della commissione finale per la revisione del testo della Vulgata. Questa revisione era stata oggetto di una specifica richiesta del concilio di Trento, per controbattere le tesi protestanti i papi post-tridentini avevano operato per questo compito alacremente, portandolo quasi a realizzazione completa.  Sisto V per quanto non dotato di competenze specifiche in materia biblica, aveva introdotto delle modifiche al Sacro Testo in modo eccessivamente leggero e rapido, con vistosi errori. Per accelerare i tempi aveva comunque fatto stampare questa edizione e in parte la fece distribuire con il proposito di imporne l’uso con una sua bolla.  Tuttavia morì prima della promulgazione ufficiale e i suoi immediati successori procedettero subito a togliere dalla circolazione l’edizione errata. Il problema consisteva nell’introdurre un’edizione più corretta senza però screditare inutilmente il nome di Sisto V. Bellarmino propose che la nuova edizione dovesse portare sempre il nome di Sisto V, con una spiegazione introduttiva secondo la quale, a motivo di alcuni errori tipografici o di altro genere, già papa Sisto aveva deciso che una nuova edizione dovesse essere intrapresa.  La sua dichiarazione, dal momento che non c’era prova contraria, dovette essere considerata come risolutiva, tenendo conto di quanto serio e responsabile egli fosse stimato dai suoi contemporanei.  In tal modo la nuova edizione corretta non poteva essere rifiutata in quanto non macchiava la reputazione dei membri della commissione preposta alla nuova stesura, i quali accolsero il suggerimento di Bellarmino. Lo stesso pontefice Clemente VIII, si trovò pienamente d’accordo con tale risoluzione, e concesse il suo “imprimatur” alla prefazione del Bellarmino nella nuova edizione.  Questa bozza, alla quale quella del Bellarmino fu preferita, è tuttora esistente, allegata alla copia dell’edizione Sistina in cui sono segnate le correzioni della Clementina, e può essere consultata nella Biblioteca Angelica di Roma.  Nel 1592 Bellarmino divenne Rettore del Collegio Romano, incarico che svolse per circa due anni fino al 1594. Nel 1595 divenne Preposito dell’Ordine gesuita per la provincia di Napoli.  Nel 1597 papa Clemente VIII lo richiamò a Roma dopo la morte nel settembre 1596 del suo consultore teologo pontificio il cardinale gesuita Francisco de Toledo Herrera. Bellarmino fu allora nominato consultore teologo, oltre che “Esaminatore per la nomina dei Vescovi” , “Consultore del Sant’Uffizio” e teologo della sacra Penitenzieria.  Sempre nel 1597 dopo la morte del duca Alfonso II d’Este, non avendo questi eredi e con l’appoggio del re francese Enrico IV, lo Stato della Chiesa rientrò in possesso dei territori del ducato di Ferrara. In tale occasione Bellarmino accompagnò il papa in visita al ducato, nuovo territorio dello Stato della Chiesa.  Nel concistoro del 3 marzo 1599 il papa lo fece cardinale presbitero e il 17 marzo gli consegnò la berretta rossa con il titolo di Santa Maria in Via, indicando la motivazione di questa nomina con le parole: La Chiesa di Dio non ha un soggetto di pari valore nell’ambito della scienza. Si racconta che Bellarmino tentò in tutti i modi di far cambiare idea al papa, non volendo ricevere questa carica, ma il pontefice alla fine glielo impose con la superiore autorità.  Negli anni successivi Bellarmino fu bonariamente descritto come “il gesuita vestito di rosso”, in relazione all’abito cardinalizio che contrastava con la tonaca nera dei gesuiti. Nonostante questa nomina, egli non cambiò il suo austero e sobrio stile di vita e tutte le sue rendite e gli introiti economici conseguenti alla sua nomina e alle sue attività, furono massimamente devolute per i poveri.  Il caso di Giordano Bruno, filosofo e frate domenicano condannato al rogo per eresia, fu un evento che scaturì dalla reazione dura controriformista ai tentativi di modificare i temi della fede religiosa iniziati alcuni decenni prima con la riforma protestante. Il frate domenicano condannato per le sue idee anche dalla chiesa luterana e da quella calvinista, si era fatto promotore di nuove idee religiose e filosofiche che si ponevano in netta antitesi con quella della Chiesa di cui tra l’altro faceva parte integrante. L’istruzione dell’inchiesta e del processo ebbe luogo nel 1593 e la sentenza fu emessa nel 1600: coinvolse Bellarmino dal 1597, da quando cioè fu nominato consultore del Santo Uffizio. Il Bellarmino ebbe alcuni colloqui con il frate domenicano e durante questi, egli tentò di fare abiurare le molte tesi francamente eretiche del frate domenicano, con l’intento di salvargli la vita, poiché la condanna per eresia era inevitabilmente capitale. La lunga durata del processo fu causata dal fatto che Giordano Bruno non ebbe un comportamento lineare nell’ammettere l’eresia delle proprie posizioni. Durante i venti interrogatori a cui Giordano Bruno venne sottoposto, gli inquisitori ricorsero anche alla tortura.  Durante la fase processuale la Congregazione fece esaminare da Bellarmino una dichiarazione di Giordano Bruno su otto proposizioni che gli erano state contestate come eretiche. Il 24 agosto 1599 il cardinale Bellarmino riferì alla Congregazione che, nello scritto, Giordano Bruno aveva ammesso come eretiche sei delle otto proposizioni, mentre sulle altre due la sua posizione non appariva chiara: “videtur aliquid dicere, si melius se declararet”. La completa ammissione avrebbe risparmiato la condanna a morte. Ma alla fine Giordano Bruno preferì mantenere le precedenti posizioni francamente eretiche decidendo di affrontare la condanna a morte. A condanna ormai prossima all’imputato venne concesso di affrontare una morte meno straziante, ma Giordano Bruno preferì affrontare la pena prevista, cioè il rogo, che ebbe luogo a Roma in piazza Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600.  Galilei ebbe due processi presso il Santo Uffizio: uno nel 1616 e l’altro nel 1633. I processi ebbero luogo fondamentalmente poiché la teoria eliocentrica era considerata eretica dai teologi. Infatti, sostenendo che il sole fosse fisso al centro dell’universo si smentivano alcune frasi contenute nella Bibbia dove si cita o che Dio fermò il sole, o che la terra è immobile al centro dell’universo. La dottrina prevalente in quel tempo era infatti che l’infallibilità della bibbia comprendesse anche il significato letterale, e non solo quello simbolico.  Comunque il Galilei non fu mai condannato per eresia, avendo egli obbedito ai precetti del Sant’Uffizio. Ed egli non rinnegò mai la fede cattolica, anzi fino alla sua morte si professò cattolico praticante ottenendo l’indulgenza plenaria in prossimità della sua morte. Era del resto intimo amico con molti cardinali e in particolare con Maffeo Barberini futuro papa Urbano VIII oltre che con lo stesso Bellarmino.  Inoltre a differenza di quanto alcuni pensano, il Galilei non fu mai sottoposto a tortura, e non proferì mai la famosa frase: “Eppur si muove”, che invece gli fu attribuita circa un secolo dopo dal giornalista Giuseppe Baretti nel 1757 a Londra. Anche nel processo contro Galileo Galilei, alcuni storici hanno voluto vedere una partecipazione decisiva del cardinale Bellarmino e su una posizione oscurantista. Bellarmino fu coinvolto solo nel primo processo poiché nel secondo, quando Galilei fu condannato al carcere, egli era già deceduto. Tutti i documenti oggi in nostro possesso dimostrano chiaramente che il cardinale Bellarmino ebbe rapporti molto cordiali se non amichevoli con lo scienziato, sia epistolari che diretti, anche dopo la denuncia di Tommaso Caccini davanti al Santo Uffizio nel 1615. Durante la prima inchiesta su Galilei, nell’anno 1616, si ebbe l’esame presso il Santo Uffizio della teoria eliocentrica e durante tale valutazione fu ascoltato il Galilei stesso che giunse a Roma. Questi ebbe colloqui diretti anche con il papa Paolo V che invitò il cardinale Bellarmino, che faceva parte del Santo Uffizio, sempre in relazione alla frase della Bibbia, ad ammonire il Galilei di non insegnare le due tesi principali sull’eliocentrismo. In tale occasione la teoria eliocentrica copernicana fu condannata dal Santo Uffizio che si espresse in modo definitivo nel marzo 1616. Essa fu condannata come falsa e formalmente eretica, lasciando la possibilità di fare riferimento ad essa come semplice modello matematico.  Il cardinale Bellarmino aveva espresso una posizione aperta, almeno in linea di principio, nei confronti dello scienziato, senza comunque mai rinnegare le decisioni del Santo Uffizio, in particolare non ammettendo eccezioni alla infallibilità della bibbia, nemmeno nel senso letterale della scrittura. Tale posizione è espressa in una lettera inviata il 12 aprile 1615 a padre Paolo Antonio Foscarini, cattolico sostenitore dell’eliocentrismo ed amico di Galilei, nella quale sosteneva di non potere escludere a priori l’attendibilità della teoria eliocentrica, ma rimandando qualsiasi tentativo di proporla come descrizione fisica solo dopo che si avesse avuta la prova concreta e definitiva.  Inoltre poco dopo la condanna dell’eliocentrismo presso il Santo Uffizio del 1616, Galilei stesso chiese ed ottenne un colloquio privato con il cardinale Bellarmino. Il 24 maggio 1616 il cardinale Bellarmino firmò su richiesta dello stesso Galilei, una dichiarazione nella quale si affermava che non gli era stata impartita nessuna penitenza o abiura per aver difeso la tesi eliocentrica ma solo una denuncia all’Indice.  Quel colloquio fu poi ricomposto in modo inventato ad arte e successivamente divulgato, da un grande nemico di Galilei, padre Segneri. In questo verbale apocrifo si diceva che Bellarmino ammoniva Galilei, pena il carcere, di non persistere sulla tesi eliocentrica; cosa niente affatto vera. Questo documento falsificato fu poi utilizzato anni dopo nel secondo processo contro Galilei, ma il cardinale Bellarmino era ormai morto e non poteva più testimoniare in favore di Galilei e smentire la veridicità di tale verbale.  Poco tempo dopo la sua elezione a cardinale, Bellarmino venne nominato, insieme al cardinale e vescovo della Diocesi di Ascoli Girolamo Bernerio domenicano, assistente dei cardinali Ludovico Madruzzo e Pompeo Arrigoni, presidenti della Congregazione “De Auxiliis Divinae Gratiae”, congregazione istituita nel 1597 dal papa Clemente VIII per ricomporre una controversia sorta tra Tomisti guidati dal domenicano Domingo Bañez e Molinisti a proposito della natura dell’armonia tra grazia efficace e libertà umana. In tale diatriba che si trascinerà per diversi decenni, si contrapponevano gesuiti molinisti e domenicani tomisti. I primi accusavano di eresia calvinista i tomisti, mentre questi ultimi accusavano di eresia pelagiana i molinisti.  Il parere di Bellarmino sin dall’inizio fu che tale questione di natura squisitamente dottrinale non dovesse essere risolta con un intervento autoritativo, ma lasciata ancora alla discussione tra i diversi indirizzi e che ai contendenti di entrambi i campi fosse seriamente proibito di indulgere a censure o condanne dei rispettivi avversari. Pur conciliante, Bellarmino prese però apertamente le difese di un suo discepolo, frate Leonardo Leys gesuita, coinvolto nella diatriba scoppiata all’Università di Lovanio; e in tale occasione scrisse una bozza, “De Controversia Lovaniensi” che indirizzò ai cardinali Mandruzzo e Arrigoni, presidenti della Congregazione “De Auxiliis Divinae Gratiae”. In questa disputa Bellarmino si confrontò tramite altri scritti con un famoso teologo spagnolo dell’Università di Salamanca, padre Domingo Bañez a sua volta direttamente in disputa con il padre gesuita Luis Molina. Clemente VIII all’inizio si mostrò propenso ad accettare questa idea conciliante di Bellarmino, ma successivamente cambiò idea, e decise di dare una più precisa definizione dottrinale in favore della tesi tomista. La Congregazione “De Auxiliis” condannò quindi le tesi di Luis Molina come eretiche. La presenza del cardinale Bellarmino nella Curia Romana in tal senso, forse divenne imbarazzante, ed egli probabilmente anche per tale motivo lo nominò il 18 marzo 1602 arcivescovo di Capua, sede resasi proprio allora vacante.  Clemente VIII volle comunque consacrarlo con le sue mani, un onore che abitualmente i papi concedono come segno di stima speciale. Il nuovo arcivescovo partì subito per la sua sede, e si distinse degnamente nel suo ministero.  Nel marzo 1605 Clemente VIII morì e gli succedette prima Leone XI che regnò solo ventisei giorni, e poi Paolo V. Nel primo e nel secondo conclave, ma soprattutto in quest’ultimo, il nome di Roberto Bellarmino fu spesso dinanzi alle intenzioni degli elettori, specialmente a motivo delle afflizioni subite, ma il fatto che fosse un gesuita costituì un impedimento secondo il giudizio di molti cardinali. Racconta Ludwig Von Pastor, storico vaticanista, che nei primi giorni del secondo conclave del 1605 un gruppo di cardinali tra i quali Baronio, Sfondrati, D’Acquaviva, Farnese, Sforza e Piatti si adoperarono per far eleggere il cardinale gesuita Bellarmino; ma questi era contrario tanto che saputo della sua candidatura rispose che avrebbe volentieri rinunciato anche al titolo cardinalizio; invece il suo appoggio durante il conclave fu rivolto verso il cardinal Baronio con il quale condivideva una reciproca stima ed una sincera amicizia. Del resto si accertò in seguito che il re spagnolo Filippo II aveva espresso un vero e proprio veto nei confronti di entrambi i cardinali Baronio e Bellarmino, ritenuti troppo intransigenti e quindi poco inclini a favorire qualsiasi parte politica. In conclave si trovò poi l’accordo sul cardinale Camillo Borghese.  Il nuovo papa Paolo V, eletto quindi con l’accordo delle maggiori potenze cattoliche, insistette nel tenere Bellarmino con sé a Roma, e il cardinale chiese che almeno egli fosse esonerato dal ministero episcopale, le cui responsabilità egli non era più in grado di adempiere. Fu nominato allora, membro del Santo Uffizio e di diverse congregazioni, e successivamente consigliere principale della Santa Sede nel settore teologico della sua amministrazione.  La disputa “De Auxiliis”, che alla fine Clemente non aveva avuto modo di portare a termine, fu conclusa con una decisione che ricalcò le linee dell’originaria proposta di Bellarmino.  Il 1604 segnò l’inizio della contesa tra la Santa Sede e la Repubblica di Venezia, che senza consultare il Papa e versando in cattive condizioni finanziarie, aveva abrogato la legge di esenzione del clero dalla giurisdizione civile e tolto alla Chiesa il diritto di possedere beni immobili. La disputa portò ad una guerra di libelli durante la quale le difese della parte repubblicana furono sostenute da Giovanni Marsilio e dal frate servita Paolo Sarpi, che si erano posti in netto contrasto con la Chiesa cattolica. In questa disputazione la Santa Sede fu difesa nobilmente dal cardinal Bellarmino e dal cardinal Baronio. A tal proposito alcuni contemporanei descrivono chiaramente l’atteggiamento di profonda e non celata stima che Bellarmino aveva per il frate servita, nonostante la netta contrapposizione.  Contemporaneamente alle dispute con la Repubblica Veneziana, ci furono quelle concernenti il Giuramento inglese di lealtà. Nel 1606, in aggiunta alle vessazioni già imposte ai cattolici inglesi dai monarchi inglesi, fu chiesto, sotto pena di prœmunire, di prestare un giuramento di fedeltà abilmente formulato con tale astuzia che un cattolico, nel rifiutarlo, sarebbe potuto apparire come un cittadino che si sottraeva ai suoi doveri civili e quindi perseguibile, mentre, se lo avesse effettuato, avrebbe non solo rifiutato ma persino condannato come empio ed eretico l’insegnamento sul potere di deporre, ossia, del potere di deporre un sovrano che, giustamente o erroneamente, la Santa Sede aveva rivendicato ed esercitato per secoli con la piena approvazione della cristianità, e che, anche in quel periodo, la stragrande maggioranza dei teologi continuava a sostenere. Poiché la Santa Sede aveva proibito ai cattolici di prestare questo giuramento, il re inglese Giacomo I d’Inghilterra, divenuto re dopo la morte di Elisabetta I ed essendo re di Scozia, di fede protestante, scrisse la difesa di tale giuramento in un libro intitolato Tripoli nodo triplex cuneus; Bellarmino replicò al monarca con il suo Responsio Matthei Torti.  Altri trattati seguirono dall’uno e dall’altro campo, e risultato di uno di essi, fu lo scritto a confutazione del potere di deporre i sovrani da parte di William Barclay, famoso giurista scozzese, residente in Francia, al quale si contrappose la replica di Bellarmino. Le confutazioni del giurista scozzese furono poi utilizzate dal Parlamento parigino, di orientamento regalista.  La conseguenza fu che, a seguito della dottrina della via media del potere indiretto di deporre i sovrani, Bellarmino fu condannato nel 1590 come troppo incline alle posizioni regaliste e nel 1605 come eccessivamente papista. Tali posizioni antiregaliste di Bellarmino si rifletteranno nei secoli successivi sulla sua causa di beatificazione. Altro argomento di contrapposizione fu, proprio agli inizi del Seicento, la diffusione in Francia del gallicanesimo. In sostanza si verificò nella Chiesa francese un progressivo distacco dall’autorità centrale della Santa Sede, con profusioni di scritti e opere teologiche che appunto portavano ragioni per tale distacco. Si giunse a non riconoscere nella figura del papa la massima autorità teologica, con un contemporaneo riconoscimento della grande autorità del re anche sulla chiesa stessa.  Anche in questa disputa si inserì l’opera di Bellarmino, che nel 1610, in risposta alle tesi del gallicanesimo, scrisse Tractatus De Potestate Summi Ponteficis in rebus temporalibus, nel quale si esponevano chiaramente i motivi della supremazia dell’autorità papale su quella monarchica.  Negli ultimi anni il cardinale Roberto Bellarmino continuò il suo austero modo di vivere che aveva sempre praticato, dedicando molto del suo tempo alla preghiera e ai digiuni, nonostante la sua salute piuttosto precaria. Continuò a fare molte elemosine ai poveri, ai quali lasciò praticamente tutti i suoi averi, tanto che fu sempre molto amato dai romani; contribuì a far concedere l’approvazione pontificia alla fondazione del nuovo Ordine della Visitazione di San Francesco di Sales; si impegnò per la beatificazione di San Filippo Neri; inoltre portò a termine la stesura di un “grande catechismo” e di un “piccolo catechismo”, quest’ultimo in particolare ebbe notevole successo e fu ampiamente utilizzato fino a tutto il XIX secolo; infine compose un piccolo e anch’esso famoso testo “De arte bene moriendi” oltre che una sua “Autobiografia”. Fu nominato Camerlengo del Sacro Collegio dal 9 gennaio 1617 all’8 gennaio 1618. Successivamente fu Prefetto della Sacra Congregazione dei Riti e poi della Sacra Congregazione dell’Indice.  Egli visse ancora per assistere ad un altro conclave, quello che elesse Gregorio XV nel febbraio 1621. La sua salute stava rapidamente declinando e nell’estate dello stesso anno gli fu permesso di ritirarsi a Sant’Andrea al Quirinale, sede del noviziato dei gesuiti, per prepararsi al trapasso. Qui spirò il 17 settembre 1621 tra le ore 6 e le 7 del mattino.
    [9] La vita di Tolstoj fu lunga e tragica, nell’accezione più vera del termine, ossia nel senso che essa fu dominata da una profonda, segreta tensione: la si potrebbe definire una tragedia dell’anima Tolstoj ebbe un’incessante, tormentosa evoluzione interiore, lottò con se stesso e con il mondo, e questa lotta, talora impetuosa, alimentò senza sosta l’impulso creativo.  Lev Nikolaevič Tolstoj nasce il 28 agosto 1828 nella tenuta Jasnaja Poljana nel distretto di Ščëkino (governatorato di Tula). I genitori sono d’antica nobiltà: la madre, di cinque anni maggiore del marito, è la principessa Marja Nikolàevna Volkonskaja (Jasnaja Poljana era la sua dote di matrimonio), mentre il padre Nikolàj Il’ìč è discendente di Pëtr Andreevič Tolstoj, che aveva ottenuto il titolo di conte da Pietro il Grande.[5] La madre, di cui Lev non conserverà alcun ricordo, muore quando egli ha appena due anni. Dopo qualche anno gli muore anche il padre (corse voce che l’avessero avvelenato i suoi due servi prediletti; Lev lo ricorderà come mite e indulgente)[5] lasciandolo precocemente orfano. Fu così allevato da alcune zie molto religiose e da due precettori, un francese e un tedesco, che diventeranno poi personaggi del racconto Infanzia.  Nel 1844 si iscrive all’università di Kazan’ (nell’attuale Tatarstan), prima alla facoltà di filosofia (sezione di studi orientali, dove supera gli esami di arabo e turco), poi, l’anno dopo, a quella di giurisprudenza, ma per via dello scarso profitto non riuscirà mai ad ottenere la laurea; provvede quindi da solo alla propria istruzione, ma questa formazione da autodidatta gli provocherà spesso un senso di disagio in società.[5] La giovinezza dello scrittore è disordinata, tempestosa: a Kazan passa le serate tra feste e spettacoli, perdendo grosse somme al gioco d’azzardo (circa dieci anni dopo, a Baden-Baden, perderà ancora rovinosamente al gioco e lo salverà l’amico Turgenev concedendogli un prestito) ma intanto legge molto, soprattutto filosofi e moralisti.[5] Particolare influenza ha su di lui Jean-Jacques Rousseau. Non a caso, l’opera della conversione di Tolstoj, scritta trent’anni dopo, si intitolerà appunto – similmente all’autobiografia roussonianaLa confessione (1882). Autori come Rousseau, Sterne, Puskin, Gogol insegnano allo scrittore in erba un principio fondamentale: in letteratura sono importanti soprattutto la sincerità e la verità. Proprio sotto questi influssi nascono le opere letterarie di Tolstoj: nel 1851 avviene la prima redazione del racconto Infanzia (che uscirà sulla rivista di Nekrasov Il Contemporaneo nel 1852, firmato con le sole iniziali)[5] e la stesura di un altro racconto, incompiuto, Storia della giornata di ieri. Lo scopo di quest’ultimo, secondo le parole dell’autore, era estremamente semplice ed insieme complicatissimo, quasi irrealizzabile: «descrivere una giornata, con tutte le impressioni e i pensieri che la riempiono». Da questo germe si può già intravedere lo sviluppo della possente pianta: tendenza all’introspezione e alla vita reale. Tolstoj resterà fino alla fine un incrollabile realista. L’immaginazione slegata dalla realtà è quasi inesistente nei suoi libri. L’unica possibilità di utilizzare la fantasia consiste nell’elaborazione di qualche particolare, di qualche sfumatura che appartiene però ad un oggetto assolutamente reale. Anche il successivo racconto, pubblicato sempre sul Contemporaneo, è ispirato a criteri di verità quasi naturalistici: L’incursione (1853), che nasce dal ricordo di un’autentica scorribanda compiuta da un battaglione russo in un villaggio caucasico. Tra il 1851 e il 1853 Tolstoj, seguendo il fratello maggiore Nikolaj, partecipa alla guerra nel Caucaso, prima come volontario, poi come ufficiale d’artiglieria. Nel 1853 scoppia la guerra russo-turca e – dietro sua richiesta – Tolstoj viene trasferito in Crimea, a Sebastopoli, dove si combatte sul famoso quarto bastione.[5] Qui conduce la vita del soldato, combatte coraggiosamente, affronta rischi d’ogni sorta, osserva tutto con attenzione, guarda in faccia il pericolo, e tuttavia gli avvenimenti più tragici avvengono dentro di lui: si sente inquieto, costantemente in bilico tra la vita e la morte, ma col desiderio di dedicare la propria esistenza a nobili ideali. Nel Diario del 1854 – anno in cui pubblica Adolescenza (Отрочество [Otročestvo]) – annota: «La cosa più importante per me è liberarmi dai miei difetti: la pigrizia, la mancanza di carattere, l’irascibilità». Nel marzo del 1855 decide finalmente riguardo al proprio destino: «La carriera militare non fa per me, e prima me ne tirerò fuori, per dedicarmi totalmente alla letteratura, tanto meio sarà»[7]. La guerra di Crimea – cruenta e rovinosa per l’esercito russo – lascia un solco profondo nel giovane Tolstoj e gli offre, d’altra parte, abbondante materiale per una serie di racconti: il ciclo dei tre Racconti di Sebastopoli (Севастопольские рассказы [Sevastolpol’skie Rasskazi], 1855) e poi Il taglio del bosco (1855), La tempesta di neve (1856) e I due ussari (1856). Ispirate alle violenze della guerra, queste opere sconvolgono la società russa per la spietata verità e l’assenza di qualsiasi forma di romanticismo guerriero o di patriottismo sentimentale. Nessuno prima di lui ha descritto la guerra in quel modo: è una voce nuova nell’epoca d’oro della letteratura russa. Nel gennaio del 1856, Fëdor Dostoevskij scrive dalla Siberia ad un corrispondente, parlando di Tolstoj: «mi piace molto, ma secondo me non scriverà molto (ma del resto, chissà, forse mi sbaglio)»[11]. La censura esita ad autorizzare la pubblicazione dei tre Racconti di Sebastopoli: cerca di vietare il secondo «per l’atteggiamento derisorio nei confronti dei nostri coraggiosi ufficiali», ma alla fine lascia correre, pur imponendo tagli e modifiche. Nel 1856 vengono raccolti in un unico volume con il titolo Racconti di Guerra. Nel 1856 Tolstoj assiste il fratello Dmitrij, che muore di tisi. Si interessa poi per migliorare le condizioni dei contadini di Jasnaja Poljana, ma questi sono diffidenti e rifiutano le sue proposte, come accade al protagonista de La mattinata di un proprietario terriero, racconto che Tolstoj pubblica in quell’anno,[5] e come accadrà anche al protagonista di Resurrezione, romanzo di molti anni più tardi, di ispirazione parzialmente autobiografica. Si apre per Tolstoj un periodo ricco di riflessioni, con ricerche, viaggi, un crescente interesse per l’istruzione popolare e l’attività di giudice di pace nelle contese tra proprietari e contadini – proprio a cavallo dell’abolizione della servitù della gleba (1861) – che stimolano in lui lo svilupparsi di una particolare sensibilità verso le ingiustizie sociali.[12] Sul versante della produzione letteraria, nei nove anni che vanno dai Racconti di guerra alla prima parte della grandiosa epopea Guerra e pace (1865), lo scrittore pubblica diversi altri racconti: Giovinezza (Юность [Junost’], 1857, ultimo della trilogia comprendente Infanzia e Adolescenza), Tre morti (1858), Al’bèrt (1858), Felicità familiare (1859), Idillio (1861) e Polikuška (ПоликушкаIl 1863 è anche l’anno di pubblicazione de I cosacchi (Казаки [Kazaki]) – opera ispirata ai ricordi del Caucaso e lungamente rielaborata nel corso di un decennio – in cui sono evidenti gli echi della lettura rousseauiana ed in cui si esprime, con entusiasmo, la nostalgia per la vita a contatto con la natura, semplice e felice. Intanto, lo scrittore viaggia per l’Europa, dove ha modo di conoscere Proudhon, Herzen, Dickens. Ma, non di meno, lo angoscia la vita russa, specialmente quella dei contadini. In questi anni comincia così a manifestarsi, in maniera sempre più evidente, una caratteristica fondamentale della personalità tolstoiana: l’insoddisfazione di sé stesso, della propria esistenza, della propria opera. Come Olenin – l’eroe dei Cosacchi, che rifiuta la società falsa ed ipocrita per rifugiarsi nel Caucaso – anche Tolstoj, all’inizio degli anni sessanta, decide di abbandonare gli impegni mondani, compresi quelli letterari, per rifugiarsi nella propria tenuta, con l’intento di dedicarsi – nella scuola da lui stesso fondata – all’istruzione dei bambini del villaggio. Il 23 settembre 1862, dopo appena una settimana di fidanzamento, sposa la diciottenne Sof’ja Andrèevna, seconda delle tre figlie del medico di corte Bers. Lo scrittore, non volendole nascondere nulla, le fa leggere, alla vigilia delle nozze, i suoi diari intimi. La madre di Sof’ja, Ljubòv’ Islàvina, era stata amica d’infanzia di Tolstoj.[5] Avranno tredici figli, cinque dei quali morti in età precoce:[15] 
    [10] Evagrio Pontico, in (latino: Evagrius Ponticus, in greco: Εὐάγριος ὁ Ποντικός) (Ibera nel Ponto, 346Egitto, 399), è stato un monaco e scrittore ecclesiastico turco, appartenente alla cerchia dei Cappadoci. Rielaborò in modo autonomo il patrimonio di idee mistiche di Gregorio di Nissa, formulando la terminologia dell’ascetica e della mistica greca in uso fino al medioevo.  Ordinato lettore da Basilio il Grande e diacono da Gregorio Nazianzeno visse una sconvolgente vicenda amorosa. Dapprima si ritirò a Gerusalemme presso Rufino poi si trasferì nel deserto egiziano di Nitria, presso San Macario, dove condusse una intensa vita di preghiera di studio e di penitenza fino alla morte.  Evagrio scrisse molto, quasi sempre in forma di aforismi e sentenze sull’esempio della letteratura filosofica. Prese l’abitudine di riunire le sue sentenze in gruppi di cento, le Centurie appunto, inaugurando così un tipo di composizione che avrà lunga vita nella tradizione bizantina. Le sue opere coinvolte nella condanna contro Origene sono andate in massima parte perdute nell’originale greco. Alcune sono pervenute in traduzione siriaca e armena.  L’opera principale di Evagrio si intitola “Problemi gnostici” ed è composta di sei centurie. In essa risulta evidente l’origenismo di questo pensatore che ripropone i temi fondamentali della cosmologia e dell’ antropologia di Origene.  La dottrina di Evagrio afferma la preesistenza delle anime, ossia delle creature razionali, rispetto ai corpi. Concepisce il susseguirsi di più mondi, la loro distruzione e rigenerazione insieme a tutte le creature razionali. Afferma inoltre, la distruzione dei corpi di cui erano state fornite le creature razionali in conseguenza del peccato. Tutte queste teorie furono condannate dal V Concilio ecumenico.  A lui si deve una prima classificazione dei vizi capitali e dei mezzi per combatterli.  
    [11] Nacque a Arianzo, cittadina presso Nazianzo, attuale Güzelyurt in Cappadocia. Figlio di Gregorio e Nonna. Il padre, che era ebreo della setta degli Hypsistiani, fu convertito dalla moglie al cristianesimo e divenne vescovo di Nazianzo. Il fratello Cesario (†;368) fu dottore presso la corte dell’Imperatore Giuliano e governatore di Bitinia. Gregorio, nato qualche anno dopo il concilio di Nicea nel quale si condannò l’eresia ariana, fu fortemente condizionato per tutta la vita dalle lotte che si scatenarono attorno alla definizione della vera natura della Trinità. Studiò prima a Cesarea in Cappadocia, dove conobbe e divenne amico di Basilio, poi a Cesarea in Palestina e ad Alessandria presso il Didaskaleion, infine, tra il 350 e il 358, ad Atene, sotto Imerio; qui conobbe il futuro imperatore Giuliano. Raggiunse poi l’amico Basilio nel monastero di Annisoi, nel Ponto. Ma abbandonò presto questa esperienza per tornare a casa, dove sperava di condurre una vita ancora più ritirata e contemplativa. Nel 361 fu ordinato sacerdote suo malgrado, dal padre, Vescovo di Nazianzo. Dapprima reagì fuggendo, ma poi accettò di buon grado la decisione paterna. “Mi piegò con la forza”, ricorderà nella sua autobiografia. Nel 372 l’amico Basilio, allora Vescovo di Cesarea, costretto dalla politica ariana dell’Imperatore Flavio Valente a moltiplicare il numero delle diocesi sotto la sua giurisdizione per sottrarle all’influenza ariana, lo nominò vescovo di Sasima. Gregorio non raggiunse mai la sua sede vescovile in quanto solo con le armi in pugno sarebbe potuto entrarvi. Morto il padre, tornò a Nazianzo, dove diresse la comunità cristiana. Nel 379, salito al trono Teodosio I, Gregorio fu chiamato a dirigere la piccola comunità cristiana che a Costantinopoli era rimasta fedele a Nicea. Nella capitale dei cristiani di Oriente pronunciò i cinque discorsi che gli meritarono l’appellativo di “Teologo”. Fu lui stesso a precisare che la “Teologia” non è “tecnologia”, essa non è un’argomentazione umana, ma nasce da una vita di preghiera e da un dialogo assiduo con il Signore. Nel 380 Teodosio lo insediò vescovo di Costantinopoli e lo fece riconoscere come tale dal II Concilio Ecumenico nel maggio del 381. Le discussioni conciliari furono quanto mai accese e lo stesso Gregorio fu accusato di occupare illegittimamente, in quanto vescovo di Sasima, la sede di Costantinopoli. infine, confessandosi incapace di mediare tra le opposte fazioni, abbandonò il concilio nel giugno del 381.  Nell’autunno del 382 divenne vescovo di Nazianzo per poi, dopo un anno, ritirarsi in solitudine ad Arianzo, dove morì nel 390.
  • 19 Apr

    L’AMORE DIVINO E L’AMORE UMANO

    A. La perfezione consiste nella carità

    La collaborazione tra Dio e l’uomo traspare, in maniera migliore, in quella virtù che può essere considerata il compendio di tutte le altre: la carità. È il più grande comandamento (cfr Mt 22,38). Certo la carità è dono, ma proprio questo richiede da parte dell’uomo la disponibilità a riceverlo.

    Carità è disponibilità a dare la propria vita. I martiri furono venerati dalla chiesa a tal motivo. Sant’Ireneo scrisse contro gli gnostici che “credevano di essere perfetti a causa della loro migliore conoscenza”. Non è la scienza che conduce alla salvezza, ma l’amore. Senza la carità anche l’ascesi più pura sarebbe inutile.

    San Paolo nel cap. 13 della prima lettera ai Corinti, lo ricorda espressamente ad una comunità più che altro alla ricerca di esperienze sensazionali e fuori della norma.

    Quando Teodoreto di Ciro[1] scrisse nella sua “Storia dei monaci di Siria”, descrivendo le prodezze ascetiche (es. di Simone lo stilita), nell’ultimo capitolo si premura di dire dove sta il valore di queste terribili penitenze: solo l’amore dava loro significato e valore, nulla più.

    B. In che cosa consiste la carità: eros e agape

    Cosa è la carità? Scrive san Giovanni Climaco: “Chi parla della carità, parla di Dio stesso. È opera difficile e rischiosa per chi non valuta bene i termini. Parlare della carità è opera degli angeli e, anche per essi, è più o meno difficile a seconda del grado di illuminazione ricevuta. Dio è carità (cfr 1Gv 4,16). Chi volesse con le parole esporre la profondità di questa rivelazione, rassomiglierebbe ad un cieco che, stando su una nave, volesse misurare sino a che limite si stende la sabbia del mare”.

    La storia del termine “amore” è illuminante. Nelle lingue moderne esso è unico e si presta perciò a diverse ambiguità, ma nel greco biblico troviamo sin dall’inizio due termini ben distinti: eros e agape.

    Troviamo tre diverse angolature dal punto di vista filosofico e teologico:

    –       il primo principio, che Aristotele considera come evidente, suona in modo pessimistico al nostro orecchio: Dio non può amare gli uomini, il mondo perché non rientra nel suo sé divino. Siccome amiamo ciò di cui abbiamo bisogno, siccome Dio non ha bisogno di nulla allora non può amarci.

    –       Il secondo principio, esplicitato da Platone nel suo “Simposio” si presenta più accettabile: l’uomo non può vivere senza amare Dio. Abbiamo bisogno delle cose materiali, ma molto più, con tutto il nostro cuore, desideriamo la bellezza, la verità, il bene. La pienezza di questi valori è soltanto in Dio e perciò amiamo Dio.

    –       Il terzo principio ne è la conseguenza: la felicità dell’uomo non è nell’amore, ma nella autosufficienza (autarcheia). Chi desidera qualche cosa confessa che non la possiede. Non possiamo quindi essere felici con ciò che non abbiamo. L’amore dunque testimonia una certa povertà. Nella mitologia il dio Eros nacque dalla madre Penia (indigenza).

    Contro queste tre tesi della filosofia greca si collocano tre affermazioni della rivelazione cristiana:

    –       Dio è agape (amore gratuito: cfr 1Gv 4,16)

    –       Ogni amore viene da Dio e non dal solo desiderio dell’uomo

    –       La perfezione consiste nella carità, da cui deriva la felicità.

    Come mai questa divergenza di posizioni?

    In greco il termine eros significa amore di desiderio motivato da una mancanza. È evidente che Dio non può avere questo tipo di amore. Perciò i testi biblici usano un’altra parola: agape. Il verbo agapao significa avere la mente tranquilla, contenta. E contento è chi non desidera altro. Anzi diventa capace di rendere contenti altri. Così è Dio: egli è gratuità d’amore talmente sovrabbondante da essere donato alle creature. Agostino afferma che Dio ha creato il mondo non perché ne avesse il bisogno, ma poter spargere su di esso il suo amore. È lui perciò per primo che ci ha amati, il nostro amore per lui è sempre in seconda (1Gv 4,10).

    Un testo di A. Nygren ci può illuminare: Eros è desiderio, aspirazione e tensione verso l’altro. Agape è sacrificio, abbassamento e donazione per l’altro. Eros è la via dell’uomo a Dio, Agape è la via di Dio verso l’uomo. Eros è conquista dell’uomo. Agape è grazia. Eros è auto-affermazione egocentrica, gloriosa, nobile. Agape è amore disinteressato e dono di sé. Eros è determinato dalla bellezza dell’oggetto amato. Agape amare e cerca il valore dell’oggetto amato.

    Noi in genere amiamo di un amore-eros, ovvero di desiderio. Siamo irrequieti, desideriamo, cercando di appagare la nostra inquietudine. Ma essa si appaga solo in Dio! Quando si scopre l’amore di Dio lo si vorrebbe ricambiare. Ma come? Siamo così deboli e poveri! Caterina da Siena[2] era afflitta da questo fatto. Ella ammiarva il fatto che Dio la amasse senza chiedere nulla. Però non lo poteva amare senza sdebitarsi. Perciò un giorno nel parlò con Gesù stesso. Egli sorrise e le disse: “A ma non puoi dare niente, ma puoi servire il tuo prossimo. Ti è impossibile amarmi senza ricambiare? Ti ho messo accanto il tuo prossimo e ciò che tu farai a lui, lo prenderò come se fosse fatto a me”. Questo è il frutto dell’agape di Dio per noi (cfr Gv 13,35)!

    Amore di Dio e del prossimo non sono due amori contraddittori. Nell’uomo veramente spirituale crescono entrambi contemporaneamente. Quanto più uno desidera Dio, tanto più riceve da lui e, di conseguenza, tanto più può donare al prossimo. E la pratica della carità fraterna aumenta di nuovo il desiderio di Dio. Si uniscono, quindi, il più prezioso dono di Dio che è la carità, insieme alla nostra collaborazione.

    Il teologo riformato D. Bonhoeffer scriveva: («Lettera a Renata ed Eberhard Bethge): Il rischio implicito in ogni grande amore è quello di smarrire la polifonia dell’esistenza. Voglio dire che Dio e la sua eternità pretendono di essere amati dal profondo del cuore, senza però che l’amore terrestre ne venga danneggiato o indebolito; qualcosa come un cantus firmus, attorno al quale le altre voci della vita cantino in contrappunto […] Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo vigore […] Vorrei pregarti di far risuonare con chiarezza nella vostra vita il cantus firmus e solo allora ci sarà un suono pieno e completo, e il contrappunto si sentirà sempre sostenuto, non potrà deviare né distaccarsene.

    C. Amare Dio

    L’amore di Dio e del prossimo sono dunque inseparabili. La scrittura ci da tuttavia una modalità diversa: amare Dio “sopra ogni cosa”, e il prossimo “come se stessi”.

    Per Dio vi è un amore “abituale”. “Abitualmente” ama dio colui che, anche se non pensandoci espressamente, non fa nulla che sia essenzialmente contro l’amore di Dio, non commettendo peccati gravi. E’ ciò che fa la maggioranza dei battezzati. In modo “attuale” ama Dio colui che serve Dio consapevolmente: uno stato che sarà perfetto in paradiso. L’obiettivo qui in terra sta nel desiderare e operare perché tutto si faccia “a maggior gloria di Dio”.

    Significa dare “la precedenza” sempre a Dio. La regolazione del traffico stradale esige che si dia la precedenza a chi viene da destra. Nel senso metaforico, possiamo dire che Dio entra nella nostra vita sempre “da destra” e che le sue leggi seguono sempre la strada principale. Hanno quindi la precedenza davanti a tutti gli altri interessi anche se avessimo fretta di andare altrove. Nella vita spirituale il pegno per la sicurezza è il rispetto assoluto degli interessi di Dio.

    I santi null’altro desiderio portavano nel cuore. Il santo curato d’Ars pregava: Ti amo, mio Dio! Mio solo desiderio è amarti fino all’ultimo respiro. Ti amo, Signore! La sola grazia che ti chiedo è amarti in eterno. Mio Dio se la lingua non può dirti in ogni momento
    che ti amo te lo ripeta il cuore ad ogni mio respiro. Ti amo, divin Salvatore, perché sei stato crocifisso per me;ti amo, Dio perché mi tieni crocifisso per te. Mio Dio, appressandomi alla fine, fammi una grazia: aumenta il mio amore.(
    St. Jean Marie Vianney [3]1786-1859).

    D. L’amore di Dio come eros e agape

    Quindi “eros” è cercare il proprio bene, “agape” è desiderare il bene dell’altro. San Basilio[4] tratta dell’amore di Dio all’inizio delle sue “regole maggiori”. Il precetto dell’amore di Dio (cfr Mt 22,37), sembra di fatto difficile da ottemperare. Eppure esso è il più naturale di tutti gli altri. La scrittura esprime con le parole la voce del nostro cuore. Infatti non abbiamo bisogno di una legge che ci ordini di amare la bellezza della natura, le stelle, la luce, i colori. Dio è più bello di tutto ciò che esiste. Basta rendersene conto, per amarlo più delle altre cose. In modo analogo alla bellezza ci attira anche il bene. Amiamo gli uomini buoni. Dio è più buono di tutti. Naturalmente ci sentiamo obbligati da sentimenti di gratitudine. San Basilio enumera tre motivi per amare Dio: il desiderio della bellezza, quello del bene e la gratitudine. Aggiunge però un altro motivo. Immaginiamo – dice – di essere presenti al giudizio finale e che fra i dannati mi trovi io stesso. In quel momento il diavolo, davanti a Gesù, mostrando me con il dito, ride: “Ecco quel Basilio!”. Si vanterà del fatto che, pur non avendomi creato e redento, io ho seguito lui anziché Cristo. Basilio ci assicura che si sarebbe pentito meno della sua dannazione eterna che dell’offesa fatta a Cristo: non avrebbe potuto sopportarla. Il pensiero appare chiaro: è possibile amare Cristo come tale, non soltanto perché egli si mostra buono ai miei occhi! È possibile che l’uomo dimentichi se stesso, come a dire: “Non m’importa della mia persona; la cosa principale è che Dio e la sua gloria non soffrano alcun male”.

    Nel catechismo si insegna che l’amore perfetto ama Dio per Dio stesso. È possibile? La risposta è: soltanto a chi è dato. Un tale amore è dono della grazia, dello Spirito Santo. È Dio che ama se stesso per mezzo del nostro cuore. Un uomo così è riconciliato con Dio. Un tale amore che è “agape” equivale: da Dio è uscito e a Dio ritorna (cfr Rm 5,5).

    E.  Dammi il tuo cuore!

    Il cuore è il centro della nostra vita e della nostra attività. L’uomo è quale è il suo cuore. E’ nel cuore che ha sede l’amore. Paul Claudel[5] scrive: Il Maestro dice: Dammi il tuo cuore! (pr 23,26). Ciò significa: Figlio, dammi ciò che rappresenta il tuo centro, la tua origine, il principio regnante della tua vita, il tuo ritmo sensitivo, emozionale, ragionevole, la sorgente della tua vita”. Il profeta dichiara: “Ho trovato il mio cuore. Che scoperta! Il proprio cuore, niente di meno che il cuore! Il nodo della personalità..Qualche cosa che si può paragonare al roveto ardente, al roveto che brucia e non si consuma!”.

    Il termine “cuore” nella teologia spirituale assume diverse connotazioni, e viene espresso attraverso molteplici altre accezioni: mente, coscienza… In ogni caso con il termine cuore vogliamo certamente una realtà estremamente profonda che è molto più del solo intelletto, volontà e emozionalità. Il cuore esprime l’uomo intero, indiviso.

    Il mistico tedesco Mastro Eckhart [6]dice: “Dio è verità, perciò è conoscibile per mezzo dell’intelletto. Dio è attività e lo conosciamo se lo imitiamo con le nostre azioni. Ma Dio è, in primo luogo “quello che è” (Es 3,14), perciò bisogna unirsi a lui con tutto l’essere, con tutte le forze e facoltà: questo significa amarlo con tutta l’anima, con tutto il cuore, con tutta la mente!”.

    Nella spiritualità orientale si predilige sottolineare del cuore l’aspetto emozionale, il sentimento per cui si afferma che “la religione è affare non dell’intelletto, ma del sentimento”, la vera preghiera non è “nella testa ma nel cuore”. Per Teofane il recluso il cuore diventa il “barometro della vita spirituale”. Ma questo sentimento non è da confondere con il sentimentalismo la da identificare con quello che i padri definiscono come “senso spirituale”: si tratta della voce della coscienza, dell’intuizione della verità e della realtà, del fine e del senso dell’esistenza.

    D’altra parte anche la filosofia scolastica distingue la doppia coscienza: discorsiva e intuitiva. La prima riflette, elabora i concetti, cerca le argomentazioni. L’intuizione al contrario è una conoscenza immediata, chiara come una visione. La nostra coscienza intuisce subito ad esempio ciò che è bene o male. Si tratta di una conoscenza che talvolta non riusciamo a giustificare. Blaise Pascal[7] lo afferma chiaramente: “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. Generalmente gli spirituali acquisiscono un tipo di coscienza intuitiva delle cose divine, del bene, del senso della vita. D’altra parte san Tommaso afferma che “quale è l’uomo, così egli conosce”. Questa sensibilità per i valori spirituali costituisce, secondo Teofane il recluso “il primo segno della rivivificazione dell’anima dopo il torpore del peccato”. Non per nulla allora il mistico Eckhart scrive: “Dio sta davanti alla porta del cuore, e resta lì e aspetta ansiosamente… aspetta con più impazienza di te. Egli aspira a te mille volte più ardentemente di quanto tu aspiri a lui”.

    F.  La coscienza

    Se in oriente si predilige parlare di “cuore”, in occidente si preferisce usare il termine “coscienza”. Questa viene definita come “giudizio interiore sulla moralità di un’azione concreta”. Kant parlava della “legge morale dentro di me”.

    La coscienza è, quindi, la prima e fondamentale norma della moralità. Le leggi scritte sono generali, espresse in termini astratti. Al contrario, il giudizio della coscienza si porta sugli atti concreti, visti nel loro contesto vitale, in relazione alla propria persona, alle prorpie conoscenze, capacità e possibilità. La coscienza è insostituibile e vivere moralmente significa imparare ad ascoltare questa voce interiore.

    Ma la coscienza può essere errata. Origene[8] dice che la coscienza rassomiglia ai pozzi dell’acqua viva nel deserto scavati da Giacobbe e che, purtroppo, i Filistei inquinarono con la sabbia (cfr Gn 26,15). Per poterla bere bisogna purificarla. Per tale scopo Dio ci ha dato la Legge, ha mandato i profeti, infine il suo stesso Figlio e lo Spirito santo. Questo aiuto non serve a “sostituire” la coscienza con l’obbedienza esteriore. L’obbedienza al contrario, serve a purificare la voce della coscienza, affinché essa diventi di nuovo autentica, limpida.

    Non si deve mai opporre legge e coscienza. Si tratta della stessa voce divina. Il cristiano si lascia guidare dalla propria coscienza, non può fare diversamente, ma nello stesso tempo, permette che sia guidata ed educata anch’essa. In questo senso la direzione spirituale è indispensabile soprattutto nei primi tempi del proprio cammino. Il direttore spirituale tiene il luogo di Dio non per sostituire la voce della coscienza, ma per assicurare la giustezza della sua voce. Scrive san Doroteo di G.[9]: “Abbiamo cura, fratelli, della nostra coscienza, finché siamo qui in terra, è essa che ci giudicherà nel regno futuro”.



    [1] Fu allevato negli ambienti monastici siriani, dove apprese la cultura greca classica e quella cristiana. Probabilmente fu discepolo di San Giovanni Crisostomo e di Teodoro di Mopsuestia. Nel 423 fu eletto vescovo di Ciro, una cittadina presso Antiochia, e subito si mise all’opera per estirpare le eresie che circolavano nella sua diocesi, soprattutto il marcionismo e l’arianesimo.  Quando nel 430 Cirillo di Alessandria scrisse i suoi dodici (Anatemi) contro Nestorio, Teodoreto prese le difese di quest’ultimo, e, su richiesta di Giovanni di Antiochia, scrisse nel 431 una confutazione degli Anatemi, il cui titolo completo era: Reprehensio duodecim capitum seu anathematismorum Cyrilli (“Confutazione in dodici capitoli o degli anatematismi di Cirillo”), che è andata perduta. Quanto ci è pervenuto lo si deve a Cirillo stesso, che lo cita per esteso nella sua Epistula ad Euoptium adversus impugnationem duodecim capitum a Theodoreto editam (“Lettera ad Euopzio contro l’impugnazione dei dodici capitoli scritta da Teodoreto”). fu condannato dal Concilio di Costantinopoli II nel 553. Teodoreto attaccò duramente sia Cirillo che le decisioni del Concilio in uno scritto, anch’esso andato perduto, dal titolo Pentalogus. Nel 449 venne deposto dalla sua sede episcopale. Scrisse un’apologia del cristianesimo dal titolo Graecorum affectionum curatio (“La cura delle malattie dei greci”), nella quale in dodici discorsi mette a confronto le risposte pagane e quelle cristiane alle fondamentali questioni filosofiche.  Fu inoltre autore di una Storia ecclesiastica, che continua quella di Eusebio di Cesarea dal 323 al 428, e di un trattato sulla Trinità, De sancta et vivifica Trinitate.  Scrisse due opere contro la dottrina monofisita di Eutiche: il Polymorphos e l’Haereticarum fabularum compendium. Teodoreto rifiutò di utilizzare formule teopaschiste, cioè di usare espressioni come “Il Figlio di Dio morì sulla Croce“, e protestò di continuo nei suoi scritti contro ogni forma di teopaschismo. Egli afferma che la risurrezione è soltanto la risurrezione del corpo di Cristo, ma non della sua anima o della sua divinità. Per Teodoreto la morte di Cristo consistette nella separazione dell’anima immortale dal corpo mortale.  La riflessione di Teodoreteo non considera l’unione ipostatica, e le azioni di Cristo sono pensate come frutto di due nature. Le parole physis e hypostasis vengono utilizzate da Teodoreto come sinonimi di umanità, realtà umana, natura umana.

    [2] Caterina nasce nel rione di Fontebranda (oggi Nobile Contrada dell’Oca) come ventiquattresima figlia dei 25 figli di Jacopo Benincasa, tintore, e di Lapa Piagenti (o Piacenti).. La sorella gemella Giovanna (la venticinquesima ed ultima figlia della coppia) vivrà solo pochi mesi.  Nel 1348 Siena e l’Europa sono devastate dall’epidemia di peste che decima la popolazione.  A soli sei anni ebbe una prima visione: vide, nella Basilica di san Domenico a Siena, Gesù Cristo in trono, con i santi Pietro e Paolo. Caterina a sette anni fa voto di verginità. Nello stesso tempo comincia un percorso di mortificazione, fatto di digiuni (soprattutto di carne) e di penitenze. Nella prima fase della sua vita, queste pratiche erano condotte in modo solitario.  Nelle sue opere racconta che verso i dodici anni i genitori, non essendo a conoscenza del suo voto, cominciano a pensare di maritarla. Caterina reagisce anche con il taglio completo dei capelli e chiudendosi in casa con il capo coperto da un velo; per vincere la sua ostinazione, i genitori la costringono ad estenuanti lavori domestici, ottenendo il risultato di rafforzare la sua convinzione interiore. Un giorno il padre la sorprende in preghiera con una colomba aleggiante sul capo. Decide allora di lasciare libera la giovane di scegliere la propria strada.  A sedici anni Caterina entra nel terzo ordine delle Domenicane (o Mantellate, per via del mantello nero sull’abito bianco), pur restando presso la sua abitazione.  Lei stessa racconta di essersi avvicinata alle letture sacre pur essendo semianalfabeta e, dopo giorni di estenuanti e poco fruttuose fatiche, di aver ricevuto dal Signore il dono di sapere leggere. Imparerà più tardi anche a scrivere, ma la maggior parte dei suoi scritti e delle sue corrispondenze sono dettate.  Al termine del Carnevale del 1367 racconta che le apparve Gesù con sua Madre e altri santi per sposarla a sé nella fede, avrebbe ricevuto un anello, adorno di rubini, che sarebbe stato visibile soltanto ai suoi occhi; per questo Caterina è iconograficamente rappresentata con l’anello e con un gigli. Caterina non si mostra intimorita al cospetto dei potenti e si rivolge loro da pari a pari.  Verso il 1372 espone al legato pontificio in Italia, Pietro d’Estraing, la necessità di riformare i costumi del clero, di trasferire la Santa Sede a Roma da Avignone dove risiedeva dal 1309 e di organizzare una crociata contro gli infedeli.  Le autorità ecclesiastiche, colpite, e forse indispettite, dal fatto che Caterina, analfabeta e visionaria, si rivolgesse in questi toni a personaggi di tale rango, la chiamano nel 1374 a Firenze di fronte al Capitolo generale dei Domenicani. L’Ordine ne riconosce l’ortodossia e l’affida alla direzione di frate Raimondo delle Vigne da Capua (13301399); questi venne poi nominato lettore di teologia a Siena e lasciò una biografia della santa.  Secondo la tradizione devozionale il 1º aprile 1375 avrebbe ricevuto le stimmate nella chiesa di Santa Cristina a Pisa, dove si trovava su invito di Papa Gregorio XI al fine di preparare la crociata da lei sollecitata; queste stimmate sarebbero rimaste invisibili fino alla sua morte.  Il progetto della crociata fu abbandonato quando Firenze, dopo aver stretto alleanza con i Visconti di Milano e aver sobillato le città dello Stato Pontificio a ribellarsi contro il papa, dichiarò guerra al “papa francese”. A nome dei fiorentini, Caterina va ad Avignone in missione di pace da Gregorio XI con altre ventitré persone incluso Raimondo da Capua. Il papa, seppure affascinato da Caterina, è convinto del doppiogiochismo dei fiorentini e rifiuta la pace; ciononostante, lei continua con la sua opera di convincimento e non interrompe l’invio di lettere al pontefice, in cui lo invita a tornare a Roma. Riesce alla fine nel suo intento: il 17 gennaio 1377 il papa rientra nella città.  All’inizio del 1378 viene incaricata di ristabilire i rapporti tra Santa Sede e Firenze, ma durante la sua missione in riva all’Arno rischia la vita, e la missione fallisce. Il nuovo Papa Urbano VI riesce a siglare una pace il 28 luglio 1378. Il 20 settembre dello stesso anno, a Fondi, avviene lo scisma, con l’elezione dell’antipapa Clemente VII. Caterina definisce i tredici cardinali scismatici demoni incarnati. Nonostante la vittoria militare di Urbano VI a Marino il 30 aprile 1379, lo scisma si protrarrà per quarant’anni.  Muore, provata da una vita di digiuni e di astinenze forzate, a soli 33 anni, dopo essersi astenuta dal bere per un mese. Nella biografia della senese scritta dal beato Raimondo da Capua, è riportato che non fu santa Caterina a rifiutare il cibo, ma “dopo l’apparizione di Nostro Signore, che le fece dono di bere al suo costato lo stomaco di Santa Caterina si chiuse … non ebbe più bisogno di cibo né poté più digerire. Nessuno se ne meravigliava, perché accostandosi alla fonte della Vita, lei aveva bevuto a sazietà una bevanda vitale, che le tolse per sempre il bisogno di mangiare”.  Caterina da Siena fu canonizzata da Pio II nel 1461.  Papa Paolo VI ha dichiarato Caterina Dottore della Chiesa il 4 ottobre 1970.  Santa Caterina è inoltre patrona principale d’Italia per nomina di Papa Pio XII nel 1939 (assieme a San Francesco di Assisi) e compatrona d’Europa per nomina di Papa Giovanni Paolo II il 1º ottobre 1999.

    [3] Nato in una famiglia poverissima e vissuto durante la Rivoluzione Francese, e quindi in pieno anticlericalismo, studiò presso il Seminario di Lione, dove ebbe come compagni Jean Claude Colin e Marcellino Champagnat: studente mediocre (era mediamente di tre o quattro anni «più indietro» rispetto ai suoi compagni di classe), fu ordinato sacerdote a Grenoble il 13 agosto 1815.  Nel 1818 gli venne affidata la cura pastorale del villaggio di Ars, nell’Ain, dove rimase per quarant’anni svolgendo il suo incarico parrocchiale: fu particolarmente attivo nell’insegnamento del catechismo e divenne uno stimato confessore; diffuse la devozione a Santa Filomena di Roma.  Morì in fama di santità (Ars era già diventata meta di pellegrinaggi quando era ancora in vita) nel 1859.

    [4] Figlio di un ricco rètore e avvocato, suo nonno morì martire nella persecuzione di Diocleziano e sua nonna, Macrina, fu discepola di Gregorio Taumaturgo del Ponto. La nonna Macrina, la madre Emmelia, i fratelli Gregorio, vescovo di Nissa e Pietro, vescovo di Sebaste e la sorella primogenita, Macrina, sono pure venerati dalla Chiesa cattolica come Santi. Fu molto amico di San Gregorio Nazianzeno, venerato come santo e commemorato nello stesso giorno, il 2 gennaio. Ancora fanciullo venne mandato dalla nonna Macrina a Neocesarea sul Ponto dalla quale apprese i principi cristiani, a riguardo Basilio affermerà: Io non dimenticherò mai in vita mia, i forti stimoli che davano al mio cuore, ancora tenero i discorsi e gli esempi di questa piissima donna. Ebbe come primo maestro suo padre Basilio, ma in seguito continuò gli studi a Cesarea, Costantinopoli ed Atene, la capitale culturale del mondo ellenico e pagano, dove conobbe San Gregorio Nazianzeno. Fece ritorno in patria nel 356, dopo un breve periodo come insegnante di retorica, su esortazione della sorella Macrina si ritirò a vita ascetica, dopo essere stato battezzato. Fece visita a molti anacoreti dell’Egitto, della Siria, della Palestina e della Mesopotamia per comprendere meglio il loro stile di vita, in particolare frequentò i cenobi fondati da San Pacomio. Ritornato in patria si ritirò sulle rive del fiume Iris vicino ad Annosi nel Ponto, dove iniziò a fondare delle comunità monastiche cenobitiche.  Intorno al 360 il vescovo Eusebio di Cesarea chiamò Basilio e gli conferì l’ordine del presbiterato. Dieci anni dopo, nel 370, dopo la morte di Eusebio, venne eletto Arcivescovo di Cesarea in Cappadocia, Metropolita ed Esarca dell’intera regione del Ponto.  Combatté molto contro le dottrine ariane che, con l’appoggio dell’Imperatore Valente, stavano prendendo piede nella Chiesa. Lo stesso Imperatore tentò a più riprese di piegare Basilio a queste dottrine considerate dalle Chiese Cristiane conciliari eretiche, ma non lo contrastò mai direttamente, limitandosi a dividere in due diocesi la Cappadocia per sottrargli potere. Basilio difese l’ortodossia delle Chiese Cristiane conciliari anche contro i Macedoniani e l’Imperatore Giuliano.  Basilio fece costruire una cittadella della carità con locande, ospizi, ospedale e lebbrosario, chiamata Basiliade, questa fu la sua più grande opera, che gli valse il nome di Magno.  Dopo l’uccisione dell’imperatore Valente da parte dei Goti nel 378, Teodosio I rese il Cristianesimo religione unica e obbligatoria dell’Impero romano, e sulla sede di Costantinopoli, con l’appoggio di Basilio, fu insediato Gregorio Nazianzeno. Di lì a breve, provato dalle austerità, dalle malattie e sfinito dalle preoccupazioni, Basilio morì il 1º gennaio 379.  San Basilio, per dare ordine ai suoi cenobi, dettò la “Grande Regola” (Regulae Fusius Tractatae) che comprende 55 articoli sui doveri generali del monaco, anche se Basilio parla genericamente di “fratello”. In un secondo momento redasse la “Piccola Regola” (Regulae Brevis Tractatae) che è una specie di casistica sulla vita monastica. In esse San Basilio presenta la vita monastica come lo stato ideale per raggiungere la perfezione cristiana, o meglio invita tutti, anche chi oggi definiremmo laico, a condurre, indipendentemente dalla propria condizione di vita, uno specifico stile di vita. Diede così origine all’Ordine dei monaci basiliani che da lui presero il nome.  All’eremo, tipico del primo monachesimo orientale, Basilio preferì il cenobio, che presuppone celle o romitori autonomi, ma con luoghi di preghiera e di lavoro in comune. Secondo San Basilio, il cenobio infatti era in grado di favorire la correzione dei difetti e l’aiuto scambievole tra i monaci.  San Basilio fece propria l’esperienza cenobitica di San Pacomio in Egitto, ma le attribuì un “carattere ordinale”, consistente nel voler conferire una dimensione familiare alle piccole comunità di monaci. Basilio figura tra le più influenti figure che hanno dato sviluppo al monachesimo nella cristianità. Non solo è riconosciuto come il padre del monachesimo orientale; ma gli storici gli attribuiscono anche una grande importanza per lo sviluppo di quello occidentale, in particolare per l’influsso che ebbe su San Benedetto. Con il suo esempio e i suoi insegnamenti Basilio esercitò una notevole influenza nella vita monastica del tempo, moderando l’austerità che fino ad allora aveva caratterizzato la vita monastica. Fornì anche un grande contributo nel coordinare le attività di lavoro e quelle di preghiera per assicurarne un più equilibrato ritmo nella giornata del monaco. Volle inoltre, cosa molto importante, che i monaci fossero integrati nella vita della Chiesa e vivessero inseriti nella comunità civile, dedicandosi anche, sotto l’autorità del Vescovo, all’esercizio del ministero pastorale. Per questo motivo molti erano anche sacerdoti, un elemento che distingue i monaci basiliani, oltre che dai pacomiani, anche dai benedettini, i cui appartenenti non necessariamente sono sacerdoti.  Per questo motivo San Basilio fondò i suoi monasteri non in luoghi deserti o impervi, ma nelle città o nelle loro vicinanze, in modo che la scelta del silenzio e del raccoglimento fosse legata alla dimensione caritativa soprattutto verso i poveri. Infatti, fondò delle vere e proprie cittadelle dove i monaci davano lavoro ai bisognosi, assistevano i malati, i poveri e gli orfani; queste cittadelle, in seguito, furono denominate “città basiliadi”. Fondamentali, nella regola basiliana, come si è detto, furono tanto il lavoro manuale, che rafforza il corpo, quanto la preghiera, che rinfranca lo spirito, come lo studio delle Sacre Scritture, che illumina la mente.  In Oriente l’Ordine Basiliano ebbe subito grande sviluppo. In Occidente fu trapiantato nell’VIII secolo in Sicilia, nella penisola Salentina e poi in Calabria dove conobbe la sua massima fioritura in seguito alle persecuzioni iconoclaste (contro tutti i cristiani che professavano il culto delle Icone), scatenate dall’Imperatore Leone III di Bisanzio l’Isaurico. I basiliani perseguitati vi si rifugiarono dalle altre provincie dell’Impero e dalla Sicilia, dove temevano l’avanzare degli arabi e l’avvento della religione musulmana. In Calabria essi trovarono condizioni favorevoli per fondare nuovi monasteri come il Patirion di Rossano o il monastero di San Giovanni Therestis a Stilo, così i basiliani diedero un contributo notevole allo sviluppo socio-economico-culturale della Calabria. Tanto che si diede ad essa l’appellativo di”Nuova Tebaide”. Dall’Italia meridionale poi il monachesimo basiliano si diffuse nel resto d’Europa.

    [5] Ultimo di quattro figli, tra cui la scultrice Camille, a causa dell’attività di alto funzionario dell’amministrazione statale svolta dal padre, è costretto a spostarsi continuamente, fino al trasferimento del 1882 della famiglia Claudel a Parigi. Resta comunque legato a Villeneuve, suo paese natale, specialmente per il rapporto con il nonno materno, morto nel 1881. Durante la sua giovinezza a Parigi perde la fede ed entra in contatto con il positivismo imperante nella società dell’epoca, che però rifiuta decisamente preferendo il movimento anarchico. Contemporaneamente si interessa alla letteratura privilegiando, fra gli altri, Shakespeare, Dante, Dostoevskij, e tra i contemporanei Zola, Hugo e Ernest Renan. Conosce Mallarmé e partecipa ai suoi martedì, incontrando anche Verlaine e rimanendo affascinato dalla lettura di Rimbaud, cui rimarrà sempre legato. Durante questo periodo vive un travaglio interiore che lo porta alla conversione al cattolicesimo nel 1886. Tale avvenimento, secondo il racconto dello stesso Claudel, avviene a Notre-Dame de Paris, ascoltando il Magnificat durante la Messa di Natale. La sua vena artistica, pur se molto discontinua, si sviluppa da questo momento in poi con temi profondamente cristiani. Quanto alla vita professionale, dopo aver svolto studi nel campo del diritto, lavora per il Ministero degli Esteri e intraprende la carriera diplomatica. Nel 1893 è console negli Stati Uniti, suo primo incarico all’estero. Da allora soggiorna in moltissimi paesi: Cina e Giappone (paesi dai quali rimane profondamente colpito), Germania, Italia, Brasile. Ritorna ancora una volta negli Stati Uniti nel 1927, come ambasciatore. L’ultimo suo incarico è a Bruxelles. Nel 1935 si congeda dal lavoro. La sua movimentata carriera non gli impedisce di avere una famiglia: nel 1906 si sposa con Regina Perrin, dalla quale ha molti figli. Una sua nipote, Dominique, fu fidanzata di Vittorio Emanuele di Savoia. Nell’arco della sua vita si occupa di molti campi del sapere, pubblicando scritti anche di politica, scienza, letteratura ed arte. Nel 1946 viene eletto accademico di Francia. Muore nel 1955, all’apice del successo, a causa di una crisi cardiaca. Il suo epitaffio, scritto da lui stesso, recita semplicemente “Qui riposano i resti e la semenza di Paul Claudel”.

    [6] Non esiste né un’immagine autentica di Eckhart né un manoscritto originale. Anche l’attribuzione delle sue prediche e dei trattati in tedesco è talora controversa. I testi in latino – che sono pervenuti soltanto in parte – lasciano intravedere la sua mano. Malgrado queste numerose lacune si riescono a ricostruire alcuni passi della sua vita e della sua dottrina: Eckhart nasce, circa nel 1260, figlio del cavaliere Eckhardus, dictus de Hocheim; precocemente, forse già nel 1275, Eckhart entrò a Erfurt nell’ordine dei domenicani; dal 1277 al 1289 Eckhart acquisisce una formazione di base in artium, naturalium (filosofia naturale), solemne (teologia) e generale (studium generale), che si conclude con la sua ordinazione presbiterale. Questi studi furono effettuati presso i conventi che disponevano dei relativi insegnanti. Tali luoghi di insegnamento erano stabiliti dai capitoli provinciali dell’ordine. Gli atti dell’epoca della provincia teutonica non sono pervenuti se non qualche fragmento. Dunque è possibile che Eckhart abbia passato uno o più anni a Colonia, dove potrebbe avere conosciuto Alberto Magno; circa nel 1290 Eckhart riesce a iscriversi all’Università di Parigi, dove nel biennio 1293/1294 fu lettore delle sentenze di Pietro Lombardo; nel 1294 Eckhart diventa priore del convento domenicano di Erfurt e vicario dell’ordine per la Turingia. nel 1302 è di nuovo insegnante a Parigi, ora come magister[1]. Nelle sue „Quaestiones parisienses“ si ravviserebbe, secondo alcuni interpreti, il passaggio teologico da un’ontologia della sostanza a una filosofia dello Spirito. 13031310 Eckhart assume la guida della neocostituita provincia sassone dell’ordine, la cui sede viene da lui fissata, quale provinciale, presso il convento domenicano di Erfurt. A quest’epoca risalgono fra l’altro due prediche per il capitolo generale dell’ordine a Tolosa e a Piacenza e le lectiones sul Siracide, opere nelle quali è ulteriormente sviluppata la filosofia dello Spirito abbozzata nelle quaestiones. 13111313 Eckhart segue un secondo magisterium a Parigi. All’epoca soltanto Tommaso d’Aquino poteva vantare un tale curriculum. A quest’epoca risalgono i testi più importanti in latino; in specie le interpretazioni dei libri veterotestamentari del Genesi, Esodo, Sapienza nonché del Vangelo di San Giovanni e più tardi un voluminoso di prediche sempre in lingua latina. 1314 Eckhart diventa vicario generale del monastero domenicano di Strasburgo. Datano di questo periodo la maggior parte dei suoi scritti più conosciuti le „Deutschen Predigten“, ossia le prediche in tedesco. 1322 Eckhart assume la guida dello Studium generale di Colonia, dove egli stesso si era formato 1325 alcuni confratelli denunciano Eckhart presso l’arcivescovo di Colonia Heinrich II von Virneburg per affermazioni eretiche. 1326 la lista di 49 imputazioni a carico di Eckhart viene ridotta a 28. Per evitare il peggio nel 1327 Eckhart ritrattò le proprie tesi. 1328 Eckhart muore. Non si sa se durante un viaggio verso la corte di papa Giovanni XXII ad Avignone o già durante il ritorno verso Colonia. 23 marzo 1329 delle 28 tesi incriminate 17 sono ritenute eretiche dalla bolla papale In agro dominico[2]. Delle altre 11 è criticata la lettera, in quanto avrebbe dato adito a fraintendimenti.

    [7] Blaise Pascal (Clermont-Ferrand, 19 giugno 1623Parigi, 19 agosto 1662) è stato un matematico, fisico, filosofo e teologo francese. Bambino precoce, fu istruito dal padre. I primi lavori di Pascal sono relativi alle scienze naturali e alle scienze applicate. Contribuì in modo significativo alla costruzione di calcolatori meccanici e allo studio dei fluidi. Egli ha chiarito i concetti di pressione e di vuoto per ampliare il lavoro di Torricelli. Pascal scrisse importanti testi sul metodo scientifico. A sedici anni scrisse un trattato di geometria proiettiva e, dal 1654 lavorò con Pierre de Fermat sulla teoria delle probabilità che influenzò fortemente le moderne teorie economiche e le scienze sociali.[1] Dopo un’esperienza mistica seguita ad un incidente in cui aveva rischiato la vita [2], nel 1654, abbandonò matematica e fisica per dedicarsi alle riflessioni religiose e filosofiche. Morì due mesi dopo il suo 39º compleanno, nel 1662, dopo una lunga malattia che lo affliggeva dalla fanciullezza. Nato a Clermont-Ferrand, nell’Auvergne, Pascal perse la madre, Antoinette Begon, all’età di 3 anni, quando essa non si riprese dal parto della figlia Jacqueline Pascal (16251662). A causa di questo il padre, Étienne Pascal (15881651), magistrato e matematico, si occupò personalmente della sua educazione. Il giovane Blaise si rivelò assai precoce nello studio e nella comprensione della matematica[3] e della fisica, tanto che fu ammesso alle riunioni scientifiche del circolo intorno a Marin Mersenne, che era in corrispondenza con i più grandi ricercatori del tempo, tra cui Girard Desargues, Galileo Galilei, Pierre de Fermat, René Descartes ed Evangelista Torricelli.[4] Dal 1639 al 1647 fu a Rouen, dove suo padre aveva avuto un incarico da parte del cardinale Richelieu. Qui, nel 1640, Blaise Pascal compose la sua prima opera scientifica “Sulle sezioni coniche” (Essai pour les coniques),[4] basata sul lavoro di Desargues, e nel 1644 costruì la sua prima macchina calcolatrice, la Pascalina.[4] Nel 1646, inoltre, suo padre, che si era ferito in una caduta, fu curato da due gentiluomini della setta di Giansenio, che in breve convinsero sia lui che i figli ad abbracciare le idee religiose e morali gianseniste.[5] Nel 1650, a causa della sua salute cagionevole, Pascal lasciò temporaneamente lo studio della matematica. Nel 1653, quando la salute migliorò, scrisse il Traité du triangle arithmétique, nel quale descrisse il triangolo aritmetico che porta appunto il suo nome. A seguito di un incidente avvenuto nel 1654 sul ponte di Neuilly, nel quale i cavalli finirono oltre il parapetto ma la carrozza si salvò miracolosamente, Pascal abbandonò definitivamente lo studio della matematica e della fisica per dedicarsi alla filosofia e alla teologia. [6] Da quel momento, Pascal entrò a far parte dei “solitari”, dell’abbazia di Port-Royal, laici dediti alla meditazione e allo studio, fra i quali vi era già sua sorella, e qui diventò membro della setta dei giansenisti, fondata e guidata dal vescovo Giansenio. Proprio in quel periodo si era accesa un’aspra controversia tra i giansenisti e i teologi dell’Università della Sorbona di Parigi, ed egli intervenne in tale disputa in difesa del Giansenismo. Il 23 gennaio 1656 pubblicò le sue prime lettere, con lo pseudonimo di Louis de Montalte, scritte da un provinciale ad uno dei suoi amici, sulle dispute della Sorbona. A queste seguirono altre 17 lettere (l’ultima è datata 24 marzo 1657). Nel 1660, il re Luigi XIV ordinò però la distruzione delle Lettere provinciali di Pascal, scritte in difesa del giansenista Antoine Arnauld. Proprio mentre pubblicava le sue Lettere, Pascal aveva concepito l’intenzione di scrivere una grande opera apologetica del Cristianesimo (oltre che del giansenismo). La sua salute già malferma, era divenuta ancor più fragile: morì il 19 agosto 1662, a soli trentanove anni. L’autopsia a cui fu sottoposto rivelò gravi disturbi a carico dello stomaco e dell’addome, nonché danni al tessuto cerebrale [7], tuttavia la causa della morte e della salute cronicamente malferma non furono mai del tutto chiarite. Si pensa alla tubercolosi, ad un tumore allo stomaco, oppure ad una combinazione delle due malattie. Egli seguiva comunque, per ragioni etiche e morali, una dieta leggera, di tipo vegetariano [8]. Le emicranie che afflissero Pascal furono molto probabilmente causate dai danni al cervello. Fu sepolto nella chiesa di Saint-Étienne-du-Mont. Le bozze e gli appunti delle sue lettere furono raccolte da familiari e amici nei suoi celebri Pensieri, una profonda opera filosofica, morale e teologica dove è già tracciata la linea apologetica in favore del cristianesimo.

    [8] Primogenito di sette figli venne avviato dal padre Leonida allo studio delle lettere e alla conoscenza della Sacra Scrittura. Era appena diciassettenne quando, nel 202, la persecuzione di Settimio Severo si abbatté sulla Chiesa di Alessandria. Suo padre fu incarcerato e successivamente decapitato, sempre sorretto dall’incoraggiamento del giovane figlio che gli inviò una lettera di esortazione al martirio.  Quando Leonida morì e le sue fortune vennero confiscate dalle autorità imperiali, il ragazzo lavorò duramente per sostenere la madre ed i fratelli. Aprì quindi una scuola di grammatica, e poco tempo dopo, assunse la direzione della scuola catechetica. Fu incaricato della preparazione al battesimo dei catecumeni dal vescovo Demetrio (Eusebio, Historia ecclesiastica, VI, II; Girolamo, De viris illustribus, LIV). Ebbe come allievi: Basilide, Potamiena, Plutarco, Sereno, Eraclide, Erone, un altro Sereno, ed Herais (Eusebio, Hist. eccl., VI, IV). Accompagnò molti di loro al martirio incoraggiandoli con le sue esortazioni.  Poiché gli ascoltatori aumentavano sempre più, fu costretto a dividere il corso, affidando ad Eracla la preparazione di base e mantenendo per sé quello superiore. L’insegnamento ad un pubblico eterogeneo, formato non solo da cristiani ma anche da pagani, eretici e gnostici, lo convinse della necessità di una conoscenza più approfondita, sia della Scrittura sia della filosofia. A tal fine si applicò anche allo studio della lingua ebraica e visitò la Palestina per rendersi conto di persona dei luoghi geografici descritti dalla Bibbia.  Frequentò le lezioni di Ammonio Sacca padre del neoplatonismo alessandrino. Tutto ciò non lo distolse dall’insegnamento e dalla pubblicazione dei suoi primi commenti alla scrittura. Tuttavia, l’eccessiva importanza data alla filosofia nella spiegazione della verità della fede dovette suscitare nella Chiesa di Alessandria qualche riserva sul suo pensiero.  Con il passare del tempo il sospetto si mutò in aperta rottura, tanto che quando fu ordinato sacerdote nel 230, da Teoctiso di Cesarea e da Alessandro di Gerusalemme, senza l’autorizzazione del vescovo Demetrio, furono presi nei suoi confronti provvedimenti durissimi. Venne privato dell’insegnamento, deposto dall’ordine presbiterale e cacciato dalla comunità. Queste decisioni vennero ratificate dal pontefice romano Ponziano e da altri vescovi, ad eccezione di quelli della Palestina, Fenicia, Arabia e Acaia. Secondo alcuni autori, per il suo estremo rigore ascetico e per aver applicato alla lettera Mt 19,12 ed essersi evirato il vescovo Demetrio non lo aveva mai voluto ordinare sacerdote[1].  Abbandonata Alessandria si ritirò presso l’amico Teoctiso, a Cesarea di Palestina dove aprì una scuola di teologia che divenne la continuazione di quella di Alessandria. [2]. I dettagli di questa vicenda furono riportati da Eusebio nel secondo libro perduto dell'”Apologia per Origene”; secondo Fozio, che aveva letto l’opera, furono convocati ad Alessandria due concili, il primo di questi esiliò Origene, mentre l’altro lo depose dal sacerdozio (Bibliotheca Cod. 118). Girolamo, comunque, affermava espressamente che non fu condannato per alcun punto della sua dottrina.  All’insegnamento univa la predicazione alla comunità dei fedeli. Contemporaneamente si dedicava alla stesura di opere di diverso genere: commenti alla Scrittura, omelie, lettere, opere ascetiche e apologetiche. Durante la persecuzione di Decio (249-250), ormai vecchio, venne imprigionato e brutalmente torturato per la sua fede. Liberato, morì poco dopo per i maltrattamenti subiti. Venne sepolto a Tiro e la sua tomba era visibile fino al XII secolo nella cattedrale della città.

    [9] Monaco di Palestina e fecondo scrittore ascetico del VI secolo, nacque ad Antiochia nei primi anni del secolo, da famiglia facoltosa e molto cristiana, crebbe con la passione per gli studi, ricevendo un’eccellente educazione.  Decise per una vita di perfezione, quindi verso il 525 entrò nel monastero fondato e diretto dall’abate Seridos, nell’oasi di Thawata a poca distanza da Gaza, nel Meridione della Palestina.
    Venne affidato dall’abate a due grandi asceti del monastero: s. Giovanni detto il Profeta e s. Barsanufio, che da maestri di vita spirituale, spinsero il giovane al distaccamento progressivo da ogni cosa, all’ubbidienza, all’umiltà, alla mortificazione interiore, aiutandolo a superare gravi tentazioni e crisi di scoraggiamento.  Doroteo venne esonerato dalle tremende mortificazioni corporali in uso nel monachesimo orientale, a causa delle sue precarie condizioni di salute, debilitato dall’intenso lavoro intellettuale. Ebbe vari incarichi nel monastero, sia in portineria che in foresteria, dietro ordine dei due asceti sopra menzionati “i gerontes”, costruì un nosocomio per i monaci, che quando si ammalavano non avevano assistenza, usufruendo dell’aiuto finanziario del proprio fratello.  Fu incaricato anche della direzione spirituale dei monaci ed ebbe come novizio e discepolo Dositeo, santo monaco famoso in Oriente; in seguito fu messo al servizio di s. Giovanni il Profeta che assistette fino alla di lui morte.
    Morti l’abate Seridos e i due “gerontes”, Doroteo lasciò il monastero, non si sa bene il perché, andando a fondarne un altro tra Gaza e Maiuma che porterà il suo nome e dove trascorse il resto della sua vita.  Morì tra il 560 e il 580; del suo corpo, della sua tomba e del suo monastero non è rimasto più nulla, probabilmente tutto fu distrutto dagli arabi, quando presero Gaza nel 634. Di lui rimane la vasta raccolta di scritti, conferenze spirituali, omelie, Istruzioni ascetiche, esortazioni scritte dirette ai monaci.  La ‘Vita di s. Dositeo’ può considerarsi come il capolavoro di Doroteo perché fu scritta da un discepolo sotto sua ispirazione.  Questi scritti ascetici ebbero un enorme successo, che dura tuttora, soprattutto fra i monaci del Sinai nel secolo VII e poi da Costantinopoli mediante s. Teodoro Studita e tramite i monaci basiliani italo-greci, l’opera spirituale di s. Doroteo fu portata alla conoscenza del monachesimo occidentale, determinando un influsso vasto e benefico anche nella spiritualità della Compagnia di Gesù.  La bibliografia che riguarda le sue opere è molto vasta, essa va dai manoscritti greci, alle innumerevoli opere librarie, raccolte, ristampe ed edizioni che dalla invenzione della stampa ad oggi, sono state pubblicate in varie Nazioni.  I menei slavi riportano al 5 giugno la celebrazione di un s. Doroteo egumeno, che è senz’altro Doroteo di Gaza, mentre in quelli greci non vi è traccia del suo nome.

  • 18 Apr
    1. GRAZIA  DIVINA E COLLABORAZIONE DELL’UOMO

     

    A. Sinergia:  l’azione umano-divina

    L’uomo “religioso” ha sempre creduto di dover “ascendere” per trovare Dio. E ascendere vuol dire fatica e lavoro. Ma questo sforzo risulta smisurato alle forze umane. Come pretendere di giungere noi “finiti” all’ “infinito” di Dio? Nella fede cristiana invece è vero il contrario: non siamo noi ad ascendere al cielo, ma è Dio che discende verso di noi per incontrarci e donarci la sua salvezza.

    Nella teologia ascetica viene posta una domanda importante: che funzione hanno, che valore, i nostri sforzi per acquisire la grazia, ovvero la vita divina? (è lo stesso problema rappresentato dal rapporto tra l’ascetica e la mistica, tra la praxis e la theoria).

    L’esperienza spirituale sia orientale che occidentale, soprattutto derivata dal vissuto monastico, insegna che vi è profonda unità tra ascesi e mistica.  Nel progresso della vita spirituale deve esistere sempre una stretta collaborazione tra l’agire umano e la grazia di Dio.

    Qualcuno potrebbe dire: “Allora la grazia non è più grazia!”. Lo Pseudo Macario risponde all’obiezione: gli sforzi umani sono come il lavoro dell’agricoltore. Non basta zappare e seminare. Il raccolto dipende anche dal sole e dalla pioggia. Vi sono annate in cui si raccoglie poco nonostante l’impegno. Ma la regola normale resta sempre valida: meglio si lavorano i campi, migliore sarà la raccolta. Vale perciò la regola: sforzati e Dio verrà in aiuto al tuo sforzo da lui stesso suscitato in te. “Che il sole risplenda o no nel cielo non dipende dal suolo coltivato o meno; ma se il sole risplende, non è indifferente che il suolo sia coltivato o incolto: un campo incolto fa ostacolo all’efficacia fecondatrice del sole. Così è per la grazia: avere o non avere la grazia non dipende dall’uomo, ma dalla liberalità di Dio; l’uomo, tuttavia, se Dio offre la grazia, può porre ostacolo e frustrare i suoi effetti” (C.V. Truhlar)

    Ricordiamo che l’amore di Dio deve incontrare l’amore attivo da parte dell’uomo.

    B. Lavoro

    Ad immagine di Dio che è Creatore-lavoratore anche noi siamo chiamati a collaborare-lavorare con Lui. Vivere vuol dire lavorare con Dio che lavora.

    A causa del peccato il lavoro è divenuto penoso, esso richiede fatica e sudore (cfr Gn 3,19). La pena per il peccato, però non è il lavoro stesso – come nota san Giovanni Crisostomo – ma la fatica, il dolore, il disgusto di lavorare. Il cristiano che si purifica dal peccato e dalle sue conseguenze, libera dalla sua maledizione il lavoro affinché esso diventi di nuovo libera e gioiosa costruzione della propria perfezione, l’espressione dell’amore verso Dio e verso il prossimo.

    E non esiste lavoro più importante di un altro. Esso se è secondo la volontà di Dio è il più importante per me. Fu il principio spirituale che santificò l’umile e semplice vita di san Giovanni Berchman[1]: “Fa’ bene ciò che devi fare!”.Una volta gli chiesero cosa avrebbe voluto fare se avesse saputo di dover morire subito dopo pranzo; rispose: “Andrei a ricreazione con i miei compagni”. Adempiere il proprio obbligo è la migliore devozione e preparazione alla morte.

    Alcuni maestri insegnano ad eseguire tutto come se si trattasse dell’ultima opera della propria vita: consapevolmente, con gioia, con diligenza, ma anche con una santa leggerezza e senza ansia per il domani, o per il risultato esteriore.

    Teniamo poi conto che il nostro lavoro è espressione concreta dell’amore al prossimo. Un lavoro fatto bene, con solerzia, aiuta altri a vivere meglio. Non è indifferente questa attenzione, soprattutto nella propria famiglia, comunità o luogo di lavoro.

    Per questo non ci è lecito disprezzare, come in antico, il lavoro manuale. Fu soprattutto il monachesimo a cambiare tale concezione, ribaltando una tendenza eretica (gli euchiti) che volevano esclusivamente dedicarsi alla preghiera. I cristiani non si vergognano di avere un Maestro che fu per trentanni un umile lavoratore. Paolo era un tessitore. Alcuni apostoli pescatori. San Giovanni Crisostomo se la prende con i cristiani che fanno troppo i “signori”: “Dio ti ha dato le mani, gli schiavi li hanno fatti gli uomini”. Paolo VI nel suo pellegrinaggio in terra santa ebbe a dire a Nazaret: “Nazaret è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù,  cioè la scuola del Vangelo… Vi impariamo una lezione di lavoro. Oh! Dimora di Nazaret, casa del “Figlio del falegname”! Qui soprattutto desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo, ma redentrice della fatica umana… Infine vogliamo salutare gli operai di tutto il mondo e mostrar loro il grande modello, il loro divino fratello”.

    E’ vero che il lavoro manuale affatica e talvolta distrae: il suo scopo può apparire a prima vista solo un’utilità materiale. Tuttavia se deve divenire spirituale è necessario attribuirgli uno scopo spirituale perché abbia conseguenze positive a livello spirituale. Perciò è necessario trattare della “retta intenzione” in ogni attività umana, affinché sia trasfigurata.

    C. Attività esteriore ed interiore

    A causa delle occupazioni quotidiane siamo spesso portati a concentrarci sull’esterno. I maestri spirituali ci ammoniscono della necessità, almeno di tanto in tanto, di rientrare in noi stessi, a riprendere contatto con la nostra interiorità.

    È impossibile che l’attenzione per l’esteriore sia completamente eliminata. Ma d’altra parte atti puramente interiori non esistono. Anche un puro pensiero in qualche modo dipende dalla materia e dall’esperienza. E vale il contrario: ciò che abbiamo in mente lo manifestiamo esteriormente.

    Quindi fra pensiero “interno” ed azione “esterna” vi è una relazione simile a quella che c’è tra l’anima e il corpo. Il volto è lo specchio dell’anima ma non rivela mai totalmente il suo segreto.

    D. L’intenzione dà il valore alle opere

    La vera moralità del nostro agire scaturisce dal cuore, ma il cuore non riesce mai completamente ad immetterla nel nostro agire esteriore.

    Rinnovare spesso le buone intenzioni corrisponde allo sforzo di ristabilire l’unità fra l’azione “esterna” e quella “interna”. Anche se sappiamo che questa unità, qui in terra, non sarà mai perfetta. La buona intenzione santifica i mezzi (evidentemente quelli che non sono immorali), l’intenzione cattiva rende immorale anche l’opera in sé buona.

    Affinché un atto sia meritorio non è sufficiente un motivo solo umano. Non basta pentirsi di aver rubato poiché la polizia mi ha scoperto! Il lavoro non è meritorio se lo compio con l’ottica di far soldi. Eppure la maggior parte dei nostri atti sono compiuti con motivazioni puramente umane. Ma teniamo presente che in ogni atto possono partecipare diverse motivazioni Alcuni di questi motivi sono sentiti più vicini, altri sembrano lontani. In teologia si distingue l’intenzione “attuale”, quella che mi spinge immediatamente all’azione (corro se non perdo il treno), dall’intenzione “virtuale”. A quest’ultima non penso, eppure essa è il vero motivo (devo andare a trovare una persona in difficoltà).

    Allora alcuni teiologi affermano che l’opera meritoria deve avere un motivo soprannaturale, questo però non deve necessariamente essere attuale, può essere anche virtuale. Il cristiano ha deciso, una volta per sempre, di voler salvare la propria anima e di evitare tutto ciò che è peccato. Questa intenzione non viene facilmente revocata e allora è valida anche se, nella fretta della vita non ci pensiamo.

    Scrive l’autore dell’ Imitazione di Cristo: “Non fidarti dei tuoi sentimenti; ciò che oggi tu senti potrà cambiare presto. Finché vivrai sarai soggetto, anche tuo malgrado, a questa instabilità, sicché sarai ora lieto, ora triste, ora sereno, ora turbato; ora devoto, ora freddo, ora diligente, ora pigro, ora grave, ora leggero. Ma chi ha lo spirito saggio e illuminato, sta saldo fra questi mutamenti, senza preoccuparsi di ciò che sente dentro di sé, né da qual parte spiri il vento dell’incostanza, procurando che tutta l’attenzione della sua mente sia fissa al giusto e desiderato fine. Soltanto in tal modo, infatti, egli potrà conservarsi fermo e stabile, tenendo fisso in me (nel Signore) lo sguardo puro della sua retta intenzione, attraverso i suoi più vari eventi”. (Imitazione di Cristo, III, 33,1).

    E.  Formulare le intenzioni buone

    Chi vive la vita religiosa più autenticamente diventa sempre più cosciente e consapevole dei motivi superiori, inizialmente nascosti. Egli cerca di rendersene conto e di rafforzarli. Questa pratica viene denominata come un “formulare la buona intenzione”. Dovremmo apprendere l’arte spirituale di svegliare quotidianamente la buona intenzione. Il Movimento dell’”Apostolato della preghiera” ad esempio propone una preghiera specifica: “Cuore divino di Gesù, io ti offro, per mezzo del cuore immacolato di Maria madre della Chiesa, in unione al Sacrificio eucaristico, le preghiere e le azioni, le gioie e le sofferenze di questo giorno: in riparazione dei peccati e per la salvezza di tutti gli uomini, nella grazia dello Spirito Santo, a gloria del divin Padre”.

    La buona intenzione, se formulata, allarga la dimensione soprannaturale del nostro agire; le nostre buone opere divengono meritorie, il nostro lavoro si inserisce maggiormente nel piano della salvezza. Ma questo non deve ridursi a devotissimi sospiri e nulla più! Forse è meglio non partire dall’alto con propositi che rischiano di disperdersi, ma dal “basso” offrendo al Signore quello che in quel momento si sta compiendo. Il teologo K. Rahner[2] definisce questo come “purificazione delle motivazioni”. Gli impulsi molteplici che si vivono durante la giornata ricevono in tal modo tutti la giusta direzione e il giusto valore. Ciò porta come frutto la pace, l’abbandono in Dio, la consapevolezza della sua presenza.

    F.  Forza della volontà umana

    Nella morale cristiana si distinguono tre facoltà: affettività, la ragione e la volontà.

    Ora l’esperienza ci dice che spesso pur conoscendo il bene facciamo il contrario. San Giovanni Crisostomo affermava che: “Nessuno può fare danno all’uomo se non lui stesso”. E i maestri insegnano che “per salvarci non abbiamo bisogno di altro se non il volere”. Ma questo non sembra pelagianesimo[3]?  Secondo Agostino al contrario l’uomo da solo non è altro che peccato, e senza la grazia di Dio non saremmo neppure capaci di pensare il bene tantomeno di farlo.

    La frase di san Giovanni Crisostomo afferma che al cristiano che ha già ricevuto la grazia nel battesimo, per salvarsi necessita anche il voler salvarsi. Paolo apostolo condensa il problema in una frase: “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil 4,14).

    G. Libertà

    Nel discorso riguardante la libertà occorre tener presente e salvaguardare sia la piena libertà dell’uomo ma altresì, logicamente, anche la piena e totale libertà di Dio. Dato poi che la libertà umana è riflesso di quella divina, essa deve avere proprietà simili.

    Piena libertà è la possibilità di fare sia il bene che il male: ma come mai allora si definisce peccaminosa la scelta del male fatta in libertà? Occorre uscire da una visione troppo ristretta di libertà.

    San Gregorio di Nissa[4] usa un paragone illuminante: lo fidanzato che ama la sua ragazza si sente libero solo nel momento in cui nulla gli impedisce di prenderla per moglie. In un senso simile era libero anche l’uomo innocente. Aveva libero accesso a Dio, comunicava con lui. Il peccato ha chiuso le porte del Paradiso. Abbiamo, quindi, perduto la libertà di essere con Dio. Non del tutto, però: qualche residuo di quella libertà ci è rimasto, l’uomo lo ha portato con sé dal Paradiso. Ancora adesso possiamo fare la scelta tra il bene e il male. Se decidiamo di fare il bene ci facilitiamo di nuovo, l’accesso a Dio: cresciamo, quindi, nella libertà. Se, al contrario, facciamo il male, approfittiamo della nostra possibilità di scegliere per un ulteriore indebolimento della vera libertà, ponendo ostacoli al nostro libero accesso a Dio. La possibilità di scegliere fra l’uno e l’altro è, quindi, un grande dono. Serve per far crescere la libertà in Cristo. Se ne abusiamo, conduce all’apostasia da Dio, al peccato, e quindi, alla schiavitù.

    Se l’uomo non riconosce su di sé l’unica autorità di colui che lo modella, che lo fa essere, questo uomo perderà la sua libertà molto rapidamente, si foggerà lui stesso dei miti o delle pseudodivinità, si metterà a strisciare davanti a delle altre potenze, e non sarà più se stesso. Esiste una sola potenza che può imporsi a tutta la creazione senza farle violenza: la potenza di colui per mezzo del quale esiste, nella pienezza della sua libertà, la creazione stessa” (J.D. Barthélemy, Dio e la sua immagine)

    Il progresso spirituale è una graduale crescita verso la libertà dei figli di Dio (Rm 8,21). Questa crescita è lenta e faticosa. Faticosa perché, soggiogati dalla menzogna del male, raramente conosciamo la pura libertà e soccombiamo alle illusioni. La relazione con gli altri dovrebbe aiutarci a crescere nel bene, eppure spesso accade il contrario: si vive in un contesto di indifferenza, di violenza. La relazione con Dio è ostacolata da un ambiente ateo, agnostico, materialista e consumista che innalza nuovi idoli contrari al Vangelo. «Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una “identità” da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre “volontà”, anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre “ragioni” o addirittura nessuna “ragione”. L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza, è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani». (Benedetto XVI)

    La grazia di Cristo tuttavia svolge in noi se le acconsentiamo la sua opera di liberazione da tutto questo. La fede ci rende liberi dalle opinioni, dalle illusioni, dalle paure. Con l’ascesi possiamo vincere le attrattive al male da parte delle nostre passioni.

    L’iniziativa di tutto questo viene da Dio, il quale da noi esige il nostro libero “fiat”, il nostro libero consenso al bene. La scrittura esorta: Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio (1Pt 2,16)

    H.  L’abbandono alla volontà di Dio

    In ogni opera buona si unisce sia la nostra libera azione come anche la volontà di Dio che l’ha ispirata. La volontà umana è nelle mani di Dio come un libero strumento: è chiamata a sottomettersi liberamente.

    La perfezione, scrive san Vincenzo de’ Paoli[5],  è nell’unire la nostra volontà con quella di Dio in modo tale che vi sia lo stesso volere”. Giungere a questa perfezione è tutt’altro che facile: è un vero rinnegamento di sé. L’obbedienza ai comandamenti è solo un primo passo, fondamentale. Quando preghiamo il Pater dicendo: “Sia fatta la tua volontà” se lo diciamo con amore sincero, ci riconciliamo con tutto ciò che Dio opera nel mondo e con il modo in cui egli dispone della nostra vita. Cassiano scrive “Sia fatta la tua volontà”. Una preghiera di tal genere potrà liberarla dal profondo del cuore colui che crede aver Dio disposto tutte le cose di questo mondo per il nostro bene: gioie e dolori. Chi prega così deve credere che la Provvidenza divina ha più sollecitudine per la salvezza e il bene di coloro che ad essa si affidano, di quel che non siamo solleciti noi per noi stessi. (Conferenze, 9,20)

    È più utile immaginarsi la volontà di Dio non come una legge che ordina e proibisce, ma, piuttosto, come una madre tenera che sorveglia ogni passo di suo figlio. Dice Agostino: “Non accade assolutamente nulla di ciò che l’Onnipotente non vuole; o permette che sia fatto o lo fa egli stesso”. Giuliana di Norwich riporta la sua esperienza (Rivelazioni dell’amore di Dio): Imparai dalla grazia di Dio che dovevo rimanere fermamente nella fede, e quindi dovevo saldamente e perfettamente credere che tutto sarebbe finito in bene: “Tu stessa – mi disse il Signore – vedrai che ogni specie di cosa sarà per il bene, nient’altro che bene”.

    L’atteggiamento da  assumere è quello che Gesù stesso ci offre: “Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?” (Mt 6,25-26).

     I.     La vera e la falsa incuria

    Gli scrittori spirituali greci parlano della “amerimnia”: è la libertà interiore da tutte le preoccupazioni “inutili e utili” (G. Climaco). In effetti viviamo spesso sempre preoccupati per qualcosa, e questo diventa un peso nel nostro camminare nella vita spirituale. Gli insuccessi ci deprimono, esultiamo per i successi: la critica ci toglie il gusto del lavoro, una vana lode ci spinge a fare esagerazioni che non servono a nulla. Volenti o nolenti siamo sotto l’influsso delle impressioni che non corrispondono alla realtà. Spesso ci immaginiamo il risultato positivo dei nostri sforzi magari anche di alto livello spirituale. Sant’Ignazio avverte che il nostro unico scopo è “cercare con ogni sforzo e trovare la volontà di Dio”. Piani e programmi per il futuro hanno senso solo in questo contesto, altrimenti diventano un tiranno che ci schiaccia e che distoglie dall’essenziale. Non ci meraviglia che alcuni santi considerassero come tentazione non solo i programmi, ma anche qualsiasi preoccupazione per il domani.

    Nel tempo in cui la Campania fu desolata da una gravissima carestia, l’uomo di Dio aveva dato via in elemosina a molti poveri tutti i viveri che si trovavano in monastero. Nella dispensa non era rimasto nient’altro che un poco di olio entro un’ampolla di vetro.

    Gli esempi non mancano. Nella vita di Benedetto, Gregorio Magno[6] narra: “Capitò un suddiacono di nome Agapito, e chiese caldamente se poteva avere la carità di un po’ di olio. L’uomo di Dio, che si era proposto di dare via tutto sulla terra per tutto depositare nei tesori del cielo, ordinò che senz’altro gli fosse consegnato quel poco ch’era rimasto. Il monaco incaricato della dispensa, sentì molto bene la disposizione del superiore, ma non aveva proprio alcuna voglia di metterla in pratica. Richiesto poco dopo dal santo se era stata fatta quell’elemosina come aveva comandato, il monaco rispose di non aver dato nulla perché se avesse dato via anche quello, per i monaci non sarebbe poi rimasto più niente. Allora comandò con energica severità che fosse immediatamente gettata dalla finestra l’ampolla di vetro con l’olio, perché nella dispensa nulla rimanesse per disobbedienza; e fu fatto così. Sotto la finestra si apriva un gran precipizio, irto di grossi macigni. L’ampolla di vetro piombò con violenza sui sassi, ma rimase intatta, come se non fosse stata scagliata: non si infranse, né l’olio si versò. L’uomo di Dio la fece raccogliere e, integra com’era, la fece immediatamente consegnare a chi la chiedeva” (c. 22).

    Gli ordini mendicanti nacquero sulla spinta di una riforma della vita religiosa che testimoniasse una completa libertà dal peso e dall’ansia procurata dal possesso di beni. Nonostante il coraggio e fede dei fondatori questi ordine dovettero poi tutti rientrare in una mitigazione della severità dell’ispirazione originale. Vi potrebbero anche essere pericoli in una ricerca fanatica di questa pratica del distacco. È ovvio che guidando l’auto non devo farlo nell’ansia e nella preoccupazione di un incidente, tuttavia devo preoccuparmi di mantenere l’auto in buone condizione, e che io sia ben sobrio e prudente quando guido. San Francesco di Sales scrive: “So che Dio mi chiede di non preoccuparmi né della malattia né della buona salute, ma so anche che è espressa volontà di Dio di chiamare il medico ed usare i medicamenti quando ce n’è bisogno”.

    Sotto l’aspetto psicologico sono due aspetti molto diversi: occuparsi di qualcosa e preoccuparsi.

    Teniamo presente che esiste una falsa fiducia nella Provvidenza (simile al quietismo), una pigra attesa di “ispirazioni”. La Chiesa giustamente aveva condannato la sentenza di Molinos[7]: “Chi ha ceduto la sua libera volontà a Dio, non deve essere preoccupato di nulla, né per l’inferno, né per il paradiso; non deve neanche desiderare la propria perfezione, le virtù, la santità e neanche la sua salvezza”. Può sembrare bello un devoto sospiro: “Lasciamo fare al Signore!”. Però, per utilizzarlo al momento giusto, è bene tenere davanti agli occhi ciò che dice p. Surin nel suo “Catechismo spirituale”: “E’ bene lasciar fare al signore Dio, quando è lui stesso che agisce. Ma non è giusto lasciar fare tutto al Signore, quando egli vuole che facciamo qualche cosa noi”.


    [1] Nacque il 12 marzo 1599 a Diest nelle Fiandre, primogenito dei cinque figli di Giovanni Berchmans, calzolaio e conciatore di pelli, e di Elisabetta, figlia del borgomastro Adriano Van den Hove. Avviatosi verso la vita ecclesiastica, iniziò gli studi latini nella Scuola Grande di Diest; ma nel 1612 il padre si vide costretto per motivi economici, a chiedere a Giovanni di abbandonare gli studi intrapresi e di imparare un mestiere, ma il sostegno di alcuni familiari rese possibile un’altra soluzione più confacente alle doti e all’impegno del ragazzo. A metà settembre 1612, Giovanni entrò infatti nella casa del canonico Froymont, a Malines, per continuare i suoi studi presso la Scuola Grande di questa città, ma serviva al tempo stesso come cameriere il Froymont e come istitutore alcuni giovanissimi ragazzi della nobiltà, convittori nella canonica.  Egli voleva entrare nella Compagnia di Gesù ma dovette superare la resistenza oppostagli dal padre, che sognava per lui una ricca prebenda, vi riuscì in maniera così convincente che il padre stesso, dopo la morte della moglie, avvenuta nel 1616, abbracciò lo stato ecclesiastico e divenne sacerdote.  Completati gli studi, intenzionato a diventare sacerdote, il 24 settembre 1618 emise la prima professione religiosa divenendo novizio gesuita e nel 1619 si trasferì a Roma per completare gli studi filosofici presso il Collegio Romano (l’attuale pontificia Università Gregoriana) dove, ammalatosi, morì solo due anni dopo, il 13 agosto 1621.

    [2] Karl Rahner crebbe in una famiglia cattolica medio-borghese; suo padre insegnava presso un istituto magistrale. In gioventù frequentò il movimento cattolico del Quickborn dove conobbe Romano Guardini. Dopo aver conseguito la licenza liceale, entrò nell’ordine dei gesuiti nel 1922 (già suo fratello maggiore Hugo vi era entrato nel 1919; altri due fratelli diventarono medici). Studiò in seguito filosofia e teologia a Feldkirch, Pullach, Valkenburg, Freiburg i.Br. e Innsbruck. Decisiva si rivelò, per la formazione di Rahner, la partecipazione ai seminari di Martin Heidegger negli anni 19341936. Nel 1939 Rahner ottenne la prima docenza a Vienna. Negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale svolse pure attività pastorale nella Bassa Baviera. Dopo il conflitto proseguì l’attività di docente, dapprima quale insegnante di dogmatica alla scuola superiore dell’ordine a Pullach. Dal 1948 fu docente e dall’anno successivo professore ordinario di dogmatica presso l’Università di Innsbruck. Nel 1963 Papa Giovanni XXIII lo chiamò fra i teologi del Concilio Vaticano II, alla cui preparazione egli aveva già peraltro contribuito. Nel 1964 Rahner successe a Romano Guardini nella cattedra presso la Ludwig-Maximilians-Universität München. Le sue lezioni presso questa università sul tema “introduzione al cristianesimo” fungeranno da base per la sua opera fondamentale apparsa nel 1975 con il titolo Grundkurs des Glaubens. In questi anni si accese anche il suo impegno, sotto forma di saggi ed articoli, in favore del pacifismo, del disarmo nucleare, dell’aiuto ai paesi del Terzo Mondo e della lotta contro lo sfruttamento dei popoli oppressi (con particolare attenzione ai movimenti della teologia della liberazione).  Dal 1967 al pensionamento, nel 1971, fu professore ordinario di dogmatica e storia del dogma presso la Westfälischen Wilhelms-Universität di Münster. Nel 1971 fu nominato dalla Hochschule für Philosophie München professore onorario per le questioni filosofiche e teologiche “di frontiera”. Nel 1981 si trasferì a Innsbruck, dove morì nel 1984 e dove è sepolto nella cripta della Chiesa dei Gesuiti.

    [3] Il pelagianesimo detto anche pelagianismo o predestinazionismo è un movimento religioso cristiano fondato nei primi secoli del Cristianesimo da Pelagio e Celestio. Le teorie pelagianesime furono combattute da Sant’Agostino e vennero definitivamente condannate come idee eretiche nel Concilio di Efeso del 431. Ciononostante continuò per un certo periodo ad avere influenza in ambito ecclesiastico. Pelagio e Celestio svilupparono questa teoria come reazione al monachesimo ascetico di San Girolamo e al fatalismo manicheo, presente nella Chiesa del tempo: si pensi a Sant’Agostino che in gioventù fu manicheo.  Secondo la Chiesa (sia cattolica sia ortodossa) il pelagianesimo riduceva la salvezza eterna a qualcosa di raggiungibile con le sole proprie forze: magari anche un ideale di santità molto alto e difficile da raggiungere, ma che comunque avrebbe potuto essere conquistato dalla volontà dell’uomo. La dottrina della Chiesa, invece, considerava l’uomo incapace, dopo il peccato originale, di vivere appieno i doni di Dio senza l’ausilio decisivo della sua grazia. Pelagio negava la trasmissibilità a tutta l’umanità del peccato di Adamo (che secondo lui era mortale anche prima di commettere il peccato), motivandola col fatto che ciascuno è responsabile delle proprie azioni, non di quelle di un altro: venivano così negati anche gli effetti del peccato originale sulla natura umana: era impossibile che l’anima, creata da Dio, fosse caricata di un peccato non commesso personalmente.  Di conseguenza, i pelagiani rifiutavano la prassi del battesimo dei bambini. Negli adulti esso cancellerebbe i peccati commessi in precedenza, mentre non si può dire che questo possa avvenire anche per i bambini; quindi il battesimo degli infanti non avrebbe avuto altro scopo, secondo Pelagio, che quello di aprire loro il “regno dei cieli”: i bambini morti senza battesimo avrebbero comunque la vita eterna, anche se non entrerebbero nel “regno dei cieli”, che è soltanto una porzione eletta del paradiso. All’obiezione che era antica l’usanza di battezzare i bambini, Pelagio rispondeva che il battesimo è l’espressione dell’accoglienza nella comunità cristiana: con il battesimo la persona è incorporata in Cristo, entra nel “regno dei cieli”.  Il pelagianesimo, comunque, prediligeva l’attitudine della libertà umana a scegliere a proprio arbitrio fra il bene e il male e ad adempiere, con le proprie forze, la legge divina.

    [4] Educato dal fratello san Basilio Magno, Gregorio si diede dapprima alla retorica ed alla vita secolare per un’improvvisa crisi spirituale, per poi vivere per un po’ nel monastero di Basilio, e infine dedicarsi, dal 371, all’episcopato della città di Nissa (da cui prese l’epiteto di ‘Nisseno’).  Avversario degli Ariani, fu vittima delle persecuzioni dell’imperatore ariano Valente e dovette lasciare Nissa, accusato di malversazioni economiche, nel 376. Vi rientrò trionfalmente nel 379.  Soprattutto dopo la morte del fratello, quasi raccogliendone l’eredità spirituale, cooperò al trionfo dell’ortodossia. Partecipò a vari sinodi; cercò di dirimere i contrasti tra le Chiese; prese parte attiva alla riorganizzazione ecclesiastica e, come «colonna dell’ortodossia», fu un protagonista del Concilio di Costantinopoli del 381, che definì la divinità dello Spirito Santo. Ebbe vari incarichi ufficiali da parte dell’imperatore Teodosio I, pronunciò importanti omelie e discorsi funebri, si dedicò a comporre diverse opere teologiche. Nel 394 partecipò ancora a un sinodo tenutosi a Costantinopoli. Non è conosciuta la data della sua morte. Gregorio Nisseno, pur essendo il più giovane dei “Padri Cappadoci”, è quello che più coerentemente ed organicamente opera un’assimilazione filosofica della letteratura pagana alla fede cristiana, improntando le sue opere all’affermazione che il valore paideutico della letteratura classica ha per instradare l’anima alla virtù.  Se è un merito questo suo atteggiamento “classicistico”, gli manca però una robusta personalità che, come per Basilio e San Gregorio Nazianzeno, sostenga la speculazione teologica. Il Nisseno è di certo un ottimo dialettico e speculatore e riprende in maniera organica e sistematica la dottrina trinitaria e teologica di Origene, innestandola sul tronco neoplatonico, ma non ha una capacità di trascinare il lettore, nonostante numerosi artifici retorici.  Gregorio, inoltre, è insigne per la sua dottrina spirituale. Tutta la sua teologia non era una riflessione accademica, ma espressione di una vita spirituale, di una vita di fede vissuta. Da grande «padre della mistica» prospettò in vari trattati – come La professione cristiana e La perfezione cristiana – il cammino che i cristiani devono intraprendere per raggiungere la vera vita, la perfezione.

     

     

    [5] Nato da un’umile famiglia contadina a Pouy, un borgo contadino presso Dax, grazie ad un ricco avvocato della zona riuscì a studiare teologia a Tolosa e venne ordinato sacerdote il 23 settembre 1600. Nel 1605, mentre viaggiava su una nave da Marsiglia a Narbona, venne catturato dai pirati turchi e venduto come schiavo a Tunisi: venne liberato due anni dopo dal padrone, che era riuscito a convertire al cristianesimo.  Entrò a corte come cappellano ed elemosiniere di Margherita di Valois; fu poi curato a Clichy, dove mise da parte le preoccupazioni materiali e di carriera e si dedicò intensamente all’insegnamento del catechismo e soprattutto all’aiuto agli infermi ed ai poveri: fondamentale per la sua maturazione spirituale fu il suo incontro con Francesco di Sales.  Nel 1613 entrò come precettore al servizio dei marchesi di Gondi (il marchese era governatore generale delle galere): grazie al sostegno economico dei suoi protettori, Vincenzo de’ Paoli riuscì a moltiplicare le iniziative caritatevoli a favore dei diseredati e dei bambini abbandonati; su richiesta della marchesa, che intendeva migliorare le condizioni spirituali dei contadini dei suoi possedimenti, nel 1625 formò un gruppo di preti specializzati nell’apostolato rurale (primo nucleo della Congregazione della Missione, i cui membri vennero poi detti Lazzaristi).  Nel 1633, con l’assistenza di Luisa di Marillac, riorganizzò le confraternite assistenziali fino ad allora fondate nella Compagnia delle Figlie della Carità. Le sue opere di carità divennero tanto celebri che Luigi XIII di Francia lo scelse come suo consigliere: si allontanò dalla corte per divergenze con il cardinale Mazzarino e continuò a dedicarsi all’assistenza ai poveri anche durante la lotta della Fronda. Morì nel 1660.  La sua opera ispirò Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondatore della Piccola Casa della Divina Provvidenza.

     

    [6] Gregorio nacque verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anici e alla morte del padre Gordiano, fu eletto, molto giovane, Prefetto di Roma.  Grande ammiratore di San Benedetto da Norcia, decise di trasformare i suoi possedimenti a Roma (sul Celio) e in Sicilia in altrettanti monasteri e di farsi monaco, quindi si dedicò con assiduità alla contemplazione dei misteri di Dio nella lettura della Bibbia. Non poté dimorare a lungo, nel suo convento del Celio poiché il Papa Pelagio II lo inviò come nunzio, presso la corte di Costantinopoli, dove restò per sei anni, e si guadagnò la stima dell’imperatore Maurizio I, di cui tenne a battesimo il figlio Teodosio.  Al suo rientro a Roma, nel 586, tornò alla quiete del monastero sul Celio, vi rimase però per pochissimo tempo, perché il 3 settembre 590 fu chiamato al soglio pontificio dall’entusiasmo del popolo e dalle insistenze del clero e del senato di Roma, dopo la morte di Pelagio II di cui era stato segretario.  In quel tempo Roma era afflitta da una terribile pestilenza. Per implorare l’aiuto divino, Gregorio fece andare il popolo in processione per tre giorni consecutivi alla basilica di Santa Maria Maggiore. Roma fu liberata dal morbo e più tardi si disse che, durante la processione, era apparso sulla mole Adriana l’arcangelo Michele che rimetteva la spada nel suo fodero come per annunziare che le preghiere dei fedeli erano state esaudite. Da allora la tomba di Adriano mutò il nome in quello di Castel Sant’Angelo, e una statua dell’angelo vi fu posta sulla cima.  Come papa si dimostrò uomo di azione, pratico e intraprendente (chiamato “l’ultimo dei Romani”), nonostante fosse fisicamente abbastanza esile e la sua salute fosse sempre cagionevole. Fu amministratore avveduto ed energico, sia nelle questioni sociali e politiche per provvedere alle popolazioni bisognose di aiuto e di protezione, sia nelle questioni interne della Chiesa universale.  Ebbe a trattare con molti paesi europei; con il re visigoto Recaredo di Spagna, convertitosi al Cattolicesimo, Gregorio Magno fu in continui rapporti e fu in eccellente relazione con i re franchi. Con l’aiuto di questi e della regina Brunchilde il pontefice riuscì a tradurre in realtà quello ch’era stato il suo sogno più bello: la conversione della Britannia, che affidò a Sant’Agostino di Canterbury, priore del convento di Sant’Andrea.  A questo proposito si racconta che un giorno, scendendo dal suo convento sul Celio e vedendo sul mercato alcuni giovani schiavi britannici esposti per la vendita, bellissimi di aspetto ed ancora pagani, esclamasse rammaricato: “…Non Angli, ma Angeli dovrebbero esser chiamati…”.  In meno di due anni diecimila Angli, compreso il re del Kent, Edelberto, si convertirono. Era questo un grande successo di Gregorio Magno, il primo della sua politica che mirava ad eliminare i naturali avversari della Chiesa e ad accrescere l’autorità del Papato con la conversione dei barbari.  Si dedicò con sollecitudine anche ai problemi dell’Italia provata da alluvioni, carestie, pestilenze, amministrando la cosa pubblica con puntigliosa equità, supplendo all’incuria dei funzionari imperiali. Organizzò la difesa di Roma minacciata da Agilulfo, re dei longobardi, coi quali poi riuscì a stabilire rapporti di buon vicinato e avviò la loro conversione. Ebbe cura degli acquedotti, favorì l’insediamento dei coloni eliminando ogni residuo di servitù della gleba.  Riorganizzò a fondo la liturgia romana, ordinando le fonti liturgiche anteriori e componendo nuovi testi, e promosse quel canto tipicamente liturgico che dal suo nome si chiama gregoriano. L’epistolario (ci sono pervenute 848 lettere) e le omelie al popolo ci documentano ampiamente sulla sua molteplice attività e dimostrano la sua grande familiarità con la Sacra Scrittura.  Morì il 12 marzo 604.

    [7] Dopo aver conseguito la laurea in teologia a Valencia, nel 1665 si trasferì a Roma e frequentò la confraternita della Scuola del Cristo.  Nel 1675 compose la Guía espiritual (tradotta in italiano con il titolo Guida spirituale che disinvolge l’anima e la conduce per l’interior camino all’ acquisito della perfetta contemplazione e del ricco tesoro della pace interiore), opera in tre libri nella quale esponeva la dottrina della passività come unica via per giungere alla contemplazione ed alla pace interiore.  Secondo le idee professate dal Molinos, attraverso uno stato continuo di quiete e di unione con Dio, l’anima, resa pura, giungerebbe ad una sorta di indifferenza mistica. Le teorie esposte, che svalutavano l’importanza della liturgia e della pratica sacramentaria della religione cristiana, suscitarono violenti attacchi da parte soprattutto dei Gesuiti.  Nel luglio del 1685 de Molinos fu arrestato dall’Inquisizione e fu avviato il processo. Nei due anni successivi l’accurato esame delle sue opere e della nutrita corrispondenza epistolare portò nel settembre 1687 alla pubblica abiura ed alla condanna alla reclusione perpetua. Lo stesso anno il Papa Innocenzo XI nella bolla pontificia Coelestis Pastor condannò 68 tesi attribuite alla sua opera. Il Molinos passò poi dal carcere ad un monastero, per continuare la condanna; abiurò nuovamente i suoi errori nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva il 13 settembre del 1687 e morì 9 anni dopo.

     

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