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Il silenzio di Dio
35 In quel medesimo giorno, verso sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». 36 E lasciata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. 37 Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. 38 Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che moriamo?». 39 Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. 40 Poi disse loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». 41 E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?».
Il nostro cammino di fede appare quanto mai faticoso soprattutto per l’esperienza che facciamo dell’assenza e del silenzio di Dio.
Il poeta spagnolo Unamuno dice a proposito: “Dio è colui che sempre tace dal principio del mondo: ecco il fondo della tragedia”.
Questa tragedia non è solo nostra esperienza ma è pure quella dei grandi personaggi della Scrittura:
“Non restare in silenzio mio Dio” Sl 28,1
“Dio non gli rispose” 1 Sam 14,37
“Vagheranno per cercare la parola del signore” Am 8,11
“Il Signore ci ha abbandonati” Gd 6,13
Dove ti nascondesti? Vogliamo spesso appagare il vuoto e il silenzio che è in noi col possesso di realtà raggiungibili dai nostri sensi.
Ma questo appagamento di singole e limitate realtà lascia sempre il nostro cuore incolmabile e insoddisfatto.
Questo significa che il nostro cuore è chiamato a riempirsi di un’altra realtà, di un di più, che non può essere la risultante della somma di tante limitate realtà.
La nostra esistenza trova la sua fonte nel dono di Dio, nella sua stessa vita, essa nasce da quell’abisso incolmabile che è il mistero di Dio.
Di conseguenza, l’uomo porta in sé la nostalgia, il desiderio struggente, di quell’abisso, che le creature non potranno mai colmare.
Fu l’esperienza questa della ricerca di Agostino, che alla fine dovette riconoscere che: “Tu ci hai fatto per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (Confessioni).
Così per noi, pur nella nostra debolezza, spesso cecità e inconsapevolezza, tendiamo a Dio, al suo infinito. Lo scrittore francese Blondel scrive: “Per la sua incoercibile espansione, la volontà umana, anche a sua insaputa, ha esigenze divine. Il suo desiderio risiede nel raggiungere e conquistare Dio; va avanti a tentoni, alla cieca, per toccarlo… Eppure Dio… rimane fuori delle nostre reti. Che dobbiamo dunque fare?”.
Qui tocchiamo il nostro problema: in noi c’è il desiderio che vorrebbe essere possesso.
Ci si sente impotenti nel nostro desiderare Dio. Perché questo?
Potremmo partire da una duplice constatazione. La prima è che il silenzio di Dio nasca dalla limitatezza della nostra natura umana, legata alla leggi dello spazio e del tempo. La seconda è che la natura di Dio è misteriosa, in-comprensibile, infinita, eterna.
Ne scaturisce che il nostro camminare nel tempo e nello spazio rimane necessariamente segnato da una costante presenza-assenza di Dio; ma questo diviene spinta a camminare avanti, a cercare sempre più in là dal punto in cui siamo arrivati.
Il grande mistico della “notte oscura”, s. Giovanni della Croce nel suo linguaggio poetico dice: “Dove ti nascondesti, Amato, e mi lasciasti gemere? Come il cervo fuggisti, avendomi ferito. Ti corsi dietro invocandoti: Eri fuggito!”. E’ la “divina caccia”, o il “gioco d’amore” tra Dio e la sua creatura.
Ancora potremmo richiamare il delicato racconto riportato da M. Buber, nei suoi “Racconti dei Chassidim”: “Yekiel, nipotino di rabbi Baruk, giocava un giorno a nascondino con un suo compagno. Si infilò in un nascondino speciale e attese che egli venisse a scoprirlo. Ma attese invano. Uscì e non lo ritrovò. Si rese allora conto di non essere stato cercato e pianse a lungo. Corse dal nonno singhiozzando e lamentandosi del compagno cattivo che non l’aveva cercato, mentre era così ben nascosto. Il nonno stesso, non riuscì a trattenere le lacrime pensando: E’ esattamente quello che dice Dio: Io mi nascondo e nessuno vuole cercarmi”.
“Veramente tu sei un Dio nascosto” affermano le parole di Isaia (45,15a). E il Sl 13,2: “Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?”.
Questo volto di Dio che l’uomo desidera contemplare e che sfugge continuamente. Vi è sempre una nube nelle teofanie che esprime questa inaccessibilità: il Sinai come il Tabor e come il monte dell’ascensione.
Unitamente all’assenza vi è il silenzio di Dio. Quante volte egli sembra tacere: “Perché taci e non rispondi?” (Ab 1,13). Dio sembra tacere sempre: sia che ci doniamo a lui sia che cadiamo nel peccato…
Sì è vero ogni realtà può evocare il Creatore. Ma il Dio creatore tace. “Tutto l’universo è un’immensa e profonda evocazione del Mistero, ma il Mistero svanisce nel silenzio” (Larragnaga).
Il silenzio di Dio raggiunge il sua apice drammatico di fronte al dolore, all’ingiustizia soprattutto dell’innocente. “Perché taci mentre l’empio ingoia il giusto?” (Ab 1,13).
E’ questo lo scandalo della fede!
“Muto e sordo al grido delle tue creature se il cielo ci lascia come un mondo abortito il giusto opporrà lo sdegno all’assenza e non risponderà che con un freddo silenzio al silenzio eterno della divinità” (A. De Vigny, Monte degli Ulivi).
Sentire e sapere
A questo punto occorre chiarire, o meglio operare, una benefica distinzione tra due aspetti del nostro percepire la realtà spirituale.
Distinguiamo tra sentire e sapere.
– sentire: è il percepire emotivamente la realtà di Dio. Questo subito entusiasma, ma il rischio è di cadere nell’illusione affettiva, ovvero il pretendere che Dio si faccia sempre presente a livello emotivo.
– sapere: è il sapere della fede, ovvero la certezza della presenza di Dio colta a livello più profondo di quello emotivo.
Una fede che vorrebbe collocarsi a livello del sentire è molto fragile e infantile. La vera fede matura e consistente si colloca a livello del sapere.
Questo ci permetterebbe di dire nei momenti della prova, del dolore, della malattia, nella morte sperimentata in noi e negli altri: “Padre non ti sento, non ti vedo. Tutto sembra dirmi che tu sei lontano, ombra sfuggente e insensibile. Tuttavia, contro ogni evidenza, contro ogni speranza (cf Rm 4,18), so che tu sei presente qui ed ora. Se non cade un capello senza che tu lo sappia, se non cade a terra un passero senza che tu lo voglia, allora so con certezza che ora sei qui con me”.
Facciamo nostra l’esperienza dolorosa di Gesù sulla croce: affidando la nostra vita nelle mani di quel Padre che sembra aver abbandonato il Figlio suo nell’ora più tragica della sua vita:
“Elì, Elì lamà sabactani ?”
“Padre nelle tue mani affido la mia anima”.
Questo comporta lo spiccare un grande salto nel vuoto, sapendo, pur non sentendo che al di là ci aspettano le braccia del Padre. Ancora una volta si tratta di abbandonarsi come bambini.
Si tratta di accettare che la dinamica della fede prescinda dalla “Pretesa” di un segno. Gesù dinanzi a questa pretesa dell’uomo di manovrare Dio si rifiuterà sempre di lasciarsi ingabbiare, risponderà con il silenzio e l’impossibilità di operare miracoli.
La fede autentica è purificazione da questa pretesa.
Ciascuno di noi nel suo cammino di fede fa esperienza di questa assenza e di questo silenzio. Diversi saranno gli atteggiamenti con cui possiamo reagire a questa constatazione.
Gli sconfitti
Sono coloro che hanno abbandonato una seria vita spirituale regolandosi ormai praticamente come se Dio non esistesse, pur magari mantenendo un’apparenza di religiosità.Tali persone affermano sì categoricamente che Dio esiste, tuttavia in loro vivono la sensazione (“sentono”) che egli è come morto.
Ci sono alcuni sintomi che denotano la presenza di questa malattia spirituale: soprattutto l’aggressività che è derivata dalla frustrazione, si critica continuamente tutto e tutti, si è scontenti di tutto.
La rigidità e la stretta osservanza delle forme esterne: diventano sostitute di Dio.
L’abbandono progressivo da tutto ciò che è legame con Dio…
I disorientati
E’ un dato di fatto che i primi tempi di vita religiosa o sacerdotale siano una sorta di luna di miele.
Ma è inevitabile come detto che sopraggiunga la notte. Scompare l’entusiasmo, si cade nella routine di ogni giorno, la vita sembra sfuggire di mano inutilmente. E’ l’esperienza del “disincanto”, dell’impotenza, dell’insuccesso: è il disorientamento totale. E’ il momento in cui potremmo dire col salmo 29: “Nella mia prosperità ho detto: Nulla mi farà vacillare!… Ma quando hai nascosto il tuo volto io sono stato turbato. A te grido Signore, chiedo aiuto al mio Dio” (vv 7-9).
E’ inevitabile cadere nello sconforto che conduce lentamente a quel vizio di nome accidia: la noia e il disgusto.
Il vuoto di Dio viene cercato di riempire inutilmente da tante cose, fossero pure tutte le nostre attività “apostoliche”.
Rimane nel fondo una certa nostalgia, il rimpianto della tenerezza e della gioia di Dio…Questa nostalgia agisce nel nostro cuore come uno stimolo a non disperare e ad attendere in silenzio la salvezza del Signore (cf Lam).
I confermati
“Una lunga e dolorosa storia pesa sulle spalle dei confermati” (Larranaga). Nonostante le dure prove, (“ci hai fatto passare per il fuoco e l’acqua” Sl 76) essi non hanno perso la speranza e la fiducia in Dio.
Cosa ha permesso ciò?
Ciò che diede speranza, radicando questi credenti nella fede, è stato un profondo e totale spirito di abbandono, come quello di Abramo mentre conduceva al sacrificio il figlio unico Isacco. Non si sgomentarono di fronte al silenzio di Dio, ma in silenzio adorante a loro volta, si offrirono al Signore giorno dopo giorno.
Lasciarono che Dio tagliasse tante false sicurezze, i calcoli, le pretese, abbandonarono l’esigenza di spiegazioni che non spiegano e di evidenze che non acquietano.
In un atto di pura fede si affidarono al “Totalmente Altro”, come Cristo sulla croce, dicendo: Non la mia, ma la tua volontà sia fatta”.
Un proverbio orientale afferma: “Tu credi che ora, al disperdersi delle nuvole, sia apparsa la luna. Ti sbagli: la luna brillava dietro le nuvole da lunghe eternità”.
Testi
Sl 13; 28; 29
Is 45, 15-19
Ab 1
Mc 15, 34-37; 4, 35-41