• 04 Mar

    L’INCONTRO

     

     9 Elia entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco il Signore gli disse: «Che fai qui, Elia?». 10 Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita». 11 Gli fu detto: «Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore». Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. 12 Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. 13 Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: «Che fai qui, Elia?». 14 Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita». (1 Re 9, 9-14) 

    P. Charles de Foucauld nel silenzio e nella solitudine del deserto scriveva: “Signore Gesù… pregare è guardarti, e poiché tu sei sempre là non posso forse io, se ti amo veramente, guardarti sempre senza interruzione? Colui che ama può fare diversamente dall’avere i suoi sguardi rivolti a Colui che ama? Insegnami ad adorare mio Dio, in questa solitudine, in questo raccoglimento”.
    Nella vera adorazione scompare tutto il mondo, e si rimane soli: Dio e me. I miei occhi puntati unicamente sul mistero.
    Nell’atto vero di adorazione si è soli. E’ questa la condizione affinché si attui un vero incontro.
    Continua C. De Foucauld, da vero esperto di adorazione: “Non conosco niente di più dolce delle ore passate davanti al tabernacolo, in profonda solitudine esteriore. Sentire Dio così vicino a sé, e sentirsi soli con lui nell’immensità e bellezza della sua creazione che riflette la sua bellezza“.
    E’ indubbio che ogni incontro fra due persone esiga intimità, un “recinto chiuso”. Nel vangelo troviamo l’invito di Gesù: “Quando pregate non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini… Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera, e chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto” (Mt 6,5-6).
    Questa camera, questa porta chiusa designano uno spazio nuziale ove avviene l’incontro, nell’intimità.
    Ogni realtà decisiva avviene nella solitudine: nella solitudine ogni uomo è chiamato a rispondere personalmente; le grandi decisioni si prendono da soli, si soffre da soli, il peso di una responsabilità è il peso di una solitudine, si muore da soli e… così anche l’incontro col Signore avviene nella solitudine: “La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,16).
    Ma come arrivare a questo incontro nell’intimità? 

    Al di là dell’evocazione

     Il Signore è sempre più in là di ogni evocazione che risveglia la mia memoria.
    Ovvero Dio non corrisponde mai all’immagine che ci siamo fatti di lui, questa sarà sempre e solo un’evocazione.
    Si racconta che una volta ad un santo venne dato il dono di parlare la lingua delle formiche. Egli si avvicinò a una che aveva l’aria della studiosa e chiese: “Com’è fatto l’Onnipotente? E’ in qualche modo simile alla formica?”. La studiosa riflettè un attimo e poi disse: “L’Onnipotente?… Certamente no! Noi formiche, vedi, abbiamo un solo pungiglione. Ma l’Onnipotente invece, Lui ne ha due!”.
    Questo è quanto accade anche a noi quando vogliamo far corrispondere l’evocazione alla realtà.
    Devo pormi nell’atteggiamento nell’incontro di saper far scomparire ogni mia immagine affinché l’Evocato appaia nel suo mistero, nella sua nube oscura. Dio è sempre al di là di ogni nostra immagine riduttrice, tipica della ricerca religiosa infantile.
    A motivo della trascendenza di Dio, della sua inconoscibilità, e a causa della nostra debolezza, noi rivestiamo Dio di immagini e di concetti.
    Unitamente alla tradizione esicasta potremmo affermare che la trascendenza di Dio è dovuta alla debolezza dell’uomo e alla natura stessa di Dio.
    Dio è inconoscibile per essenza, Dio è più di “Dio”. Un testo classico del V sec., di Dionigi Areopagita commenta: “Esercitati incessantemente nelle contemplazioni mistiche, abbandona le sensazioni, rinuncia alle operazioni intellettuali, respingi tutto ciò che appartiene al sensibile e all’intelligibile, spogliati totalmente del non-essere e dell’essere, e innalzati, per quanto puoi, fino ad unirti nell’ignoranza a colui che è al di là di ogni essenza e di ogni sapere” (Teologia Mist., I,1).
    La rivelazione ci invita a fare adorazione in ogni luogo in Spirito e verità (Gv 4,23), questo comporta lo smantellare tutti gli orpelli di cui siamo tentati di rivestire il Signore, che, se non sono falsi, sono certamente sempre imperfetti e ambigui: “E’ qui o su di un altro monte che dobbiamo adorare il Signore?“.
    Ecco allora che possiamo giungere ad una tappa fondamentale nel cammino spirituale: rivestire il nostro incontro con Dio di silenzio.
    Ogni parola ha sempre il peso di un tradimento. Il silenzio dinanzi al Mistero è atteggiamento sapienziale: “Sta in silenzio davanti al Signore” (Sl 36,7).
    Si tratta del silenzio di ogni nostra immagine. E’ il silenzio nel quale Dio rifulge come luce assoluta. Silenzio è allora andare al di là di ogni visione della mente e del corpo, è penetrare nella notte silenziosa: “O notte beata che vedesti congiungersi l’amato con l’amata” (N.O.) Notte che è simbolo ed esperienza di una presenza vicina ma inafferrabile, notte in cui l’inaccessibile si dona e intanto sfugge. Comunione notturna del Dio nascosto e dell’uomo nascosto in Dio. Questa tenebra è “più luminosa” del sole, tenebrosa per eccesso di luce.
    E la tenebra, pur non escludendo la Parola, raggiunge il silenzio nel cuore stesso della Parola.
    Nella notte divina entriamo “chiudendo gli occhi, rinunciando ai nostri sguardi dispersivi, oggettivanti, possessivi, imparando a guardare dentro, con gli occhi chiusi nell’abbandono dell’amore” (O. Clement). 

    L’ultima stanza

     La solitudine non è l’isolamento. Questo è negativo e da evitare. La solitudine al contrario è percepire e accogliere il mistero della mia esistenza alla luce del più grande mistero.
    Ed è nel silenzio che mi è dato di percepire il mistero della mia solitudine: “L’amico del silenzio si avvicina a Dio. In segreto si intrattiene con lui e riceve la sua luce” (G. Climaco, Sc. Par., XI,5).
    E’ fondamentale per la nostra maturazione umana e spirituale percepire ed accogliere (non sempre è così facile… ) la propria solitudine, ovvero la nostra unicità. Ma senza questo fondamentale passaggio di differenziazione l’incontro con il Tu risulta quanto mai problematico.
    E’ condizione inalienabile porsi soli dinanzi a Dio, ma se non lo si vuole? O meglio quante volte fuggiamo o fingiamo? Ma facendo questo non solo fuggiamo dal mistero di Dio ma dal nostro stesso mistero, ne abbiamo paura o tuttalpiù non lo abbiamo ancora scoperto.
    E’ un dato di fatto che siamo in cammino, un cammino nel deserto verso il Monte di Dio. Non potremo mai sederci e dirci: Sono arrivato finalmente! Un altro tratto di strada mi si apre sempre inaspettatamente dinanzi. Ciò è un appello alla mia libertà; scelgo se camminare (=crescere) o sedermi, rifiutando la fatica (= ripiegamento, regressione).
    Si tratta di un cammino che per salire a Dio deve prima discendere in noi, nel cuore. La salita di Mosè al monte Sinai è la discesa nostra nel cuore. E questo perché rechiamo lì l’immagine e la somiglianza con Dio (cf Gn 2), in noi vi è la scintilla del divino, nella nostra interiorità-solitudine. Ed è qui perciò il “luogo” dell’incontro con il Signore: “Nel deserto parlerò al suo cuore” (Os 6).
    E’ importante allora che questo luogo di solitudine, per poter essere luogo di intimo incontro, non sia popolato da altre realtà estranee a Dio: l’incontro potrebbe non avvenire mai!
    Questo luogo di incontro, il nostro cuore, chiede di essere naturalmente “riempito” di Dio, al contrario si avvertirà una solitudine vuota, un isolamento tragico e tremendo nemico all’uomo.
    Dio attende ciascuno in questo spazio di solitudine, in questo abisso del cuore, il “fondo dell’anima” dei mistici renani.
    Il cuore è la tenda, il santuario, il tempio, nel quale abita la Presenza (Sekinäh) e dove la Gloria (Kabod) si posa come la nube. In esso sta il vero tesoro: dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Jacques Serr).
    E’ da prendersi in considerazione che nell’uomo esistono  diversità di livelli di interiorità.
    Ma al di là di tutti questi livelli l’uomo spirituale percepisce l’esistenza di una “caverna nel cuore”, di un fondo dell’anima, di un’ultima stanza, di un intimo recesso del proprio cuore: qui nessuno può entrare eccetto Colui che entrando a porte chiuse non occupa alcun spazio.
    La filosofia medievale definiva l’uomo come “l’ultima solitudine dell’essere“. E’ percezione di ciascuno di essere unico, di essere solo, differente dagli altri. Questa percezione che costituisce un fattore di crescita continua che parte dall’infanzia, deve essere sempre più coscientizzata facendo zittire tutto l’essere esteriore che spesso vorrebbe sfuggire a questa constatazione.
    Potremmo allora affermare che: la percezione di noi stessi come solitudine è il risultato di una ricerca di autentico silenzio.
    Scriveva s. Bernardo: “Sono molte le scienze coltivate dagli uomini; ma nessuna è migliore della scienza con cui l’uomo conosce se stesso. Per questo ritornerò al mio cuore e mi renderò familiare il dimorarvi, in modo da esaminare la mia vita e conoscere me stesso”.
    P. Evdokimov dice: “Il silenzio è l’avvento, il tempo (e il luogo) dell’attesa benché scenda la notte. Nell’attesa dell’inatteso un immenso sospiro di silenzio avvolge la terra di pace: tutto è tuo, Signore, io sono tuo, accoglimi”

    Entra e chiudi la porta

      Perché ci possiamo predisporre all’incontro con Dio ci è necessaria un’attenzione aperta e pura, purificata da tutte le realtà che ci distolgono e disperdono.
    Quanto più le creature tacciono, quanto più è spopolata la nostra mente, tanto più puro e profondo potrà essere l’incontro.
    Il grande mistico dell’incontro, s. Giovanni della Croce ci ricorda: “Imparate a starvene vuoti di tutte le cose, le interiori e le esteriori e vedrete come io sono Dio” (SMC 1,II,15.5). Un detto della tradizione indù invita ad un’esperienza simile: “Diventa come una canna di bambù, cava, vuota dentro. E non appena sei diventato come una canna di bambù cava, vuota dentro, le labbra divine ti si accosteranno, la canna di bambù diventa un flauto e la canzone ha inizio“. 

    Testi

    1 Re 19,1-18
    Mt 6,5-6
    Os 2,16-25
    Es 24,12-18; 33,7-23

    sintesi da: I. Larranaga, Mostrami il tuo volto

    Posted by attilio @ 11:06

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